“Prima di Galileo e Newton la rivoluzione dimenticata”
Non solo matematica ma astronomia e geografia:
“La scienza araba cambiò il mondo”
di Gabriele Beccaria (La Stampa/TuttoScienze, 02.10.13)
Molti manoscritti sono perduti, così come gli imperi che li custodivano si sono sbriciolati. E allora se si vuole ricostruire una storia straordinaria - quella che riporta alla luce Jim Al-Khalili, fisico britannico di origini irachene e autore del saggio «La Casa della Saggezza» - è meglio cominciare dalle cose che resistono meglio ai colpi del tempo, le parole. Per esempio al-kimiya e al-Jebr. Che suonano famigliari, perché ricordano - giustamente - termini come alchimia e algebra. Insieme con tanti altri vocaboli - alcool, alcali, alambicco, amalgama, elisir - che celano la stessa origine. Sono gusci di suoni e significati ereditati dall’arabo molto tempo fa, quando il mondo era - se lo si guarda con i nostri occhi - sottosopra.
Mentre l’Occidente languiva nella povertà, oltre che in una tremenda ignoranza, la civiltà scintillava in Medio Oriente e in Asia. Merito degli Omayyadi e degli Abbasidi e della fetta di mondo che plasmarono. Un melting pot che avrebbe unito popoli e culture dalla Spagna all’India.
Questa storia, che spesso sembra flirtare con esotiche esagerazioni, comincia intorno all’anno 800 e si evolve - tra trionfi, crisi e colpi di scena - fino all’alba del XVI secolo, quando l’Europa si riprende la leadership e ha inizio il Rinascimento. Non a caso è la storia di un’altra «Mille e una notte», parallela a quella di cui tutti hanno sentito parlare. E’ la «Mille e una notte» della matematica, dell’astronomia, della medicina, della geografia (e dell’alchimia e dell’algebra). Insomma di quella che oggi si definisce «scienza araba», ma che all’epoca era scienza tout court. Prima che sul palcoscenico si affacciassero i soliti noti, Kepler, Galileo, Newton.
Sono, invece, tanti ignoti quelli che il professor Al-Khalili evoca (a parte il duo Avicenna-Averroè): tra IX e XIV secolo celebrità assolute, oggi in una bolla d’oblio. Dissolti come la Casa della Saggezza - «la Bayt al-Hikma» - che il califfo al-Mamum innalzò a Baghdad e di cui oggi non resta nulla.
Un mega-laboratorio ante-litteram, esempio di «Big Science» con secoli d’anticipo, come la definisce il fisico britannico: un misto di mecenatismo illuminato, infrastrutture d’avanguardia, cervelli cosmopoliti e libertà di ricerca. Lì si concentrano personaggi che - secondo Al-Khalili - cambieranno la storia del pensiero, anche occidentale. I nomi sono difficili da tenere a mente, ma vale la pena elencarne qualcuno.
Al-Khwarizmi, padre dell’algebra, al-Jahith, che abbozzerà una teoria evoluzionistica di stampo lamarckiano, e al-Farghani, protagonista di straordinarie osservazioni astronomiche. Erano le supernovae di un cosmo che espanderà i propri centri di studio, arrivando a Damasco, al Cairo, a Isfahan, a Samarcanda, a Bukhara, coinvolgendo figure da romanzo: Ibn Wahshiyya (studioso dei geroglifici), al Kindi (pioniere della crittografia), Ibn Firnas (un Leonardo da Vinci islamico che tentò il primo test al mondo di volo controllato), al-Razi (inventore della medicina clinica) e al-Haytham (teorico dell’ottica). A proposito degli ultimi due, Al-Khalili arriva a sostenere che siano approdati alla logica dell’esperimento e della verifica (cioè del metodo scientifico) in straordinario anticipo, bruciando le future pretese di Bacone e Cartesio.
Professor AlKhalili, c’è un eccesso di figure eccezionali nel suo libro: non è facile credere che 700 anni fa la lingua franca della scienza fosse l’arabo. Cosa ribatte agli scettici?
«La ragione che mi ha spinto a scrivere è ricordare che tutti condividiamo la stessa eredità culturale, che però abbiamo quasi completamente dimenticato. E infatti, quando ci si sforza di capire qualcosa di più, si pensa subito allo zero e si fa spesso confusione tra arabi e indiani! Eppure basta partire proprio dalle parole - prima tra tutte algoritmo - per ricordare le influenze della civiltà araba e di un impero che era più esteso di quello romano. E’ così che l’arabo diventò l’equivalente dell’inglese di oggi: lo si doveva conoscere, se si voleva entrare nei circuiti del sapere».
Circuiti che lei descrive come un clamoroso caso di globalizzazione, che dal mondo islamico tracimò fino all’Europa: come fu possibile?
«In effetti parlo di “scienza araba” nell’accezione più ampia e non di “scienza islamica”, dal momento che i personaggi che riporto alla luce comunicavano in arabo, ma non erano necessariamente arabi né devoti del Corano: erano anche persiani, oltre che cristiani ed ebrei».
L’esplosione di scienza (e filosofia) fu graduale: prima le traduzioni dal mondo classico e poi una produzione sempre più originale. Quale fu la cau sa del «miracolo»?
«Geografi, matematici e astronomi lavoravano insieme. A Baghdad si verificò una collaborazione internazionale di cervelli - per costruire telescopi o tracciare mappe del Pianeta - che non c’era mai stata prima, nemmeno ai tempi di Roma e della Grecia. Fondamentale fu la spinta dello Stato».
L’Occidente «rubò» dati e idee alla scienza araba, ma perché le origini di quel lascito furono rapidamente dimenticate? Nella «Scuola di Atene» di Raffaello c’è un solo «orientale», Ibn Rushd, vale a dire Averroè.
«In realtà antesignani come Fibonacci e Copernico riconobbero il debito con i matematici e gli astronomi arabi, mentre Dante e Colombo ammisero di aver utilizzato le osservazioni di al-Farghani. Poi, però, la rivoluzione scientifica del XVII secolo fu così spettacolare da cancellare di colpo quasi tutto il passato».
Lei elenca molte ragioni per la fine della scienza araba, ricor dando che il naufragio si sen te ancora oggi: in un anno 17 Paesi arabi hanno prodotto le stesse pubblicazioni di Harvard. Quanto pesò la religione?
«Di certo nel declino del pensiero filosofico, meno in settori come la matematica o l’astronomia. Più importante fu la crisi politica, che bloccò i fondi pubblici, oltre alla mancata diffusione della tecnologia della stampa. Ne derivò uno spirito conservatore che ribaltò l’idea di scienza: non più libera indagine, ma il prodotto pericoloso del presunto ateismo occidentale!».
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
Cinema e Filosofia. "Il pensiero ha le ali e niente può impedirgli di volare" (Averroè).
Yussef Chahine (Yūsuf Shāhīn). Il grande regista di "Il Destino" ("Al Massir") è morto. Per l’Egitto e non solo una "voce della libertà".
La poesia come politica di verità. Una lettura del commento di Averroè alla Poetica di Aristotele. (di Francesca Forte).
Matrakçı Nasuh: Antiche mappe del ‘500 che sembrano illustrazioni contemporanee (Simone Sbarbati)
ITALIA E PAKISTAN: LA DIVINA COMMEDIA (Dante Alighieri) E IL POEMA CELESTE (Muhammad Iqbal). Ri-leggiamo insieme... le due opere e i due Autori! Un’ipotesi di rilettura di DANTE .... e un appello per un convegno e per il Pakistan!!!
L’ULTIMO MESSAGGIO DELL’ECUMENISMO RINASCIMENTALE ..... -RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
FLS
Indagine sulla fine del Profeta
Parla La studiosa tunisina Hela Ouardi, autrice del libro-inchiesta “Gli ultimi giorni di Maometto”: «Un crimine? Non lo sapremo mai. Ma qui nasce il malessere islamico»
di Karima Moual (La Stampa, 08.12. 2018)
Hela Ouardi, tunisina, insegna letteratura francese all’Istituto Superiore di Scienze Umane dell’Università di Tunisi ed è ricercatrice presso il Laboratorio di Studi sul Monoteismo al Cnrs di Parigi. Il suo libro Gli ultimi giorni di Maometto (Enrico Damiani editore) è la ricostruzione di uno degli eventi più misteriosi della storia dell’islam: la morte del Profeta. Con un taglio da romanzo la studiosa cerca di far emergere l’uomo sepolto sotto la leggenda eroico-religiosa per restituirlo alla storia. E lo fa, provando a porre le domande giuste che ancora coprono di mistero e leggenda quell’evento che segnerà per sempre la comunità musulmana. Ad arricchire l’inchiesta sono le numerose fonti tradizionali sunnite e sciite, studiate e approfondite da restituirci il ritratto di un uomo indebolito e minacciato da più parti.
«La prima generazione dei musulmani probabilmente non considerava Maometto un personaggio sacro. Lui stesso ha rivendicato di essere solo un mortale tra i mortali», scrive Hela Ouardi». Oggi l’adorazione dei musulmani per il Profeta è spinta a un tale parossismo che al personaggio si accompagna una vera e propria ossessione per la blasfemia. In un certo senso, la venerazione di cui è oggetto lo ha fossilizzato».
Un’inchiesta su Maometto, figura per molti fedeli intoccabile, non è un po’ rischiosa?
«Se prima di scrivere un libro sull’islam prendessimo in considerazione ciò che pensano i fedeli, non scriveremmo più una riga su questa religione. Non mi sento di aver preso un rischio particolare, perché da anni ormai vediamo bene che il fanatismo è un mostro cieco che non distingue le sue vittime. Colpisce tutti e dappertutto (anche i musulmani nelle moschee non vengono risparmiati!). Tuttavia, l’indagine sulla morte del Profeta è una vera e propria sfida intellettuale che mi sono prefissata: il lavoro su un argomento così delicato, la minuziosa esplorazione di decine di fonti della Tradizione, il lavoro di riferimento e di confronto dei diversi racconti, la raccolta dei pezzi del “puzzle” è stata un’avventura scientifica al tempo stesso difficile e appassionante».
Dal suo lavoro emergono elementi interessanti proprio perché contrastanti rispetto alla storia comunemente accolta dai fedeli musulmani. Scricchiola fortemente quel racconto divulgato da secoli sul ruolo del Profeta e sui suoi compagni più fidati, tutt’altro che «ben guidati». Com’è stata accolta questa lettura dal pubblico musulmano?
«Quando si pubblica un libro, si getta una sorta di bottiglia in mare, non sappiamo chi la prenderà e cosa ne farà. Ma posso dire che il libro è stato accolto molto bene. Ha incontrato molti lettori e non ho ricevuto alcuna minaccia. C’è una ragione molto semplice per questo, ed è che il mio libro è pieno di riferimenti alla Tradizione musulmana. Il lettore vede immediatamente che non sto inventando nulla e che questa immagine poco gloriosa dei Compagni del Profeta non viene fuori dalla mia immaginazione ma dai libri più ortodossi dell’islam».
L’immagine dei personaggi e anche degli eventi che li interessano è molto più politica che spirituale, il Corano stesso, come lo conosciamo oggi, è frutto di una redazione fatta molto tempo dopo la morte del Profeta. Quasi a perdere quella sua infallibilità, come autentica parola di Dio e di Dio solo. E così?
«Ci sono due modi di percepire il Corano: i credenti ci vedono la parola di Dio, infallibile e miracolosa; gli storici, i filologi eccetera lo vedono come un oggetto storico che ha subito un’evoluzione e in cui è intervenuta la mano dell’uomo. Da sempre (non solo oggi) sappiamo che il Corano, così come fu rivelato al Profeta, è perduto per sempre e che circolano molteplici versioni differenti di questo libro. L’argomento è stato trattato da diversi autori della Tradizione come Ibn Abî Dawûd, nel IX-X secolo, nel suo libro Kitâb al-Masâhif (il Libro dei manoscritti del Corano), dove passa in rassegna le diverse versioni del testo sacro. Penso che l’esistenza di diverse versioni del Corano non sia totalmente incompatibile con la fede: il musulmano può credere che sia un testo di ispirazione divina e ammettere che la compilazione e la trasmissione di questo testo sia un’opera umana quindi imperfetta».
Sappiamo però che un cospicuo numero di fedeli è invece convinto che il Corano sia opera perfetta, e quindi fuori da ogni discussione. Approfondire le incongruenze sulla morte del Profeta cosa potrebbe comportare non solo tra gli studiosi ma anche tra intellettuali e uomini di fede musulmana?
«In nessun momento la Tradizione dice categoricamente che la morte del Profeta è stata naturale; al contrario, la maggior parte delle fonti afferma che è stato avvelenato da una donna ebrea; altre versioni dicono che è morto di pleurite. Io non metto in dubbio nulla, non difendo alcuna ipotesi: espongo le storie della Tradizione, le commento, sottolineo le contraddizioni. E quando è di fronte a narrazioni contraddittorie dei testimoni che interroga, un investigatore inizia ad avere dubbi. Quindi per me la morte del Profeta è semplicemente misteriosa: c’è stato un crimine? La sua morte è stata naturale? Io non lo so e non lo saprà nessuno (a meno che non apriamo la sua tomba!), ma quello di cui sono sicura è che aveva dei sospetti sulla sua cerchia e pensava che potessero ucciderlo. Ne parlo a lungo nel mio libro».
Qual è l’obiettivo della sua inchiesta?
«Lo scopo di ogni indagine è la ricerca della verità. Ma la verità che stavo cercando non erano le circostanze della morte fisica del Profeta. Quella è una storia antica e ora è in prescrizione. La verità che stavo cercando sono le profonde cause storiche del malessere dell’islam nella storia moderna».
Ci sono sicuramente molte ombre su cui far luce nella storia dell’islam. I tabù sono tanti e la censura è molto forte, ma, oltre agli ultimi giorni del Profeta, quali sono i personaggi o gli eventi che meriterebbero una nuova rilettura storica?
«Vorrei rispondere: tutto nella storia dell’islam meriterebbe una nuova rilettura, perché la storia dell’islam è stata schiacciata troppo a lungo sotto il peso della leggenda che mostra personaggi santificati, idealizzati. Ora è necessario rileggere - e riscrivere - tutto, in modo tale da riportare quei personaggi alla loro umanità e mostrare che hanno un lato glorioso e un lato poco glorioso, come in fondo tutti i protagonisti della storia. L’islam sfortunatamente ha per troppo tempo confuso la mitologia e la storia, ed è giunto il momento di distinguerle».
Ha già avuto proposte per una edizione del suo libro in lingua araba?
«La traduzione in arabo è all’ordine del giorno. Probabilmente verrà pubblicato presto».
Cultura, logos e traduzione
L’occidente è una parola scritta
di Carlo Sini (Corriere della Sera, 04.10.2018)
La memoria corta genera ignoranza, presunzione e ingiustizia. Se fossi un docente di scuola dedicherei un tempo adeguato a ricordare la grande scuola dei traduttori nella Toledo medievale e poi a Siviglia e a Murcia (non so quanto oggi lo si faccia): senza di loro tutto il nostro sapere e la nostra cultura «occidentale», di cui giustamente siamo fieri e che sta diventando sempre più planetaria, non ci sarebbero.
La premessa storica è il periodo d’oro della conquista araba della Spagna, accompagnata da una grande quantità di manoscritti. Quando i re cristiani si impadronirono di quelle terre, cacciando gli arabi (in realtà la situazione si ribaltò più di una volta), quei preziosi manoscritti ispirarono la grande impresa della loro traduzione in latino, consegnando un po’ alla volta a tutte le scuole d’Europa trattati preziosissimi di filosofia, di teologia, di astronomia, di scienza, di matematica e con essi una parte cospicua della cultura greca sino ad allora perduta o dimenticata in Occidente. Senza questi lavori la grande rivoluzione della Scolastica in Europa, patrocinata anzitutto da Tommaso d’Aquino, non sarebbe stata possibile.
La cosa ancora oggi straordinaria e degna di molta riflessione fu il progetto di far convivere in armonia studiosi arabi, cristiani ed ebrei: progetto che consentì quella fiorente scuola di traduttori che Alfonso X re di Castiglia e di Leon particolarmente protesse e potenziò, ispirando anche traduzioni dal latino al castigliano.
