La filosofia di Eco
“Il pensiero è un manuale senza confini”
Lo scrittore e semiologo ha curato un libro per le scuole con Riccardo Fedriga
“Sognavo un testo che agganciasse la storia delle idee al resto della cultura”
intervista di Antonio Gnoli (la Repubblica, 20.02.2014)
«Certamente e, oltre al fatto che è disponibile anche in forma digitale, contiene numerosi richiami a una informazione additiva che lo studente potrebbe trovare online. Il manuale vorrebbe essere un buon esempio di collaborazione tra cartaceo e digitale. Non è vero che, come diceva il personaggio di Hugo, “questo ucciderà quello”».
Una storia della filosofia destinata agli studenti liceali ma anche a chi voglia accostarvisi senza eccessivi timori reverenziali. Duemila e cinquecento anni di saperi filosofici - dai presocratici al Novecento - che Umberto Eco e Riccardo Fedriga hanno disegnato con ricchezza di dettagli.
Dei tre volumi (Storia della filosofia, editori Laterza e Encyclomedia Publishers), di cui l’opera si compone, per ora è apparso il primo: Dall’antichità al medioevo (euro 25,90). Ne parliamo con Eco.
Che cosa ha di diverso, o di più, questo manuale rispetto non solo ai vecchi classici (tipo Lamanna) ma anche ai più recenti (Abbagnano-Fornero)?
«Ho rischiato, al liceo, di dover studiare sull’orrendo e incomprensibile Lamanna, ma per fortuna ho avuto uno splendido professore di filosofia che ci aveva fatto comprendere come la filosofia si sviluppasse in un più vasto ambiente culturale - per cui, anche se i programmi non lo prevedevano, ci spiegava persino chi fosse Freud. Ho sempre sognato un manuale di filosofia che legasse la filosofia al suo ambiente culturale. All’università, poi, ho avuto la fortuna di avere come professore Abbagnano e sono cresciuto sulla sua storia della filosofia (all’Abbagnano-Fornero ho poi anche collaborato) ».
E non era sufficiente?
«Diciamo che ho avuto sempre voglia di fare un manuale più interdisciplinare. E un autore solo non basta. Con Riccardo Fedriga abbiamo riunito una squadra di specialisti di alto livello, in modo che ogni filosofo o corrente fossero visti da chi li conosceva a fondo. Il lavoro di noi due curatori (oltre che di collegare e unificare gli interventi, di scrivere certi capitoli in proprio) è stato quello di inserire approfondimenti e raccordi interdisciplinari. Ecco perché, per esempio, nel primo volume c’è un’ampia scheda sui pretesi terrori dell’Anno Mille, o si parla del Corpus Hermeticum e dello gnosticismo: si tratta di aspetti della cultura che influenzavano anche i filosofi. E inoltre non ha funzione esornativa l’apparato iconografico, perché dovrebbe servire a capire meglio in che ambiente culturale si muovevano i filosofi.
Qual è il pregio e i limiti del sapere manualistico?
«Nessuno al mondo può aver letto a fondo tutti i testi della storia del pensiero, dai presocratici agli analitici anglosassoni. I manuali suppliscono a questa situazione inevitabile. Ma i manuali devono essere integrati dal professore (che si spera bravo). Il nostro manuale, con le sue schede, le sue esplorazioni a latere, i suoi approfondimenti, permette al professore di fare delle scelte e di attirare l’attenzione dello studente sui punti che gli paiono più rilevanti. Voglio dire che il manuale non prende per mano il lettore facendogli fare un percorso obbligato, ma permette all’insegnante (o allo studente molto autonomo) di disegnarsi dei percorsi più personalizzati».
Sulla filosofia ci sono diverse definizioni e lei stesso le richiama nel testo introduttivo. Ma la filosofia necessita di una definizione?
«Senta, o invito a leggere tutto il manuale o la finiamo lì: diciamo che il fascino di una storia della filosofia è di mostrare quante definizioni di filosofia potrebbero esserci e ci sono state, e quella a cui pensava Aristotele non è la stessa a cui pensava, che so, Russell. Inoltre bisogna considerare che la figura del filosofo accademico nasce solo nell’Ottocento, e prima ad occuparsi di filosofia erano persone che si interessavano anche alle scienze naturali (Aristotele), alla teologia (san Tommaso), alla geometria (Cartesio), al calcolo differenziale (Leibniz) e così via. Un manuale di storia della filosofia deve aiutare a scoprire che si è fatta filosofia anche quando ci si occupava di tante altre cose ».
La domanda filosofica più drammatica, lei scrive, è «perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?». Non le sembra che sia forse la più oziosa tra le domande?
