Materialismo comico e socialismo surreale
di Michele Serra (la Repubblica, 01.05.2011)
Aveva diciannove anni e odiava le convenzioni: per questo scrisse un breve romanzo satirico in cui si faceva beffe di borghesi, aristocratici e intellettuali. Era un ragazzo molto diverso dall’uomo che avrebbe scritto "Il Capitale" e dalla figura severa tramandata dall’ortodossia. Ora quel libro viene ripubblicato con le vignette disegnate dall’amico di una vita, Friedrich Engels
Quando, nel 1929, venne alla luce Scorpione e Felice, abbozzo di romanzo umoristico scritto dal diciannovenne Karl Marx quasi un secolo prima, le varie accademie del realismo socialista non ne furono certo entusiaste.
D’accordo, si trattava di trenta paginette scritte da uno studente vivace e irriverente (un Marx non ancora marxista...). Quasi uno scherzo letterario, dedicato al padre e in seguito tenuto in pochissimo conto anche dal suo autore.
Ma che il fondatore del "socialismo scientifico" avesse esordito con un testo così sideralmente distante dai dogmi ingessati che il futuro clero comunista avrebbe edificato sulle (alle) sue spalle, non era una sorpresa di poco conto.
Forse anche per questa inclassificabilità - oltre che per l’esilità letteraria - Scorpione e Felice ebbe una vita editoriale molto in sordina. Eccezion fatta per l’Italia, dove questa curiosa operina ora esce per Editori Riuniti, corredata dai disegni satirici del sodale Friedrich Engels, da una nota di Claudio Magris (scritta per il Corriere della sera nel 1968) e da una bella prefazione di Gabriele Pedullà.
Che ci introduce nel clima letterario e culturale della Germania della prima metà dell’Ottocento: le irrequietudini romantiche, il rifiuto del classicismo, l’enorme popolarità di Sterne e del suo Tristram Shandy.
Proprio di Sterne il giovane Marx è un convinto epigono quando prende a scrivere il suo tentativo di romanzo parodistico, anzi di parodia del romanzo, puntando sulla destrutturazione dei luoghi comuni narrativi e sul continuo auto-stravolgimento della trama, che saltabecca da una situazione a un’altra, da un personaggio all’altro, facendosi beffe della compiutezza formale del romanzo classico.
Quasi surrealisticamente, tanto che Pedullà, nella sua prefazione, fa notare che nel vastissimo e variegato mondo della cultura comunista novecentesca, solo Breton e i surrealisti sarebbero stati in grado di apprezzare quello scritto marxiano tanto anomalo e inatteso.
Per il lettore moderno è molto difficile cogliere i riferimenti satirici al mondo politico-culturale dell’epoca: la satira ha quasi sempre un’alta deperibilità perché i modelli che cita e stravolge si sono nel frattempo estinti, o consumati.
Si coglie bene, invece, lo spirito beffardo, anti-accademico, con il quale il ragazzo Marx mette in scena la sua storia strampalata e inconclusa. Si va dalla parodia della pomposità accademica (sull’etimologia di un nome l’autore spende tre noiosissime pagine, facendo il verso alla pedanteria di chissà quale professorone dell’epoca), alla demolizione quasi goliardica del sentimentalismo.
In certi passaggi quasi si indovina nell’autore il futuro Marx "ufficiale", lo svelatore della struttura economica e sociale come motore primo (e spesso occulto) delle idee e dei comportamenti umani (la sovrastruttura). Accade quando i personaggi provano sentimenti che l’autore, perfidamente, attribuisce subito dopo a disturbi corporei o intoppi comunque fisici, divertendosi a ricondurre alla carne vile quegli ideali e quelle passioni che allora (e non solamente allora) la letteratura descriveva come spirituali, eteree.
Fino alla scenetta finale, nella quale si pratica un clistere al cane Bonifacio (chiamato San Bonifacio dal religiosissimo padrone) e si stabilisce - sono le ultime parole del libro - un collegamento tra «ostruzione intestinale del cane e profondità delle idee», beffa anti-idealista che al giovane Karl dovette sembrare impagabile.
Testo a parte, è evidente che l’importanza di Scorpione e Felice sta soprattutto nello stridente contrasto tra l’icona severa e incombente del Padre Marx, sorta di nume barbuto per qualche generazione di uomini e donne di ogni parte del mondo, e il concetto stesso di umorismo.
Pedullà fa notare che il forse più insigne tra i critici letterari marxisti di tutti i tempi, Lukacs, deprezzò Sterne e il Tristram Shandy mano a mano che consolidava il suo lavoro sul realismo socialista come probabile ritorno alla "totalità umana" dei classici. Come se - detto in parole semplici - l’umorismo non fosse all’altezza della serietà dell’impegno politico, né fosse in grado, procedendo per frammenti, per rotture di schemi, di dare dell’umanità una visione "totale".
È in parte vero: alla base dell’umorismo c’è il senso del limite, che nelle sue varie espressioni (da una parte il pudore, all’altro estremo il cinismo) suggerisce di non cedere ad alcun tipo di "totalità".
Eppure Heinrich Heine, poeta romantico tedesco molto amato e frequentato da Karl Marx, vedeva in Sterne «un umorismo assoluto, nel quale si fondono sublime e ridicolo». Sublime e ridicolo, le due facce della medaglia umana, come in un successivo e fortunato aforisma (forse di Karl Kraus) viene detto anche meglio: il comico è solo il tragico visto di spalle.
E in fin dei conti, anche se il Marx apprendista satirico fu, come emulo di Sterne, molto approssimativo e svogliato, sapere che esordì come umorista lo risarcisce, almeno in parte, dell’uso super-strutturato che i suoi emuli fecero del suo pensiero, ossificandolo in precetti para-religiosi che avrebbero trovato degna parodia in Scorpione e Felice. È destino, peraltro, di molti culti umani vedere il fondatore trasfigurato in idolo, e un clero trasformare, nei secoli, l’energia intellettuale degli inizi in una cupa costruzione dogmatica - cioè in puro potere.
Ovvio che i sacerdoti del marxismo, nella loro esegesi, non abbiano mai tenuto in gran conto il giudizio (non neutrale ma molto partecipe) che la figlia Eleanor diede del padre Karl Marx: «Era il più allegro e giocondo di tutti gli uomini». Se non un quinto fratello Marx (ad honorem), certo non un minaccioso pontefice.
Destra e sinistra non sappiamo dove sono
di Karl Marx (la Repubblica, 01.05.2011)
Manca la definizione, la definizione. Chi potrà definirla, chi potrà esaminare quale sia la parte destra e quale la sinistra? E tu dimmi, mortale, da dove viene il vento, oppure se sul volto di Dio c’è un naso, e io ti dirò che cos’è destra e che cos’è sinistra. Null’altro che concetti relativi, è come bersi la follia, la furiosa pazzia, insieme alla saggezza!
Oh! Vano è ogni nostro sforzo, illusione è la nostra nostalgia, fino a che non avremo penetrato che cos’è destra e che cos’è sinistra, giacché a sinistra metterà i capri, a destra invece gli agnelli. Se si gira, se prende un’altra direzione, poiché di notte ha fatto un sogno, allora i capri staranno a destra e i devoti a sinistra, secondo le nostre misere vedute. Perciò definiscimi che cos’è destra e che cos’è sinistra, e l’intero nodo della creazione sarà sciolto, Acheronta movebo, dedurrò con precisione dove andrà a stare la tua anima, da questo concluderò inoltre su quale livello tu sei ora, poiché quel rapporto originario apparirebbe misurabile, in quanto la tua posizione sarebbe determinata dal Signore.
Ma il tuo posto quaggiù può essere misurato secondo lo spessore del tuo capo, mi gira la testa, se comparisse un Mefistofele, diventerei Faust, poiché è chiaro che tutti noi, tutti siamo un Faust, in quanto non sappiamo quale parte sia la destra, quale la sinistra, la nostra vita è perciò un circo, corriamo tutt’intorno, cerchiamo da tutte le parti, finché cadiamo sulla sabbia e il gladiatore, la vita appunto, ci uccide, dobbiamo avere un nuovo redentore, poiché - tormentoso pensiero, tu mi rubi il sonno, mi rubi la salute, tu mi uccidi - non possiamo distinguere la parte sinistra dalla destra, non sappiamo dove si trovano...
Lotta di classe
Me ne stavo seduto pensieroso, misi da parte Locke, Fichte e Kant e mi dedicai a una profonda ricerca per scoprire in che modo una lisciviatrice può essere connessa al maggiorascato, quando mi trapassò un lampo che, affastellando pensieri su pensieri, illuminò il mio sguardo e apparve davanti ai miei occhi una configurazione luminosa.
Il maggiorascato è la lisciviatrice dell’aristocrazia, poiché una lisciviatrice serve solo per lavare. Ma il lavaggio sbianca, dando così una pallida lucentezza al bucato. Allo stesso modo il maggiorascato inargenta il figlio primogenito della casa, dandogli così un pallido color argento, mentre agli altri membri imprime il pallido colore romantico della miseria.
Chi fa il bagno nei fiumi, si getta contro l’elemento scrosciante, combatte la sua furia e lotta con braccia vigorose; ma chi siede nella lisciviatrice vi rimane chiuso e contempla gli angoli delle pareti. L’uomo comune, vale a dire colui che non ha la magnificenza del maggiorascato, combatte con la vita impetuosa, si tuffa nel mare rigonfio, e con il diritto prometeico ruba perle alle sue profondità; magnificamente gli compare davanti agli occhi l’interna configurazione dell’idea, e audacemente crea, ma il signore del maggiorascato fa soltanto cadere le gocce su di sé, teme di slogarsi le membra e perciò si siede in una lisciviatrice.
Trovata la pietra filosofale, trovata!
Autocoscienza
Giungemmo a una casa di campagna, era una bella notte, blu scura. Tu eri appesa al mio braccio e volevi staccarti, ma io non ti lasciavo, la mia mano ti legava, come tu avevi legato il mio cuore, e tu lasciasti che io ti tenessi.
Io mormorai parole piene di nostalgia e dissi la cosa più alta e bella che un mortale possa dire, poiché non dissi nulla, ero sprofondato intimamente in me, vidi sorgere un regno, il cui etere fluttuava così leggero, eppure così pesante, e nell’etere c’era un’immagine divina, la bellezza stessa, come io un tempo l’avevo presagita - ma non riconosciuta - in audaci sogni fantasiosi, sfavillava lampi di spirito, sorrideva, e tu eri l’immagine.
Mi meravigliai di me stesso, poiché ero diventato grande attraverso il mio amore, imponente; vidi un mare infinito, in cui non mugghiavano più flutti, aveva guadagnato profondità ed eternità, la sua superficie era cristallo, e nel suo oscuro abisso erano appuntate tremule stelle dorate, che cantavano canzoni d’amore, che irradiavano ardore, e il mare stesso era caldo! Se quella strada fosse stata la vita!
Baciai la tua dolce, morbida mano, parlai d’amore e di te. Una nebbia leggera fluttuava sul nostro capo, il suo cuore andò in frantumi, pianse una grande lacrima, essa cadde fra noi, ma noi la sentimmo e tacemmo.
La miseria della filosofia
Giacevano davanti a me sul tavolo, proprio quando io mi lambiccavo il cervello sul perché l’ebreo errante sia un berlinese di nascita e non uno spagnolo, ma vedo che questo coincide con la controprova che devo fornire, per cui noi, per amor di precisione... non vogliamo fare nessuna delle due cose, ma ci accontentiamo dell’osservazione che il cielo sia negli occhi delle signore, ma che gli occhi delle signore non si trovano in cielo, da cui risulta che ad attrarci non siano tanto gli occhi quanto piuttosto il cielo, poiché non vediamo gli occhi, ma soltanto il cielo che è in essi.
Se ci attraessero gli occhi e non il cielo, allora ci sentiremmo attirati dal cielo e non dalle signore, poiché il cielo non ha un occhio solo, come è stato osservato sopra, ma non ne ha nessuno, bensì esso stesso è null’altro che un infinito sguardo d’amore della divinità, l’occhio mite e melodioso dello spirito di luce, e un occhio non può avere un occhio.
Il risultato finale della nostra ricerca, perciò, è che noi ci sentiamo attirati dalle signore e non dal cielo, perché non vediamo gli occhi delle signore, ma senz’altro il cielo che è in essi, sicché ci sentiamo dunque, per così dire, attratti verso gli occhi perché non sono occhi, e perché Aasvero, l’errante, è berlinese di nascita, poiché è anziano e malaticcio e ha visto molti paesi e molti occhi, ma continua pur sempre a sentirsi attirato non dal cielo, bensì dalle signore, ed esistono soltanto due magneti, un cielo senza occhio e un occhio senza cielo.
L’uno sta sopra di noi e ci attira verso l’alto, l’altro sotto di noi e ci attira nelle profondità. Ma l’Aasvero è attratto con forza verso il basso, altrimenti fluttuerebbe eternamente sulla terra? E fluttuerebbe eternamente sulla terra, se non fosse un berlinese di nascita e non fosse abituato alle distese di sabbia?
Traduzione Cristina Guarnieri © Editori Riuniti Srl
Il romanzo Scorpione e Felice di Karl Marx con disegni e caricature di Friedrich Engels (153 pagine, 9,90 euro) che anticipiamo in queste pagine è pubblicato da Editori Riuniti e sarà in libreria il 25 maggio
L’introduzione è di Gabriele Pedullà con una nota di Claudio Magris
Il libro esce nella collana di letteratura “Asce”, dedicata a opere inedite o dimenticate dei grandi classici. Sono già usciti tra gli altri L’Anticristo di Joseph Roth, Gelosia di Marcel Proust, Il villaggio di Stepancikovo di Fëdor Dostoevskij
Il nostro motto dev’essere dunque: riforma della coscienza non mediante dogmi, ma mediante l’analisi della coscienza non chiara a se stessa, o si presenti sotto forma religiosa o politica. Apparirà chiaro allora come da tempo il mondo possieda il sogno di una cosa della quale non ha che da possedere la coscienza, per possederla realmente. Apparirà chiaro come non si tratti di tracciare un trattino tra passato e futuro, bensí di realizzare i pensieri del passato. Si mostrerà infine come l’umanità non incominci un lavoro nuovo, ma porti a compimento consapevolmente il suo vecchio lavoro.