L’Occidente, in conclusione, è l’invenzione e l’uso della parola scritta, invenzione resa nel tempo universale dalla cultura greca. Come ogni pratica, anche la scrittura si accompagna a forme di vita e a istituti diversi, ma essa è e rimane il cuore della nostra cultura, greca, araba, romana, cristiana ed ebraica: ignorarlo o trascurarlo è un delitto contro la civiltà e un suicidio intellettuale.
Quando la sponda ricca del Mediterraneo era quella meridionale Intorno all’anno Mille i viaggiatori musulmani descrivevano l’Europa occidentale come una terra di genti povere sporche incivili a situazione cominciò a cambiare nei tre secoli successivi
di Amedeo Feniello (Corriere della Sera, La Lettura, 05.08.2018)
Il Mediterraneo è, oggi, un mare di grandi divergenze. Da un lato, c’è un Nord sviluppato, capace di generare prosperità e sicurezza; dall’altro, un Sud arretrato, ribollente di tensioni e ostilità. Ma non è stato sempre così. Per molti secoli, la condizione è stata opposta. E, per colmare le differenze, il cammino dell’Occidente europeo è stato lungo e intricato, con andirivieni tipici del tracciato storico.
A cavallo dell’anno Mille, le differenze tra Nord e Sud erano abissali. Basta leggere un curioso episodio, avvenuto nella prima metà del X secolo. Un gruppo di viaggiatori musulmani compie una lunga spedizione in terra cristiana. Vogliono andare a Roma, spinti dai racconti sulle ricchezze della città. Fanno un giro tortuoso, via terra. Da Tessalonica, nell’allora Impero bizantino, passano nei Balcani. Da qui a Venezia e poi a Pavia, la capitale del Regno d’Italia. Attraversano la Pianura padana e si trovano in un incubo: lo spettacolo indecente di tende e capanne, abitate da una massa derelitta e macilenta. Uno shock, per gente di città, come erano i nostri viaggiatori. Ai quali resta un’idea: che, in questa zona d’Italia, si viva ancora come i barbari. «Alla maniera dei Curdi», scrivono.
Perché era così, l’Europa del tempo. Era il mondo in cui, come è stato detto, la preistoria irrompe di nuovo nella storia. Per miglia e miglia nient’altro che foreste e paludi. Qua e là, come oasi in un deserto, piccoli centri abitati, autosufficienti nel loro isolamento. Di città e di mercati, quasi solo ombre. Dappertutto castelli, per difendersi da nemici, lontani e vicini. Poche le persone. Tanti contadini, in una condizione di sfruttamento totale, legati a vita al proprio campo. Poi c’era chi pregava. E chi combatteva. Ed era tutta qui la società del tempo. Un ambiente depresso, in cui i livelli di vita, l’istruzione, la divisione del lavoro, l’uso di moneta erano ridotti al minimo. E l’unica speranza di qualche gioia era altrove, nell’aldilà della Chiesa romana, in un tempo ultraterreno di redenzione e di attesa.
Strano, questo continente. Chiuso, come scrive Chris Wickham nel libro L’Europa nel Medioevo (Carocci), tra le civiltà della Spagna araba ad ovest e dell’Impero di Bisanzio a est, con pochi sbocchi verso il mare. Ai musulmani questo Occidente non interessava, a differenza dell’altra area più avanzata del mondo di allora, la Cina, che ispirava in loro un’ammirazione aperta, per il suo sistema amministrativo e giudiziario, l’ordine sociale, l’organizzazione economica, la trama delle città. L’Europa no. Esiste come concetto, che in arabo diventa Arufa, che si ritrova nel X secolo in geografi come Hamdani per indicare il quadrante nord-ovest del mondo abitabile. Ma l’attenzione verso questo Occidente barbaro, incolto, privo di ogni bellezza, dai confini incerti, era irrilevante, se non come terra da saccheggiare. Abitato da gente, come i Franchi o i popoli nordici, dalle lunghe barbe e dagli stranissimi occhi azzurri, che vivevano in condizioni ambientali al limite del sopportabile, in terre gelide e irraggiungibili, osservati dai pochi viaggiatori musulmani con stupefazione, descritti come riprovevoli, sporchi - «i più sporchi del mondo» -, che «si accoppiavano brutalmente», idolatri, crudeli, feroci.
Dietro questi ritratti c’è, naturalmente, molto di ideologico. In particolare, l’idea di superiorità religiosa e culturale. Che derivava però da un dato di fatto: i musulmani che visitavano l’Occidente venivano davvero da un diverso pianeta, più avanzato per condizioni e abitudini sociali. Uomini che appartenevano a una civiltà dell’acqua, dell’Hammam (le terme), delle fontane, della pulizia, dei profumi. Con livelli di cultura e di istruzione progrediti, che, proprio in questi secoli, esprimono quello che Frederick Starr ha di recente definito un «illuminismo perduto», quando tra il Mediterraneo e l’Asia centrale musulmana fioriscono commerci, arti, centri religiosi e di istruzione. E tutti i campi della conoscenza - dall’astronomia alla matematica, dalla filosofia alla medicina - conobbero sviluppi con pochi eguali nella storia dell’umanità. Tutto questo avvenne in città. Perché se c’è un dato sensibile che caratterizza la civiltà musulmana è proprio quello dell’edificazione di città. Che formano una rete e riuniscono ciò che era stato separato dal lungo conflitto tra Parti e Bizantini e condizionano lo sviluppo economico globale, dal Sudan all’India, dalla Cina al Sud Italia. Da ovest a est nascono - o rinascono - città come Cordova, Damasco, Il Cairo, Tunisi, Kufa, Shiraz, Samarcanda, Bukhara, Palermo. E poi la più grande metropoli del tempo, con più di un milione di abitanti: la dimora del califfo, la città circolare, Bagdad.
Dal Mille in poi, però, nel malandato Occidente successe qualcosa. Innanzitutto, durante il periodo 950-1300 la popolazione europea si moltiplicò, più o meno, per tre. Rinacquero tantissime città e il loro numero, in alcune zone, come l’Italia centro-settentrionale e le Fiandre, crebbe considerevolmente. I commerci e i mercati tornarono a vivere e la nuova figura del mercante si impose per la sua ideologia improntata all’intraprendenza. Si cominciarono a produrre merci, soprattutto nel settore tessile e metallurgico. Aumentò la specializzazione artigianale, a dismisura, con una complessità inimmaginabile nella diversificazione della forza lavoro. Avvenne una rivoluzione tecnica che interessò le campagne, la nascente industria, il mondo della navigazione. Però, tanti aspetti di questo processo restano quasi incomprensibili. Come, ad esempio, in quale momento sia cominciata l’espansione demografica; oppure quando gli scambi di merci a lunga distanza siano diventati così importanti da condizionare il complessivo mondo economico europeo.
In ogni caso, le variabili in campo furono davvero tante, che toccarono ogni aspetto della società del tempo; e che potremmo condensare in un’unica parola, vitalità. Come scriveva infatti Carlo Maria Cipolla «quando una società dimostra di essere vitale lo dimostra a tutti i livelli, e non solo in quello economico, facendo di più e meglio di quanto fanno o hanno fatto altre società disponendo di eguali risorse». Insomma, per intenderci, non si possono capire i mercanti italiani senza quell’ambiente eccezionale composto da personalità come San Francesco, Dante, Giotto o Mondino di Luzzi, che rivoluzionò gli studi di anatomia.
Ma se c’è un fattore che fece davvero la differenza in questa rinascita occidentale fu, per me, la curiosità. Sembra sorprendente che in un’epoca di rinnovata aggressività, fatta di Reconquista e di crociate, emerga pure qualcosa di nuovo. Si comincia a intuire appunto come anche il dialogo con l’altro - il diverso, il concorrente, il nemico religioso - possa risultare per molti aspetti fruttuoso. Per prime, mettono in campo questa strategia le nostre città marinare, da Amalfi a Genova, da Pisa a Venezia. Lo fanno alternando l’uso della forza. Ma tante volte, specialmente all’inizio, esse si adattano al mercato musulmano, vendendo ad esempio merci di contrabbando, armi, schiavi.
Poi gli occidentali riescono a fare di meglio: apprendono da chi ne sa di più, imitano gli altri e trasformano le conoscenze acquisite in proprio bagaglio culturale. Lo fa Leonardo Fibonacci, che impara i numeri «alla maniera degli Hindi», ma esporta queste conoscenze in Occidente, con un sovrappiù di nozioni che elabora nel suo Liber abaci. Lo fa Gherardo da Cremona, monaco che emigra in Spagna e mette su, a partire circa dal 1150, nella multietnica Toledo, sotto l’egida di re Alfonso VI di Castiglia, un atelier di traduzione nel quale impegna intellettuali arabi, ebrei e cristiani per restituire all’Europa le parole di Aristotele e di Tolomeo.
Ci riescono con successo i fiorentini, che per primi riportano monete d’oro in Occidente, dopo lunghi secoli di buio monetario, seguendo ciò che avevano fatto per secoli bizantini e musulmani. Oppure, per gareggiare nella produzione di tessuti, si ingegnano (come fanno oggi i cinesi) a imitare i modelli fiamminghi di Bruges, Anversa o Gand, creando nuovi prodotti che conquisteranno il Mediterraneo e faranno grande l’economia cittadina.
Tre secoli di crescita, dal Mille al Milletrecento circa, che diminuirono la distanza col resto del mondo e tra Nord e Sud. Fu questo il Medioevo della rinascenza europea. Impossibile però da realizzarsi senza declinare i valori di scambio e curiosità, alla base di un’epoca che si mostrò tanto più aperta e innovativa di quanto oggi erroneamente si pensi.
La ragione oscurata dalla «guida suprema»
Islam. Un’intervista con Hamed Abdel-Samad, autore di «Fascismo islamico», pubblicato da Garzanti
di Guido Caldiron (il manifesto, 10.06.2017)
Hamed Abdel-Samad è un uomo in guerra. Si muove scortato da guardie del corpo, riceve costanti minacce e il suo nome è oggetto di una fatwa e di un’accusa di «eresia» da parte dei religiosi di al Azhar. Quando, lo scorso anno, insieme alla giornalista Nazan Gökdemir ha realizzato per la tv pubblica tedesca Zdf l’inchiesta I musulmani d’Europa si è visto chiudere più di una porta in faccia. E questo malgrado il suo lavoro di studioso sia apprezzato da figure di rilievo dell’Islam europeo come l’islamologo Bassam Tibi e l’ex imam di Marsiglia, Soheib Bensheikh.
Quarantacinque anni, nato a Giza, non lontano dal Cairo, figlio di un noto imam e lui stesso cresciuto negli ambienti dei Fratelli Musulmani, Abdel-Samad vive in Germania da vent’anni dove si è fatto conoscere per il suo lavoro di politologo all’università di Monaco e dove ha acquisito grande notorietà per quella che considera come una sorta di battaglia esistenziale in nome di un «illuminismo arabo» contrapposto sia all’islamismo politico che all’«oscurantismo religioso» musulmano. Tesi ribadite nel suo libro più noto e polemico, Fascismo islamico, Garzanti (pp. 224, euro 16).
Fin dal titolo, il suo libro è stato percepito in molti ambienti musulmani come una provocazione, cosa l’ha spinta a scriverlo?
Mi sono formato attraverso lo studio dell’Islam e delle culture politiche che vi sono legate. Perciò mi ero già accorto di come buona parte degli studiosi occidentali considerino la relazione tra fede e politica in ambito musulmano, ed in modo particolare l’islamismo, come un fenomeno nuovo, sorto soltanto in reazione al colonialismo e che non avrebbe avuto alcuna genesi specifica e autonoma. È una grave semplificazione che rende poco comprensibile quanto accade oggi e perciò ho deciso di analizzarne le radici ideologiche e il modo in cui si è andato definendo nel corso del tempo, a partire dalle similitudini sinistre che sono emerse all’inizio del Novecento tra l’Islam politico e i fascismi europei.
Lei si concentra sulla nascita dei Fratelli Musulmani nell’Egitto degli anni Venti. I punti di contatto tra costoro e i fascisti non vanno però letti anche come una conseguenza del fatto che la democrazia inglese, erano all’origine del dominio coloniale al Cairo?
Una lettura di questa vicenda all’insegna di un’alleanza tattica con «il nemico del mio nemico» spiega solo superficialmente le cose. Fin dalla fondazione dei Fratelli Musulmani nel 1928, il loro leader, Hassan al-Banna dava più importanza al fatto che fossero banditi tutti gli altri partiti, tranne «quello di Allah» che non alla democratizzazione del paese o alla lotta per l’indipendenza. Quanto alle similitudini con il fascismo, appaiono a più livelli. Mi riferisco ad una visione del mondo che si basa sul fatto di considerare i musulmani superiori al resto dell’umanità, un po’ come avviene per il «mito ariano» dei nazisti.
In entrambi i casi, i nemici sono disumanizzati, paragonati alle bestie, soprattutto gli ebrei, mentre la guerra e la morte sul campo di battaglia, o nella jihad, costituiscono il cuore dell’identità del movimento che si muove nella prospettiva di dominare il mondo con ogni mezzo e, nel frattempo, di ripristinare un rigido ritorno ai ruoli sociali e di genere tradizionali.
Infine, al vertice c’è una «guida suprema», o un «duce» che traduce certezze metafisiche a beneficio delle masse. A tutto ciò, si può poi aggiungere che al-Banna scrisse pagine di ammirazione per Hitler e Mussolini e fu molto vicino al Gran muftì di Gerusalemme, Amin Al Husseini, tra i principali collaborazionisti arabi. Il problema è che le idee dei Fratelli Musulmani sono all’origine sia dei partiti islamisti contemporanei che di gruppi terroristici come Al Qaeda e l’Isis.
Dopo aver definito «il fascismo» come «un lontano cugino del monoteismo», lei spiega che nel mondo musulmano i consensi per gli islamisti traggono origine da una lunga tradizione di oscurantismo religioso consolidatasi nei secoli. Perciò, il suo lavoro a chi si rivolge?
Sono cresciuto nella fede, ma non faccio appello né alla cosiddetta «comunità dei credenti», né ai musulmani in quanto tali. Mi rivolgo ai singoli e alle loro coscienze. Di fronte alla minaccia incarnata da chi giustifica i propri orrori e il proprio dominio evocando «la parola di Dio», il Corano, è sul pensiero e gli sforzi individuali che possiamo ancora puntare per cambiare le cose.
Anche chi parla di una possibile «riforma» dell’Islam si inganna: la fede deve trasferirsi nella sfera privata di chi fa questa scelta e smetterla di voler dettare legge nella vita pubblica, sui corpi e le persone. Solo allora la minaccia che incombe su tutti noi potrà essere sconfitta davvero.
Dentro la biblioteca più antica del mondo, a Fez
di Selina Cheng, Quartz, Stati Uniti *
Istituita per volontà di una giovane donna di religione islamica, Fatima al Fihri, l’università di al Qarawiyyin a Fez, in Marocco, aprì i battenti nell’859 ed è la più antica del mondo.
Negli ultimi tre anni, la sua biblioteca è stata restaurata da un’altra donna, l’architetta canadese di origine marocchina Aziza Chaouni, ed entro la fine del 2016 un’ala dello stabile sarà aperta e accessibile al pubblico. La biblioteca ospita una collezione di quattromila libri rari e antichi manoscritti in arabo dei più celebri intellettuali della regione.
Tra i testi più preziosi della biblioteca, oltre a manuali di grammatica e di astronomia, ci sono una copia del Corano risalente al nono secolo e un volume di giurisprudenza islamica del filosofo Averroè. Il complesso universitario sorse come moschea per volontà di al Fihri, che ereditò una fortuna dal padre mercante quando la famiglia lasciò la città tunisina di Qayrawan.
Nel documentario The golden age of islam (L’epoca d’oro dell’islam), trasmesso da France 5, al Fihri è descritta come una giovane donna affascinata dal sapere e curiosa del mondo. Seguì personalmente i lavori di costruzione della moschea e frequentò fino a tarda età le lezioni dei celebri professori che arrivavano da lontano per insegnare alla scuola della moschea.
L’università di al Qarawiyyin è ancora adesso un’istituzione prestigiosa in tutto il mondo arabo. Oggi si è trasferita in una nuova sede più moderna, ma sia la moschea sia la biblioteca sono rimaste nell’edificio antico.