«Visto che se la sono posta grandi pensatori che non avevano tempo da perdere, non dovrebbe essere oziosa. Il problema è perché qualcuno se la sia posta (o forse senza rendersene conto se la pone ciascuno di noi). Non è una domanda a cui possiamo dare risposta, ovvero la cui risposta è il fatto stesso che ce la possiamo porre. Voglio dire che se la pone solo qualcuno che in qualche modo c’è. Per dirla con parole grosse, noi viviamo nell’Essere e possiamo porci la domanda perché ci sia dell’essere solo perché c’è dell’essere. Se ci fosse solo il nulla non potremmo porci la domanda, ma la questione è che il nulla non esiste».
Perciò è irrilevante.
«No. Il fatto che ci sia dell’essere è la ragione per cui siamo portati a porre la domanda e pertanto la domanda ha una sola risposta: “Perché sì”, perché se non ci fosse qualcosa non potremmo neppure pensare che non potrebbe esserci. Poi le varie filosofie hanno proposto risposte indirette, per esempio postulando all’origine Dio come l’Essere per eccellenza, o pensando che il mondo fosse eterno. Nel primo caso la risposta si trasforma nella domanda successiva, perché c’è Dio piuttosto di niente (e questa sarebbe davvero una domanda oziosa). Nel secondo caso, se il mondo è eterno, non puoi chiederti perché c’è. C’è, e basta».
La filosofia nasce in Grecia. La sua peculiarità è dunque di essere un sapere pienamente occidentale?
«Così come la conosciamo noi, sì. Certo sarebbe ideale un manuale che spiegasse anche come pensavano gli indiani, o i cinesi, e persino certe tribù dette primitive. Esistono aspetti che noi diremmo filosofici in molte tradizioni religiose, esiste certamente una filosofia cinese. Ma, a parte il fatto che nessuno avrebbe tempo e competenza per occuparsi di tutte queste cose, noi viviamo nella cultura occidentale e questa nasce in Grecia e di lì si sviluppa. E con questa tradizione occidentale fanno i conti anche gli appartenenti ad altre civiltà, specie in un’era di globalizzazione. Sarebbe bello conoscere tutte le forme di pensiero non europee, ma oltretutto un manuale di filosofia deve seguire le linee dettate dai programmi ministeriali, e non sarebbe adottabile un manuale che parli solo dei miti Bororo o dello Zen. Peraltro faccio osservare che il nostro manuale, come ormai avviene in tutte le buone storie della filosofia, tiene conto per esempio della filosofia araba e di quella ebraica, senza le quali non si potrebbe capire lo sviluppo della filosofia occidentale».
La convince che le due linee maestre della filosofia greca furono Platone e Aristotele?
«È stato detto che tutta la storia della nostra filosofia altro non è che un commento a Platone ma io direi che è anche un commento ad Aristotele. Quindi stiamo parlando di due linee maestre di tutta la storia della filosofia occidentale».
Perché i romani, a differenza dei greci, svilupparono poco il pensiero filosofico?
«Potrei rispondere paradossalmente che erano interessati a conquistare e a organizzare il mondo piuttosto che a capirlo. Erano bravi a fare leggi, acquedotti e guerre e non erano gran che portati alla metafisica. E per il resto erano stati conquistati dal pensiero greco. Tuttavia non si devono trascurare pensatori come Seneca, o Lucrezio (nel suo caso vedi come, per la storia del pensiero, sia fondamentale conoscere anche un poeta)».
Questo primo volume del manuale abbraccia l’epoca antica e quella medievale. La filosofia medievale, di cui lei si è occupato in maniera approfondita, è più un salto o una continuità con l’antico?
«Pensiamo all’avvento del cristianesimo come a un salto, ed è vero, ma il pensiero cristiano ha sempre cercato di presentarsi come continuazione e sviluppo della filosofia greca. Difficile pensare a san Tommaso senza coinvolgere Aristotele, per non dire del peso del neoplatonismo nel pensiero medievale. E nel secondo volume si parlerà dell’influenza di Platone nel Rinascimento».
C’è un’epoca del mondo antico - a me verrebbe da pensare all’Ellenismo - che somiglia alla nostra (la crisi la transizione, eccetera)?
«Sì, ma (sia pure scherzando) le dirò che per una piccola somma potrei dimostrare paralleli con ogni epoca. Una storia della filosofia serve anche a suggerire questi paralleli. Il lettore del manuale dovrebbe sovente esplodere in atti di meraviglia, “sembra proprio che quei signori così lontani da noi si occupassero di problemi che sono anche i nostri!”».
Come spiega il perdurante successo di pubblico (soprattutto di piazza) della filosofia rispetto ad altri saperi?