Karl Marx (ad Arnold Ruge, settembre 1843).
L’ ITALIA, LE “ROBINSON-NATE”, E LA “POESIA” DEL PRESENTE ... *
“OGGETTO: Per la nostra sana e robusta Costituzione.... ” (Mail, 2002): “[...] Tempo fa una ragazza, a cui da poco era morta la madre e altrettanto da poco cominciava ad affermarsi il partito denominato “Forza Italia”, discutendo con le sue amiche e i suoi amici, disse: “Prima potevo gridare “forza Italia” e ne ero felice. Ora non più, e non solo perché è morta mia madre e sono spesso triste. Non posso gridarlo più, perché quando sto per farlo la gola mi si stringe - la mia coscienza subito la blocca e ricaccia indietro tutto. Sono stata derubata: il mio grido per tutti gli italiani e per tutte le italiane è diventato il grido per un solo uomo e per un solo partito. No, non è possibile, non può essere. E’ una tragedia!”. Un signore poco distante, che aveva ascoltato le parole della ragazza, si fece più vicino al gruppo e disse alla ragazza: “Eh, sì, purtroppo siamo alla fine, hanno rubato l’anima, il nome della Nazionale e della Patria. E noi, cittadini e cittadine, abbiamo lasciato fare: non solo un vilipendio, ma un furto - il furto dell’anima di tutti e di tutte. Nessuno ha parlato, nessuno. Nemmeno la Magistratura!” (Si cfr. RESTITUITEMI IL MIO URLO! ... DALLA CINA UNA GRANDE LEZIONE!).
ITALIA, 2 GIUGNO 2019. A pag. 2 dell’inserto “ROBINSON” (n. 130) di “la Repubblica” del 1° Giugno 2019, in un testo con il titolo “Mia madre, il Re e la cosa di tutti “, e il sottotitolo “Il 2 giugno 1946 l’Italia scelse di non essere più una monarchia. Lessico familiare del Paese che puntò su se stesso”. L’autore - dopo aver premesso che “una persona sola che incarna lo Stato e incarna il popolo intero non può che essere, essere, simbolicamente, una persona «sacra»“, e chiarito che “è per definizione, per ruolo un signore al di sopra delle parti, non rappresenta una frazione, rappresenta l’intero. L’unità. La comunità. (...) la sua carica è elettiva. Non è un raggio divino, e nemmeno il raggio della Storia attraverso l’espediente dinastico, a fargli incarnare «la cosa di tutti»” (...) La repubblica è anti-assolutista anche in questo suo sapiente scegliere gli uomini che la incarnano a seconda dei sommovimenti della politica e della società (...) così si avvia alla conclusione: “Dunque si è repubblicani - o almeno lo sono io - se si ama e si accetta ciò che non è assoluto, NON SIMULA L’ETERNO, ACCETTA IL LIMITE, lo traduce in politica”.
E, INFINE, l’autore così CHIUDE: “Mi rimane da dire che quando Eugenio Scalfari fondò un giornale che si chiamava «la Repubblica» andavo all’università e subito pensai: che bel nome! Che nome giusto per un giornale! Ma come è possibile che a nessuno prima di lui, sia venuto in mente di chiamare così un pezzo di carta che si occupa soprattutto della «res publica», della cosa di tutti, e lo fa tutti i giorni? E’ al tempo stesso un nome umile e alto. Peggio per chi non se ne è accorto prima” (Michele Serra).
POESIA, COSTITUZIONE, E FUTURO RADICALE...: “Come certi capi indiani che si trovarono di fronte al fatto che, una volta entrati nelle riserve, non risultasse più comprensibile cosa fosse un atto coraggioso, quale attività potesse esemplificarlo, visto che le pratiche che sino ad allora avevano dato senso a tali attività erano venute meno - i bisonti scomparsi, le guerre con altre tribù proibite” (Italo Testa - sopra).
ITALIA: “ESAME DI MATURITA’ 2019”. - PER UN CONVEGNO E UNA RIFLESSIONE SUL CONCETTO DI UNITÀ E DI SOVRANITÀ (SOVRA-UNITÀ). Materiali sul tema.
Federico La Sala (20 giugno 2019)
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"SCORPIONE E FELICE". RIDENDO E SCHERZANDO, MARX TROVA "LA PIETRA FILOSOFALE" DEL SUO CAMMINO.
UNA CATTOLICA, UNIVERSALE, ALLEANZA "EDIPICA"!!! IL MAGGIORASCATO: L’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE, L’ALLEANZA DELLA MADRE CON IL FIGLIO, REGNA ANCORA COME IN TERRA COSI’ IN CIELO
KANT E GRAMSCI. PER LA CRITICA DELL’IDEOLOGIA DELL’UOMO SUPREMO E DEL SUPERUOMO D’APPENDICE.
Federico La Sala
Un umanesimo integrale
Karl Marx. Pubblichiamo un’anticipazione dall’intervento per la giornata di studi del 18 ottobre, dedicata da RomaTre al filosofo di Treviri
di Donatello Santarone (il manifesto, 17.10.2018)
La tensione classica verso il pieno sviluppo della persona umana, presente in Goethe e Schiller, si scontra con la società classista del capitale. Per questo Marx si applica allo studio dell’economia borghese e alla critica della sua presunta naturalità ed eternità. «Tutta questa merda», scriverà ad Engels a proposito dell’economia politica. Comprende lucidamente che solo il superamento del regime della proprietà privata borghese, che determina la miseria materiale e spirituale dei lavoratori, potrà consentire a questi ultimi di riappropriarsi della grande tradizione classica. La lotta per la riduzione dell’orario di lavoro doveva servire proprio a questo, a restituire ai produttori associati tempo e mente per fruire dei più alti prodotti dello spirito.
L’ALTA CONSIDERAZIONE che Marx aveva nei confronti della letteratura traspare in tanti luoghi della sua produzione. Le opere degli scrittori prediletti si depositano nelle sue pagine e gli offrono tipi, rappresentazioni, analogie, metafore, luoghi, linguaggi che entrano in maniera organica nelle sue analisi economiche, storiche, politiche, filosofiche.
«Marx - ha scritto Franz Mehring nella sua biografia - trovava ristoro e sollievo nella letteratura. Come il suo capolavoro scientifico rispecchia tutta un’epoca, così anche i suoi autori preferiti erano quei grandi poeti mondiali delle cui creazioni si può dire la stessa cosa: da Eschilo e Omero fino a Dante, Shakespeare, Cervantes e Goethe. Ogni anno leggeva Eschilo nel testo originale; restò sempre fedele ai suoi antichi greci e avrebbe voluto cacciare dal tempio con la verga quelle meschine anime di mercanti che avrebbero voluto togliere agli operai l’interesse per la cultura antica». Le parole di Mehring sono la migliore spiegazione del carattere umanistico della personalità di Marx.
Nel Manifesto del partito comunista troviamo ad esempio, in un famoso e profetico passo sulla globalizzazione del capitale, un esplicito riferimento ad uno dei poeti più amati da Marx, cioè Goethe, e alla sua nozione di letteratura mondiale. «Mi convinco sempre di più - scrive l’autore del Faust - che la poesia è un patrimonio comune dell’umanità e si manifesta, ovunque e in tutti i tempi, in centinaia e centinaia di individui Oggigiorno letteratura nazionale non vuol dir molto, sta arrivando il tempo della letteratura mondiale e ciascuno di noi deve contribuire al suo rapido avvento».
QUESTE PAROLE di Goethe del 1827, nel loro innovativo cosmopolitismo interculturale affermano l’ideale della poesia-mondo. Goethe, infatti, ha sempre avuto una costante frequentazione, oltre che con le letterature francese, inglese e italiana (ricordiamo la sua grande ammirazione per Tasso e Manzoni), anche per le letterature persiana, araba e cinese. Il Divano occidentale-orientale, composto di poesie ispirate a Hafez, un poeta persiano sufi del XIV secolo, ne è l’emblema. Non è un caso se oggi l’Orchestra giovanile di israeliani, palestinesi e musicisti dei paesi arabi voluta da Edward Said e Daniel Barenboim prende il nome dal libro di Goethe.
PER DARE CARNE E SANGUE alle sue analisi Marx ha bisogno della parola letteraria, la quale conferisce ai suoi scritti una forma preziosa e colta, una solidità estetica di tipo classico. Ne era così convinto che decide di terminare la Prefazione alla prima edizione tedesca del Capitale con un verso di Dante, un verso che era «la sua massima favorita»: «Sarà per me benvenuto - scrive Marx - ogni giudizio di critica scientifica. Per quanto riguarda i pregiudizi della cosiddetta opinione pubblica, alla quale non ho fatto mai concessioni, per me vale sempre il motto del grande fiorentino: Segui il tuo corso, e lascia dir le genti!». Dove Marx in verità modifica l’originale di Dante, il quale, nel quinto canto del Purgatorio, scrive: «Vien dietro a me, e lascia dir le genti».
Sentiva un’affinità profonda con l’autore della Divina Commedia, in particolare per la comune e ingiusta condizione di esuli.
COME PER TUTTI gli scrittori a lui cari, anche nei confronti di Dante l’atteggiamento di Marx non è quello del borioso accademico, ma quello di chi «usa» i classici per leggere il presente e cercare in essi una risposta alle domande del mondo contemporaneo.
«Quando ci si pone la questione - ha detto il poeta e saggista Franco Fortini - se Dante conserva o no il suo mondo per noi dobbiamo chiederci l’inverso: in che misura il nostro mondo può essere, per dir così, dantizzato in qualche modo».
UN ESEMPIO di questa «dantizzazione» è nella dura polemica che il filosofo tedesco ingaggia, in un testo del 1853, contro il giornale conservatore Times che in uno dei suoi articoli se la prende con i rifugiati in Inghilterra accusati di essere «individui feroci», «rotti a ogni delitto». Non dimentichiamo che Marx era uno di questi rifugiati a cui l’Inghilterra non concesse mai la cittadinanza dell’Impero britannico, costringendolo per tutta la vita ad una condizione di apolide.
In questo articolo contro il Times, esempio della brillante e caustica polemica giornalistica di Marx, un posto di prim’ordine spetta proprio a Dante esiliato da Firenze ma fortunatamente risparmiato da un attacco del Times!
ALIAS
Walter Benjamin e le pietre dell’apocatastasi
Ultraoltre. La salvezza di tutti gli esseri attraverso il ritorno allo stato originario
di Raffaele K. Salinari (il manifesto, 21.07.2018)
Ad un certo punto del folgorante saggio sull’opera di Nikolaj Leskov, Walter Benjamin ci introduce alla sua originalissima idea di apocatastasi: la salvezza universale attraverso il ritorno di tutti gli esseri alla pienezza originaria. Il sentiero che invita a percorrere da quel momento è, come spesso nel suo stile, notturno e sotterraneo: pieno di oscure analogie minerali e necriche metafore che però, alla fine, seguendo la mappa tracciata dal suo immaginario messianico, ci porteranno alla luce di una splendente verità.
Come guida naturale del tortuoso cammino, Benjamin staglia dai racconti di Leskov quella particolarissima figura che egli chiama «il giusto». Incarnazione complessa perché estremamente sfaccettata, maschera di volta in volta diversa - il buffone, lo scemo del villaggio, il viaggiatore, l’artigiano, il briccone - il giusto ha, però, un’essenza costante che si trasmette di personaggio in personaggio come in quelle Pathosformel che Warburg cercò di incasellare nel suo favoloso atlante Mnemosyne.
Per distillare questa essenza Benjamin parte da Bloch - che come lui aveva difficili rapporti con i francofortesi - citandone l’interpretazione del mito di Filemone e Bauci, nel quale si descrive la figura del giusto come colui, o colei, che portando con sé un tocco gentile, lo fa amico di tutte le cose. La madre di Leskov stesso ad esempio «che non poteva infliggere una sofferenza a nessuno, neppure agli animali. Non mangiava carne né pesce, tanta era la sua compassione per le creature viventi». Il giusto, conclude Benjamin, è allora il portavoce delle creature ed insieme la sua più alta incarnazione. E così vediamo che la sua essenza immutabile è quella di un essere «favolosamente scampato alla follia del mondo» e che, proprio mercé questa sua caratteristica, è in grado, attraverso i suoi racconti, di portare un annuncio di salvezza, di apocatastasi.
«Apocatastasi» è un termine dalle molteplici accezioni a seconda degli ambiti in cui viene usato. Letteralmente significa «ritorno allo stato originario», oppure «reintegrazione». Nella filosofia stoica, ad esempio, si collega alla «dottrina dell’eterno ritorno»: quando gli astri assumeranno la stessa posizione che avevano all’inizio dell’universo. Per il neoplatonismo, invece, l’apocatastasi è qualcosa di più spirituale, cioè il ritorno dei singoli enti all’unità originaria, all’Uno indifferenziato da cui l’intero insieme delle cose manifestate proviene; è ciò che gli gnostici chiamerebbero il Pleroma. Questa idea si inserisce appieno all’interno del tema, prettamente religioso, della Caduta: l’allontanamento dell’uomo dalla sua originaria comunione con l’Assoluto, col Divino, ma anche di un suo possibile ritorno alla pienezza edenica originaria. Nella teologia dei primi Padri della Chiesa il suo teorico è Origene.
Dice allora Benjamin: «Una parte importante, in questa dogmatica [della chiesa greco-ortodossa], è svolta, com’è noto, dalle teorie di Origene, respinte dalla chiesa romana, sull’apocatastasi: l’ingresso di tutte le anime in paradiso. Leskov era molto influenzato da Origene. Egli si proponeva di tradurre la sua opera Sulle cause prime. In armonia con la fede popolare russa, egli interpretava la resurrezione più che come una trasfigurazione, come la liberazione da un incantesimo, in senso affine a quello della favola». Benjamin, dunque, è qui teso a mettere in rilievo, anzi diremmo a dispiegare pienamente, non tanto il senso teologico, escatologico, del termine, quanto il suo potenziale immaginale, evocativo, metaforico, grazie al quale egli può farci vedere, nei personaggi della narrativa leskoviana, «l’apogeo della creatura» ed allo stesso tempo «un ponte fra il mondo terreno e ultraterreno», costruito attraverso l’atto creativo, poietico, del racconto.