Una biblioteca moderna
L’architetta Chaouni, originaria di Fez, non aveva mai sentito parlare della biblioteca prima del 2012, quando il ministero della cultura la contattò per affidarle i lavori di restauro. Da anni l’edificio era rovinato a causa del clima e dell’umidità. “Nel tempo, la biblioteca è stata ristrutturata varie volte, ma c’erano ancora gravi carenze strutturali, tra cui la totale mancanza di isolamento termico e numerosi difetti come scarichi ostruiti, rivestimenti danneggiati, travi di legno incrinate, cavi elettrici scoperti e così via”, racconta Chaouni.
Grazie al restauro, l’edificio adesso è dotato di pannelli solari, un nuovo impianto idraulico, sistemi di sicurezza digitali per le sale con volumi preziosi e aria condizionata per controllare l’umidità e preservare i libri custoditi.
In passato la biblioteca era aperta solo a studiosi e ricercatori, ora invece ci sarà un’area accessibile al pubblico, oltre a una sala espositiva e un piccolo café.
Questo articolo è uscito su Quartz.
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* INTERNAZIONALE, 02 AGO 2016 (ripresa parziale - senza immagini).
La scoperta
In una madrasa l’inedito del filosofo cristiano
di Giorgio Bernardelli (Avvenire, 7 luglio 2016)
Una ventina di opere sconosciute di un grande filosofo cristiano della Baghdad del decimo secolo sono tornate alla luce a Teheran grazie a un codice manoscritto custodito nella biblioteca di una madrasa - una scuola islamica. Ad annunciare la scoperta è stato qualche giorno fa il blog dell’American Philosopical Association: un articolo apparso sul sito ha dato conto di alcune nuove ricerche condotte da Rob Wisnovsky, uno studioso della McGill University, sulla figura di Yahya ibn Adi, filosofo siriaco considerato tra i protagonisti in quella catena di filosofi che nel mondo arabo ha tramandato il pensiero di Aristotele, giunto poi nell’Europa medievale attraverso i commentari di Averroè e Avicenna.
Yahya ibn Adi era nato nel 893 a Tikrit, nel nord dell’Iraq, a quel tempo ancora il cuore culturale del cristianesimo siriaco. Da lì si era poi trasferito a Baghdad, la capitale del califfato, dove aveva studiato la logica aristotelica alla scuola di al Farabi, il più grande filosofo musulmano dell’epoca. In questo ambiente aveva portato un nuovo contributo attraverso traduzioni dal siriaco all’arabo di ulteriori opere filosofiche greche.
E aveva poi costituito una sua scuola filosofica, frequentata da allievi tanto cristiani quanto musulmani. Yahya ibn Adi visse a Baghdad fino alla sua morte, avvenuta nell’anno 974, divenendo uno dei punti di riferimento culturali della città. Fu un grande maestro di logica; ma il dato più interessante è che alcune delle sue opere più famose sono dedicate alla spiegazione del dogma della Trinità a partire dalle categorie aristoteliche. Un fatto, questo, che rivela come - nel contesto della Baghdad del X secolo - i filosofi cristiani e musulmani discutessero tra loro in maniera aperta anche su questioni teologiche, con il metodo tipico del confronto intellettuale.
Pur essendo un nome pressoché ignoto al di fuori del circolo ristretto degli studiosi, tutto questo di Yahya ibn Adi in realtà lo si sapeva già. La vera novità sta nel fatto che adesso sarà possibile studiare più a fondo il suo pensiero grazie alla mole notevole di nuove opere ritrovate. Una scoperta resa possibile dalle nuove frontiere della digitalizzazione: come racconta infatti Wisnovsky, del codice manoscritto custodito nella madrasa si sapeva solo genericamente che conteneva - insieme a scritti di filosofi islamici - anche opere di Yahya ibn Adi.
Grazie però all’aiuto di un collega iraniano, che ne ha effettuato una digitalizzazione completa, lo studioso americano ha potuto scoprire con sorpresa che almeno una ventina di testi non era contenuto negli inventari delle opere attualmente esistenti. Così è iniziato lo studio dei nuovi scritti del filosofo siriaco che proprio sulla questione del rapporto tra pensiero teologico e pensiero religioso ha dato già risultati interessanti.
La riflessione sulla Trinità a partire dalle categorie aristoteliche - infatti - nei nuovi scritti appare ancora più accurata. Inoltre Yahya ibn Adi affronta anche temi specifici del pensiero teologico musulmano; ad esempio c’è una critica da un punto di vista logico a una prova islamica dell’esistenza di Dio che non riteneva sufficientemente fondata. In generale sembra emergere in maniera evidente quanto la sua autorevolezza sull’esegesi del pensiero di Aristotele fosse riconosciuta da tutti.
«Quando questi trattati saranno resi disponibili, tradotti e studiati - conclude il professor Peter Adamson sul blog dell’American Philosopical Association -, avremo un quadro più accurato della recezione del pensiero di Aristotele tra gli arabi. Ma già ora appare chiaro che, quanto a livello degli studi su Aristotele, grazie a Ibn Adi e ai suoi colleghi, la Baghdad del decimo secolo non aveva nulla da invidiare all’Alessandria del quinto, alla Parigi del tredicesimo e all’Oxford del ventesimo secolo». E soprattutto - aggiungiamo noi - conferma quanto quel cristianesimo di matrice siriaca, che la guerra di oggi sta brutalmente spazzando via dall’Iraq, sia invece un tassello fondamentale della storia e della cultura del Paese. Che non può finire semidimenticato sulla polvere di qualche scaffale.
Eresia. Escono in Italia gli scritti contro l’integralismo di Sadik al-Azm, filosofo siriano perseguitato che vive in Germania
Un inno al Satana del Corano
Si ribellò a Dio per troppa lealtà
di Marco Ventura (Corriere della Sera, La Lettura, 13.03.2016)
Si chiama Sadik al-Azm il filosofo siriano che parla all’Arab cultural club di Beirut il 10 dicembre 1965. Ha 31 anni. È tornato da Yale entusiasta per il razionalismo filosofico e per il metodo scientifico. Crede nel socialismo arabo, ma pretende di più. Occorre che tramonti la vecchia cultura religiosa perché il Medio Oriente si apra al progresso. La sua lezione a Beirut intende rivisitare nientemeno che la caduta di Satana.
Al-Azm commenta i versetti coranici sulla caduta del maestro degli angeli, cita mistici e sapienti e giunge a una conclusione clamorosa. È necessario «drasticamente modificare la nostra visione tradizionale di Satana e attuare un cambiamento fondamentale nella nostra concezione». Dovremmo «riabilitarlo al suo vero ruolo: quello di un angelo che si è dedicato sinceramente e appassionatamente al servizio di Dio e che ha eseguito i decreti della Sua volontà con la massima cura e precisione». Dopo averlo «additato erroneamente e ingiuriosamente come il responsabile di ogni misfatto e ogni abominio», Satana andrebbe perdonato e riabilitato. Ciò «ci obbligherebbe a cambiare molte delle nostre opinioni religiose e credenze tradizionali relative a questo mondo e all’aldilà».
Il testo della lezione fu pubblicato nei mesi successivi. Seguirono altri saggi dell’autore sulla crisi della religione nella modernità. Il razionalismo era la risposta giusta, al passo coi tempi, ma la vecchia cultura resisteva; si intravvedevano i segni di un revival religioso nella società e di una politica sempre più impastata di islam. Nel 1967, la reazione alla sconfitta araba nella guerra dei Sei giorni confermò i timori di al-Azm. Invece di cogliere il significato profondo della vittoria di Israele, invece di denunciare l’arretratezza del mondo arabo e di ripensare il ruolo della religione, gli intellettuali si aggrappavano al motto «l’islam è la risposta». In Egitto, Siria, Libano, si addebitava ormai il trionfo di Israele all’apostasia di un progetto panarabo senza Dio. Al modello dell’Egitto di Nasser si sostituiva quello dell’Arabia Saudita dei Wahhabi.
Nel 1968 al-Azm pubblicò il suo primo libro, Autocritica dopo la sconfitta. In polemica contro l’islamismo politico emergente che imputava la guerra persa al materialismo socialista e invocava il riscatto in nome dell’islam, l’autore individuava le cause del tracollo in un sistema culturale ed educativo oppresso dall’oscurantismo religioso e nella mancata modernizzazione di un mondo arabo impermeabile alla rivoluzione scientifica.
Nel 1969 Sadik al-Azm pubblicò in un secondo volume, Critica del pensiero religioso, vari saggi già usciti, tra cui quello su Satana, intitolato La tragedia del diavolo. Il volume rese famoso l’autore, lo portò per pochi giorni in carcere e poi, nella primavera del 1970, in tribunale. Al-Azm uscì vittorioso dal processo e il suo nome e i suoi libri furono consegnati per i decenni a venire alla cura dei pezzi di società araba che non si sarebbero arresi al realizzarsi dell’incubo islamista denunciato dal giovane siriano.
La Critica del pensiero religioso ha continuato a circolare, sebbene bandita in tutti i Paesi arabi a eccezione del Libano. Sono passati cinquant’anni da quella lezione all’Arab cultural club di Beirut; il filosofo siriano si è da tempo trasferito in Germania. Il volume è uscito l’anno scorso in inglese da Gerlach, un editore tedesco specializzato in studi islamici, ed esce ora in Italia con il titolo La tragedia del diavolo (Luiss University Press). Anche se il titolo originale coglie meglio il senso dell’operazione culturale dell’autore, l’editore ha ragione nell’individuare il saggio su Satana come la chiave del libro e dell’opera tutta di al-Azm.
Fin dagli anni Sessanta, il filosofo ha ritenuto che il lavoro necessario sull’islam, e sulla religione in generale, fosse di duplice natura. Da un lato si tratta di liberare la religione dal letteralismo e dalla rigidità nell’interpretazione dei testi sacri e delle norme religiose. Dall’altro, è necessario consentire alla religione di cambiare, di innovarsi, a partire dal costante approfondimento e ripensamento delle proprie storie fondatrici.
In questo, la figura di Satana è paradigmatica. Nella tradizione islamica, Satana è l’imam degli angeli, il predicatore dei cherubini. Quando Allah crea l’uomo dal fango e comanda agli angeli di prosternarsi ad Adamo, Satana è l’unico a disobbedire. «Perché non sei tra coloro che si prosternano?», chiede Allah. Risponde Iblîs, Satana: «Non devo prosternarmi di fronte a un mortale che hai creato di argilla risuonante, di mota impastata, sono migliore di lui, mi hai creato dal fuoco». Giunge allora la condanna divina: «Fuori di qui, che tu sia bandito. Via! Sarai tra gli abietti». Satana replica: «Dal momento che mi hai sviato, tenderò loro agguati sulla Tua Retta via, e li insidierò da davanti e da dietro, da destra e da sinistra, e la maggior parte di loro non Ti saranno riconoscenti». «Vattene», replica Allah, «scacciato e coperto di abominio. Riempirò l’Inferno di tutti voi, tu e coloro che ti avranno seguito».
La grandezza di Satana, per al-Azm, sta nella sua assoluta lealtà al creatore. Poiché prende sul serio la tawhid, la professione di fede nell’unicità di Dio, Iblîs non può prosternarsi ad altri che allo stesso Allah. Dio lo ha sviato con un comandamento che lo conduce a una scelta tragica, giacché in esso si contraddicono il principio primo dell’unicità di Dio e il potere di Dio stesso di esigere obbedienza. Per Sadik al-Azm, l’islam ha bisogno di riconoscere questa tragicità, l’alternanza di responsabilità e fato, l’«astuzia divina» nell’imporre all’uomo il proprio arbitrio. Dal carattere tragico di Satana, «misto di innocenza e peccato, bellezza e bruttezza, giusto e sbagliato, bene e male», si può imparare a fare i conti con le proprie contraddizioni. Ispirandosi alla «vera audacia, forza e tempra eroica» di Iblîs, ci si può attrezzare per vivere «la propria ordalia e il proprio destino».
Il cambiamento di prospettiva sull’arcangelo caduto riassume la critica religiosa dell’autore. Sono passati cinquant’anni. Molta della filosofia della religione materialista di al-Azm è fuori moda. Resta il bisogno, per i musulmani e non solo, di «cambiare molte delle nostre opinioni religiose e credenze tradizionali relative a questo mondo e all’aldilà».
Filosofia politica
Il rifiuto di Satana all’Islam
di Sebastiano Maffettone (Il Sole-24 ore, Domenica, 01.05.2016)
Sadik al-Azm è forse il più importante filosofo arabo vivente. Siriano, discendente di una nobile famiglia, PhD a Yale, autore di un prezioso libro su Kant, non ha mai voluto essere un intellettuale arabo all’estero. Dopo le esperienze americane, è perciò tornato e ha insegnato per molti anni in Libano.
La sua vita nel mondo arabo non è stata però facile: imprigionato, processato, con i suoi libri sempre all’indice, criticatissimo, inviso alle autorità, ha dovuto alfine di nuovo recarsi all’estero e negli ultimi anni ha insegnato prima a Princeton e poi in Germania, dove nel 2014 ha conseguito il prestigioso Premio Goethe.
Il perché di tanta ostilità in patria lo si comprende facilmente se si legge questo suo libro intitolato La tragedia del diavolo. Il libro, come spiega Francesca Corrao nella sua introduzione, verte sostanzialmente sul rapporto tra fede e scienza. Al-Azm vede l’Islam nel suo complesso come una religione oscurantista cui contrappone la scienza moderna e la rivoluzione industriale, ponendosi nelle vesti di una sorta di Voltaire della sua cultura.
Curiosamente, La tragedia del diavolo - pur pubblicato per la prima volta in arabo nel 1969 - torna ora di attualità nel mondo occidentale dove vedono le luci numerose traduzioni dei suoi scritti- in questi anni tormentati che vanno dall’11 settembre alla nascita dell’ISIS. Il libro contrappone modernizzazione, vista come secolarizzazione, e religione. Quando fu scritto originariamente traeva ispirazione dalla sconfitta araba nella guerra dei sei giorni e dal tramonto dell’Egitto nasseriano cui si contrapponeva la crescita dell’Arabia wahabbita, tutto ciò nell’ambito di un evidente declino del mondo arabo.
Facile dedurre che la lotta per l’Illuminismo e la secolarizzazione di al-Azm vogliano esser anche una spiegazione di quel declino: una cultura che sacrifichi la ragione scientifica - quella della fisica e di Darwin ma anche di Marx per il pensatore della sinistra araba - si auto-condanna alla crisi e alla sconfitta. Satana (Iblìs in arabo), all’interno di questo ragionamento, è una sorta di simbolo di questo declino. Satana, è un angelo, una creatura superiore, che dio pretende di far inchinare davanti all’uomo, a lui gerarchicamente inferiore nella scala degli esseri creati.
Così letto, il rifiuto di Satana, lungi dall’essere il paradigma della colpa, diventa l’emblema della libertà dell’uomo che rigetta il principio di autorità. Solo se l’uomo arabo disobbedirà come Satana, rifiutando i dogmi dell’Islam, riuscirà a conquistare la modernizzazione e per conseguenza a evitare il declino tramite la scienza e l’industria.
Naturalmente, possiamo dire che oggi una tesi del genere ci sembra semplicistica, e che non è detto che la modernizzazione araba debba seguire la via europea della secolarizzazione. Tuttavia, il fatto che simili argomenti fossero ben presenti nel mondo arabo quasi cinquanta anni orsono è di grande interesse, soprattutto alla luce del notevole livello analitico e filosofico cui opera l’autore di questo libro.
Il mondo islamico
Per capire il velo e l’iconoclastia
di Maria Bettetini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 31.01.2016)
Forse anche la bellezza, ma sicuramente sarà la sapienza a salvare il mondo. Sarà la lotta all’ignoranza, guerra che senza droni e con poca spesa darebbe vita a un’umanità non peggiore, più sana di quella che oggi si massacra. Una guerra che comincia a casa. Sappiamo poco di Islam, e ne parliamo come se sapessimo, emaniamo giudizi secondi solo, per quantità, a quelli sulla formazione della Nazionale per gli Europei. D’altra parte, non ha senso iniziare la lettura del Corano, che parla un linguaggio sacro lontano dalla sensibilità del contemporaneo. Può essere utile, al contrario, cercarvi citazioni, una volta raggiunta la chiave di lettura di un concetto, ricordando che andrebbe comunque letto in lingua originale.