«C’è persino una commercializzazione della filosofia, coi caffè filosofici parigini, e un tentativo di “vendere” la filosofia come strumento terapeutico. Un mio giovane maestro, immaturamente scomparso quando ero ancora studente, Giovanni Cairola, aveva scritto un saggio che si intitolava La filosofia non consola. Ma in definitiva è proprio in un periodo di moltiplicazione e frammentazione dei saperi che si cercano risposte unitarie, ed è questo che fa ancora e sempre la filosofia. Si è detto paradossalmente che la filosofia pone solo domande per cui non c’è risposta, ma direi meglio che è una forma di pensiero critico che cerca di dare risposte là dove le scienze non arrivano e giustamente si fermano. Ed è un buon esercizio per la nostra mente, persino quando le risposte sono sbagliate ».
Mi pare che il manuale tenga conto che lo studente vive nell’epoca del web.
RETORICA, FILOSOFIA, E POLITICA:
Uno spettro (di Marx) si aggira nella globalizzazione
di Umberto Eco (La Stampa-TuttoLibri, 03.10.2015)
Non si può sostenere che alcune belle pagine possano da sole cambiare il mondo. L’intera opera di Dante non è servita a restituire un Sacro Romano Imperatore ai comuni italiani. Tuttavia, nel ricordare quel testo che fu il Manifesto del Partito Comunista del 1848, e che certamente ha largamente influito sulle vicende di due secoli, credo occorra rileggerlo dal punto di vista della sua qualità letteraria o almeno - anche a non leggerlo in tedesco - della sua straordinaria struttura retorico-argomentativa.
Nel 1971 era apparso il libretto di un autore venezuelano, Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, poi tradotto da Bompiani nel 1973. Credo sia ormai introvabile e varrebbe la pena di ristamparlo. Rifacendo anche la storia della formazione letteraria di Marx (pochi sanno che aveva scritto anche delle poesie ancorché, a detta di chi le ha lette, bruttissime), Silva andava ad analizzare minutamente tutta l’opera marxiana.
Curiosamente dedicava solo poche righe al Manifesto, forse perché non era opera strettamente personale. È un peccato: si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e (se proprio la società capitalistica intende vendicarsi dei fastidi che queste non molte pagine le hanno procurato) dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari.
Inizia con un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven: «Uno spettro si aggira per l’Europa» (e non dimentichiamo che siamo ancora vicini al fiorire preromantico e romantico del romanzo gotico, e gli spettri sono entità da prendere sul serio). Segue subito dopo una storia a volo d’aquila sulle lotte sociali dalla Roma antica alla nascita e sviluppo della borghesia, e le pagine dedicate alle conquiste di questa nuova classe «rivoluzionaria» ne costituiscono il poema fondatore - ancora buono oggi, per i sostenitori del liberismo.
Si vede (voglio proprio dire «si vede», in modo quasi cinematografico) questa nuova inarrestabile forza che, spinta dal bisogno di nuovi sbocchi per le proprie merci, percorre tutto l’orbe terraqueo (e secondo me qui il Marx ebreo e messianico sta pensando all’inizio del Genesi), sconvolge e trasforma paesi remoti perché i bassi prezzi dei suoi prodotti sono l’artiglieria pesante con la quale abbatte ogni muraglia cinese e fa capitolare i barbari più induriti nell’odio per lo straniero, instaura e sviluppa le città come segno e fondamento del proprio potere, si multinazionalizza, si globalizza, inventa persino una letteratura non più nazionale bensì mondiale.
È impressionante come il Manifesto avesse visto nascere, con un anticipo di centocinquant’anni, l’era della globalizzazione, e le forze alternative che essa avrebbe scatenato. Come a suggerirci che la globalizzazione non è un incidente avvenuto durante il percorso dell’espansione capitalistica (solo perché è caduto il muro ed è arrivato internet) ma il disegno fatale che la nuova classe emergente non poteva evitare di tracciare, anche se allora, per l’espansione dei mercati, la via più comoda (anche se più sanguinosa) si chiamava colonizzazione. È anche da rimeditare (e va consigliato non ai borghesi ma alle tute di ogni colore), l’avvertimento che ogni forza alternativa alla marcia della globalizzazione, all’inizio, si presenta divisa e confusa, tende al puro luddismo, e può venire usata dall’avversario per combattere i propri nemici.
Alla fine di questo elogio (che conquista in quanto è sinceramente ammirato), ecco il capovolgimento drammatico: lo stregone si trova impotente a dominare le potenze sotterranee che ha evocato, il vincitore è soffocato dalla propria sovraproduzione, è obbligato a generare dal proprio seno, a far sbocciare dalle proprie viscere i suoi propri becchini, i proletari.