Ma, per la nota verità metafisica secondo cui «ciò che è in alto è come ciò che è in basso», «il giusto» collega sia le vette, gettando un ponte tra il modo terreno e quello ultraterreno, sia le voragini nascoste nelle viscere della terra con ciò che avviene in superficie. «La gerarchia creaturale, che ha nel giusto la sua cima più alta, sprofonda in gradini successivi nell’abisso dell’inanimato. Dove bisogna tener presente un fatto particolare. Tutto questo mondo creaturale non si esprime tanto, per Leskov, nella voce umana, ma in quella che si potrebbe chiamare, col titolo di uno dei suoi racconti, la voce della natura». E dunque eccolo presentarci una di quelle intuizioni che collegheranno la figura del giusto, inteso come interprete della «voce della natura» e della salvezza, alle sue rappresentanze più elementari e sotterranee. «Quanto più Leskov discende lungo la scala della creature, tanto più chiaramente la sua concezione si avvicina a quella dei mistici». Ed a questo punto, con uno dei suoi scarti spettacolari, Benjamin passa a parlare del racconto di una pietra che racchiuderebbe una profezia: l’Alessandrite.
L’Alessandrite e la pulce di acciaio
Il racconto di Leskov citato da Benjamin, si intitola come la pietra che ne è protagonista. Narra di un tagliatore di pietre di nome Wenzel che ha raggiunto nel suo lavoro vette eccelse, paragonabili a quelle degli argentieri di Tule che ferrarono la famosa «pulce di acciaio» capitata nelle mani dello zar Nicola I. Qui una breve digressione è d’obbligo poiché questa pulce, questa «ninfosoria» come viene definita nel racconto, caricabile a molla e di grandezza naturale, pare esista davvero e sarebbe ammirabile nel Museo delle armi in città. Uno scrittore italiano contemporaneo dice di averla vista.
Chi ama Tolstoj conosce Tule, dato che la sua famosa residenza, Jasnaja Poljana e la sua tomba, si trovano da quelle parti. La storia è semplice ma suggestiva: il fratello della zar Nicola I, Aleksàndr Pàvlovic, riceve in dono dagli «inghilesi» questo manufatto, una «ninfosoria» appunto, fatta di acciaio brunito che, mercé una piccola chiavetta inserita nella pancia, può essere caricata e dunque muoversi come una vera. Alla morte del fratello la pulce meccanica passa all’Imperatrice vedova Elisavéta Alekséevna che però, stretta nel suo lutto inconsolabile, decide di inoltrarla al nuovo sovrano. Il novello zar Nicolàj Pàvlovic in un primo tempo la trascura, per impellenti questioni di stato, poi si impunta e cerca di trovare il modo di eguagliare, o meglio, superare la bravura degli odiati «inghilesi». E dunque ordina ad un suo uomo di fiducia di raggiungere i famosi argentieri di Tule, rinomati per la loro maestria, e vedere cosa potessero fare per surclassare l’arte britannica. Dopo qualche tempo la ninfosoria di acciaio brunito torna a palazzo. In apparenza è immutata e lo zar si adira ma, ad una più attenta osservazione microscopica, ecco apparire il prodigio tecnologico: su ogni zampetta della pulce di acciaio è stato addirittura apposto come un ferro di cavallo e, su ognuno, è inciso il nome del mastro argentiere che l’ha forgiato!. L’orgoglio russo è salvo.
Alla stessa dinastia zarista è invece legata la vicenda, anche questa in bilico tra storia e leggenda, dell’Alessandrite. Qui si tratta della scoperta di una pietra singolare che prende il nome dal futuro zar Alessandro II, figlio di Nicola I. La pietra venne, infatti, cavata per la prima volta il giorno della sua nascita, nel 1818. Questo è lo zar dell’epoca in cui si svolge il romanzo Anna Karenina di Tolstoj, un periodo burrascoso e denso di avvenimenti storici rilevanti. Ecco che allora la caratteristica peculiare di questa pietra diviene una sorta di profezia sulla vita e la morte dell’omonimo sovrano. Essa, infatti, è verde alla luce del sole e rossa a quella artificiale. Il fenomeno è dovuto alle inclusioni di cromo, presenti anche nel corindone e nello smeraldo. Ora, nel racconto di Leskov, la casuale scoperta della pietra nel giorno natale del futuro zar, e le sue caratteristiche cromatiche, fanno intessere al narratore la profezia che la vuole metafora della vita di Alessandro II. Verde alla luce del mattino, dunque nella giovinezza e nella maturità dell’imperatore di tutte le Russie, essa diviene color sangue al calar delle tenebre, simboleggiando così la tragica fine che, effettivamente, subì il sovrano.
Il 13 marzo del 1881, infatti, lo Zar si disse disposto a prendere in considerazione le modalità dell’abolizione della servitù della gleba. Ma era già troppo tardi. Lo stesso giorno alcuni cospiratori guidati da Sofja Perovskaja misero in atto un astuto piano per eliminarlo. Alessandro II era già sfuggito più volte alla morte per attentato, ma quella volta il disegno riuscì. Mentre faceva ritorno al Palazzo d’Inverno, la sua carrozza fu colpita da una bomba lanciata da Nikolaj Rysakov, ma egli rimase illeso. Sceso per accertarsi dei danni fu investito dall’esplosione di una seconda bomba. Lo scoppio lo colpì ferendolo mortalmente. La profezia dell’Alessandrite si era avverata.
V.I.T.R.I.O.L.
Ma la poetica di questi elementi naturali, secondo la visione di Benjamin, emana ancor più potentemente da ciò che rimane nella profondità della terra, dando loro addirittura il potere di ricombinare il destino dei vivi con quello dei morti, di salvare eternamente e al tempo stesso gli uni e gli altri. E d’altronde il pensiero dell’eternità non ha sempre avuto la sua fonte principale nella morte? Per attivare questa operazione favolosa egli utilizza allora come Prima Materia del suo athanor immaginale uno degli autori preferiti l’«indimenticabile Johann Peter Hebel». «La morte è la sanzione di tutto ciò che il narratore può raccontare» afferma icasticamente e aggiunge, «dalla morte egli attinge la sua autorità. O, in altre parole, è la storia naturale in cui si situano le sue storie». La morte dunque è l’origine del racconto, la matrice della sua eternità. Come non vedere in questa affermazione la sanzione dell’opera al nero, primo gradino del processo alchemico?
Per Benjamin allora la pietra filosofale, cioè l’incanto salvifico della narrazione, la sua funzione come strumento di una vera e propria apocatastasi, nasce nel crogiolo della storia naturale formandosi da un compost affatto speciale. Ecco l’atmosfera nella quale ci vengono presentati i due grandi protagonisti del racconto di Hebel Insperato incontro: il tempo che dissolve i corpi, ed il suo comprimario che qui, paradossalmente, li coagula, il vetriolo.
La parola vetriolo, dal latino vetriolum, compare per la prima volta intorno al VII-VIII secolo d.C., e deriva dal classico vitreolus. Con questa radice etimologica possiamo pensare che il nome trovi origine dall’aspetto vetroso assunto dai solfati di rame e di ferro cristallizzati. Per quelli di rame è di colore azzurro intenso (per questo detto anche vetriolo azzurro o di Cipro o di Venere, la dea portata verso l’isola dalle azzurre onde del mare, ma anche il pianeta di riferimento del rame) mentre nel solfato di ferro è di colore verde azzurro (vetriolo verde o marziale, perché Marte è il pianeta di riferimento del ferro). Sarà quest’ultimo, lo vedremo tra poco, il vetriolo protagonista del racconto.
Sia il vetriolo di rame che il vetriolo di ferro erano conosciuti ed utilizzati dagli Egizi e dai Greci, anche se non sotto questo nome. Forse il famoso natron, che serviva ad imbalsamare i corpi, ne conteneva una certa quantità. L’immancabile Plinio il Vecchio, nella sua Historia Naturalis, menziona una sostanza che chiama «vetriolo« e ne descrive l’estrazione «dalle acque ramifere». Questo nome comprende, e confonde, in realtà, una vera e propria famiglia di composti. Ecco allora che bisogna chiamare in causa anche l’alchimia poiché esso, chiamato vetriolo filosofico, indica nulla di meno che il Solvente Universale, e cioè tutti quei composti chimici che consentono di avviare la procedura condensata nella nota formula «solve et coagula». Per questo le sue origini si perdono nella notte dei tempi, essendo indicato come tale, ma anche con tantissimi altri nomi, in tutti i trattati di Arte Regia. La prima sintesi del vetriolo come Solvente Universale, cioè come acido solforico, la si deve all’alchimista islamico Ibn Zakariya al-Razi che lo ottenne per distillazione a secco di minerali contenenti ferro e rame.
Per completezza simbolica bisogna citare anche l’acronimo, V.I.T.R.I.O.L., che compare nell’opera Azoth del 1613 dell’alchimista Basilio Valentino. Il suo svolgimento è: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», cioè «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta». La frase simboleggia la discesa all’interno dell’essere per operare con rettitudine alla ricerca del proprio gioiello interiore.
E allora concludiamo la parabola dell’apocatastasi benjaminiana, con il bel racconto di Hebel di cui il vetriolo marziale è protagonista. Siamo a Falun, in Svezia, presso le miniere di ferro. Due giovani sono innamorati e presto si sposeranno. Lui però è un minatore ed un giorno non torna più: la miniera è crollata. Passano gli anni e la fidanzata gli rimane fedele. Dopo decenni, in cui il tempo lavora sulla materia vivente, ecco che dalla vecchia miniera riemerge il corpo del minatore: è intatto poiché il vetriolo lo ha imbalsamato nel momento della giovinezza. Mentre lo seppellisce esclama: «Dormi in pace adesso, un giorno ancora o forse dieci, in questo fresco letto nuziale, e non ti sembri lungo il tempo. Mi restano soltanto poche cose da fare, e presto verrò, presto sarà di nuovo giorno. Ciò che la terra ha già una volta reso, una seconda non lo tratterrà». Tutto è giusto e perfetto.
La critica radicale del presente: l’eredità di Marx
di Maurizio Viroli (Il Fatto, 28.04.2018)
Non saprei dire quanti altri giovani della mia generazione misero in soffitta Karl Marx dopo aver letto l’articolo Esiste una teoria marxista dello Stato? che Norberto Bobbio pubblicò nel 1975 su Mondoperaio, e ripubblicò nel 1976 nel libro Quale socialismo?, ma sospetto siano stati molti.
La risposta di Bobbio era netta: negli scritti di Marx e di Friedrich Engels, “una vera e propria teoria socialistica dello Stato non esiste”. A nulla valsero le centinaia di pagine scritte dagli intellettuali ‘organici’, come si diceva allora, al Partito comunista per confutare Bobbio e salvare Marx. Se Marx non aveva fornito una teoria dello Stato, come poteva essere guida intellettuale di un partito che aspirava a guidare lo Stato democratico?
Messo da parte Marx, cercammo altri maestri che potessero aiutarci a credere nel socialismo senza essere marxisti. Trovammo per nostra fortuna Carlo Rosselli e il suo Socialismo liberale che proprio Bobbio aveva curato in una bella edizione Einaudi del 1973. La prima pagina di quel libro aveva il valore di una rivelazione o di una conferma di quanto già pensavamo, vale a dire che il limite maggiore della teoria sociale e politica di Marx era la pretesa (rafforzata e popolarizzata dal buon Friedrich Engels) di essere dottrina scientifica : “L’orgoglioso proposito di Marx fu quello di assicurare al socialismo una base scientifica, di trasformare il socialismo in una scienza, anzi nella scienza sociale per definizione [...] Doveva avverarsi, non poteva non avverarsi; e si sarebbe avverato non per opera di una immaginaria volontà libera degli uomini, ma di quelle forze trascendenti e dominanti gli uomini e i loro rapporti che sono le forze produttive nel loro incessante svilupparsi e progredire.”
Rosselli capì che il Manifesto del Partito comunista aveva immensa forza d’ispirazione perché era profezia travestita da scienza: “Quale pace, quale certezza dava il suo linguaggio profetico ai primi apostoli perseguitati! “
Ma già agli inizi del Novecento, dopo la disputa sul revisionismo aperta dal libro di Eduard Bernstein, uscito nel 1899 (che Laterza ha pubblicato in traduzione italiana nel 1974 con il titolo I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia), i più intelligenti giudicarono la scienza di Marx del tutto incapace di spiegare la realtà economica e sociale, e non trovarono più né conforto né guida nella profezia ormai irrigidita in stanche formule ripetute meccanicamente. Eppure, molte pagine di Marx, soprattutto del giovane Marx, offrono ancora, se le leggiamo senza i vecchi condizionamenti ideologici, elementi per una teoria dell’emancipazione sociale.
La lettera che Marx spedisce ad Arnold Ruge da Kreuznach, nel settembre del 1843, poi pubblicata nei Deutsch-Französische Jahrbücher del 1844, ad esempio, è un testo che ci insegna i lineamenti di una critica sociale e politica intransigente: “Costruire il futuro - scrive Marx - e trovare una ricetta valida perennemente non è affar nostro, ma è certo più evidente ciò che dobbiamo fare nel presente: la critica radicale di tutto l’esistente”. Critica radicale perché senza riguardi, senza paura né dei suoi risultati né del conflitto coi poteri attuali. E ci insegna che la lotta per la libertà e per la giustizia deve essere in primo luogo lavoro paziente di educazione delle coscienze: “Indi il nostro motto sarà: riforma della coscienza, non con dogmi, bensì con l’analisi della coscienza mistica, oscura a se stessa, in qualunque modo si presenti (religioso o politico)”.