Nella messe di pubblicazioni, soprattutto instant-book, di questi ultimi mesi tristemente costellati da assassinii e brutture in nome di un Dio poco noto all’Occidente, scegliamo alcuni volumi che permettono profondità.
Il primo tocca un argomento sul quale pensiamo, di nuovo, di sapere tutto: il velo, che certo non è prescritto dal Corano, vero? In un certo senso sì, in un altro no. Bruno Nassim Aboudrar, professore di Estetica a Parigi, presenta una sorta di “storia del velo” ricca di sorprese, per noi che tanto ignoriamo. In principio, infatti scopriamo che il velo fu imposto alle donne da San Paolo, nella prima lettera ai Corinzi: in chiesa le donne devono portare i capelli o rasati (ma è vergogna) o velati.
Nel mondo dell’Antico Testamento, infatti, solo gli uomini si coprivano la testa, durante la preghiera. A Roma era velata la sposa durante il rito (civile, mai religioso) del matrimonio, per richiamare la verginità delle Vestali, secondo Aboudrar unico esempio nel mondo antico di associazione tra velo e castità.
Nel mondo cristiano, invece, seguendo Paolo, il velo indica fin dai Padri la prudenza della donna che non provoca gli uomini e insieme li tiene lontani, si difende. Il valore aggiunto sarà quello della sottomissione, che piacerà anche a Calvino: nel commentare Paolo, il riformatore dirà che sebbene siamo tutti fratelli, per l’ordine civile è necessario che l’uomo domini la donna, e quindi questa deve coprirsi il capo.
Viceversa, il Corano accenna solo in due sure a questo tema: nella 24 si raccomanda alle donne di coprirsi il seno e di non mostrare le caviglie se non davanti al marito, ai famigliari e ai servi eunuchi. Nella 33 si parla delle mogli del Profeta, diverse dalle altre donne: a loro è opportuno parlare restando dietro a un velo (una tenda?), solo loro non si possono risposare, loro portano il velo per scoraggiare le avances e per farsi riconoscere come donne libere e di rango.
Il Corano solo qui invita il Profeta a dire alle donne della sua famiglia «e alle donne dei credenti» di velarsi «per distinguersi dalle altre e per evitare che subiscano offese», motivi, come sopra, di convivenza civile, senza cenni alla religione. La storia, però, ha deciso diversamente.
Nei paesi musulmani il velo da segno di distinzione è diventato strumento di sottomissione della donna all’uomo, obbligatorio per legge. Paradossalmente, poi, il Novecento ha assistito a due capovolgimenti: dapprima, i tentativi di occidentalizzazione delle colonie, che hanno portato ad abbandonare il velo in Turchia, Iran, Egitto.
Poi, invece, la ribellione all’Occidente, il potere dei capi religiosi e la trasformazione del velo (come della barba per l’uomo) in una bandiera dell’ortodossia, della sottomissione, della distinzione dalle donne occidentali. Forse quest’ultimo è il motivo che porta le musulmane di oggi a “scegliere” il velo da ragazzine, come segno di appartenenza alla comunità, con tanta maggior forza se si vive in Europa o negli Stati Uniti.
Un certo Islam, infatti, desidera distinguersi da tutte le altre religioni e civiltà, contemporanee o antiche, a qualunque costo. Trovando la scusa per operare le distruzioni dei tesori antichi di Ninive, Mosul, Palmira, la tortura e l’uccisione dell’amorevole custode di questa, l’anziano archeologo Khaled al-Asaad. Alla sua memoria sono dedicati due libri utili a capire il momento. Viviano Domenici, con vivace taglio giornalistico, fa il punto sulle distruzioni compiute dall’Islam «contro l’idolatria», dai Buddha di Bamiyan del 2011 fino al disastroso 2015. Si legge bene, anche se gli ultimi capitoli, uno sguardo generale sull’iconoclastia, affrontano temi che chiederebbero qualche riflessione in più.
L’archeologo “militante” Paolo Matthiae compie un’operazione ancora diversa, affidando alle pagine un disperato e coltissimo sfogo personale: dopo la Seconda Guerra Mondiale, chi avrebbe pensato di trovare ancora uomini che attentano deliberatamente al patrimonio della stessa umanità? Il noto archeologo percorre una storia dei saccheggi perpetrati spesso per damnatio memoriae, fino a quando l’umanità sembrava avere compreso il valore delle reliquie del passato. Nacque l’archeologia, l’idea del recupero, perfino l’accettazione di forme diverse di bellezza, di arte e civiltà, con i conseguenti sforzi di comprensione. Sembrava si fosse tutti d’accordo sul valore di un passato comune. Ma alcuni hanno voluto essere «più uguali degli altri», per dirlo con Orwell. E si sono permessi di rovinare e rivendere il patrimonio di famiglia, come figli scapestrati.
Infine, ecco un libro che ci libera da altri pregiudizi. A scuola abbiamo sentito parlare della teoria della doppia verità, attribuita al medico e filosofo islamico Averroè, ossia Ibn Rushd (Cordova 1126 - Marrakech 1198). Si tratterebbe della dichiarazione di due modi diversi di arrivare a due verità “diverse”: la fede e il Corano porterebbero alla verità religiosa, la razionalità e la scienza a quella intellettuale, Averroè sarebbe stato perseguitato per aver parlato di una verità diversa dal contenuto del Corano. Ma Averroè non ha mai espresso questa opinione. Come chiarisce Massimo Campanini nella nuova introduzione al Trattato decisivo, ripubblicato dopo una ventina d’anni, «la romantica interpretazione di un Averroè martire del libero pensiero» deve essere abbandonata o almeno sfumata.
L’intellettuale inserito a corte, poi caduto in disgrazia e poi a breve riabilitato, non è un razionalista, né una sorta di illuminista ante litteram. La verità è una sola, quella scritta nel Corano, a cui tutti devono credere. La filosofia, invece, è un’attività svolta dal fedele, che non per questo smette di essere tale. Tra religione e filosofia non c’è “armonia”, che fa pensare a un possibile scambio di una con l’altra, ma “connessione”, sono realtà parallele e non contraddittorie. Il tentativo è quello di permettere al fedele di essere filosofo, perché la sua ricerca non potrà che trovare la verità cui crede per fede. La storia dell’Islam non ha poi incoraggiato l’attività filosofica, né ha ripetuto lo splendore di attività scientifiche che fervevano nelle corti dei califfi. Finora. Perché è bello pensare che ciò che è avvenuto potrebbe ripetersi.
Tradurre significa comprendersi
Arabi e bizantini ce lo insegnano
Il mediatore Hunain ibn-Ishaq fece conoscere i medici e i filosofi greci nel Califfato del IX secolo
La ricchezza degli scambi culturali nel secolo d’oro di Costantinopoli e Bagdad
Scelte controverse
Nonostante le esperienze negative del passato, i governanti perseverano spesso nelle mosse incaute
Scritti della diaspora ebraica esaltano il ruolo interculturale di Alessandria d’Egitto
di Luciano Canfora (Corriere della Sera, 12.01.2016)
Non vi è nulla di più sciocco della adozione del termine «Califfato» da parte dei banditi xenofobi e xenoctoni dell’Isis. Il vero Califfato, quello di Bagdad, con le sue diramazioni in Egitto, nel Nord Africa, nella Spagna meridionale, fu invece, nel IX secolo, un faro di cultura non solo tollerante, ma anche avido di aprirsi alle altre culture. Veicolo principale di tale scelta, che segnò il mondo arabo per vari secoli (prima che venisse travolto dalla violenza turca), fu la sistematica opera di traduzione.
In pieno IX secolo, cioè in quello che fu il secolo «d’oro» anche per l’Impero bizantino oltre che per il Califfato di Bagdad, un grande interprete cui solo l’Enciclopedia Italiana tra le grandi enciclopedie occidentali dedica una voce, Hunain ibn-Ishaq (809-877), nato ad al-Hirah da famiglia nestoriana che parlava siriaco, tradusse - prima sotto il califfo al Mamun poi sotto al Mutawakkil - dal greco in siriaco e in arabo i filosofi e i medici greci. Quei testi divennero, così, per la cultura araba, il germe di una originale filosofia e di un vivace e innovativo pensiero scientifico.
Nel suo libro autobiografico Sulle traduzioni siriache e arabe di Galeno, Hunain descrive, tra l’altro, la sua pratica di studio, ed evoca Alessandria: metropoli che non cessò certo di essere un centro di cultura quando, alla metà circa del VII secolo, gli Arabi la conquistarono; al contrario fu terreno d’incontro tra le due culture.
Scrive tra l’altro, Hunain a proposito del trattato di Galeno intitolato Metodo terapeutico: «Questi sono i libri alla cui lettura ci si dedicava nelle istituzioni mediche ad Alessandria; in particolare li si leggeva nell’ordine in cui li vengo esponendo io. Si usava radunarsi ogni giorno per la lettura e interpretazione di un’opera principale, esattamente come ancora oggi i nostri amici cristiani sono soliti radunarsi negli stabilimenti dedicati allo studio, noti con il nome di Scuole , ogni giorno, per approfondire un’opera principale tra i libri degli antichi».
È - a ben vedere - la stessa pratica di studio collettivo intorno ad un testo rilevante che è documentata, negli stessi anni, nel cuore dell’Impero bizantino dal patriarca-umanista Fozio in una celebre e polemica lettera al Papa di Roma. Qualche decennio più tardi un altro ecclesiastico-umanista bizantino, Areta, cercava e otteneva libri greci dall’Egitto musulmano.
Analoga traslazione della cultura greca questa volta verso l’Occidente avevano al tempo loro attuato, traducendo e creando così la letteratura latina, i Romani tra III e I secolo a.C. Quel che ha fatto Hunain verso il mondo arabo, nel campo della filosofia, lo avevano fatto nel I a.C. Lucrezio e Cicerone nell’Occidente parlante latino.
A loro volta i Greci - ed è questo il punto di partenza del bel saggio di Tullio Gregory in uscita da Olschki Translatio Linguarum. Traduzioni e storia della cultura - non persero (almeno i più consapevoli) la certezza di aver imparato «traducendo» dai mondi mesopotamico ed egizio, con i quali erano stati in contatto sin da subito. Gregory, che in questo saggio traccia un profilo storico che giunge fino al rogo nazista dei libri «malsani», è da sempre un esploratore del nesso indissolubile tra parola e civiltà e perciò ha fondato, or sono cinquant’anni, il «Lessico intellettuale europeo».
Da tempo egli ha concepito una sana passione per la monumentale Biblioteca storica di Diodoro di Sicilia (40 libri, 15 giunti a noi integri), che è, secondo me, il nume tutelare di questa sua ultima fatica. Nel primo secolo a.C., Diodoro apriva la sua opera con la proclamazione, ben documentata, del debito dei Greci verso il mondo egizio, nei più diversi ambiti, a cominciare dalla religione. Epoca felice quella in cui senza patemi, anzi con gioia, si inneggiava alla genesi comune delle varie fedi! Forse Diodoro - che era un siciliano - si ispirava alle concezioni di un autore da lui messo intensamente a frutto, il grande Posidonio, che era originario di Apamea, ed era cioè un siriaco parlante greco. Questa loro origine li metteva in grado, entrambi, di apprezzare più e meglio di altri il fenomeno, tipicamente ellenistico della «mescolanza». Simbolo della quale potremmo considerare l’ultima sovrana dell’Egitto tolemaico, Cleopatra, greco-macedone per discendenza dinastica, ma attenta a tutte le parlate dei suoi sudditi indigeni, come ce la raffigura Plutarco.
Del resto è proprio ad Alessandria che, nel periodo più fiorente della dinastia tolemaica (III secolo a.C.), si instaurò la sistematica prassi della traduzione da tutte le lingue in tutte le lingue: compreso il latino, sostiene, più di un millennio più tardi, il dotto bizantino Giovanni Tzetzes.
Un testo della diaspora ebraica, la Lettera di Aristea a Filocrate, esalta questo ruolo interculturale di Alessandria e della sua biblioteca. Giustamente Gregory dedica a questo testo molta attenzione. Non sarà superfluo ricordare che la ricezione della Lettera di Aristea ha un intero ramo nella cultura araba, dalla Cronaca di Al Tabari al Fihrist di Al Nadim.
Il debito del primo grande teologo greco, Esiodo, «santone» forse più antico di Omero, verso l’epica mesopotamica fu studiato mezzo secolo fa da un grande grecista inglese recentemente scomparso, Martin West. Per fortuna lo scandalo suscitato decenni addietro dall’ Atena nera di Martin Bernal è ormai un incidente dimenticato.
Le guerre che incombono sul nostro presente si colorano sempre più di truce autosufficienza culturale e religiosa. Un libro come quello di Gregory, che ripropone il fenomeno dei trasferimenti di civiltà, è una goccia di saggezza illuministica in un mare turbato, sempre più di frequente, da ondate di oscurantismo.
Stato Isamico [Daesh]: a chi appartiene Maometto?
Lo Stato Islamico usa la nostra storia dell’Islam per la sua guerra. Soltanto noi musulmani possiamo cambiare questo stato delle cose.
Un contributo di Tamim Ansary - nato a Kabul nel 1948, storico, vive a San Francisco.
Die Zeit online - 24 dicembre 2015
Il vero potere di Daesh non sta nelle sue bombe e armamenti vari e neppure nella sua orrenda risolutezza. Esso si trova molto più nel modo geniale in cui l’organizzazione formula la sua immagine mondiale e la forgia come un’arma. È in corso un conflitto apocalittico fra ‘Islam e l’Occidente. «Non si tratta qui semplicemente di un’altra guerra, fratelli e sorelle, è l’inizio della fine, perché presto Dio riscriverà la storia e i suoi [figli] diletti sono predestinati come vincitori. Essi cancelleranno i satanici, gli altri, e unificheranno la Terra sotto il tetto dell’Islam. Chi vi si unisce farà parte dei benedetti da Dio. Chi perde la vita in battaglia raggiunge direttamente il paradiso, chi sopravvive diventa onorato membro di una società che vive esattamente secondo le regole che Dio ha trasmesso all’umanità attraverso il suo inviato Maometto».
Può Daesh venire sconfitto uccidendo il suo sedicente Califfo Al Bagdadi? Sterminando tutti i suoi adepti? Certamente no, perché si tratta soltanto di persone. Ma l’immagine mondiale, che sospinge la sua campagna militare, è una rete di idee che vive e respira nello scambio che ne fanno milioni di musulmani.
Il massacro di San Bernardino dimostra la sua potenza minacciosa. In quel luogo Tashfeen Malik, madre di un bambino di sei mesi, che viveva col marito in un esemplare sobborgo californiano, si mette in movimento con lui per falciare con il mitra persone che non aveva mai visto prima. Come ha potuto questa azione apparirle sensata e giusta?
Prima di partire per l’assassinio Tashfeen Malik ha giurato fedeltà allo “Stato Islamico” con un post su Facebook. Quando questo scritto è venuto alla luce, nessuno a dire il vero ha chiesto che cosa si sarebbe potuto intraprendere contro questa visione del mondo. Ben Carson, un candidato repubblicano alla Presidenza, ha detto che San Bernardino dovrebbe significare “la fine del dibattito” circa l’accoglienza dei profughi siriani. Donald Trump, che già si era dichiarato a favore della reintroduzione della tortura, ha preteso un divieto generale di entrata per i musulmani. Gran Bretagna, Francia e USA intensificano nel frattempo i bombardamenti in Siria.
È questo il piano? Chiudi i confini, bombarda il Medio Oriente, erigi un muro e mettigli in cima il filo spinato, perché i terroristi e le loro armi non entrino? Il filo spinato può tenere fuori le persone, ma le idee gli scorrono attraverso come acqua. Tuttavia deve essere sconfitta quella visione omicida del mondo che può fare apparire qualsiasi azione di insensata violenza come atto eroico.
A chi punta questa visione del mondo? Essa si indirizza soprattutto a quei musulmani marginalizzati, la cui vita non ha più alcun senso. I figli di musulmani emigrati in Europa o in America sono la prima linea di questo gruppo demografico - giovani uomini e donne, la cui identità è in crisi fin dalla nascita.