Entra ora in scena questa nuova forza che, dapprima divisa e confusa, si stempera nella distruzione delle macchine, viene usata dalla borghesia come massa d’urto costretta a combattere i nemici del proprio nemico (le monarchie assolute, la proprietà fondiaria, i piccoli borghesi), via via assorbe parte dei propri avversari che la grande borghesia proletarizza, come gli artigiani, i negozianti, i contadini proprietari, la sommossa diventa lotta organizzata, gli operai entrano in contatto reciproco a causa di un altro potere che i borghesi hanno sviluppato per il proprio tornaconto, le comunicazioni. E qui il Manifesto cita le vie ferrate, ma pensa anche alle nuove comunicazioni di massa (e non dimentichiamoci che Marx ed Engels nella Sacra famiglia avevano saputo usare la televisione dell’epoca, e cioè il romanzo di appendice, come modello dell’immaginario collettivo, e ne criticavano l’ideologia usando linguaggio e situazioni che esso aveva reso popolari).
A questo punto entrano in scena i comunisti. Prima di dire in modo programmatico che cosa essi sono e che cosa vogliono, il Manifesto (con mossa retorica superba) si pone dal punto di vista del borghese che li teme, e avanza alcune terrorizzate domande: ma voi volete abolire la proprietà? Volete la comunanza delle donne? Volete distruggere la religione, la patria, la famiglia?
Qui il gioco si fa sottile, perché il Manifesto a tutte queste domande sembra rispondere in modo rassicurante, come per blandire l’avversario - poi, con una mossa improvvisa, lo colpisce sotto il plesso solare, e ottiene l’applauso del pubblico proletario... Vogliamo abolire la proprietà? Ma no, i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetto di trasformazioni, la Rivoluzione francese non ha forse abolito la proprietà feudale in favore di quella borghese? Vogliamo abolire la proprietà privata? Ma che sciocchezza, non esiste, perché è la proprietà di un decimo della popolazione a sfavore dei nove decimi. Ci rimproverate allora di volere abolire la «vostra» proprietà? Eh sì, è esattamente quello che vogliamo fare.
La comunanza delle donne? Ma suvvia, noi vogliamo piuttosto togliere alla donna il carattere di strumento di produzione. Ma ci vedete mettere in comune le donne? La comunanza delle donne l’avete inventata voi, che oltre a usare le vostre mogli approfittate di quelle degli operai e come massimo spasso praticate l’arte di sedurre quelle dei vostri pari. Distruggere la patria? Ma come si può togliere agli operai quello che non hanno? Noi vogliamo anzi che trionfando si costituiscano in nazione...
E così via, sino a quel capolavoro di reticenza che è la risposta sulla religione. Si intuisce che la risposta è «vogliamo distruggere questa religione», ma il testo non lo dice: mentre abborda un argomento così delicato sorvola, lascia capire che tutte le trasformazioni hanno un prezzo, ma insomma, non apriamo subito capitoli troppo scottanti.
Segue poi la parte più dottrinale, il programma del movimento, la critica dei vari socialismi, ma a questo punto il lettore è già sedotto dalle pagine precedenti. E se poi la parte programmatica fosse troppo difficile, ecco un colpo di coda finale, due slogan da levare il fiato, facili, memorizzabili, destinati (mi pare) a una fortuna strepitosa: «I proletari non hanno da perdere che le loro catene» e «Proletari di tutto il mondo unitevi».
A parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica (e non solo) e dovrebbe essere studiato a scuola insieme alle Catilinarie e al discorso shakespeariano di Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Anche perché, data la buona cultura classica di Marx, non è da escludere che proprio questi testi egli avesse presenti.
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IN MEMORIA DI ENZO PACI E DELLA SUA RISPOSTA A VICO....
IL PROBLEMA GIAMBATTISTA VICO. CROCE IN INGHILTERRA E SHAFTESBURY IN ITALIA. La punta di un iceberg.
Nuovi manuali di filosofia /1
Innamoratevi del sapere
Che cosa significa conoscere, credere, vivere, esistere? È la displiplina che pone questioni che implicano il pensare: «E il pensare filosofico è ciò che distingue gli uomini dagli animali»
di Umberto Eco (Il Sole Domenica, 02.03.2014)
A parte l’etimologia originaria per cui «filosofia» significherebbe «amore per il sapere», definire la filosofia è impresa difficile perché il senso della parola cambia attraverso i secoli. Nella Grecia classica si riteneva che l’uomo iniziasse a filosofare (come diceva Aristotele) come reazione ad atti di meraviglia, ma rispondono a un atto di meraviglia sia la domanda «chi ha fatto tutte le cose che ci circondano?» (domanda certamente filosofica anche se comune a tutte le religioni) sia la domanda «come mai i ruminanti hanno le corna, salvo il cammello?» - che era questione a cui Aristotele aveva tentato di rispondere ma che oggi noi affidiamo alla ricerca scientifica e non alla filosofia.