L’emancipazione politica e sociale non era per il giovane Marx risultato di tendenze oggettive della storia, ma conquista di coscienze emancipate che sanno riscoprire il sogno o la profezia di giustizia che l’umanità ha coltivato in varie forme nella sua lunga storia: “così si vedrà che da tempo il mondo sogna una cosa, di cui deve solo aver la coscienza per averla realmente. Si vedrà che non si tratta di tracciare una linea fra passato e futuro, ma di realizzare le idee del passato. Si vedrà infine come l’umanità non inizi un lavoro nuovo, bensì attui consapevolmente il suo antico lavoro”.
Nello stesso fascicolo (l’unico che vide la luce) Marx pubblicò anche un’Introduzione a Per la critica della Filosofia del diritto di Hegel, dove sostiene che il proletariato è la sola classe sociale che emancipando se stessa emancipa l’intera società e che la filosofia può trovare nel proletariato “le sue armi materiali”. La filosofia (ovvero gli intellettuali) è dunque la “testa di questa emancipazione”; “il suo cuore è il proletariato”. Due illusioni nobili, queste del giovane Marx, ma pur sempre illusioni.
Il proletariato, allora come oggi, è una classe oppressa e umiliata, ma resta una classe particolare che nella sua storia ha lottato e sofferto per finalità di emancipazione generale, ma ha anche sostenuto demagoghi autoritari. Attribuire al proletariato il semplice ruolo di cuore e forza materiale dello sforzo di emancipazione e agli intellettuali quello di cervello, significa aprire la strada, come la storia ha abbondantemente dimostrato, a freddi professionisti della rivoluzione e del governo, incapaci di condividere le sofferenze e le speranze degli oppressi e dunque pronti a diventare non compagni di lotta, ma nuovi dominatori.
In questo saggio, nato in un contesto segnato da appassionati dibattiti su religione e emancipazione sociale (ben documentato dalla recente biografia scritta da Gareth Stedman Jones, Karl Marx. Greatness and Illusion, Harvard University Press, 2016) Marx ha consegnato alla storia la sua celebre critica dell’alienazione religiosa: “L’uomo fa la religione, e non la religione l’uomo. [...] Essa è la realizzazione fantastica dell’essenza umana, poiché l’essenza umana non possiede una realtà vera. La lotta contro la religione è dunque mediatamente la lotta contro quel mondo, del quale la religione è l’aroma spirituale. La miseria religiosa è insieme l’espressione della miseria reale e la protesta contro la miseria reale. La religione è il sospiro della creatura oppressa, il sentimento di un mondo senza cuore, così come è lo spirito di una condizione senza spirito. Essa è l’oppio del popolo”. Sarebbe facile osservare che la religione, in particolare la religione cristiana, ha sostenuto importanti esperienze di liberazione politica e sociale.
Ma dalla critica alla religione, Marx trae due conclusioni di straordinario valore morale e politico: la prima consiste nel principio che “l’uomo è per l’uomo l’essere supremo”; la seconda nell’“imperativo categorico di rovesciare tutti i rapporti nei quali l’uomo è un essere degradato, assoggettato, abbandonato, spregevole”. Un principio e un imperativo da riscoprire in questo nostro tempo che ha completamente perso l’idea stessa, e anche la speranza, dell’emancipazione sociale.
COLLOQUIO. Nasceva duecento anni fa l’autore del «Manifesto del partito comunista»: sul suo pensiero abbiamo interpellato il sociologo Immanuel Wallerstein, che ne rivendica l’attualità. Non può fare a meno di lui una sinistra globale che voglia rappresentare l’80% più povero degli abitanti della terra
«Il capitalismo non è eterno. E Marx è ancora necessario»
conversazione tra Marcello Musto e Immanuel Wallerstein (Corriere della Sera, La Lettura, 08.06.2018)
Immanuel Wallerstein, senior research scholar alla Yale University (New Haven, Usa) è considerato uno dei più grandi sociologi viventi. I suoi scritti sono stati molto influenzati dalle opere di Karl Marx ed egli è uno degli studiosi più adatti per riflettere sul perché quel pensiero sia ritornato, ancora una volta, di attualità
MARCELLO MUSTO - Professor Wallerstein, quasi trent’anni dopo la fine del cosiddetto «socialismo reale», in quasi tutto il globo tantissimi dibattiti, pubblicazioni e conferenze hanno come tema la persistente capacità da parte di Marx di spiegare le contraddizioni del presente. Lei ritiene che le idee di Marx continueranno ad avere rilevanza per quanti ritengono necessario ripensare un’alternativa al capitalismo?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Esiste una vecchia storia su Marx che dice che ogni volta che si cerca di buttarlo fuori dalla porta, lui rientra dalla finestra. È quanto sta accadendo in questi anni. Marx è ancora fondamentale per quanto scrisse a proposito del capitalismo. Le sue osservazioni furono molto originali e completamente diverse da ciò che affermarono altri autori. Oggi affrontiamo problemi rispetto ai quali egli ha ancora molto da insegnarci e tanti editorialisti e studiosi - non certo solo io - trovano il pensiero di Marx particolarmente utile in questa fase di crisi economica e sociale. Ecco perché, nonostante quanto era stato predetto nel 1989, assistiamo alla sua rinnovata popolarità.
MARCELLO MUSTO - La caduta del Muro di Berlino ha liberato Marx dalle catene degli apparati statali dei regimi dell’Est Europa e da un’ideologia sideralmente lontana dalla sua concezione di società. Qual è il motivo centrale che suscita ancora tanta attenzione verso l’interpretazione del mondo di Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Io credo che, se chiedessimo a quanti conoscono Marx di riassumere in una sola idea la sua concezione del mondo, la maggior parte di essi risponderebbe «la lotta di classe». Io leggo Marx alla luce del presente e per me «lotta di classe» significa il perenne conflitto tra quella che io chiamo la «sinistra globale» - che ritengo possa ambire a rappresentare l’80% più povero della popolazione mondiale - e la «destra globale» - che rappresenta l’1% più ricco. Per vincere questo scontro bisogna conquistare il restante 19%; bisogna cercare di portarlo nel proprio campo e sottrarlo a quello dell’avversario. Viviamo in un’era di crisi strutturale del sistema mondo. Credo che il capitalismo non sopravvivrà, anche se nessuno sa con certezza da che cosa potrà essere sostituito. Io sono convinto che vi siano due possibilità. Una prima è rappresentata da quello che chiamo lo «spirito di Davos». L’obiettivo del Forum economico mondiale di Davos è quello di imporre un sistema sociale nel quale permangano le peggiori caratteristiche del capitalismo: le gerarchie sociali, lo sfruttamento e, soprattutto, il dominio incontrastato del mercato con la conseguente polarizzazione della ricchezza. L’alternativa è, invece, un sistema più democratico e più egualitario di quello esistente. Per tornare a Marx, dunque, la lotta di classe costituisce lo strumento fondamentale per influire sulla costruzione di ciò che, in futuro, sostituirà il capitalismo.
MARCELLO MUSTO - Le sue riflessioni circa la contesa per ricevere il sostegno politico della classe media ricordano Antonio Gramsci e il suo concetto di egemonia. Tuttavia, credo che per le forze di sinistra la questione prioritaria sia come ritornare a parlare alle masse popolari, ovvero quell’80% a cui lei fa riferimento, e come rimotivarle alla lotta politica. Questo è particolarmente urgente nel «Sud globale», dove è concentrata la maggioranza della popolazione mondiale e dove, negli ultimi tre decenni, a dispetto del drammatico aumento delle diseguaglianze prodotte dal capitalismo, partiti e movimenti progressisti si sono indeboliti. Lì l’opposizione alla globalizzazione neoliberista è spesso guidata dai fondamentalismi religiosi e da partiti xenofobi, un fenomeno in crescita anche in Europa. La domanda è se Marx può aiutarci in questo scenario. Libri di recente pubblicazione offrono nuove interpretazioni della sua opera. Essi rivelano un autore che fu capace di esaminare le contraddizioni della società capitalista ben oltre il conflitto tra capitale e lavoro. Marx dedicò molte energie allo studio delle società extra-europee e al ruolo distruttivo del colonialismo nelle periferie del sistema. Allo stesso modo, smentendo le interpretazioni che assimilano la concezione marxiana della società comunista al mero sviluppo delle forze produttive, l’interesse per la questione ecologica presente nell’opera di Marx fu ampio e rilevante. Infine, egli si occupò in modo approfondito di numerose tematiche che molti studiosi spesso sottovalutano o ignorano quando parlano di lui. Tra queste figurano le potenzialità emancipatrici della tecnologia, la critica dei nazionalismi, la ricerca di forme di proprietà collettive non controllate dallo Stato, o la centralità politica della libertà individuale nella sfera economica e politica: tutte questioni fondamentali dei nostri giorni. Accanto a questi «nuovi profili» di Marx - che suggeriscono come il rinnovato interesse per il suo pensiero sia un fenomeno destinato a proseguire nei prossimi anni - potrebbe indicare tre delle idee più conosciute di Marx a causa delle quali questo autore non può essere accantonato?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Innanzitutto, Marx ci ha insegnato meglio di chiunque altro che il capitalismo non corrisponde al modo naturale di organizzare la società. Già in Miseria della filosofia , pubblicato quando aveva solo 29 anni, schernì gli economisti che sostenevano che le relazioni capitalistiche si fondavano su «leggi naturali, indipendenti dall’influenza del tempo». Marx scrisse che gli economisti avevano riconosciuto il ruolo svolto dagli esseri umani nella storia quando avevano analizzato le «istituzioni feudali, nelle quali si trovavano rapporti di produzione del tutto differenti da quelli della società borghese». Tuttavia, essi mancarono di storicizzare il modo di produzione da loro difeso e presentarono il capitalismo come «naturale ed eterno». Nel mio libro Il capitalismo storico ho tentato di chiarire che il capitalismo è un sistema sociale storicamente determinato, contrariamente a quanto impropriamente sostenuto da alcuni economisti. Ho più volte affermato che non esiste un capitalismo che non sia capitalismo storico e, a tal proposito, dobbiamo molto a Marx. In secondo luogo, vorrei sottolineare l’importanza del concetto di «accumulazione originaria», ossia l’espropriazione della terra dei contadini che fu alla base del capitalismo. Marx capì benissimo che si trattava di un processo fondamentale per la costituzione del dominio della borghesia. È un fenomeno che persiste ancora oggi. Infine, inviterei a riflettere di nuovo sul tema «proprietà privata e comunismo». In Unione Sovietica, in particolare durante il periodo staliniano, lo Stato deteneva la proprietà dei mezzi di produzione. Ciò non impedì, però, che le persone fossero sfruttate e oppresse. Tutt’altro. Ipotizzare la costruzione del «socialismo in un solo Paese», come fece Stalin, costituì una novità mai considerata in precedenza, men che mai da Marx. La proprietà pubblica dei beni di produzione rappresenta una delle alternative possibili, ma non è l’unica. Esiste anche l’opzione della proprietà cooperativa. Tuttavia, se vogliamo costruire una società migliore, è necessario sapere chi produce e chi riceve il «plusvalore» - altro pilastro fondamentale della teoria di Marx. È questo il tema centrale. Va completamente mutato quanto si viene a determinare nei rapporti capitalistici di produzione.
MARCELLO MUSTO - Il 2018 coincide con il bicentenario della nascita di Marx e nuovi libri e film vengono dedicati alla sua vita. Quali sono gli episodi della biografia di Marx che lei considera più significativi?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Marx trascorse una vita molto difficile, in perenne lotta contro una povertà terribile. Fu molto fortunato ad avere incontrato un compagno come Friedrich Engels, che lo aiutò a sopravvivere. Marx non ebbe nemmeno una vita affettiva semplice e la sua tenacia nel portare a compimento la missione che aveva assegnato alla propria esistenza - ovvero la comprensione del meccanismo di funzionamento del capitalismo - è davvero ammirevole. Marx non pretese né di spiegare l’antichità, né di definire come avrebbe dovuto essere la futura società socialista. Volle comprendere il suo presente, il sistema capitalistico nel quale viveva.
MARCELLO MUSTO - Nel corso della sua vita, Marx non fu soltanto lo studioso isolato dal mondo tra i libri del British Museum; fu un rivoluzionario sempre impegnato nelle lotte della sua epoca. Da giovane, a causa della sua militanza politica, egli venne espulso dalla Francia, dal Belgio e dalla Germania e, quando le rivoluzioni del 1848 vennero sconfitte, fu costretto all’esilio in Inghilterra. Fondò quotidiani e riviste e appoggiò, in tutti i modi, le lotte del movimento operaio. Inoltre, dal 1864 al 1872 fu il principale animatore dell’Associazione internazionale dei lavoratori, la prima organizzazione transnazionale della classe operaia, e nel 1871 difese strenuamente la Comune di Parigi, il primo esperimento socialista della storia.
IMMANUEL WALLERSTEIN - Sì, è vero, è essenziale ricordare la militanza politica di Marx. Egli ebbe un’influenza straordinaria nell’Internazionale, un’organizzazione composta da lavoratori fisicamente distanti tra loro, in un’epoca in cui non esistevano mezzi che potessero agevolare la comunicazione. Marx fece politica anche attraverso il giornalismo, impiego che svolse per tanta parte della sua vita. Certo, lavorò come corrispondente del «New-York Daily Tribune» prima di tutto per avere un reddito, ma considerò i propri articoli - che raggiunsero un pubblico molto vasto - come parte della sua attività politica. Essere neutrale non aveva alcun senso ai suoi occhi - il che non vuol dire che mancò di rigore nelle sue analisi. Fu sempre un giornalista impegnato e critico.