Conosco questo fenomeno per la mie esperienze fra i richiedenti asilo e i profughi afghani in America. Il loro primo contatto con il mainstream americano i bambini lo hanno avuto in quelle famiglie, in quelle scuole statali, in cui molti sono stati trattati con disprezzo per la loro appartenenza all’Islam. Se poi hanno cercato di comportarsi nel miglio modo possibile come americani, i loro sforzi sono andati a sbattere contro il sarcasmo e la derisione. Dopo queste lezioni sono tornati a casa dai loro genitori, i quali sognavano di una patria perduta, di un tempo e una cultura che i ragazzi non avevano mai conosciuto. Se i figli si comportavano lì come americani incombevano su di loro accuse e rimproveri. Così essi facevano del loro meglio per comportarsi come buoni afghani musulmani. Un giovane mi disse: «A casa faccio come se fossi afghano. Poi esco e faccio come fossi americano. Mi chiedo: quando sono veramente me stesso?».
Lo Stato Islamico (Daesh) conosceva il suo pubblico
Mentre l’espansionismo occidentale travolgeva la loro civiltà, nel mondo arabo le persone si attaccavano al loro solo sogno perduto - la fantasia romantica degli «incrollabili vincoli famigliari». Ma come dovunque altrove, anche qui è accaduto lo stesso: la modernità industriale e il capitalismo hanno dissolto le strutture della stirpe e del clan. La rete emotiva della società tradizionale è stata sostituita da un mondo di nuclei monofamiliari e di individui, ognuno dei quali segue il suo proprio singolo destino. I ruoli tipici tradizionali dei sessi non reggono più.
Poi sullo schermo appare lo Stato Islamico. Che conosceva il suo pubblico. Offriva una visione del mondo che era sintonizzata perfettamente su queste situazioni, questa schiera imponente di potenziali reclute.
L’ideologia dello Stato Islamico non ha niente a che fare con l’Islam, l’Islam è la religione della pace, perorano troppo spesso molte voci benpensanti. Tutto ciò è poco sincero. La visione del mondo delio Stato Islamico ha a che fare naturalmente con l’Islam. Se non fosse così non susciterebbe tanta eco. Effettivamente l’immagine del mondo [di Daesh] si inserisce perfettamente nella storia, tanto amata dai musulmani, delle loro origini. Molto tempo fa vi fu un piccolo gruppo di anime pure che si attenevano precisamente e minuziosamente alle direttive che Dio aveva loro imposto. Queste persone stavano di fronte a un nemico spietato, che le voleva eliminare. Ma la comunità aveva come guida l’unica persona sulla Terra che fosse ispirata direttamente dall’Unico Dio. Sotto la sua guida la piccola comunità si pose con successo in difesa e poi portò la lotta nel campo nemico. Essa conseguì vittoria dopo vittoria, finché dominò il mondo (o almeno la parte più importante di questo). Questa è la storia della quale lo Stato Islamico si serve. E ha la forza di un mito.
Questa storia, obiettivamente considerata, esiste, perché centinaia di milioni di persone la conoscono e con essa sono cresciute. Uccidere qualche persona che conosce questa storia non uccide la storia stessa. Una visione del mondo può essere eliminata soltanto da un’altra visione e quella che domina lo Stato Islamico non può sorgere da alcuna origine occidentale. Non può derivare da concetti e valori di una cultura occidentale laica, con idee come “Libertà”, “Democrazia”, “Capitalismo” e “Parificazione della donna” come punti di arrivo prestabiliti. Può avere forza soltanto se è nata dal mondo islamico, abbozzata da teologi musulmani, che godono di stima per la loro erudizione. Il punto-chiave: devono utilizzare la medesima storia delle origini della quale lo Stato Islamico fa uso, ma giungere a conclusioni differenti.
Ma da scritti, dottrine e tradizioni dell’Islam può veramente svilupparsi una visione del mondo progressista e modernistica? Naturalmente! Tutti gli ingredienti sono a portata di mano. La tolleranza nei confronti di chi crede diversamente, per esempio. Che cosa hanno fatto i primi musulmani, dopo essersi spostati da La Mecca a Medina, la loro nuova patria? Formularono il regolamento comunitario di Medina, la prima Costituzione apparsa al mondo. Le loro regole dovrebbero garantire che le diverse comunità vivano le une accanto alle altre con armonia, ognuna alla sua maniera.
E i diritti delle donne? Sotto la guida del profeta Maometto, nell’ambito interno della comunità svolsero un ruolo centrale alcune eminenti personalità femminili - come Chadisha, Aicha, Fatima. Nell’Islam primitivo lo status delle donne fu migliorato, per la prima volta fu concesso loro di ereditare denaro, avere proprietà, ottenere il divorzio. Per quei tempi furono passi radicali.
O il tema delle atrocità in guerra. Scritti musulmani e sentenze di Maometto fissarono regole e condizioni che avrebbero dovuto limitare gli eccessi in guerra - precoci precursori della Convenzione di Ginevra.
Tutti questi elementi sono parte della preistoria, mitica e originaria, dell’Islam. Sì, la visione jihadistica del mondo ha pienamente a che fare con l’Islam, ma non è la stessa cosa dell’Islam. È soltanto una delle molte visioni del mondo che si fanno originare dalle medesime fonti storiche. Nessun fondamento teologico di alcun genere smentisce che una forte visione opposta possa entrare in concorrenza con il jihadismo. Il risultato positivo dipenderà da questioni come la seguente: “Come può la sharia essere adattata a tempi in mutamento?”. Infatti, anche se gli esempi prima ricordati si spostassero come fossero stati formulati 1400 anni fa, questo non farebbe ancora dell’Islam una religione progressista.
Una questione di vita o di morte
Tuttavia si può pensare la sharia così che gli odierni musulmani possano agire diversamente da come avrebbero fatto nel VII secolo? I jihadisti dicono che questo non sarebbe possibile: la sharia non potrebbe adeguarsi ai tempi, ma i tempi dovrebbero adattarsi alla sharia. Ma si deve proprio intendere la sharia come un ammasso di prescrizione e istruzioni da prendere alla lettera? Non si può considerarla come un tesoro di principi profondi, che guidano il comportamento secondo la morale? E se sì, come vengono applicati questi principi? Nel mondo musulmano questa è oggi una questione di vita o di morte.
Essa non si deciderà alla fine sui campi di battaglia, ma nei seminari e nelle aule di studio. Perché possa avviarsi una interpretazione progressista dell’Islam, quest’ultimo deve oggi adattarsi alle realtà della vita islamica. I musulmani che vivono nel mondo occidentale si sentono marginalizzati e derubati della loro identità. La struttura sociale delle loro società di origine è inteso come in decadimento. I musulmani stanno sulle rovine del loro mondo davanti alla sfida di dare un senso alla loro vita.
Coloro che decidono politicamente in Occidente non possono sollevarli da tutto questo, ma hanno tuttavia una funzione da espletare. Essi possono rendere ciò più facile o più difficile per gli intellettuali musulmani. Quando in Europa o in America i politici vietano i copricapo religiosi, quando parlano di documenti d’identità speciali, quando chiudono le frontiere ai profughi musulmani oppure - come adesso negli Stati Uniti si dibatte durante la campagna elettorale - vogliono introdurre esami di religione, per fare sì che nel Paese entrino soltanto cristiani, essi li spingono nelle braccia dello Stato Islamico. È la conferma delle affermazioni dei jihadisti: che questo scatena una lotta apocalittica fra due potenti blocchi. Uomini come i candidati repubblicani Donald Trump, Ben Carson e Ted Cruz si comportano quasi come fossero adepti dormienti dello Stato Islamico. Quale pazzia! Infatti la vera competizione oggi ha luogo non già fra l’Islam e l’Occidente, bensì fra due visioni musulmane del mondo.
Immaginatevi di vivere da qualche parte nel mondo come musulmano. Vi trovereste nuovamente fra due visioni del mondo. Una delle quali indica che è iniziata una lotta di proporzioni epiche. Voi avete la possibilità di aggregarvi a lato di chi è predestinato ad essere il vincitore e potreste salire al rango di eroe immortale. L’altra visione spiega una volta di più che alcune persone sono civilizzate e degne, ma voi non ne fate parte. Voi non siete altro che gentaglia meritevole di abominio, che certo può vivere, ma che non ha nulla di buono da apportare. Vi si terrà continuamente d’occhio e vi si disprezzerà. Probabilmente finirete in prigione e sarete torturato. Ora vi chiedo: per quale visione del mondo optereste?
Così l’antica rivalità tra sciiti e sunniti allontana il sogno della Mecca
di Tahar Ben Jelloun (la Repubblica, 06.01.2016)
IL PELLEGRINAGGIO alla Mecca è uno dei cinque pilastri dell’islam. Per poterlo effettuare bisogna disporre dei mezzi materiali e psicologici. Consiste in una visita dei luoghi santi della Mecca e di Medina e deve avvenire durante il dodicesimo mese dell’anno dell’egira.
La data è fissata nella seconda settimana del mese di Dhu-l-Hijja. La visita consiste prima di tutto nella purificazione. Fare le abluzioni, non portare abiti cuciti, per le donne non truccarsi; praticare l’astinenza sessuale; niente litigi; niente insulti; niente collera. Dopodiché, il pellegrino va sul monte Arafat, poi a Muzdalifah e a Mina, dove deve sostare tre giorni durante i quali lapiderà Satana e sgozzerà una pecora in sacrificio per rendere omaggio ad Abramo. Poi deve girare intorno alla Kaaba, dove si trova la pietra nera, e percorrere diverse volte la distanza che separa le due colline di Safa e Marwa.
Prima o dopo di questo rituale, il pellegrino deve andare a Medina e stare una settimana in raccoglimento sulla tomba del profeta Maometto.
Ogni anno la Mecca accoglie tre milioni di pellegrini in arrivo da tutto il mondo. L’Arabia Saudita ha stabilito delle quote per ogni paese. Il Marocco, per esempio, ha l’autorizzazione per il pellegrinaggio di 25.000 credenti, che vengono scelti per sorteggio. Ci sono talmente tante richieste che la gente passa giorni e notti a pregare perché il proprio nome sia tra quelli estratti. Ora che Teheran ha sospeso seppure temporaneamente l’Umra Hajji, “il pellegrinaggio minore” che si può fare in ogni periodo dell’anno, si può immaginare il timore delle migliaia di candidati al pellegrinaggio annuale che vengano annunciati nuovi blocchi.
La crisi attuale ha la sua remota origine nella contestazione, da parte degli sciiti, del monopolio saudita sui luoghi santi. Appena salito al potere, l’ayatollah Khomeini aveva espresso il desiderio di vedere i luoghi santi gestiti a turno da sunniti e sciiti. Per i sauditi, l’ipotesi di cedere quel ruolo - che gli assicura uno status politico e religioso (Guardiano dei luoghi santi) ed entrate cospicue - è fuori discussione.
Un musulmano, un credente, non vive assolutamente il pellegrinaggio alla Mecca come un obbligo o un dovere, ma lo considera il desiderio più caro, il sogno più ambito. Una volta compiuto, il pellegrinaggio conferisce al credente una sorta di “sacralizzazione” che fa di lui un “hajj”: colui che ha lavato i propri peccati e che si prepara a fare ritorno nel proprio paese con il cuore e lo spirito pacificati, colmi di virtù e di umanità.
Il pellegrinaggio è anche la conferma di quanto dice il Corano: «Dio vi ha creati in popoli diversi perché vi incontriate e vi conosciate ». Il credente vive sul posto la diversità intorno alla stessa fede e allo stesso messaggio, quello della pace e dell’importanza della spiritualità rispetto ai beni materiali. Vive una grande solidarietà, perché popoli venuti da tutti i continenti, molti dei quali non parlano arabo, si ritrovano intorno alla stessa speranza.
In quest’ottica, la rottura delle relazioni tra l’Arabia Saudita e l’Iran è un colpo fatale per tutti quelli che si apprestavano a partire per la Mecca. Per loro, sciiti o sunniti che siano, si tratta di suggellare il loro attaccamento alla religione musulmana. Gli sciiti rappresentano circa il 10% dei musulmani nel mondo. Dopo la morte di Maometto, nel 632, alcuni hanno contestato il califfato di Abu Bakr, preferendogli Alì, genero e cugino del profeta.
I musulmani ortodossi ricordano che Maometto è l’ultimo profeta e che la sua successione è una prerogativa di Dio e non degli uomini. La rottura tra i due clan risale ad allora. Alì accederà al califfato ma cinque anni più tardi sarà assassinato da un ribelle. Gli sciiti sono eternamente in lutto per quella morte.
Oggi i credenti iraniani devono accettare di non poter andare temporaneamente alla Mecca. Dopo tutto è una questione politica e Khomeini ha detto e ripetuto che «L’Islam è politica o non esiste più». (traduzione di Elda Volterrani)
Storia dell’odio tra islamici
Quei 14 secoli del lungo odio con i sunniti
La disputa sugli imam e la catena di persecuzioni
di Roberto Tottoli (Corriere della Sera, 03.01.2016)
La divisione sunniti-sciiti risale alla morte di Maometto, 14 secoli fa. Subito si divisero sulla figura dell’imam che avrebbe regnato al posto del profeta. Per gli sciiti l’imam deve essere una guida anche religiosa, per i sunniti deve garantire l’unità della comunità senza ruoli religiosi. La via sunnita è quella della gran maggioranza dei musulmani ( nella foto l’assalto all’ambasciata saudita a Teheran ).
La divisione tra sunniti e sciiti risale alla morte del profeta Maometto nel 632 d.C. Per il «partito di Alì», in arabo shi‘at ‘Ali , da cui deriva il nome «sciiti», il legittimo successore di Maometto doveva essere ‘Ali, suo genero. E dopo di lui dovevano regnare i suoi discendenti con il titolo di imam. Ma la questione della successione non fu solo politica: per gli sciiti gli imam erano e sono una guida anche religiosa.
Per i sunniti, invece, i primi sovrani, chiamati «califfi», furono scelti tra i compagni di Maometto, senza alcun ruolo religioso ma solo con il dovere di garantire l’ideale unità della comunità.
Nel corso dei secoli il sunnismo è stato la via seguita dalla stragrande maggioranza dei musulmani, mentre lo sciismo si è a sua volta frantumato in svariate sette circoscritte ad alcune regioni.
I motivi di tali divisioni hanno sempre avuto origine intorno all’autorità religiosa, più o meno accentuata, attribuita agli imam. Gli alauiti di Siria o i Drusi, oppure gli ismailiti guidati dall’Agha Khan ne sono gli esempi più estremi e noti. Oppure, all’opposto, vi sono correnti come quella degli zayditi dello Yemen, moderati, assai vicini ai sunniti. Quasi il novanta per cento degli sciiti segue lo sciismo imamita. Tale corrente unisce la maggioranza della popolazione irachena, ha una sua roccaforte storica nel Libano di Hezbollah ed è soprattutto religione ufficiale in Iran dal XVI secolo.
La Rivoluzione iraniana del 1979 ha rappresentato il momento più alto di una comunità religiosa che ha invece spesso conosciuto marginalità, persecuzioni o dissimulazioni per sopravvivere. La storia degli sciiti è infatti costellata da sofferenze ben rappresentate dalla morte dell’imam Hussein, il figlio di ‘Alì, fatto trucidare dal califfo omayyade sunnita nel 680 d.C. a Kerbela, nell’odierno Iraq.
I sunniti hanno sempre guardato con sospetto ai sostenitori di concezioni sciite. Oggi le posizioni più marcatamente anti-sciite sono sostenute dall’Arabia Saudita. Il wahhabismo è segnato da un odio feroce contro gli sciiti, trattati alla stregua di miscredenti e avversati nel loro credo e nelle forme di culto verso i venerati imam. La Rivoluzione iraniana che ha consegnato il Paese al di là del Golfo Persico al clero sciita ha acuito tensioni e rivalità.
La minoranza sciita che vive ancor oggi in Arabia Saudita soffre tali difficoltà e una rivalità crescente. Si tratta di una presenza antica, come la presenza sciita in Bahrein, ma marginalizzata dalla realtà politica saudita, in altalenanti fasi di riavvicinamento e confronti sanguinosi. I moti di protesta nel clima delle cosiddette primavere arabe dopo il 2011 hanno ulteriormente acuito incomprensioni irrigidendo le autorità saudite.
Allo stesso tempo, la crescita dell’influenza di correnti salafite sempre più avverse allo sciismo presso la corte saudita spinge per colpire la minoranza sciita con divieti e azioni coercitive.
In tali condizioni e con le crisi regionali in atto, le possibilità di dialogo sembrano sempre più difficili. E le esecuzioni di ieri accrescono gli storici e insanabili contrasti rischiando di infiammare ancor di più tutta la regione.