Eppure se è la scienza che oggi deve spiegarci origine e natura dei ruminanti, e può dirci che essi sono il prodotto dell’evoluzione naturale, rimane una domanda prettamente filosofica a cui ancora oggi si risponde in modo assai vario, e cioè: «anche se i ruminanti fossero il prodotto dell’evoluzione naturale, c’è un disegno intelligente che ha stabilito leggi di natura per cui essi si sono evoluti in tal modo (per cui ha corna ciascun bue che nasca in ogni epoca e in ogni luogo)?».
Vi renderete conto che questo è ancora una volta il problema dell’esistenza (o meno) di Dio. La scienza può dirci che non è necessario ipotizzare un creatore per spiegare l’origine dell’universo e della vita, ma non può dimostrare che Dio non c’è - così come non può dimostrare che ci sia, anche se nel medioevo San Tommaso d’Aquino pensava che la ragione potesse confermare la fede e aveva elaborato cinque prove (filosofiche) dell’esistenza di Dio. Ma Kant ha poi sostenuto che questo tipo di prova non era razionalmente valido e che la presenza di Dio poteva essere solo postulata per ragioni morali. Ed ecco come la filosofia, per quanto si espanda il territorio proprio della scienza, mette ancora (per così dire) il suo naso dappertutto.
Potremmo allora dire che, anche se dall’antichità a oggi l’umanità ha delegato alla scienza la risposta ad alcune domande, ce ne sono altre per cui la scienza non ha risposta (per esempio che cosa sono il bene e la giustizia, se c’è un’idea di Stato migliore delle altre, perché esistono il male e la morte, e così via) e che sono oggetto perenne della ricerca filosofica. Tanto che qualcuno ha detto che la filosofia è la disciplina che si occupa delle domande per le quali non c’è risposta.
È una definizione esagerata. È vero che ci sono domande per cui non c’è risposta, ma ce ne sono anche nell’universo scientifico, per esempio quale sia il più alto dei numeri dispari: problema di cui si occupa la scienza matematica e a un livello che definiremo di filosofia della matematica. Ma la filosofia si occupa piuttosto di domande a cui le altre discipline non trovano risposta, tipo: Che cosa significa essere? È diverso dire io sono, nel senso che esisto, o dire che i cani sono mammiferi, oppure che io sono nato nell’anno tale, o ancora chiedersi che cosa sia il tempo.
Ci sono due diverse ragioni per cui accettiamo l’idea che un angolo retto abbia novanta gradi e quella che tutti gli uomini siano mortali? Se io penso che sia vero che i cani sono mammiferi, ora sta piovendo, i Re Magi hanno visitato Gesù Bambino, Napoleone è morto a Sant’Elena e l’angolo retto ha novanta gradi, tutte queste mie credenze sono "vere" nello stesso senso? E che cos’è la verità? Non è che queste domande non abbiano risposta ma certamente ne hanno avute troppe ed esistono diverse definizioni della verità.
E la domanda filosofica più drammatica è forse stata ed è «perché esiste qualcosa piuttosto che nulla?» Forse queste sono questioni difficili e qualcuno pensa che i filosofi siano dei perdigiorno a porsi domande del genere. Ma pensiamo a uno sventurato, oppresso dalla miseria o dalla malattia, che si chieda «ma perché sono nato? Non potevano i miei genitori non mettermi al mondo?» Il poveretto sta parlando di qualcosa di essenziale per lui, eppure sta facendo della filosofia, anche non se ne rende conto, così come il famoso personaggio di Molière non si era mai accorto di parlare in prosa.
Ed ecco altre domande tipicamente filosofiche che anche le persone normali si pongono: Ma c’è una giustizia in questo mondo? Ma perché bisogna soffrire? C’è una vita dopo la morte in cui le mie sofferenze saranno compensate? Il mio amato mi sembra il più bello di tutti, ma cosa vuole dire bello? È meglio che tutti siano uguali o che ciascuno venga compensato secondo i suoi meriti? Un angolo retto ha novanta gradi e io ci credo, ma che tutti gli uomini siano mortali è altrettanto vero, o basterebbe un immortale per rendere vana questa credenza?
Se, da un disco volante, scendessero sulla terra degli alieni penserebbero anche loro che un angolo retto ha novanta gradi? Ma chi ci ha detto che un angolo retto ha novanta gradi? Gli animali hanno un’anima? E io ce l’ho? E cosa è l’anima? E dove sta? E cosa è la memoria, visto che se uno perde del tutto la memoria sembra che non abbia neppure più un’anima?