MARCELLO MUSTO - Lo scorso anno, in occasione del centesimo anniversario della rivoluzione russa, alcuni studiosi sono ritornati a discutere sulle distanze tra Marx e alcuni suoi autoproclamatisi epigoni che sono stati al potere nel XX secolo. Qual è la maggiore differenza tra loro e Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - Gli scritti di Marx sono illuminanti e molto più sottili e raffinati di molte interpretazioni semplicistiche delle sue idee. È sempre bene ricordare che fu lo stesso Marx, con una famosa boutade , ad affermare dinanzi ad alcune interpretazioni del suo pensiero: «Quel che è certo è che io non sono marxista». Marx, a seguito dei suoi continui studi, non di rado mutò idee e opinioni. Si concentrò sui problemi che esistevano nella società del suo tempo e, a differenza di tanti che si sono richiamati al suo pensiero, fu profondamente antidogmatico. Questa è una delle ragioni per le quali Marx è una guida ancora così valida e utile.
MARCELLO MUSTO - Per concludere, che messaggio le piacerebbe trasmettere a quanti, nella nuova generazione, non hanno ancora letto Marx?
IMMANUEL WALLERSTEIN - La prima cosa che vorrei dire ai più giovani è di leggere direttamente gli scritti di Marx. Non leggete su Marx, ma leggete Marx. Solo pochi - fra tutti quelli che parlano di lui - hanno veramente letto le opere di Marx. È una considerazione che, peraltro, vale anche per Adam Smith. In genere, con la speranza di risparmiare tempo, molte persone preferiscono leggere a proposito dei classici del pensiero politico ed economico e, dunque, finiscono per conoscerli attraverso i resoconti di altri. È solo uno spreco di tempo! Bisogna leggere direttamente i giganti del pensiero moderno e Marx è, senza dubbio, uno dei principali studiosi del XIX e XX secolo. Nessuno gli è pari, né per la molteplicità delle tematiche da lui trattate, né per la qualità della sua analisi. Alle giovani generazioni dico che è indispensabile conoscere Marx e che per farlo bisogna leggere, leggere e leggere direttamente i suoi scritti. Leggete Karl Marx!
Dalla parte della storia
La giovinezza di Marx ed Engels, raccontata in un film solo all’apparenza biografico, ma che si concentra sulla congiuntura per mostrare il punto singolare dell’emergenza di una storia, individuale e collettiva
di Pietro Bianchi (Dinamo Press, Cult, 5 aprile 2018)
Bruxelles, 1848, ovvero il momento in cui Karl Marx e Friedrich Engels scrivono il manifesto del Partito Comunista. È così che finisce Il giovane Karl Marx di Raoul Peck: un biopic atipico, sentimentale, fatto da un regista haitiano tra i più intelligentemente politici degli ultimi anni e che riprende giusto una manciata di anni nella vita di Marx durante gli anni Quaranta dell’Ottocento fino appunto alla redazione del più famoso manifesto programmatico della storia moderna.
Fare un film su una figura così ingombrante come Marx è un progetto che metterebbe paura a chiunque (Ėjzenštejn, per dire, non c’era riuscito) eppure Raoul Peck riesce a passare dalla porta stretta che vi è tra la fedeltà alla ricostruzione storica (il racconto è molto più meticoloso, anche nei dettagli secondari, di quanto ci si potrebbe attendere da una produzione del genere) e un racconto di estrema semplicità e efficacia su un giovane intellettuale e militante che attraversa uno dei momenti cruciali della storia europea. L’idea è proprio quella di togliere a Marx quelle sembianze da icona che ci sono state tramandate dalla celebre fotografia con la barba lunga e di ricollocarlo invece nella contingenza della storia.
Ecco che allora Marx e Engels - il centro del film è la storia della loro amicizia - sono due giovani bohémiens che passano da Parigi a Londra, da Bruxelles alla Germania per organizzare e conoscere quel proletariato che per la prima volta si era affacciato in quegli anni sulla scena della storia e stava cambiando definitivamente la realtà che si aveva di fronte agli occhi. Ma nel film non ci sono solo le fabbriche di Manchester o le assemblee della Lega dei Giusti, i dibattiti con Proudhon e quelli con Wilhelm Weitling: ci sono anche i bar frequentati dagli operai tra risse e fiumi di alcol, le burrascose relazioni sentimentali e le improvvise colluttazioni con le autorità di giustizia.
Perché come è stato scritto da Lorenzo Rossi su Cineforum il rischio di un film che vuole rappresentare dei personaggi tanto rilevanti dal punto di vista storico è quello di pensare che abbiano avuto una sorta di incontro inevitabile con il proprio destino. È il tipico inganno di vedere le cose après-coup, a partire dai loro effetti: ed ecco che allora l’impressione che abbiamo è che quello che è accaduto non poteva non accadere. Se noi però portiamo il nostro sguardo sul presente della scelta - come avviene in questo film - le cose acquistano un aspetto molto diverso, perché tutto “sarebbe potuto essere diverso da quello che poi è stato”.
Vedere allora Marx seduto a un tavolo che scrive “un fantasma si aggira per l’Europa” ha l’effetto non tanto celebrativo di illustrare un momento che poi si rivelerà storico, quanto quello di far vedere che la storia si costruisce sempre a partire da una radicale contingenza. Insomma, le cose sarebbero anche potute andare diversamente e in ogni singolo momento la scelta si è sempre compiuta sullo sfondo di una sospensione radicale di ogni garanzia o necessità. Ecco che allora lo sguardo che Peck ci spinge ad adottare non è quello di chi ha costruito la storia perché “non poteva che andare così”, ma di chi è stato in grado di farlo solo perché vi era immerso completamente.
È per questo che Il giovane Karl Marx è un film tanto riuscito, nonostante la difficile restituzione della ricchezza del dibattito filosofico di quegli anni (che rimane quasi sempre sullo sfondo), nonostante il “vero” Marx - quello che ha davvero innovato la modernità con un’analisi inedita nel metodo e nel merito del modo di produzione capitalistico - inizi soltanto dopo il 1848, quando cioè il film finisce. Nel film quello che emerge è molto più semplicemente il fatto che Marx e Engels volessero qualcosa che andasse oltre a una prospettiva blandamente egualitaria di fratellanza tra gli uomini, come veniva espressa ne La lega dei Giusti (organizzazione socialista-utopista di cui il film ricostruisce splendidamente il momento del Congresso del giugno 1847 in cui cambia il nome in Lega dei Comunisti) e che il comunismo dovesse porre il problema di un soggetto sociale che per la prima volta mostrava nella storia i paradossi e i limiti dell’egualitarismo borghese: il proletariato.
Alla fine, quando la lettura di alcuni passi de Il Manifesto del Partito Comunista si sovrappone a dei tableau vivant di proletari del 1848 che guardano in macchina, il film termina con uno splendido cartello che dice quella che è forse la verità più decisiva del film: Marx dopo il 1848 inizia a lavorare alla sua opera più importante, Il Capitale, che rimarrà incompiuta, proprio perché l’oggetto di cui si occupa è costantemente in movimento nella storia.
L’opera di Marx insomma non è una dottrina, ma un’opera aperta, e ciò che Il giovane Karl Marx ci spinge a fare è di non ridurre la vita Marx a un’agiografia ma di essere fedeli allo spirito della sua vita: cioè, pensare quell’oggetto storico che chiamiamo capitalismo non con la freddezza e il distacco del ricercatore, ma con la partecipazione di qualcuno che sa che di quella storia è inevitabilmente parte.
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Il giovane Marx. Come si diventa rivoluzionari
Esce sugli schermi italiani in questi giorni di aprile il film di Raoul Peck sulla turbolenta giovinezza di Karl Marx e il suo decisivo incontro con Friedrich Engels: tutto nel segno del “comune” dalla polemica sui furti di legna alla stesura del Manifesto
di Augusto Illuminati (Dinamo Press, Cult, 5 aprile 2018)
Il bel film (2017) del regista haitiano, autore di Lumumba (2000) e I Am Not Your Negro (2016), tratta gli anni giovanili di Marx (Augusto Diehl) ed Engels (Stefan Konarske) e delle loro compagne, l’aristocratica Jenny von Westphalen (Vicki Krieps) e l’operaia irlandese Mary Burns (Hannah Steele) - dai primi articoli marxiani del 1842-1843 sulla “Rheinische Zeitung” di Colonia e sui “Deutsch-franzősische Jahrbücher” editi da A. Ruge a Parigi fino alla stesura a quattro mani del Manifesto del partito comunista nel 1847-1848, passando per tutte le peripezie degli anni di Parigi, Bruxelles, Londra: espulsioni, censure, polemiche, congressi fondativi, scissioni e vicende familiari.
Peck, che è anche sceneggiatore insieme a P. Bonitzer e P. Hodgson, non tratta Marx ed Engels come “personaggi concettuali” - riservando tale veste piuttosto al “comunismo” nelle sue varie e contraddittorie declinazioni (dal “furto” di legna iniziale all’umanitarismo della Lega dei Giusti, dalle astrazioni proudhoniane alle pratiche di lotta operaia e alla definizione del Manifesto) - ma ne restituisce un’immagine pubblica e privata molto sciolta e bohémienne, mostrandoli come esponenti di una controcultura romantica in via di rapida politicizzazione.
Tale era infatti la cerchia dei giovani hegeliani e dei loro corrispondenti europei. Approccio che risalta nei dettagli aneddotici - la ribellione contro la censura prussiana, le fughe dai controlli polizieschi di Guizot, la partita a scacchi di Marx con Courbet, le turbolente riunioni nelle osterie del Fbg. Saint-Antoine, le incursioni dell’innamorato Engels nei bassifondi di Manchester, il sogno schilleriano in cui i contadini della Mosella rimossi dagli usi civici ritornano in sogno come briganti alla notizia dell’attentato a re di Prussia - e naturalmente colorisce anche i rapporti dei due protagonisti con le donne, segnandoli in modo diverso.
Qui subentra un elemento più analitico e sostanziale, così come nel rapporto fra le due donne, la moglie Jenny e la compagna Mary - che implica in sottinteso anche quello fra Jenny e la fedele cameriera e altro, Lenchen, abbreviativo di Helene Demuth.
Entrambe le donne (e pure Lenchen) furono prodighe non solo di cure ma anche di informazioni e consigli politici ai due redattori del Manifesto e il ruolo di Mary nell’ideazione stessa nel 1845 della Situazione della classe operaia in Inghilterra di Engels (fondamentale per la svolta di Marx dalla filosofia all’economia) è stata ampiamente riconosciuto, in primo luogo dallo stesso autore. Engels non mancò di tributare un elogio, nel 1890 in occasione dei funerali, anche al contributo di Lenchen, che aveva preso in casa dopo la morte di Marx. Per di più, nel 1851, aveva riconosciuto come proprio il figlio che Lenchen aveva avuto da Marx, Freddy rinnegato per non rovinare con uno scandalo l’armonia e il prestigio familiare...
Nel film la complicità fra Jenny e Lenchen addolcisce una brutta storia patriarcale, così come vengono forse migliorati i rapporti fra Karl e Mary, occultando l’egoismo marxiano, che si manifestò in modo penoso alla notizia della morte di Mary - ben oltre i limiti cronologici del film. Che in compenso insiste molto anche sui suggerimenti di Jenny, omaggio di stagione al femminismo su una materia che certamente Marx si guardò bene dal documentare. -Nel grande dialogo d’invenzione sulla spiaggia di Ostenda fra Jenny e Mary, la prima esprime una prospettiva tradizionale su figli e famiglia, mentre la seconda rivendica il suo diritto alla libertà da quei vincoli e vuole restare povera come è nata per essere rivoluzionaria (la prima, invece, accetta di impoverirsi per amore di Karl).
Passano sullo schermo Ruge, Hess, il sarto Weitling, profeta della fratellanza mistica della Lega dei Giusti, Proudhon, Bakunin e tanti altri, vediamo la fabbrica della famiglia Engels che è insieme la fonte di reddito di Marx e il modello reale della sua teoria economica - decisiva fu infatti la spinta di Friedrich per far passare Karl dalla critica filosofica della società e dello stato alla critica dell’economia politica borghese. Das Kapital restituisce gli esborsi di capitali dell’amico e compensa storicamente (non individualmente) la parte egocentrica e convenzionale della personalità dell’autore.
Nel film il passaggio decisivo (l’effetto Manchester, l’effetto Friedrich e Mary) è il congresso del giugno 1847, quando Marx ed Engels trasformano a forza la Lega dei Giusti in Lega dei Comunisti, di cui il Manifesto sarà il programma. Non più fratellanza egualitaria ma rapporti di produzione e lotta di classe, non più “umanità” ma “proletariato”: comunismo è il movimento reale che sopprime lo stato di cose esistenti e dunque si rinnova ogni volta contro ogni stato di cose, contro ogni processo di accumulazione per recinzione del comune ed estrazione del valore dalla cooperazione sociale. Da allora a oggi, mai ripetendosi. Dunque si passa dai volti dei proletari d’epoca alle scene delle lotte del Novecento su scala mondiale, mentre in colonna sonora, dopo le citazioni salienti del Manifesto e i titoli di coda, scorre il dylaniano Like a Rolling Stone, un susseguirsi sempre aperto, di rimbalzo in rimbalzo, delle immagini di Vietnam, ’68, Allende, Mandela, riots Usa, Lumumba, Guevara...
Karl Marx torna di moda: svelato il mistero della sua barba
di Viktor Gaiduk (Il Sole-24 Ore, Domenica, 18 marzo 2018)
La storia dimostra che i barbuti hanno sempre avuto un ruolo significativo nella società, soprattutto dopo la caduta di Napoleone. Karl Marx, l’autore dell’opera più nota e discussa dell’economia politica, Il Capitale, il prossimo 5 maggio compirà i 200 anni. Prima di tanti articoli ufficiali e valutazioni accademiche, diremo semplicemente che egli segnò l’inizio del movimento socio-politico noto come “marxismo” e fu costantemente riprodotto con la sua barba. Ora riprendendo un’immagine conservata negli archivi di Mosca, lo possiamo vedere non come un vecchio professore ma come giovane studente. E in tal modo torna alla ribalta tra i giovanotti di oggi, moscoviti e pietroburghesi.