Sciiti e sunniti: lo scontro secolare che incendia il Medio Oriente
L’esecuzione di Al Nimr rischia di far esplodere le tensioni tra le due confessioni musulmane e tra Arabia Saudita e Iran, potenze che negli ultimi trent’anni si sono combattute in lunghe guerre per procura
La frattura religiosa ha assunto un peso ancor più rilevante nel 1979, quando Khomeini ha preso il potere a Teheran facendosi paladino anche delle minoranze sciite “oppresse” nella Mezzaluna
Arrestato nel 1963 e in esilio dal 1964, Khomeini fece trionfale ritorno in Iran nel 1979 diventando la massima autorità politica e religiosa e proclamando l’Iran Repubblica islamica
di Renzo Guolo (la Repubblica, 03.01.2016)
L’ESECUZIONE dello sceicco sciita Nimr Al Nimr, uno dei leader religiosi e politici del movimento di protesta esploso nel 2011 nella ricca provincia orientale saudita che reclamava maggiori diritti per la più grande minoranza religiosa del paese, rischia di far deflagrare un duplice scontro, politico e religioso, nella regione. Tra sunniti e sciiti. E tra le potenze confessionali, Arabia Saudita e Iran, che si sono erette, rispettivamente, protettrici di quelle stesse comunità.
Il contrasto tra Arabia Saudita e Iran ha una storia lunga. Si nutre dell’avversione religiosa che il movimento wahabita, egemone dottrinalmente nella penisola arabica, nutre nei confronti degli sciiti, considerati non tanto musulmani quanto veri e propri apostati. Per aver contestato, sin dagli albori dell’Islam, la linea di successione profetica che i sunniti, in maggioranza nel mondo islamico, hanno legato al consenso dei compagni e dei primi seguaci del Profeta, mentre gli sciiti invocavano la qualificazione carismatica della stirpe ritenendo legittima solo la leadership che traeva origine dalla famiglia di Alì, cugino e genero di Maometto. Una differenza che, nel tempo, si è accentuata.
Per sopravvivere alla catastrofe teologica legata alla scomparsa del dodicesimo Imam, figura che contrariamente a quanto avviene nel sunnismo non è una semplice guida della preghiera ma un mediatore tra sacro e profano, gli sciiti hanno elaborato una particolare dottrina: la teologia dell’Occultazione. E dato vita, contrariamente al sunnismo, a un vero e proprio clero stratificato per sapere religioso. Un ceto di specialisti che, tra l’altro, deve interpretare il significato nascosto del messaggio coranico, considerato testo che ha anche una dimensione esoterica e non solo, come per i sunniti, essoterica o letterale.
I wahabiti, fautori di un intransigente monoteismo e ostili ad “associare” figure come i Dodici imam a qualsiasi forma di adorazione divina, hanno sempre considerato gli sciiti idolatri da reprimere o condannare alla marginalità. Questa frattura religiosa non si è mai colmata. E, pur avendo diversa intensità in paesi con storie diverse, ha assunto un peso ancora più rilevante nel 1979, quando lo sciismo khomeinista ha preso il potere in Iran. Facendosi paladino non solo della Rivoluzione islamica - la cui “esportazione” è stata bloccata sia dal suo minoritario carattere sciita, sia dalla guerra condotta dall’Iraq di Saddam Hussein con l’appoggio degli Stati Uniti - ma anche delle minoranze sciite “oppresse” nel mondo della Mezzaluna: dal Golfo al Libano, dall’Iraq all’Afghanistan.
Lo sciismo rivoluzionario rappresenta una minaccia per i sauditi perché mette in discussione sia il loro ruolo di “custodi dei luoghi santi” sia una dottrina, come quella wahabita, ritenuta ferrea depositaria di una tradizione religiosa fondata sull’ingiustizia e la persecuzione nei confronti dello sciismo. Il sistema di alleanze internazionali poi ha accentuato le divergenze.
L’Arabia Saudita è, dal 1945, un alleato, anche se poco limpido e oggi relativamente autonomizzato, di quell’America che, dal sequestro degli ostaggi nell’ambasciata di Teheran sino alla lunga e tormentata partita sul nucleare, è stata agli occhi degli iraniani “il Grande Satana”. Negli ultimi tre decenni sauditi e iraniani si sono, così, combattuti in lunghe e estenuanti guerre per procura, sostenute sul campo da movimenti e Stati alleati. È accaduto, e accade, in Libano, in Iraq, in Siria, nello Yemen, in Bahrein.
Mandando a morte Al Nimr i sauditi inviano ora al mondo un messaggio che definisce una precisa tassonomia del Nemico: categoria a cui ascrivere non solo i simpatizzanti sunniti di Al Qaeda, ma anche gli oppositori sciiti, giustiziati insieme ai primi. Un discorso rivolto, brutalmente, anche all’Iran perché comprenda che non verrà tollerata nessuna “interferenza”, statuale e confessionale, nel giardino di casa saudita: a partire dal Golfo.
Un messaggio che, secondo il ministro degli Esteri iraniano, costerà caro alla dinastia saudita, qualificata come “criminale” e che, secondo lo stesso leader della Repubblica islamica Khamenei, non impedirà il “risveglio” sciita.
Le proteste esplose nel mondo sciita, nel Bahrein oltre che nelle province orientali saudite, in Libano come nel Kashmir, sono solo un’avvisaglia delle nuove tensioni che l’esecuzione di Al Nimr può innescare. Anche perché sia le dinamiche connesse all’autoattribuito rango di potenze confessionali, sia la battaglia senza esclusione di colpi per conquistare il ruolo di potenza regionale dominante, mandano oggettivamente in rotta di collisione strategica Teheran e Riad. Alimentando il conflitto settario. Anche in contesti dove, di fatto, sauditi e iraniani sono membri di uno schieramento, come quello fondato sulla “doppia coalizione”, che ha lo stesso nemico: l’Is.
Sino a quando la duplice frattura, religiosa e di potenza, alimenterà la sfida tra i due giganti mediorientali, il vero nodo politico gordiano dello scenario mediorientale, non sarà possibile stabilizzare l’area. Come rivela la stessa costituzione, su impulso saudita, di un alleanza militare sunnita che ha come esplicito obiettivo il contrasto al terrorismo. Termine con il quale Riad non si riferisce solo all’Is o a Al Qaeda ma anche, più o meno esplicitamente, a movimenti sciiti come l’Hezbollah libanese o gli Houthi in Yemen, all’opposizione alide in Bahrein o nelle stesse province orientali del Regno. E, soprattutto, al loro grande protettore: l’Iran. Una dottrina politica e della sicurezza che, unita alle ambizioni iraniane, rischia di far deflagrare il già incendiario panorama regionale.
Vali Nasr
“Basta con Riad ora l’Occidente deve sostenere il nuovo Iran”
Il grande esperto di mondo islamico “I sauditi fanno una politica che giova al Califfato e temono l’egemonia di Teheran nell’area, più forte dopo l’accordo sul nucleare. Le esecuzioni sono una provocazione contro gli ayatollah”
Ci sono di mezzo troppi interessi. Ma se il mondo vuole combattere veramente l’Is faccia pressione sul regno
intervista di Vanna Vannuccini (la Repubblica, 03.01.2016)
“UN GESTO provocatorio, deliberato, non motivato da nessuna necessità interna, fatto per spingere l’Iran a una reazione che complichi i suoi rapporti con l’Occidente alla vigilia di quella distensione che tutti si aspettano dopo la cancellazione delle sanzioni».
Vali Nasr, grande esperto del mondo islamico e autore di un famoso libro, “La rivincita (nell’originale la rinascita) sciita”, decano della Johns Hopkins e consigliere del Dipartimento di Stato, non ha dubbi: l’esecuzione ieri in Arabia Saudita di 47 “terroristi”, tra i quali il 55enne Nimr Al Nimr, un religioso che negli anni passati aveva guidato il dissenso contro la casa regnante e per questo era stato arrestato e condannato a morte, ha lo scopo di provocare l’Iran allo scontro. «La provincia orientale del Paese, quella più ricca di petrolio e più vicina all’Iran, dove in passato c’erano stati disordini e proteste da parte della popolazione sciita, è calma. Non c’erano ragioni di politica interna per questa esecuzione di massa. E’ stato un atto deliberato per alzare il livello dello scontro con l’Iran. È la prova che i dirigenti di Ryad non hanno alcun interesse a una politica di riconciliazione o di allentamento delle tensioni nella regione, che continuano una politica settaria al di là di quello che affermano e che il loro scopo è l’escalation delle tensioni tra sunniti e sciiti ».
Riad pagherà caro, ha detto un portavoce governativo a Teheran. Come reagiranno gli iraniani?
«L’Iran ha tutto l’interesse a non cadere nella trappola tesa dai sauditi. Reagiranno verbalmente, è chiaro, ma credo che eviteranno di fare il gioco dei sauditi complicando le loro relazioni col resto del mondo»
Questo vale anche per i conservatori, i pasdaran e tutti coloro che in Iran mirano a indebolire il governo Rouhani, tanto più che manca solo un mese a elezioni che potrebbero rafforzarlo?
«Siamo ancora al primo passo, è presto per fare previsioni, ma credo che gli iraniani eviteranno di cadere nella trappola».
L’Arabia Saudita ha compiuto in un anno 157capitazioni pubbliche, esporta la jihad pur affermando di combattere l’Is, secondo Amnesty International usa le condanne a morte come strumento politico contro la minoranza sciita. Quando smetteremo di guardare all’Arabia Saudita come a un partner strategico?
«E’ complicato. Ci sono di mezzo troppi interessi. I sauditi hanno molta influenza, comprano armi, sono coinvolti in tanti affari. La questione è che l’Occidente deve decidere se vuol fare sul serio nella guerra contro l’Is o no. Deve scegliere se focalizzarsi contro il Califfato o contro l’Iran. Le due cose insieme non sono possibili. L’Arabia Saudita fa una politica che giova al sedicente Stato Islamico, e anche tra la popolazione saudita ci sono molte simpatie verso il Califfato. Se fa sul serio nel combattere l’Is l’Occidente deve far pressione sull’Arabia Saudita. Ha a disposizione armi diplomatiche, economiche, può scegliere. Ma finora non ha esercitato la benché minima pressione».
Il nuovo re Salman, con il figlio Mohammed da lui nominato secondo erede al trono, è in carica solo da dieci mesi ma sembra voglia passare alla storia come il nuovo Saladino. C’è una nuova dottrina Salman per l’Arabia Saudita?
«Secondo me è cambiato solo lo stile. Il regno saudita è sempre stato un regno fondamentalista, fondato sull’islam radicale, che ha fornito denaro e ispirazione a tutti i radicalismi. I re sauditi non tengono ad essere chiamati re- ci sono tanti re al mondo. Vogliono essere chiamati “custodi dei luoghi sacri”. Sembra un titolo senza pretese ma la dice lunga su un’idea di potere che va ben oltre i confini del Regno ».
Quale strategia seguono?
«Nei luoghi sacri, la Mecca e Medina, confluiscono i credenti di tutti i continenti, dalla Bosnia all’America, dalla Nigeria alla Malesia. Finora i sauditi usavano il petrolio in silenzio, in silenzio mandavano nel mondo i predicatori wahabiti a diffondere la loro versione radicale dell’islam. Oggi si muovono apertamente. In Egitto finanziano i generali, in Libia Siria e Irak sostengono i ribelli, in Yemen hanno dato avvio a una guerra contro gli Houthi perché li considerano alleati dell’Iran. L‘Iran è il nemico giurato: nessuno quanto i sauditi, forse nemmeno Israele, teme l’egemonia iraniana in Medio Oriente».
Quest’anno il Natale cristiano e quello musulmano cadono la stessa notte
Non accadeva da mezzo millennio. Una bella coincidenza di questi tempi
Quando gli dei si parlano
di Monika Bulaj (la Repubblica, 20.12.2015)
L’HO SENTITO NEI SOSPIRI DEI SUFI A KABUL, al Cairo e a Istanbul, durante i riti dionisiaci dei musulmani del Maghreb, tra le esplosioni di petardi e rulli di tamburi nella Tripoli agghindata con palloncini e teste di squalo. Era il canto natalizio dei musulmani. Quest’anno, per la prima volta negli ultimi quattrocentocinquantasette, quel canto si leverà nel mondo musulmano nella stessa notte in cui i cristiani celebreranno il loro Natale, quella tra il 24 e il 25 dicembre. Perché quest’anno Maometto nasce quando nasce Gesù. Sarà il secondo Mawlud del 2015, il primo è caduto tra il 3 e il 4 gennaio: l’anno liturgico dei musulmani, governato dalla Luna, corre più veloce di quello cristiano.
Coincidenze. Del resto - e oggi pare così strano ricordarlo - le due religioni si sono rispecchiate l’una nell’altra nei secoli a suon di melodie e usanze, e si sono prestate poesie e riti come i buoni vicini si prestano il sale. E fu forse proprio per resistere all’incanto della notte di Betlemme che un califfo decretò la nascita del Profeta come festa popolare. Da allora il Natale musulmano viene festeggiato dal Maghreb fino all’Indonesia con fuochi d’artificio e regali per i bambini, cortei e danze estatiche, ed è replicato a sua volta per i santi locali in una infinità di Natali minori.
Sono anni che viaggio nelle sacre periferie delle religioni del Libro, zone franche assediate dai fanatismi armati, patrie perdute di un’umanità in fuga. Come i santuari dei mistici dell’Islam, che dal Pakistan al Mali stanno scomparendo a suon di bombe. Odiati dagli ultras dell’Islam e ignorati dall’Occidente, i sufi sono forse una delle poche barriere contro la barbarie. Riempiono le biblioteche, godono della lettura come i mistici ebrei, mettono l’esperienza al di sopra della teoria, chiamano la pratica "strada" e il fanatico "asino che porta sulla groppa una pila di libri".
Sono zone franche. Come le donne armene e turche che dormono assieme sulla tomba di un santo cristiano sul Bosforo; come i monasteri nel deserto egiziano, ora assediati dai fondamentalisti, dove Abuna Fanous ascolta i sogni dei pastori beduini che per parlare con lui si fanno ore di coda sotto il sole; oppure come la venerazione dei kosovari verso lo sfortunato santo dei serbi, il re Stefano, accecato dal proprio padre e ucciso dal figlio. Zone franche sono i cristiani e i musulmani che pregavano assieme nella moschea di Damasco, o quelli che hanno rimesso a posto le pietre del monastero di Deir Mar Musa, sempre nella povera Siria.
Sono queste le ultime oasi d’incontro tra le fedi, luoghi dove gli dei ancora si parlano, terre di promiscuitˆ millenaria scomoda ai predicatori dello scontro di civilt ˆ, luoghi dove la catena delle vendette si rompe, dove si mangiano le stesse pietanze, si intonano gli stessi canti, si fanno gli stessi gesti. Accadde anche nella mia Polonia prima della Seconda guerra, nel Marocco degli anni Cinquanta prima dell’esodo degli ebrei. Il buon santo è buono per tutti. A Mea Sharim, il quartiere dei Chassidim di Gerusalemme, i nomi delle sinagoghe rievocano paludi bielorusse, pianure polacche, bianche colline ucraine.
È un mondo parallelo e invisibile che va dall’Asia centrale all’America latina, dalle Russie al Medio Oriente. Il calendario dei miei spostamenti tra Gibilterra e l’Afghanistan segue anniversari di nascita e morte di uomini e profeti, pellegrinaggi e sacrifici, lune, solstizi e stagioni che annodano il tempo: persiano, aramaico, arabo o ebraico non importa, svela comunque una trama di sorprendenti parallelismi. Elia diventa tra i musulmani “Khidr il verde”; San Giorgio viene festeggiato nei Balcani da cristiani e musulmani; attorno alle Madonne si radunano donne musulmane e greco-ortodosse, di Napoli e di Istanbul.
Accade che a un certo punto sono le stesse immagini che vengono a cercarti. Svelano una continuità che abbiamo disimparato a osservare. Quello che faccio io è una cosa quasi infantile: raccolgo schegge di un grande specchio rotto, miliardi di schegge, frammenti incoerenti, pezzi, atomi, forse mattoni della Torre di Babele, tessere di un mosaico che non sarà mai completo. Poi metto tutto nell’ordine che mi sembra giusto, o forse solo possibile.