Perché piango sulle vicende di personaggi romanzeschi anche se so che non sono vere? È meglio diventar ricchi mandando al diavolo tutti gli altri o vivere da altruisti? Mi dicono che un maiale è più intelligente di un cane ma perché io preferisco andare a spasso con un cane? Dipende dall’amicizia, dall’amore, dalla identificazione con qualcuno?
Ma cosa sono amicizia, amore, identificazione? Perché penso che la persona di cui mi sono innamorato sia la più perfetta tra tutte mentre se vivevo in un altro ufficio o in un’altra città ne avrei amata un’altra? Che differenza c’è tra convincere mediante dimostrazione di una verità matematica (per esempio il teorema di Pitagora) e persuadere qualcuno (per esempio a votare un partito piuttosto che un altro)? Se dimostrare un teorema ci pare "razionale", convincere a votare dipenderà da scelte "irrazionali"? O da scelte soltanto "ragionevoli"? La dimostrazione del teorema non fa leva sul sentimento mentre la decisione di voto si basa anche su preferenze, sentimenti, emozioni. Dovrei quindi fidarmi più dei geometri (dei tecnici) che dei politici? Quali differenze intercorrono tra ragione, intelletto, sentimento, convinzione, preferenza, scelta per abitudine? In che misura il nostro corpo interferisce col nostro cervello?
Si potrebbe continuare all’infinito: sono tutte questioni filosofiche, e non bisogna essere professori di filosofia per porsele. Le questioni filosofiche interessano ciascuno di noi.
Potete certamente decidere che tutte queste sono questioni che lasciano il tempo che trovano e che si può vivere benissimo divertendosi, facendo soldi o morendo di fame senza che esse ci tocchino da vicino. Ma - a parte che certi esseri umani non possono resistere alla meraviglia che li porta a farsi queste domande - nel corso della storia queste questioni "irrilevanti" hanno determinato il nostro modo di vivere, hanno spinto certi gruppi a guerre di religione, hanno influenzato profondamente le indagini degli scienziati, hanno determinato il nostro modo di intendere la vita, il divertimento, il guadagno e le nostre miserie, anche per coloro che non se ne sono mai resi conto.
Ci sono stati nella storia dell’umanità altri modi di reagire alla meraviglia per ciò che ci circonda. Per esempio le religioni, che sono materia di fede, e che sono state tramandate sotto forma di miti o di rivelazioni, mentre la risposta filosofica si basa su un uso della ragione. Sono esistite filosofie che hanno cercato di mostrare come le rivelazioni delle religioni non contrastino con una "sana" ragione (e si pensi a come Tommaso d’Aquino aveva elaborato cinque modi razionali per dimostrare l’esistenza di Dio), così come ci sono stati casi in cui la filosofia ha agito come critica delle religioni (come in Feuerbach o in Marx).
Ci sono state cosmologie, ovvero narrazioni più meno fantastiche su come è nato l’universo, o sulle genealogie degli dèi (per esempio Esiodo). Tutte queste "narrazioni" si distinguevano dal ragionamento filosofico, mediante il quale, invece, si cercava sempre di attenersi a quelle che venivano considerate le leggi della nostra mente.
Forse ci sono altre e numerose ragioni per capire e studiare la filosofia, e per suggerirle tutte le pagine di questo manuale appena bastano. Ma speriamo che questi pochi accenni siano sufficienti per invogliare qualcuno a comprendere che cosa voglia dire pensare. Perché il pensare, e il pensare filosofico, è quello che distingue gli uomini dagli animali.
Nuovi manuali di filosofia / 2
Il pensiero è nelle domande
di Stefano Rodotà (Il Sole Domenica, 2.3.14
Genere letterario tra i piú difficili, quello dei manuali è stato sempre accompagnato anche da diffidenze, ambiguità, ripulse. Nei tempi in cui maggiore si fa sentire il bisogno di spirito critico, ai manuali viene rivolta l’accusa d’essere strumento di indottrinamento, al fondo autoritario, teso a chiudere insegnamento e apprendimento entro schemi unilaterali, definiti una volta per tutte.
E questa considerazione si fa piú forte quando l’allargarsi degli orizzonti del sapere, l’irrompere delle nuove tecnologie, con lo straordinario ampliarsi dell’accesso diretto alla conoscenza in Rete, disegnano un contesto assai diverso da quelli del passato. Questa giusta preoccupazione, tuttavia, non fa venir meno la necessità di strumenti che mettano le persone, gli studenti in primo luogo, nella condizione migliore per cogliere le nuove opportunità.