Tranquillo e con un’espressione da buono, Marx si addormentò per sempre su una poltrona nel suo appartamento di Londra (1883). Sia questa poltrona mortuaria, sia la copia dell’identikit di polizia prussiana del 1836, raffigurante Marx studente e ribelle, oggi si trovano nell’Archivio di Mosca della Storia Sociale e Politica (RGASPI), in un bunker sotterraneo fatto costruire da Stalin dalle acciaierie tedesche Krupp. È il caso di ricordare che il nome di battaglia di Stalin viene dalla parola russa che significa acciaio, “Stal”.
Questo è un archivio unico, con dei fondi che contengono un gran numero di documenti e oggetti museali, testimoni della storia europea (secoli XVII-XX). Oggetto di notevole interesse per le ricerche, tale luogo conserva tra l’altro innumerevoli carte essenziali per vicende legate a rivoluzioni e a innovazioni. Tra faldoni e manoscritti qui conservati, oltre al Manifesto del partito comunista (1848), si può scoprire Il Manifesto dei barbuti della stessa data. Una celebre battuta di Marx aiuta a chiarire quanto scrivo: «La rivolta degli uomini moderni con la barba sta minando le basi su cui la borghesia focalizza la sua attenzione. Con ciò la borghesia scava la tomba a se stessa. La sua caduta e la vittoria della barba sono ugualmente inevitabili».
Herbert Wells (1866 -1946), sostenitore del socialismo democratico, visitando Mosca per parlare con Lenin e Stalin, giunse a questa conclusione: «Il Capitale di Marx è un volume folto e denso come la barba dell’autore. Un bel giorno mi armerò di forbici e gliela taglierò».
Ma Marx, ovviamente, anche nelle foto che si vedevano tradizionalmente negli uffici moscoviti del tempo che fu, è rimasto con la sua barba. Anche se, date le chiacchiere che circolarono sul suo conto sia quando era vivo sia quando fu morto, sappiamo (grazie agli archivi di Mosca e a una foto tanto citata e mai trovata) che il fondatore del marxismo fu sepolto senza la sua celebre barba. Insomma, era ben rasato. Il segreto fu custodito fino all’ultimo respiro del sistema sovietico. Forse quella foto fu distrutta, forse è ancora nascosta da qualche parte. Che cosa accadde?
Poco prima della sua morte, Karl Marx decise di iniziare una “nuova vita”. Di che cosa si trattasse esattamente non è chiaro, ma a sostegno della sua scelta e delle sue intenzioni, si privò della barba e abbandonò l’aspetto del profeta-pensatore. A meno di un anno dalla morte, il 28 aprile 1882, in viaggio in Algeria, Marx scrisse a Engels di essersi recato da un barbiere locale e di essersi fatto rasare. Fu questo Marx senza l’onor del mento che, il 17 marzo 1883, venne sepolto in un cimitero a Londra nella stessa tomba dove riposava sua moglie, scomparsa poco più di un anno prima.
Si diceva a Mosca, e si ripete ancor oggi, che la CIA - come tutti i servizi segreti riuscì a volte a essere seria fino al limite del ridicolo - pianificò con l’aiuto di uno shampoo speciale la possibilità far cadere la celebre barba di Fidel Castro, privandolo così anche dell’autorità rivoluzionaria. In effetti, potete immaginare Karl Marx, Fidel Castro, Giuseppe Mazzini o Lev Tolstoj senza barba?
Tra i documenti dell’Archivio Marx e Engels di Mosca è conservato un dagherrotipo: vediamo il vecchio Karl con una barba completamente bianca. È l’ultima sua effige. Marx senza barba è paragonabile a Marx senza marxismo. Del resto, quando in Russia proprio il marxismo ha cessato di essere la dottrina ufficiale, si è conosciuta anche l’immagine di Marx imberbe ribelle, con quattro peli non ancora rivoluzionari. Qualcuno ipotizza che quando si fece depilare dal barbiere di Algeri, smise a sua volta di essere marxista. Forse perché si era stancato, prima di molti altri, dei suoi seguaci e adoratori.
Karl Marx, il risveglio del giornalista
di Fabrizio Denunzio (il manifesto, 05 Febbraio 2016)
Qualunque soggetto volesse tornare a mettere piede sul campo delicatissimo e strategicamente determinante dell’organizzazione politica delle masse, lo dovrebbe fare tenendo sempre presente le indicazioni fornite da Gramsci in quella nota del primo quaderno del carcere dedicata a Hegel e l’associazionismo. Ciò che si trova di operativo in queste annotazioni si riferisce non tanto a Hegel ma, naturalmente a Marx: «Marx non poteva avere esperienze storiche superiori a quelle di Hegel (almeno molto superiori), ma aveva il senso delle masse, per la sua attività giornalistica e agitatoria. Il concetto di Marx dell’organizzazione rimane impigliato tra questi elementi: organizzazione di mestiere, clubs giacobini, cospirazioni segrete di piccoli gruppi, organizzazione giornalistica».
Sebbene limitate dalle condizioni storiche del tempo, teoria e prassi dell’organizzazione di Marx vengono riportate da Gramsci al medium egemone dell’Ottocento: il giornale. Tradotta e operativizzata nel linguaggio di una qualunque media theory, questa geniale osservazione non vuol dire altro che Marx, lavorando come giornalista, faceva esperienza delle masse nella forma di quella del pubblico di lettori e che riversava, tra gli altri, il modello organizzativo dell’industria culturale giornalistica su quello dell’organizzazione operaia. Tornare a mettere piede sul terreno organizzativo significa, allora, riflettere sul modo in cui i media strutturano i pubblici e li fidelizzano e su come, debitamente riutilizzato, questo stesso modo può rilanciare le forme politiche dell’associazionismo collettivo.
Una febbrile attività
L’abbrivio sembra essere proprio l’esperienza giornalistica di Marx. Se oggi possiamo e dobbiamo tornare a rifletterci non è solo in funzione della riflessione abbozzata velocemente su di essa da Lukács nel suo Il giovane Marx (da poco ripubblicato da Orthotes), ma è soprattutto grazie a Dal nostro corrispondente a Londra. Karl Marx giornalista per la New York Daily Tribune (traduzione e cura di G. Vintaloro, Corpo60, ebook, euro 6,99). Il testo riunisce una serie di articoli scelti tra tutti quelli che Marx scrisse come corrispondente da Londra per la testata newyorkese dal 1852 al 1861. Anni sicuramente non facili. Arrivato nella capitale inglese nell’agosto del 1849 dopo essere stato espulso dalla Francia, il filosofo e la sua famiglia, al pari di quelle operaie inglesi, soffrono fame, miseria e morte.
La spia prussiana che riesce a farsi ricevere in questo periodo nella loro casa di Soho rimane colpita dalla sporcizia e dalla fatiscenza del mobilio, più in genere, dalla completa assenza di ogni comodità. Sebbene nell’arco di questo drammatico decennio Marx riesca a trovare il tempo per recarsi alla biblioteca del British Museum - una serie di ricerche che culmineranno nella «febbrile» stesura dei Grundrisse tra il 1857 e il 1858 - il lavoro giornalistico resta il principale impegno, l’unica fonte di mantenimento.
Dal nostro corrispondente a Londra, torna a raccogliere le «prove» di questa attività. Il libro lo si compra e scarica on-line nei formati epub o mobi; se ne arricchisce la lettura cliccando sulle parole «linkate»; permette di collegarsi alle versioni originali degli articoli. È come se i «vecchi» contenuti rivoluzionari del Marx giornalista non potessero trovare miglior riconfigurazione se non implementati in supporti e forme di lettura «nuovi» completamente rivoluzionati dalla tecnologia digitale. Il che ha un suo senso.
A ben guardare, però, quando si tratta di media, in questo caso stampa ottocentesca ed ebook del nuovo millennio, la distanza temporale non sembra misurabile più di tanto in secoli. Nello stesso modo in cui il formato digitale dei libri porta in primo piano la modalità di appropriazione della conoscenza, sarebbe a dire la capacità di lettura incorporata nel lettore, così, col giornalismo, Marx si trova a dover fare i conti con la soggettività culturale del pubblico dei lettori della New York Daily Tribune.
Questioni di stile ed egemonia
Scrivendo articoli per il giornale deve, cioè, implicare nel momento produttivo della scrittura anche quello ricettivo del consumo. Si riferiva a questo Gramsci quando parlava del senso delle masse acquisto da Marx durante la sua attività giornalistica: rivolgersi a un pubblico comporta tanto catturarne l’attenzione quanto riprodurne il consenso dato alla lettura. Se la prima è una questione di stile, il secondo è un problema di egemonia. Se la prima è deputata a «incantare» il lettore, la seconda ha come compito quello di fidelizzarlo. In questo senso, riutilizzare politicamente la strutturazione in pubblico delle masse ai fini dell’associazionismo collettivo, vuol dire fondare il momento organizzativo sulla «narrazione» piuttosto che sulla propaganda.
Ed è proprio nel registro stilistico-narrativo che si trova una delle più forti fonti d’interesse di questa raccolta. Prima di essa, però, se ne deve segnalare un’altra. Un po’ di questi articoli spesso, sul mercato editoriale italiano, li si è letti in raccolte tematiche, si pensi a quelli Sul Risorgimento Italiano o a India, Cina, Russia o, ancora, a La guerra civile negli Stati Uniti.
Decontestualizzati dall’ambiente giornalistico in cui sono stati prodotti e svincolati dal pubblico a cui erano destinati (non dimentichiamolo, un certo tipo di lettori progressisti come quelli della New York Daily Tribune), questi articoli sono diventati saggi di storia rivolti, nel migliore dei casi, al movimento operaio e ai comunisti, nel peggiore, ai soli «marxologi».
Dal nostro corrispondente a Londra, invece, ce li restituisce nel loro carattere primigenio, ci invia ad appropriarcene al di fuori delle «incrostazioni» che ogni tradizione culturale sedimenta, nel corso del tempo, sui testi originari che hanno contribuito a fondarla. Leggere i sedici articoli della raccolta come pezzi di giornale, da un lato li restituisce al loro essere «selvaggio», interventi pensati nella contingenza di eventi specifici (colonialismo e corruzione elettorale inglese; guerra di Crimea; imbrogli finanziari di Luigi Bonaparte; unità d’Italia), dall’altro potrebbe, esercizio ben più difficile, liberarli dalla loro «auraticità», rendendoli degni di quel disprezzo che Marx nutriva per essi nutrendolo, in genere, per quello stesso giornalismo che gli dava da mangiare ma che, al contempo, in modo del tutto inconsapevole, contribuiva a rivoluzionare definendone un modello militante animato dal dire la verità.
Miscelare la scrittura
È per questo motivo che le strategie stilistico-narrative del dire il vero, le cui gamme Marx scopre e sperimenta durante la sua attività di corrispondente da Londra, sono così importanti. Su questo punto si sofferma, con grande perizia, il curatore della raccolta al quale si deve, inoltre, il raffinato dettato della voce italiana di questo Marx giornalista. Vitaloro ci fa vedere come, nell’esercizio della sua professione, il filosofo tedesco passi dal periodare «piuttosto incerto e legnoso, con uno stile povero di subordinate e ricco di reminiscenze greco-romane tipiche dell’educazione ottocentesca centroeuropea» dei primi articoli a quello molto più curato nello scegliere aggettivi e incipit, nel miscelare le altezze della teoria con la trivialità della vita quotidiana degli ultimi interventi dei primi anni del 1860. Il tutto sempre puntellato da una profonda ironia sarcastica.
Così, ad esempio, nell’articolo del 15 aprile 1854, Dichiarazione di guerra. Sulla storia della questione orientale, Marx scrive del tentativo fatto per risolvere la drammatica convivenza degli ebrei di Gerusalemme con le altre religioni: «Per accrescere la miseria di questi giudei, l’Inghilterra e la Prussia hanno nominato nel 1840 un vescovo anglicano a Gerusalemme, il cui scopo dichiarato era la loro conversione. Nel 1845 fu selvaggiamente picchiato e insultato da giudei, cristiani e turchi allo stesso modo. Si potrebbe dire che sia stata la prima e unica causa di unione tra tutte le religioni in Gerusalemme».
Queste qualità stilistico-narrative, però, hanno senso solo perché sono messe al servizio della verità, ossia sono strumenti che servono ad articolare al meglio il dire il vero, sono, in breve, subordinate a una visione etica del fare giornalismo: «Non siamo degli ammiratori della condotta militare di Sua Signoria, e abbiamo criticato liberamente le sue cantonate, ma la verità ci richiede di dire che i terribili mali in mezzo a cui i soldati in Crimea periscono non sono colpa sua, ma del sistema su cui si basa l’establishment di guerra britannico» (Il disastro britannico in Crimea. Il sistema militare britannico, 22 gennaio 1855).
Il vero e il falso
In questo senso Marx non arriva del tutto sprovvisto di competenze alla collaborazione con la New York Daily Tribune poiché il modello etico di un giornalismo militante affinché il vero venga detto lo aveva già iniziato a mettere a punto fin dai tempi della direzione della «Gazzetta renana» nell’ottobre del 1842, esperienza che si concluderà nel marzo del 1843 a causa della repressione prussiana.
Il tutto porta inevitabilmente al problema dell’ideologia poiché il dire la verità, nel modello marxiano, comporta lo smascheramento della falsità di quelle idee con cui la classe dominante irretisce e soggioga la coscienza dei dominati. Questione annosa e cruciale.
Per affrontarla proponiamo di leggere questi articoli marxiani non più come azioni dirette verso la presa di coscienza, bensì come tecniche di risveglio da sogni oscuri all’ombra dei quali ciclicamente la coscienza collettiva europea torna ad addormentarsi. Solo fatto in questo modo il giornalismo ha ancora senso.
Karl Marx ci insegna che la felicità è una forma di emancipazione politica
Paul B. Preciado, Libération, Francia *
In un’epoca nella quale la psicologia del successo si presenta come l’ultimo Graal del neoliberismo, per affrontare il sinistro festival di violenze politiche, economiche ed ecologiche nelle quali ci troviamo coinvolti, la biografia di Karl Marx, scritta dal polemico giornalista inglese Francis Wheen, può essere letta come un potente antidoto ai programmi di allenamento e di sviluppo personale.