Dalla parte dei calendari
di Enzo Bianchi
LA SINGOLARE COINCIDENZA di calendario tra la festa della natività di Gesù e la commemorazione del profeta Muhammad dovrebbe scuoterci dal nostro analfabetismo nel dialogo islamo-cristiano, distoglierci dalle polemiche insensate sulla presenza o meno del presepe nelle scuole e nei luoghi pubblici istituzionali e spingerci alla pratica di quella “ospitalità culturale” di cui c’è grande urgenza per una convivenza buona e intelligente.
Conoscere le feste dell’altro, il significato delle celebrazioni, la reale portata delle tradizioni instauratesi nel corso dei secoli è il passo più semplice e tra i più fecondi per scoprire l’universo religioso di chi ci sta accanto e, al contempo, per riscoprire il fondamento di ciò che noi stessi ricordiamo, sovente offuscato dall’abitudine.
Dai primi secoli i cristiani fanno memoria della nascita di Gesù Cristo a Betlemme di Giudea il 25 dicembre: una data scelta perché in quel giorno il mondo romano celebrava e festeggiava il “sole invitto”, il sole che in quel giorno terminava il suo progressivo declinare all’orizzonte e ricominciava a salire in alto nel cielo, vincitore sulla tenebra che offusca la terra. Essendo Gesù Cristo vero sole, luce del mondo, era naturale fare memoria della sua nascita al solstizio d’inverno.
Per i musulmani invece la “commemorazione” (non la “festa”, perché nel calendario islamico solo due sono le “feste”: Id al-Fitr alla conclusione del mese di Ramadan, e Id al-Adha, la festa del Sacrificio) della nascita del Profeta, nel dodicesimo giorno del mese lunare di Rabi’ I che quest’anno cade appunto il 24 dicembre, risale a non prima del X secolo, con ispirazione alla festa cristiana, e oggi è particolarmente sentita a livello popolare e tra i bambini, sebbene sia contestata da alcuni che la giudicano troppo modellata sul Natale cristiano.
Due feste differenti, dunque, senza possibili sincretismi né simmetrie perché nella fede non si festeggia nulla insieme: ai cristiani è chiesto rispetto per la commemorazione dei musulmani, così come ai musulmani è chiesto rispetto per la festa cristiana della nascita di colui che per loro è comunque considerato un profeta, ma non colui che i cristiani confessano quale loro Signore e loro Dio. Insieme si può solo celebrare la gioia dell’altro e scambiarsi auguri di pace, e questo non è poco in un’umanità tentata di smentire la fraternità e di far divampare conflitti religiosi.
Tutte le guerre arabo-arabe
In un libro-intervista in uscita da Guanda il poeta siriano sottolinea la continuità della violenza nella storia musulmana fin dalla nascita del primo califfato
di ADONIS (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.11.2015)
Houria Abdelouahed: Si parla sempre più spesso di radicalizzazione.
Adonis: Non si può comprendere questo fenomeno se non si fa lo sforzo di ripensare la nascita dell’islam. La violenza è intrinsecamente legata alla nascita dell’islam, che sorge appunto come potere. Questa violenza ha accompagnato la fondazione del primo califfato e attinge a certi versetti coranici e ai primi commenti al Testo.
H: L’Isis ci riporta a un’epoca in cui la gente o si convertiva all’islam o moriva.
A: Questa violenza è stata istituzionalizzata, ormai fa parte della forma statuale. Si aggiunga che i musulmani hanno agito fin dall’inizio da conquistatori. Il secolo che seguì alla morte di Maometto fu molto sanguinoso e la guerra arabo-araba, o la guerra musulmano-musulmana, non è mai finita. Basta leggere le opere sulla storia degli arabi.
H: Ma perché l’islam ha resistito al cambiamento?
A: Non abbiamo tenuto conto, o non abbastanza, della natura umana: il potere, il denaro e la violenza. L’islam ha risvegliato nell’essere umano l’istinto del possesso.
H: Vale a dire: aggiungere ai tentativi di risposta la dimensione psicologica e parlare del pulsionale. Il testo fondatore e i primi testi dei commentatori hanno permesso al maschio di soddisfare pienamente le proprie pulsioni, in particolare quella di possesso e quella sessuale. L’idea del paradiso come luogo di soddisfazione assoluta dove la nozione di mancanza non esiste è indice di una fantasia o di un rifiuto della castrazione. La fondazione ha colto l’essenziale nella natura della pulsione e della fantasia. Si può parlare di una malattia dell’islam, come ha fatto Abdelwahab Meddeb?
A: In La malattia dell’islam, Meddeb parla anche di un islam bello e vero.
H: Ma all’interno dell’universo musulmano ci sono la mistica, la filosofia, la letteratura...
A: Questi movimenti intellettuali non appartengono all’islam in quanto stato o istituzione. I mistici e i filosofi hanno usato l’islam come un velo o come un mezzo per sfuggire ai processi e alle condanne. Dal testo coranico non emerge alcuna filosofia.
H: Certo, la filosofia viene dalla Grecia e la mistica ha attinto a diverse fonti: il platonismo, il neoplatonismo, il cristianesimo, la lingua... Ma coloro che hanno forgiato questo pensiero vivevano all’interno della società musulmana.
A: I mistici dell’islam citavano il Testo per giustificare le loro interpretazioni, ma leggendo le loro opere ci rendiamo conto di quanto siano distanti dal testo coranico. Ibn ‘Arabi, per esempio, ha forgiato un sistema di pensiero che rompe radicalmente con la concezione religiosa e musulmana dell’uomo e dell’universo.
H: Ibn ‘Arabi era un grande filologo. Il suo interesse non era rivolto ai precetti, ma a ciò che la lingua nasconde nei suoi nuclei semantici. Era, come te, un amante della lingua. Il suo pensiero era imperniato su ciò che la lingua può esprimere e sulle realtà che non può dire.
A: Era un poeta e non aveva alcun rapporto con la dottrina, né col dogma, né col pensiero religioso. I suoi scritti, come le parole di al-Hallaj, non avevano niente a che fare con il pensiero ortodosso e con l’insegnamento religioso. Era una strategia e una forma di autodifesa. In fondo, è quello che facciamo anche noi: cerchiamo un islam vero e grande per proteggerci dalla violenza. Si può persino dire che Ibn ‘Arabi ha liberato la lingua dall’islam. I pensatori appartenenti alla società araba erano obbligati a indossare una maschera chiamata «islam» al solo scopo di aggirare l’ordine di uccidere qualunque musulmano abbandonasse la propria religione. Quelli che non l’hanno fatto hanno subito, come al-Hallaj, persecuzioni e condanne a morte, per non parlare della distruzione delle opere. Niffari, per esempio, ha scritto un libro che ha dovuto aspettare mille anni prima di essere scoperto. Ancora oggi, pochi lo conoscono.
H: Anche quando un libro viene pubblicato, il suo autore resta sconosciuto. In Egitto una fatwa si è opposta alla riedizione dei Futuhat al-makkiyya (Le rivelazioni meccane) di Ibn ‘Arabi, pubblicati per la prima volta dall’emiro ‘Abd el-Kader. Ciò detto, penso che Averroè, Abu Bakr al-Razi, Ibn al-Rawandi, Niffari ... facciano parte della società araba, in quanto dissidenti.
A: La mistica e la filosofia non fanno parte del pensiero islamico, che è composto solo di fiqh (giurisprudenza) e shar‘ (Legge).
H: Visto che abbiamo parlato di al-Hallaj, mi piacerebbe ricordare queste parole meravigliose: quando Satana si rifiuta di prostrarsi davanti ad Adamo, dicendo che non può cambiare l’oggetto del suo amore, Dio gli dice: «Ti torturerò in eterno», e Satana risponde: «Non mi guarderai?», «Sì» dice Dio. «Allora il tuo sguardo mi innalzerà al di sopra del supplizio. Fa’ di me ciò che vuoi». Al-Hallaj sarà l’anima dannata per amore. E questo scambio fra il divino e l’innamorato stimola un’intera riflessione sulla lingua del mistico, sul segreto, sull’amore, sulla trasgressione e la femminilità.
A: Ci rendiamo conto che la femminilità, come il femminino, travalica la donna e costituisce una posizione. Anche la divinità rappresenta uno stato e una posizione. La femminilità è l’universo stesso. Non è questo, però, l’immaginario dell’islam ufficiale. La mistica ha detto l’amore del femminile e della donna. Ha messo sottosopra il pensiero sulla questione dell’alterità e della soggettività. Invece, nel Testo non c’è alcuna soggettività.
H: Intervenendo a una trasmissione televisiva, hai detto che il dialogo fra Dio e Satana era molto democratico. Erano in disaccordo, ma si parlavano. Dio avrebbe potuto annientarlo seduta stante, ma ha lasciato che dicesse la sua.
A: Oggi non abbiamo neanche più questa possibilità. I musulmani non rispettano nemmeno il loro Testo e il dialogo non è più ammesso. Il credente pensa di detenere la verità assoluta. Perciò, secondo lui, ogni altra credenza è da rifiutare. Questa forma di religiosità ha trasformato la politica islamica in una techne il cui fine ultimo è il potere e la ricerca dei modi per conservarlo. Tutta la storia degli arabi lo conferma. La loro è una cultura di potere. Oggi, da un punto di vista politico ed economico, gli arabi hanno la possibilità di comprarsi il mondo grazie al gas e al petrolio. Tuttavia, non hanno né Averroè, né Ibn Khaldun, né al-Ma‘arri.
Filosofia politica
La prospettiva è araba
di Sebastiano Maffettone (Il Sole-24Ore, Domenica, 8.11.2015)
Assai di rado capita di leggere un libro assieme così affascinante come I Canoni dello sguardo di Hans Belting. La lettura del testo di Belting non è sempre semplice e il titolo italiano ahimé non riproduce quello originario (che è !Firenze e Bagdad...), ma poco importa. Il tesoro è nelle pieghe di una prosa asciutta e rigorosa e sta all’incirca in quanto dice il sottotitolo (anche questa modificato dal tedesco che recita l’equivalente di “una storia mondiale dello sguardo”).
Lo studio in questione verte sulla natura e la funzione della prospettiva lineare vista come forma simbolica generale ed esaminata interculturalmente. La prospettiva di cui si parla è quella la cui invenzione noi attribuiamo al Rinascimento fiorentino, e naturalmente non abbiamo torto nel farlo. Quello che però, nella maggior parte dei casi, ignoriamo è che dal punto di vista logico e storico la prospettiva lineare è un’invenzione araba. Alle sue basi c’è il tentativo di risolvere la matematica e la fisica della visione di quel grande scienziato irakeno che fu Alhazen (vissuto intorno all’anno mille).
Ci si chiede a questo punto come mai una scoperta tanto creativa abbia avuto bisogno di secoli e di tanti chilometri (per l’appunto quelli da Bagdad a Firenze) per realizzare le sue premesse in maniera completa. La risposta sta nel divieto di immagine che caratterizza la cultura arabo-islamica.
L’Occidente è in grado di trasformare la scienza in immagine, ma il mondo arabo non può seguirlo su questa linea. Se ne possono tratte due conclusioni direi sconcertanti. Da un lato, il nostro modo di vedere abituale che divide le “due culture”, quella scientifica e quella artistica, ha poco senso se pensiamo alla prospettiva lineare e alla sua centralità estetica. Si tratta infatti di un oggetto scientifico che diventa struttura fondante del discorso estetico. Dall’altro lato, la distinzione tra Occidente e Oriente e ne esce enormemente ridimensionata.
La prospettiva nasce in Irak, trionfa in Italia, e soprattutto - come dice Belting in pagine intellettualmente appassionanti- ritorna come strumento di imposizione coloniale. In India, in Cina, In Giappone e persino nel mondo musulmano -come ci ha fatto scoprire, tra gli altri, Pahmuk in un famoso romanzo - la prospettiva ritorna sull’onda del potere politico ed economico occidentale addirittura come metodo di conversione. Accettare la prospettiva diventa così un modo per partecipare al clima della modernità.
Non senza ironia implicita, Belting mostra come lo strumento analitico originalmente (medio)-orientale viene impiegato dall’Occidente per catechizzare gli orientali...Le conseguenze politico-culturali della tesi di Belting sono tanto evidenti quanto scioccanti: il mito dell’Occidente imperialistico fondato sulla razionalità matematizzante della prospettiva lineare non è Occidentale! È invece una filiazione della avanzata cultura scientifica del Middle East.
Il tutto si complica se seguiamo le avventure della “camera oscura”, sempre sulla scia di Alhazen e i percorsi del Rinascimento fiorentino tra Brunelleschi e Piero della Francesca. Di certo, si evince dal libro la necessità di uno sguardo meno provinciale e più globale sull’arte visuale in specie e sulla storia della cultura in genere.
Intrecci
Tolomeo, le mappe e la prospettiva
L’arte è una questione geografica
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, 12.11.2015)
Per Mark Rothko, alla metà del secolo scorso, il problema era «ricondurre lo spettatore dentro l’immagine» dipinta, il diavolo nella bottiglia. Ma quando ne era uscito?
La questione riguarda la storia dell’arte, certo, ma la risposta è letteralmente geografica. Senza la riscoperta della Geografia di Tolomeo, avvenuta a Firenze nei primissimi anni del Quattrocento, non vi sarebbe stata l’invenzione della prospettiva lineare moderna, che Erwin Panofsky chiamava «artificiale» per distinguerla da quella naturale degli antichi. E senza la prospettiva fiorentina non vi sarebbe stata l’intera modernità.
Non vi sarebbe stato lo spazio inteso come riduzione della faccia della Terra a complesso di parti l’un l’altra interscambiabili, primo «regno dell’equivalenza generale», come più tardi Marx dirà del mercato. Non vi sarebbe stato lo Stato, macchina spaziale che oggi mostra la sua ruggine.
Prima ancora, non vi sarebbe stata appunto la distanza tra spettatore e immagine da cui lo spazio trae origine, quel divario tra i terminali del processo cognitivo cui a metà del Seicento Cartesio darà veste canonica ma che nasce in forma esemplare e allo stesso tempo concretissima sotto il portico dell’Ospedale degli Innocenti, concepito da Brunelleschi qualche mese dopo la traduzione latina del testo tolemaico: il testo che, anche se finora quasi nessuno se ne è accorto, è proprio il libro che «facea tutta la guerra», il volume che nell’Orlando Furioso il mago Atlante tiene in mano per incantare il reale, sicché quest’ultimo «al falso più che al ver si rassomiglia».
La prospettiva moderna, la tecnica di ricondurre a misura l’intervallo spalancato tra il soggetto e l’oggetto, è insomma nient’altro che la traduzione orizzontale del verticale dispositivo geometrico che nell’opera di Tolomeo serve a trasformare la sfera terrestre in una mappa, dunque a sottrarre una dimensione al mondo: marchingegno che i traduttori moderni chiameranno proiezione, termine che deriva dall’alchimia e che segnala la precisa consapevolezza di avere a che fare con la più grande metamorfosi che si possa immaginare.
Nasceva in tal modo lo spazio della modernità, un ordine visivo generale in grado di informare nel corso del tempo non soltanto il pensiero plastico di tutto il pianeta ma, come codice dell’organizzazione territoriale, di soppiantare ovunque la vecchia logica dei luoghi. E in funzione di tale ricostituita genealogia, per cui il discorso artistico diventa un’estensione ed un’articolazione di quello geografico, molti problemi acquistano una veste inedita, e una nuova formulazione.
Un solo esempio: il celebre dibattito sul primato delle arti, la disputa se la suprema forma d’espressione fosse la pittura o la scultura, che tra Cinque e Seicento coinvolse in Italia i massimi artisti e fior di teorici.
A rileggere oggi i loro scritti appare evidente come i partigiani della pittura fossero tolemaici fino in fondo, perché difensori dell’unicità del punto di vista e di conseguenza dell’immobilità del soggetto: condizione essenziale per la riuscita del trucco prospettico come faceva notare Pavel Florenskij, stupito di come lo spettatore sembrasse paralizzato, quasi fosse stato avvelenato col curaro.
Rivendicando al contrario la pluralità dei punti di vista, Benvenuto Cellini e i pochissimi altri sostenitori del primato della scultura sulla pittura implicavano un registro della figurazione assolutamente opposto, non soltanto perché fondato sulla mobilità del soggetto, ma anche per una ragione inscritta ancor più nel profondo della cultura occidentale.