Ma una guida per muoversi con consapevolezza in questo mondo davvero nuovo è cosa assai diversa dall’indicazione di un’unica linea attraverso la quale comprenderlo e interpretarlo. Si arriverebbe cosí non alla migliore comprensione di una conoscenza dilatata, ma ad improprie riduzioni di questa ricchissima dimensione. Tornando alla logica tradizionale del manuale, non è difficile accorgersi che essa è strutturata intorno a una sequenza di risposte.
Armando Massarenti e Emiliano Di Marco ribaltano questo schema, mettendo al centro le domande. Le domande che hanno sempre accompagnato la riflessione degli studiosi, ma pure quelle suscitate dalle loro ricerche. L’effetto è duplice. Da una parte, i contributi dei singoli pensatori trovano la giusta collocazione nel loro tempo. Dall’altra, le domande vengono presentate e strutturate in modo tale da essere a loro volta produttive di domande da parte del lettore. Un intreccio tra storicità e problematicità che si trasforma in una eccellente vaccinazione contro ogni forma di pensiero unico, contro improprie gerarchizzazioni, contro qualsiasi pretesa totalizzante.
Questo non vuol dire affatto che si persegua una sorta di appiattimento, che preclude la possibilità di cogliere i momenti alti della cultura, i mutamenti significativi. Al contrario, proprio la consapevolezza della portata effettiva di ciascun contributo di pensiero permette di penetrarne il significato e di sottrarsi alle ingannevoli e davvero strumentali operazioni di «attualizzazione» di questo o quell’autore, con una indebita distorsione del loro effettivo significato culturale.
Il lettore viene sollecitato a compiere continui «esperimenti mentali», viene stimolato da continue messe in guardia contro semplificazioni e ideologizzazioni. La sua cassetta degli attrezzi è progressivamente arricchita, la sua autonomia di giudizio critico si dilata. Questi libri divengono cosí non soltanto una stimolante operazione intellettuale, ma una buona azione civile, un vero contributo alla laicità e alla democrazia.
La filosofia serve ma non è servile. Vuole capire e cambiare la realtà
di MAURO BONAZZI (Corriere della Sera, 26.08.2018) *
«L’eredità lasciata dalla Grecia alla filosofia occidentale è la filosofia occidentale». Molti anni fa lo storico Moses Finley chiese ad alcuni eminenti colleghi di riflettere su quello che la nostra civiltà ha ereditato dal mondo antico. La lista è lunga: dalla democrazia al teatro, molte delle istituzioni e tradizioni che regolano le nostre vite sono nate proprio in Grecia, qualche millennio fa. Vale anche per la filosofia, naturalmente. Con una particolarità, però, che evidenziava Bernard Williams, uno dei più importanti pensatori di questi ultimi anni, nella frase appena citata. Non si tratta soltanto di ricordare che la filosofia si è formata in Grecia per poi svilupparsi altrove. In filosofia non ha senso parlare di progressi o evoluzioni.
L’eredità della filosofia greca è la filosofia, semplicemente: siamo sempre lì. Il problema è capire che cosa sia la filosofia.
Una delle prime occorrenze del termine si trova in uno storico, Erodoto, quando parla di Solone, un poeta, e dei viaggi che aveva compiuto alla scoperta del mondo mediterraneo. Per questo Erodoto lo chiama philosophos. Per Pericle, il grande politico ateniese, philosophoi erano addirittura tutti gli Ateniesi, sempre pronti ad andare a teatro e sempre curiosi di ogni novità. Per Eraclito, invece, era un insulto: philosophoi sono quelli che si perdono dietro al vano desiderio di erudizione e non capiscono le poche cose che contano. È curioso: uno dei primi filosofi rifiuta con sdegno la parola, che invece altri sono ben contenti di usare. Per fare un po’ di ordine, bisognerà aspettare Platone.
Che cosa significa philosophia? La risposta è semplice: un desiderio, un amore (philo-) per il sapere e la conoscenza (sophia). Sembra banale: siamo animali razionali, è evidente che l’uso del cervello, la conoscenza e il sapere, siano importanti per la nostra vita. Diventa meno banale quando ci rendiamo conto che conosciamo molto meno di quello che pensiamo. Philosophia è il desiderio di sapere. Ma il desiderio è sempre di quello che non si ha. E infatti su ciò che davvero conta non sappiamo anzi quasi nulla: chi siamo? Da dove veniamo e dove andiamo? Che cos’è la giustizia: esiste o è una semplice convenzione? E Dio o l’amore?
Non si tratta di problemi astratti o polverosi, come spiega Socrate a Trasimaco. Se non sappiamo cosa è bene e cosa è male, è difficile pensare di poter vivere felicemente. Ancora peggio: se crediamo di sapere e invece non sappiamo, se crediamo che sia bene qualcosa che è male, l’infelicità è assicurata. Non resta dunque che riflettere e ragionare, liberandoci delle convinzioni infondate, cercando ciò che davvero importa. L’ambizione della filosofia è imparare, e insegnare, a pensare bene per vivere bene.