Può darsi che, leggendo delle allegre sventure di Marx, vada creandosi un’antipsicologia dell’io per utenti di un mondo in decomposizione. La felicità, in quanto successo personale, non è altro che l’estensione della logica del capitale alla produzione della soggettività.
Interessandoci alla difficile e tumultuosa vita di Marx è possibile concludere che, contrariamente a quanto la psicologia dell’io e del miglioramento personale cercano di farci credere, la felicità non dipende dal successo personale, né dall’accumulo di proprietà o di ricchezze economiche.
La critica irriverente
La felicità non si trova grazie al “management” emotivo, non risiede nell’equilibrio psicologico inteso come gestione delle risorse personali e controllo degli affetti. E anche se è difficile ammetterlo, non dipende neanche dalla salute né dalla bellezza. Non coincide neppure con la bontà.
Marx ha trascorso buona parte della sua vita subendo persecuzioni politiche, malattia, fame e miseria. La sua carriera di autore comincia con la censura e si conclude con un fallimento editoriale. Il suo primo articolo, scritto a 26 anni, era una critica alle leggi sulla censura promulgate da re Federico Guglielmo sesto. Come avrebbe potuto intuire lo stesso autore (ma so per esperienza che il critico dimentica talvolta di essere a sua volta sottoposto alle leggi che critica), l’articolo fu immediatamente censurato dal quotidiano Deutsche Jahrbücher.
La stessa censura si abbatté sul primo articolo da lui scritto per il Rheinische Zeitung, il cui testo fu dichiarato una “critica irriverente e irrispettosa delle istituzioni governative”. La censura finirà per essere la grande editrice di Marx, perseguitandolo da una lingua all’altra, di paese in paese.
Se Marx fosse vissuto all’epoca di Facebook avrebbe avuto più detrattori che amici
La più lunga e più importante delle sue opere fu accolta nell’indifferenza di critica e lettori. La pubblicazione del primo volume di Il capitale, al quale aveva dedicato cinque anni della sua vita, lavorando in una sala di lettura del British museum di Londra, passò quasi del tutto inosservata e vendette solo, nel corso della vita dell’autore, alcune centinaia di copie. Lento nel suo lavoro di scrittura e molto malato, Marx non visse abbastanza da vedere la pubblicazione degli altri due volumi di Il capitale.
Marx non ebbe successo come autore, né si può dire che visse in condizioni confortevoli. Dal 1845, per oltre vent’anni, fu un rifugiato politico in tre diversi paesi, Francia, Belgio e soprattutto Regno Unito, con la moglie Jenny e i suoi figli.
Durante il suo periplo da esule Marx, che diceva lui stesso di non essere fisicamente e psichicamente adatto a nessun altro lavoro che non fosse quello dell’intellettuale, fu costretto a ipotecare tutti i suoi beni, compresi i mobili e le giacche. Due dei suoi figli furono uccisi da malattie dovute alla fame, dall’umidità e dal freddo. Lui stesso soffriva di coliche epatiche, di reumatismi, di mal di denti e di emicranie. Scrisse una gran parte dei suoi libri in piedi perché i suoi foruncoli gli impedivano di stare seduto. Marx era un uomo brutto e non si può dire che sia stato davvero un uomo buono. Condivideva la maggioranza dei pregiudizi razziali e sessuali della sua epoca e, per quanto d’origine ebraica, non esitava a utilizzare insulti antisemiti contro i suoi detrattori.
L’ottimismo dialettico
Wheen ritrae un Marx autoritario e sbruffone, incapace di accettare le critiche, costantemente coinvolto in litigi tra amici, nemici e avversari, ai quali inviava lunghe lettere d’insulti e contro i quali pubblicavi articoli satirici sulla stampa. Nel 1852, per esempio, consacrò un intero anno a redigere il voluminoso trattato I grandi uomini dell’esilio, una satira rivolta “ai più celebri somari” della diaspora socialista. Il libro fu un fiasco, che gli valse vari processi e numerose sfide a duello.
Marx non conobbe ne successo economico né notorietà, e se fosse vissuto all’epoca di Facebook avrebbe avuto più detrattori che amici. Eppure, contro ogni attesa, si può dire che Marx fu un uomo intensamente felice.
I cultori dello sviluppo personale potrebbero sostenere che la chiave del suo successo fosse il suo smodato ottimismo. È vero. Ma questa passione non aveva alcun legame con la stupida esortazione al “feel good” neoliberista. L’ottimismo di Marx era dialettico, rivoluzionario e quasi apocalittico. Era un pessimista ottimista. Marx non desiderava che tutto migliorasse, bensì che le cose peggiorassero fino al punto in cui la coscienza collettiva si rendeva conto della necessità di un cambiamento.
La felicità di Marx risiede nel suo incrollabile senso dell’umorismo
È per questo che sognava, nelle sue incessanti conversazioni con Engels, l’aumento dei prezzi e il crollo totale dell’economia che, secondo le sue previsioni (che oggi sappiamo essere false), avrebbero inesorabilmente condotto alla rivoluzione operaia.
Aveva solo 27 anni quando gli fu ritirato il passaporto prussiano, con l’accusa di mancata lealtà politica. Marx accettò l’annuncio del suo statuto di apolide con una dichiarazione che rigetta ogni forma di vittimismo: “Il governo”, scrisse, “mi ha restituito la libertà”. Non chiese di essere riconosciuto come cittadino, ma di usare in maniera esponenziale la libertà offertagli dall’esilio. Nelle riunioni di profughi di ogni nazionalità maturò l’idea dell’internazionale come forza proletaria trasversale, capace di sfidare l’organizzazione stato-nazione e i suoi imperi.
La felicità di Marx risiede nel suo incrollabile senso dell’umorismo - “Non credo nessuno abbia mai scritto così tanto sul denaro avendone così poco” -, nella passione infusa nel leggere Shakespeare ogni sera ai suoi figli, nelle conversazioni (non necessariamente cordiali ma sempre appassionate) con Engels e nel suo instancabile desiderio di comprendere la complessità del mondo che lo circondava.
La vita di Marx, luminosa e difficile, c’insegna che la felicità è una forma d’emancipazione politica: il potere di rifiutare le convenzioni morali di un’epoca e con esse il successo, la proprietà, la bellezza, la gloria o la dignità come le principali linee intorno a cui organizzazione un’esistenza.
La felicità sta nella capacità di percepire ogni cosa come facente parte di noi stessi, proprietà al contempo di tutti e di nessuno. La felicità sta nella convinzione che essere vivi significhi essere testimoni di un’epoca, sentendosi in questo modo responsabili, in maniera vitale e appassionatamente responsabile, del destino collettivo del pianeta.
(Traduzione di Federico Ferrone)
La seconda vita di Karl Marx
Nuovi manoscritti smontano dogmatismi antichi e offrono analisi attuali sulla crisi Dopo anni di lodi sperticate alla logica di mercato, è molto utile analizzare la sua opera e i suoi appunti
Con questo articolo Marcello Musto, docente presso il Dipartimento di Scienze Politiche della York University di Toronto, ed esperto di marxismo, avvia una collaborazione con l’Unità
di Marcello Musto (l’Unità, 24.06.2012)
SE LA PERPETUA GIOVINEZZA DI UN AUTORE STA NELLA SUA CAPACITÀ DI RIUSCIRE A STIMOLARE SEMPRE NUOVE IDEE, si può allora affermare che Karl Marx possiede, senz’altro, questa virtù.
Nonostante, dopo la caduta del Muro di Berlino, conservatori e progressisti, liberali ed ex-comunisti, ne avessero decretato, quasi all’unanimità, la definitiva scomparsa, con una velocità per molti versi sorprendente, le sue teorie sono ritornate di grande attualità. Di fronte alla recente crisi economica e alle profonde contraddizioni che dilaniano la società capitalistica, si è ripreso a interrogare il pensatore frettolosamente messo da parte dopo il 1989 e, negli ultimi anni, centinaia di quotidiani, periodici, emittenti televisive e radiofoniche, di tutto il mondo, hanno celebrato le analisi contenute ne Il capitale.
NUOVI SENTIERI PER LA RICERCA
Questa riscoperta è accompagnata, sul fronte accademico, dal proseguimento della nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels, la Mega2. In essa, le numerose opere incompiute di Marx sono state ripubblicate rispettando lo stato originario dei manoscritti e non, come avvenuto in precedenza, sulla base degli interventi redazionali cui essi furono sottoposti.
Grazie a questa importante novità e tramite la stampa dei quaderni di appunti di Marx (precedentemente quasi del tutto sconosciuti), emerge un pensatore per molti versi differente da quello rappresentato da tanti avversari e presunti seguaci.
Alla statua dal profilo granitico che, nelle piazze di Mosca e Pechino, indicava il sol dell’avvenire con certezza dogmatica, si sostituisce l’immagine di un autore fortemente autocritico che, nel corso della sua esistenza, lasciò incompleta una parte significativa delle opere che si era proposto di scrivere, perché sentì l’esigenza di dedicare le sue energie a studi ulteriori che verificassero la validità delle proprie tesi.
Diverse interpretazioni consolidate dell’opera di Marx vengono, così, rimesse in discussione.
Le cento pagine iniziali de L’ideologia tedesca (testo molto dibattuto nel Novecento e da tutti considerato pressoché terminato) sono state pubblicate, per la prima volta, in ordine cronologico e nella veste originaria di sette frammenti separati. Si è scoperto che essi erano degli scarti delle sezioni, del libro in cantiere, dedicate agli esponenti della Sinistra hegeliana Bauer e Stirner. La prima edizione del testo, stampata a Mosca nel 1932, ma anche le numerose e successive versioni, che non ne variarono di molto la sostanza, crearono, invece, l’errata impressione che il cosiddetto «capitolo su Feuerbach» rappresentasse la parte principale del libro scritto da un Giano bifronte (Marx ed Engels), nel quale - secondo gli studiosi sovietici - erano state esposte esaustivamente le leggi del materialismo storico (espressione, per altro, mai utilizzata da Marx), o - secondo il marxista francese Althusser - era stata partorita niente meno che «una rottura epistemologica senza equivoci, chiaramente presente nell’opera di Marx».
Ulteriore motivo di interesse di questa edizione è l’avanzamento nella distinzione tra la concezione di Marx e quella di Engels. Passaggi precedentemente considerati del tutto unitari vengono letti in modo differente. La frase, oggetto di critiche feroci e difese ideologiche, ritenuta da diversi autori come una delle principali descrizioni della società post-capitalistica secondo Marx («la società comunista (... ) regola la produzione in generale e (... ) mi rende possibile il fare oggi questa cosa, domani quell’altra; la mattina andare a caccia, il pomeriggio pescare, la sera allevare il bestiame, dopo pranzo criticare”), fu, in realtà, opera del solo Engels (ancora influenzato dalle idee degli utopisti francesi) e del tutto respinta dal suo amico più caro.
Le acquisizioni filologiche della Mega2 hanno prodotto risultati di rilievo anche rispetto al magnum opus di Marx. Nel corso dell’ultimo decennio sono stati pubblicati quattro nuovi volumi, contenenti tutte le bozze mancanti dei Libri Secondo e Terzo de Il capitale - lasciati, com’è noto, da lui incompleti. La stampa di questi testi consente di ricostruire l’intero processo di selezione e composizione dei manoscritti marxiani svolto da Engels (i suoi interventi ammontano a diverse migliaia - cifra inimmaginabile fino a pochi anni fa), nel lungo arco di tempo compreso tra il 1883 e il 1894.
Oggi si può valutare, dunque, dove egli apportò consistenti modifiche e dove, invece, rispettò più fedelmente il testo di Marx che pure, occorre affermarlo con chiarezza, non rappresenta affatto l’approdo finale della sua ricerca (incluse le pagine sulla celebre Legge della caduta tendenziale del saggio di profitto).
NON SOLO UN CLASSICO
Credere di poter relegare Marx alla funzione di classico imbalsamato, al campo degli specialismi dell’accademia, costituirebbe, però, un errore pari a quello commesso da coloro che lo trasformarono nella fonte dottrinaria del “socialismo reale”. Le sue analisi sono più attuali che mai.
Quando Marx scrisse Il capitale, il modo di produzione capitalistico era ancora in una fase iniziale del proprio sviluppo. Oggi, in seguito al crollo dell’Unione Sovietica e alla sua espansione geografica in nuove aree del pianeta (in primis la Cina), esso è divenuto un sistema compiutamente globale - che invade e condiziona tutti gli aspetti (non solo quelli economici) della vita degli esseri umani - e le riflessioni di Marx si rivelano più feconde di quanto non lo fossero al suo tempo.
Dopo vent’anni di lodi incondizionate alla società di mercato, pensieri deboli subalterni e vacuità post-moderne, poter ritornare a guardare l’orizzonte sulle spalle di un gigante come Marx è una notizia positiva per tutti quelli che sono impegnati nella ricerca, politica e teorica, di un’alternativa democratica al capitalismo.
Karl Heinrich Marx (1818 - 1883), filosofo ed economista tedesco
Il ritorno del gigante
La Mega 2
La nuova edizione tedesca (Marx-Engels Gesamtausgabe) si articola in quattro sezioni: la prima comprende le opere e gli articoli; la seconda Il capitale e tutti i suoi manoscritti preparatori; la terza l’epistolario; e la quarta i quaderni di estratti. Dei 114 volumi previsti, ad oggi ne sono stati pubblicati 58 (18 dalla ripresa avvenuta nel 1998), ognuno dei quali comprende un amplio apparato critico.
La traduzione italiana (Marx Engels Opere Editori Riuniti), iniziata nel 1972 e basata sull’edizione tedesca del 1956-68, venne interrotta nel 1990, quando erano stati dati alle stampe solo 32 dei 50 volumi programmati. Di recente le case editrici Edizioni Lotta Comunista e La Città del Sole hanno pubblicato alcuni dei 18 tomi rimanenti.