Nella geometria classica noi chiamiamo definizioni ciò che per Euclide sono veri e propri limiti, qualcosa cioè che il ragionamento non può oltrepassare, e cui egli dà letteralmente il nome di «montagne». Come dire che sotto tal profilo Cellini e compagni risultano non soltanto anti-tolemaici ma prima ancora anti-euclidei, sostenendo non soltanto la molteplicità delle visuali ma anche la necessità del loro raccordo: dunque un «sistema figurativo» (avrebbe detto Pierre Francastel) assolutamente anti-spaziale, riflesso non della pianura (di cui la superficie sulla quale si tracciano le linee è per Euclide e Tolomeo evidentemente la copia) ma della pratica dell’ambito montano, in cui a ogni passo la veduta può cambiare, e il soggetto deve continuamente connetterla alle precedenti. Nel segno dunque di un’altra possibile geografia, anch’essa sconfitta dalla storia.
Le nuove sfide
La Terra è una testa: ripartiamo dalla lezione di Tolomeo
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, La Lettura, 03.01.2015)
«La Terra è una testa», spiegava al tempo dell’impero romano Tolomeo, egiziano ma l’ultimo dei sapienti greci. Fin d’allora la Terra era, con le parole di Ferecide di Siro, un insieme di forme (di fiumi, di monti, di castelli, di città) ricamate su un mantello addossato sul sottostante corpo della Terra stessa, di fatto inconoscibile appunto perché nascosto in tal modo allo sguardo.
La modernità è finita, circa mezzo secolo fa, quando la velocità del cambiamento delle forme terrestri ha messo in crisi la plausibilità stessa del loro statico disegno, della loro inerte rappresentazione. I ghiacciai che, sciogliendosi per la mutazione del clima, fanno aumentare oggi il livello del mare alterando le linee di costa, mettono allo stesso tempo a nudo terre mai viste: al punto che l’intera geografia dell’Artico è da rifare, perché nuove isole e penisole affiorano, nuove rotte diventano praticabili, nuovi possibili Mediterranei si configurano.
I lineamenti della faccia della Terra cambiano, e una prima curiosità si riferisce ancora all’inventario del loro assetto, alla ricognizione delle loro inedite fattezze. Questo riguarda però la geografia, che non è la descrizione della Terra, ma è la descrizione per cui il mondo viene ridotto alla Terra e la Terra appunto alla sua superficie, sotto la quale si cela tutto il resto. -A quest’ultimo la frase di Tolomeo si riferisce, e da essa oggi bisogna ripartire perché, qualsiasi cosa sia la globalizzazione, essa significa prima d’altro il recupero del tridimensionale corpo terrestre: il globo appunto. Ed è in tale senso che la lezione tolemaica va ripresa, nel senso della curiosità circa la natura dei nostri modelli cognitivi, ovvero dei nuovi modelli da approntare con urgenza per tentare di afferrare il nuovo funzionamento del mondo.
Come avvertiva Kant: per capire non bisogna fare la geografia di ciò che si vede, bensì «la geografia dello spazio buio della nostra mente». Dove mente sta appunto per testa e insieme, tolemaicamente, per il globulare, complessivo apparato del nostro pianeta, finalmente riconosciuto per quello che esso è.
il profilo di un’isola
La Sicilia dell’arabo Al-Idrisi e l’esplorazione immaginaria che è l’incanto di ogni libro
di Franco Farinelli (Corriere della Sera, 15.06.2016)
«In via patria» era il motto di Sant’Agostino, vale a dire: la sola patria è il viaggio. E in tempi più vicini a noi un poeta, Ǒsip Mandel’stam, ricordava che «una volta chi non aveva viaggiato non osava scrivere». Al tempo di al Idrisi, nato non molto lontano da dove Agostino aveva iniziato il proprio cammino, sulla faccia della Terra ancora si muoveva ogni cosa, gli esseri umani ma anche la Terra stessa, sebbene non tutte le sue parti allo stesso modo. Una regione, la Sicilia detta allora Trinacria, si distingueva per la sua mobilità, cioè per la propria funzione di piattaforma di ogni traffico e commercio, al punto che una figura a tre gambe, l’antico simbolo orientale del triskelis, ne riassumeva la natura.
Che la Sicilia avesse forma triangolare era noto da quando i primi marinai ne avevano doppiato in fila i tre capi. Ma che tra un capo e l’altro s’interponesse un vettore orientato ovvero un organo di locomozione era qualcosa che soltanto l’esattezza del mito poteva dire, e che nessuna geometria avrebbe saputo rappresentare. Proprio anzi al rifiuto di ogni modello geometrico il simbolo del triskelis, che fa dell’isola una girandola per bambini, deve la propria efficacia e la propria funzione di verità: di capi, cioè di teste, ve n’è soltanto uno, al centro, e i vertici dell’isola corrispondono all’estremità dei tre arti che da esso si estendono per puntare verso est, sud ed ovest.
Non verso nord, e questo al Idrisi non l’avrebbe compreso. Nel 1139 re Ruggero di Sicilia gli comanda di raccogliere ed esporre in forma sintetica tutte le informazioni possibili su tutti i Paesi del mondo allora conoscibile. Ed egli non può ignorare, anche in virtù dell’origine normanna del suo signore, le contrade settentrionali (come l’Estonia e la Finlandia) fino ad allora restate allo scarto dalla concezione mediterranea dell’ecumene, termine con il quale i Greci indicavano il mondo abitato e conosciuto. Prima di morire, Ruggero fece appena in tempo ad ammirare il risultato del lavoro, costato quindici anni di fatica: un enorme planisfero inciso su una lastra d’argento del peso di 150 chili, ed un libro composto di carte e descrizioni intitolato Lo svago per chi brama di percorrere le regioni, rimasto celebre tra gli Arabi con il nome di «libro di Ruggero», il libro da cui muovono oggi gli itinerari suggeriti dalla rassegna «Paesaggi di mare», promossa dall’Assessorato al Turismo, Sport e Spettacolo della Regione Siciliana.
Ancora più suggestivo è il titolo della seconda edizione del testo, approntata da al Idrisi per Guglielmo II, che succede a Ruggero: Giardino di diletto e svago dell’anima, oggi perduto. Una terza redazione, che sopravvive in forma di manoscritto, gli fa eco: Giardino di divertimenti e svago degli spiriti. Soltanto nel rileggere questi titoli diventa finalmente comprensibile l’origine dell’accusa di pigrizia che Baudelaire, all’inizio de I fiori del male, rivolge all’«ipocrita» lettore, che dunque è pigro proprio perché in virtù del libro è esentato dalla fatica del viaggio, dal travaglio del cammino, dalla pena dell’esplorazione. Come dire che ogni libro è un libro di geografia perché ogni libro sostituisce all’esperienza concreta delle cose terrestri il loro racconto.
Ma nemmeno del racconto di al Idrisi ci si può fidare del tutto, come mille anni prima di lui aveva spiegato Tolomeo, un altro geografo africano - e il «libro di Ruggero» deve ancora molto alla descrizione tolemaica. Spiega Tolomeo che il modello più fedele della Terra sarebbe una sfera, ma più un modello è fedele più non serve a nulla. Il globo, ad esempio, più è grande più è scomodo, perché per avere qualche informazione bisogna di continuo girarvi intorno o farlo ruotare con le mani. Perciò, suggeriva Tolomeo, fate delle mappe: comodamente seduti vedrete subito con un solo sguardo tutto quello che vi serve. Che è appunto quello che anche i lettori del «libro di Ruggero» sono indotti a fare. Ma soltanto per consentire alla propria fantasia, alla propria anima, al proprio spirito, di dischiudersi e prendere il volo. Qualcosa che Tolomeo a suo tempo ignorava e Baudelaire già disconosceva, ma che al Idrisi, evidentemen te, invece sapeva benissimo.
Le radici della nostra cultura scientifica
di Giorgio Nebbia (Eddyburg, 13 Luglio 2015) *
Nei giorni scorsi è morto a 83 anni l’attore egiziano Omar Sharif, interprete di molti film di successo fra cui il Dottor Zivago (1965). Ma c’è un suo ultimo film che sarà in distribuzione nel prossimo autunno, 1001 invenzioni e il mondo di Ibn al-Haytham, dedicato al contributo dell’Islam alla cultura tecnico-scientifico mondiale. L’Islam, nato come movimento religioso monoteista, fondato da Maometto in Arabia, nel corso di tre secoli si era esteso dai confini con la Cina, a oriente, all’Europa e all’Oceano Atlantico a occidente. I musulmani governavano l’Egitto e i paesi dell’Africa settentrionale e occidentale, la Spagna e la Sicilia, il Medio Oriente, la Mesopotamia, la Persia, parte dell’Asia centrale, una grande “nazione” i cui popoli in breve raggiunsero un elevato livello di vita e di benessere economico.
L’Islam fu temuto e anche ammirato dall’Occidente cristiano medievale; San Francesco, mentre erano in corso le sanguinose crociate fra cristiani e musulmani, non esitò ad incontrare, con reciproco rispetto, nel 1219 il “nemico” Califfo al-Malik al-Kamil, lo stesso incontrato, dieci anni dopo, da Federico II, l’imperatore cristiano che ebbe ministri e soldati musulmani; per inciso Lucera, in provincia di Foggia, è stata a lungo una città ”saracena”. Nella loro “età dell’oro, dall’800 al 1200 dell’era cristiana, migliaia di studiosi musulmani hanno tradotto in arabo le opere degli scienziati greci, molte delle quali sconosciute nel mondo latino, e ne hanno rielaborato le conoscenze nel campo della matematica, della fisica, della medicina, dell’ingegneria. Ben presto molti di questi scritti sono stati tradotti dall’arabo in latino e, attraverso il mondo musulmano, la cultura greca è tornata, arricchita, in Occidente, ulteriormente diffusa poi dopo l’invenzione della stampa.
Gli abitanti di un così vasto territorio, in cui circolavano e si incontravano popoli diversissimi, avevano dovuto risolvere innumerevoli problemi tecnico scientifici ed ecologici; diffusero la coltivazione di nuove piante alimentari come la canna da zucchero (che arrivò fino in Sicilia) e nuove tecniche di trasformazione dei prodotti agricoli; per dare acqua ai campi e alle popolose città furono inventati metodi di sbarramento dei fiumi con dighe e di trasporto e sollevamento dell’acqua dai pozzi. Occorrevano macchine e fonti di energia e gli Arabi inventarono dispositivi per trasformare il moto rotatorio in moto lineare, quelle norie che sono sopravvissute fino a poco tempo fa nelle campagne pugliesi; e poi macchine azionate dall’energia del moto delle acque e dal vento, proprio le fonti rinnovabili di energia a cui siamo costretti a rivolgerci noi oggi, dopo aver dissipato enormi quantità di petrolio.
Nelle città gli Arabi sapeva risolvere problemi di smaltimento delle acque usate e dei rifiuti; in difesa dell’igiene pubblica esistevano ospedali presso cui veniva praticata della medicina e chirurgia di avanguardia. Attraverso le traduzioni dall’arabo sono arrivate in Europa le conoscenze della chimica, il cui stesso nome deriva da una parola araba, come di derivazione araba sono i nomi degli alambicchi, dell’alcol, degli alcali, eccetera. Nelle città musulmane esisteva un servizio pubblico di repressione delle frodi alimentari; nel mondo islamico esistevano vivaci scambi commerciali anche fra paesi lontanissimi, e con le merci i viaggiatori musulmani hanno portato in Occidente le invenzioni cinesi della carta e della bussola, le spezie e la giada.
Dopo un lungo declino, da molti decenni, soprattutto con i profitti assicurati dal petrolio, in molti paesi islamici, pur con mille contraddizioni, stanno nascendo modernissime università, biblioteche, centri di ricerca scientifica e soprattutto sta nascendo un senso di orgoglio per il contributo che l’Islam ha dato alla civiltà universale.
Una ventina di anni fa è stato lanciato il programma “1001 invenzioni” (il numero si riferisce alle “Mille e una notte”, la famosa raccolta di racconti arabi) per ricordare le tante innovazioni di scienziati, medici e “ingegneri” arabi medievali, passate in Europa e che sono alla base di molte delle nostre conoscenze; tali invenzioni sono descritte in un bel volume illustrato che ha già avuto tre edizioni (non tradotto in italiano). In questo ambito è stato realizzato anche il film con Omar Sharif, citato all’inizio e dedicato ad Ibn al-Haytham (965-1040), il grande fisico e medico (noto in Occidente come Alhazen), a cui siamo debitori di scoperte fondamentali, come le leggi del movimento della luce, della rifrazione, cioè di come la luce “cambia di direzione” passando dall’aria all’acqua, le leggi della concentrazione della luce solare mediante specchi, proprio quelli usati oggi in molte grandi centrali solari, la scoperta della “camera oscura”, il fenomeno ottico alla base delle macchine fotografiche e cinematografiche, la struttura e la fisiologia dell’occhio, la soluzione di delicati problemi matematici. Un doveroso tributo in questo “Anno internazionale della Luce”.
A titolo di curiosità, nel millesimo anniversario della nascita di Alhazen, esattamente cinquant’anni fa, si tenne anche nell’Università di Bari una conferenza che fu poi trasformata in un lungo articolo pubblicato nella rivista Physis, fondata a Firenze da Vasco Ronchi (1920-2012), il grande studioso di ottica e di storia dell’ottica.
Il riconoscere il contributo dell’Islam alla nostra civiltà ha anche lo scopo di ricordare e insegnare che soltanto le conoscenze e il rispetto reciproco neutralizzano i conflitti politici ed economici e la violenza e fanno progredire i paesi, tutti, in questo mondo globalizzato.
* Inviato contemporaneamente a La Gazzetta del Mezzogiorno
Le grandezze dell’autentico Califfato
La storia usurpata dai fondamentalisti
di Lorenzo Cremonesi (Corriere della Sera, 14.07.2014)
Un giorno forse qualcuno riuscirà a dire al signor Ibrahim Awwad Al-Samarrai, meglio noto col nome di battaglia di Abu Bakr Al-Bagdadi, che ha preso un granchio. Il 29 giugno nella moschea di Mosul si è auto-proclamato signore indiscusso del «nuovo Califfato» sunnita tra Iraq e Siria.
E, abusando di questo titolo ripreso dalla culla della storia araba classica, fa la guerra «santa» agli sciiti, attacca le milizie sunnite moderate in Siria, perseguita i cristiani, promette di conquistare «Roma, Bisanzio e Cordoba», ruba, tortura, uccide, minaccia di attaccare Bagdad e destabilizzare l’intera regione. Dimostrando di ignorare che proprio il Califfato di Bagdad fu l’epoca d’oro della cultura islamica. Ma non nei termini della crociata wahabita intollerante da lui propagata. Tutto il contrario.
Dal 750 d.C., sino all’invasione mongola del 1258, la dinastia califfale degli Abbasidi fece di Bagdad un formidabile centro di studi, tollerante, aperto al mondo, curioso di tutto ciò che fosse diverso e sconosciuto. Al-Bagdadi magnifica il sacrificio degli «shahid», i martiri della sua guerra santa?
Non sa che oltre mille anni fa il Califfo Harun al Rashid impose alla sua città la massima più famosa di quell’epoca di grande rinascimento: «L’inchiostro di uno studioso è più sacro del sangue di un martire». E volle che proprio nei palazzi più lussuosi lungo il Tigri, chiamati «la casa della saggezza», venissero ospitati scienziati, letterati, matematici, astronomi, filosofi. Non importa se ebrei, cristiani nestoriani, cinesi, indiani.
Grazie a loro il Medioevo cristiano ricevette i capolavori della filosofia greca: i Presocratici, Platone, Aristotele, gli Scettici. E poi i classici latini, bizantini, ebraici. Mentre l’Europa era nel pieno dei «secoli bui», lungo il Tigri tramandavano la geometria euclidea, studiavano le stelle, esaltavano gli studi empirici.
A Bagdad lavorò Ibn Al-Haytham, precursore delle scienze ottiche; insegnò il medico persiano Avicenna (Ibn Sina); fu letto e diffuso Averroè (Ibn Rushd), il padre arabo della rivoluzione copernicana. E poi, offesa di tutte le offese per i nuovi censori di Mosul, vi fu stilato uno dei cicli di racconti raccolti nelle Mille e una Notte: sensuale, libertino, provocante, intelligente.