Non è un compito facile e a volte sembra che si giri a vuoto con discussioni inconcludenti. Non stupisce allora che fin dai tempi di Platone l’obiezione sia sempre la stessa: filosofare non serve a nulla. Da un certo punto di vista è così: ed è la grandezza della filosofia. La filosofia non serve a nulla, perché non è un sapere servile, perché non si piega alla realtà, accettandola come viene presentata: la mette in discussione pensando a nuove soluzioni e alternative, ricordandoci che le cose potrebbero andare diversamente da come vanno, e magari pure meglio. Senza però, e questo è il punto più importante, voler imporre nulla a nessuno.
Era la lezione di Socrate, il filosofo per eccellenza per tutti (o quasi: Epicuro lo considerava un insopportabile trombone). Interrogava le persone che incontrava, mettendone alla prova il sapere (spesso più apparente che reale), cercando di liberarle dai pregiudizi. Ma non si pretendeva in possesso di alcuna verità: sapeva di non sapere. Criticava senza offrire risposte definite. Aiutava a mettere a fuoco i problemi e le domande; invitava a pensare, riflettere, ragionare. Ognuno poi, ciascuno singolarmente preso e ogni generazione nel suo insieme, avrebbe dovuto trovare la propria risposta. È la sfida più bella. Sarebbe un peccato non accettarla.
Per farlo bisogna evitare un errore decisivo. Tutti siamo naturalmente filosofi, perché i problemi della filosofia sono i problemi di tutti. Ma dobbiamo anche imparare a filosofare, vale a dire a ragionare, che è meno facile di quanto si creda. Per ragionare bene bisogna prima comprendere di che cosa si discute, quali sono le vere questioni, e come possono essere affrontate. A questo servono manuali, dizionari e storie, quando sono fatti bene. E per questo vale la pena, ancora oggi, di dedicarsi a Eraclito e Parmenide, Platone e Aristotele, Epicuro e gli Stoici, con le loro idee originali, a volte strampalate ma sempre appassionanti.
Tanto, piaccia o non piaccia, della filosofia non si può fare a meno, spiegava Aristotele: «Chi pensa che sia necessaria la filosofia, farà filosofia; e chi pensa che non sia necessaria, dovrà comunque filosofare per dimostrare che non si deve filosofare: dunque si deve filosofare in ogni caso, o andarsene di qui dando l’addio alla vita, perché tutte le altre cose sono solo chiacchere e vaniloqui». Se lo dice lui...
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Socrate, Platone, Aristotele, i grandi maestri antichi
In edicola dal 29 agosto al prezzo di 1,90 euro il primo volume, «Il pensiero greco»
di Redazione Cultura (Corriere della Sera, 26.08.2018)
Dal prossimo 29 agosto il «Corriere della Sera» offre ai suoi lettori una preziosa opportunità di approfondimento sui temi del pensiero e della conoscenza. Si tratta della collana Filosofia. Storia, parole, temi, realizzata in collaborazione con Utet: un percorso firmato da studiosi di grande prestigio come Nicola Abbagnano (1901-1990), Paolo Rossi (1923-2012) e Giovanni Fornero.
L’opera, costituita complessivamente da 22 volumi (nel grafico a destra i primi 15 titoli), comprende diverse sezioni. Si parte con la Storia della filosofia di Abbagnano, un autentico classico, completata e ampliata, con nuove introduzioni, da Fornero con la collaborazione di Franco Restaino e Dario Antiseri.
I cinque volumi dall’11 al 14 propongono invece un’opera di natura analitica, il Dizionario di filosofia realizzato da Abbagnano, anch’esso aggiornato e ampliato da Fornero.
Si passa poi, dal volume 21 in avanti all’opera La filosofia, diretta da Paolo Rossi, con saggi di approfondimento firmati di illustri studiosi.
Il primo volume è Il pensiero greco di Abbagnano, dedicato ai grandi filosofi classici dell’antichità, che parte dagli autori presocratici e giunge fino al neoplatonismo. Esce in edicola con il «Corriere» mercoledì prossimo al prezzo speciale di euro 1,90 più il costo del quotidiano, mentre tutti i successivi titoli di Filosofia. Storia, parole, temi saranno in vendita a euro 8,90 più il prezzo del giornale.
Seguiranno i volumi che proseguono il complesso itinerario storico tracciato da Abbagnano lungo i secoli: Il Cristianesimo e la filosofia medievale (5 settembre); Dal Medioevo al Rinascimento (12 settembre); Il pensiero moderno da Cartesio a Kant (19 settembre); Dal Romanticismo a Nietzsche (26 settembre).