Oggi nel mondo
In Germania Il capitale è divenuto nuovamente un best seller, mentre in Giappone ha riscosso grande successo la sua versione manga. In Cina è in corso di stampa una nuova mastodontica traduzione (dal tedesco e non - come avvenuto in passato - dal russo) delle sue opere complete e vengono ora pubblicati anche i principali lavori dei “marxisti occidentali”. In America latina, infine, una nuova domanda di Marx è ripresa anche dal versante politico.
In libreria
Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica, Manifestolibri 2012 Inventare l’ignoto. Testi e corrispondenze sulla Comune a Parigi, Alegre 2011 L’alienazione, Donzelli 2010
Introduzione alla critica dell’economia politica, Quodlibet 2010
Il capitalismo e la crisi, Derive e Approdi 2009 Quaderni antropologici, Unicopli 2009
Eric Hobsbawm 60 anni di studi in un volume che fa il punto su una teoria controversa e vitale
La profezia. Ci sono gli errori politici marxiani ma la visione di capitalismo e finanza è valida
Siamo seri, torniamo al dottor Karl Marx
Saggi di ieri e di oggi nell’ultimo volume dello storico britannico di origini ebraiche nato ad Alessandria d’Egitto nel 1917. E una nuova tesi: il secolo breve finito nel 1989 torna ad allungarsi col ritorno di Marx dopo il 2008.
Ci sono anche delle pagine inedite sul pensiero di Antonio Gramsci nel libro che raccoglie alcuni saggi su Karl Marx e il marxismo dello storico, icona della sinistra anglosassone, convinto che «il superamento del capitalismo» resti tuttora una prospettiva «plausibile».
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, o8.06.2011)
Inattesa fortuna. Già prima del 2008 le «azioni» del pensatore di Treviri si erano alzate «Taking Marx seriusly», prendere Marx sul serio. Di nuovo. È ora di farlo. La tesi di Eric Hobsbawm, grande storico marxista, riassunta nell’ultima pagina del suo ultimo libro, è tutta qui: Come cambiare il mondo. Perché riscoprire l’eredità del marxismo. Non è una tesi riduttiva e nemmeno scontata, benché Karl Marx un ruolo rilevante lo abbia sempre avuto nelle idee e nei conflitti del mondo. Anche nei periodi di peggior fortuna del suo pensiero, e prima che tornasse di moda... Non è riduttiva perché allude a un giudizio analitico di base che pervade tutto libro: mai come oggi la «chiave marxiana» apre le porte dell’economia globale e delle sue crisi deflagranti. Di là del fatto incontrovertibile che le soluzioni politiche prospettate da Marx si siano rilevate fallimentari. Abbiano generato effetti perversi, o diversi rispetto alle attese (neodispotismi asiatici, nazionalcomunismi, riformismi socialdemocratici).
E allora approfondiamo la tesi di base di Hobsbawm, il cui libro è fatto per metà di cose già pubblicate, come i saggi della Storia del Marxismo Einaudi, e per metà di cose più recenti, come nel caso dell’ultimo saggio, quello dedicato al ritorno clamoroso di Marx con lo tsunami finanziario del 2008 (Marx e il Movimento operaio, il secolo lungo). Il primo punto è il seguente: il lavoro dipendente è la stragrande maggioranza delle forze produttive, sia in Europa che su scala globale. Anche se nel vecchio continente la classe operaia è (ancora) pari a circa un terzo del totale. Il che liquida tante false retoriche sociologiche sul trionfo del lavoro autonomo. Non c’è impoverimento assoluto, ma crescita dentro una forbice, che vede le ineguaglianze crescere esponenzialmente (con redistribuzioni tra poveri). Secondo: il ceto medio si assottiglia e la ricchezza si concentra verso l’alto, in modo sempre più anonimo e incontrollato.
La crisi del 2008, rileva Hobsbawm, è frutto di un’economia a debito privato sul quale si è costruito un gigantesco castello finanziario, poi franato. Al contempo i salari si sono abbassati per via della tecnologia, della precarietà e della concorrenza mondiale tra salariati, usati come immenso esercito di riserva da comprimere flessibilmente. Tutto questo nel quadro dello smantellamento delle protezioni di welfare, che generavano inflazione, e dell’ascesa di economie emergenti capaci di produrre a costi tali da metere in ginocchio il primo mondo. Che a un certo punto ha cominciato a delocalizzare gli investimenti.
Conclusione: ce ne è abbastanza per rendere attuale Marx. Che scommetteva esattamente su crolli ciclici del mercato, determinati da incrementi del macchinario (capitale fisso) e decrementi di quello «variabile»: salari. Sempre più incapaci di assorbire o di stimolare la produzione (a meno di non drogare il tutto con il credito al consumo, che ha prodotto lo tsunami negli Usa). Infine, aggiunge Hobsbawm, il saccheggio mercatista della natura con l’esaurimento delle fonti non rinnovabili, incrementa costi e rischi, spiantando economie di autosussistenza e generando migrazioni incontrollate. E quindi: complessità della crisi globale all’apice. E vittoria delle merce come forma dominante. Nella spettralità del consumo-immagine, e delle attese finanziarie, che a loro volta destabilizzano le econome degli stati sovrani, sempre più indebitati (nel pubblico e nel privato).
Fin qui in Hobsbawm la pars destruens. Che include critiche all’incapacità in Marx di concepire istituzionalmente la democrazia, per lo più intesa da lui solo come «maschera giuridica borghese» e non anche come forza propulsiva ideale e materiale (con i risultati totalitari che ben conosciamo). E la pars construens? Qui cominciano le difficoltà. Perché lo storico britannico non riesce a indicarla con precisione. Due le sue ricette: una nuova idea di stato-nazione, che a suo (giusto) avviso non declina affatto e che resta l’unica entità in grado di associare i cittadini alle politiche. Uno stato-nazione collaborativo con altri stati, dentro entità sovranazionali più vaste, che concorra a regolare diritti, salari, fisco e meccanismi finanziari. Seconda idea: una generale idea di società cooperativa che ripristini l’alleanza tra democrazia e mercato e stia in guardia contro l’anarchia selvaggia del capitalismo.
Insomma, se ben capiamo, una proposta neokeynesiana bilanciata da regole transnazionali, per rilanciare l’accumulazione con politiche pubbliche volte ad accrescere i salari e redistribuire la ricchezza. Incluso il «valore d’uso» di una natura non depredata. Ma qui il discorso, con l’inversione del ciclo liberista post-2008, è solo agli inizi. E l’agenda sarebbe lunghissima: dall’invenzione di una finanza sociale e democratica, alla lotta contro gli sprechi del ceto politico. Fino a intravedere forme nuove di socialismo: economia civile, cooperativa e solidale. Con politiche industriali e di sdoganamento del ruolo dello stato (purché non sprechi e funzioni). Intanto però contentiamoci della proposta di uno dei massimi storici viventi: riprendiamo sul serio Marx.
L’individuo e l’economia
Rileggere Marx per capire la psicologia
di Maurizio Mori (l’Unità, 11.05.2011)
Prendendo spunto da uno studio sull’individualismo economico come “mentalità” tipica degli ultimi secoli elaborato nel cuore della produzione capitalistica, la Ibm del 1980, Luigi Ferrari ha scritto un libro impegnativo (quasi mille pagine) ma di estremo interesse e sul quale varrebbe la pena di riflettere. Ferrari, infatti, osserva come per riuscire a capire un gran numero di fenomeni socio-psicologici si debba ripensare lo status delle scienze sociali, ed in particolare della psicologia.
Contro l’idea che la scientificità rimandi di per sé a prospettive astoriche, Ferrari propone una “psicologia storica” basata su alcune tesi della scuola delle Annales che mette al centro la long durée integrata da apporti marxiani che, svincolati ora dalle gabbie mentali derivanti dai rapporti col “socialismo reale”, possono essere ripresi con maggiore libertà. Il risultato, come detto, è un libro imponente (L’ascesa dell’individualismo economico, Casa Editrice Vicolo del Pavone, Piacenza, pp. 962, € 31,00) ma che si legge bene e che propone una robusta teoria generale della mente umana come mente storica frutto della sommatoria incoerente di sedimentazioni storicamente determinate.
L’obiettivo è spiegare come può avvenire un cambiamento di “mentalità”, aspetto decisivo per capire la presenza delle diverse psico-patologie e di altri disagi sociali, frutto dell’incapacità di mantenere in equilibrio le diverse stratificazioni culturali. Riprendendo la tesi paretiana delle azioni non-logiche e dei residui, Ferrari conduce il lettore in un’attraente galleria di affreschi che illustrano meandri poco frequentati e reconditi dell’animo umano: le analisi di nozioni chiave nel nostro “inconscio collettivo”, come quella di “onore”, “lealtà”, “operosità”, “altruismo” ed “egoismo”, ecc., mostrano come l’ascesa o il declino di questi concetti in una cultura informino gli orizzonti culturali di una data epoca, ponendo le basi concrete della mentalità generatrice dei quadri mentali sia “normali” che “patologici”.
I disagi psichici vanno visti e curati tenendo conto di questa prospettiva ampia e allargata del processo, senza lasciarsi ammaliare dalle sirene che cantano un’astratta e astorica “natura umana”. Al centro del discorso stanno le nozioni di individualismo/collettivismo, i cui rapporti declinano la socialità umana e danno origine a una serie di paradossi e di dilemmi che possono essere chiariti e studiati coi metodi dell’analisi economica.
Senza cedere a mode passeggere e di maniera, il libro offre una teoria solida, meditata e ampia che mostra come in Italia ci siano ancora studiosi attenti e capaci di proporre un pensiero non settoriale, robusto, rigoroso e profondo. Stona però la presenza di passi dai toni negativi e cupi (es. l’individualismo come una storica, «immane, lunga, dolorosa distruzione di relazioni»), che sembrano alludere ai soliti rimpianti per i tempi passati, tesi che in realtà è diametralmente opposta a quella sostenuta nel libro.
Il Padre che fu madre
Una lettura moderna della parabola del Figliol Prodigo
Trascrizione dell’incontro di presentazione dell’ultimo libro di don Paolo Farinella tenutosi a Roma il 19 gennaio 2011
[INTERVENTO - RIPRESA PARZIALE] *
Paolo Farinella (Autore):
[...] All’epoca di Gesù il patrimonio non poteva essere diviso perché ereditava soltanto il figlio maggiore. Il figlio minore aveva un terzo di eredità, che per non poteva vendere, era titolare ma non poteva disporne, perché la proprietà non poteva essere divisa. Il figlio maggiore rappresentava la tutela della proprietà.
E questo è stato fino a Napoleone. Grosso modo nel XVII secolo i monasteri, i conventi erano pieni di figli secondogeniti per non sperperare il patrimonio. Il motivo per cui nella chiesa cattolica si ostina a difendere il celibato non credete che sia per motivo di assimilazione a Cristo, queste sono balle che hanno voluto far credere! Ma il vero motivo dal X secolo in avanti, con l’XI secolo in modo particolare in Francia, è per garantire la legittimità del figlio del re di Francia e per impedire che il prete sposato possa intaccare il patrimonio della chiesa.
Questo è il vero motivo detto papale papale. E non motivi spirituali. Se poi i teologi o gli spiritualisti o gli ascetici vogliono farci degli arzigogoli sopra sono liberi di fare quello che vogliono, però siano onesti nel dire quali sono i veri motivi. Un Padre aveva due figli, il fariseo e pubblicano che stanno nel tempio. E poi ci sono tanti altri, per esempio Esaù e Giacobbe e via di seguito. Nel libro cerco di spiegare questi rapporti, Pharez e Zerah, quello che nasce prima viene dopo, quello che doveva nascere dopo viene prima, e c’è tutto un casino che si sviluppa proprio per affermare un principio, che è il principio paolino della prima lettera ai Corinzi, che Dio sceglie nel mondo tutto ciò che non conta niente per affermare il regno di Dio. Non dovrebbe essere questo un principio nella chiesa oggi? Non dovrebbe essere questa la pastorale? Non dovrebbe essere questo l’annuncio profetico? Non dovrebbe essere questo quello che il papa dal balcone, o il cardinale Bertone dal balchino, dovrebbero gridare davanti a un Berlusconi su questo governo? Non dovrebbero dire: “E’ il secondogenito che ha diritto, cioè sono i poveri che hanno diritto, che devono essere tutelati”?
Questo dovrebbe dire la chiesa, questo dovrebbe gridare e no semplicemente andare a pranzo, di giorno, di notte, come i carbonari, per sollecitare interessi vergognosi, perché in questo modo noi nascondiamo il vangelo, anzi lo rinneghiamo il vangelo. Dice Paolo: “Dio non sceglie le cose che contano”, anche perché aggiunge poco prima che “soltanto lo Spirito è capace di leggere le profondità di Dio”. Allora bisogna veramente diventare spirituali per poter leggere le profondità di Dio. Perché soltanto nello Spirito del risorto noi possiamo incontrare Dio. Che cosa dice il figlio minore al padre? Il figlio minore guardate non vuole semplicemente andarsene di casa. Il figlio minore fa una richiesta precisa. Purtroppo le traduzioni non rendono. Voi sapete qual è il sistema delle traduzioni? La CEI, prendendo atto che il popolo di Dio non conosce la scrittura, ha fatto la scelta liturgica, cioè quella del testo che si capisca subito e che abbia un buon suono e che sia orecchiabile, anche a scapito del significato. Io preferisco una traduzione più stridente, ma che sia più letterale e profonda e poi magari si spiega.
Allora, invece di perdere tempo a fare lettere pastorali, a fare piani pastorali, a fare progetti culturali e via di seguito ... sono cinquant’anni ormai che facciamo queste cavolate qui. Bastava semplicemente fare un solo documento di una pagina e dire: “Da oggi in poi si fa solo Bibbia, Bibbia, Bibbia. Bibbia la mattino, Bibbia al pomeriggio, Bibbia alla sera. Bibbia prima dei pasti, dopo i pasti. Bibbia prima delle cure, dopo le cure, prima delle vacanze e dopo le vacanze. Bibbia, Bibbia, Bibbia!”
Se avessero formato un gruppo enorme di biblisti e li avessero sparsi per il paese, noi oggi avremmo un popolo di Dio che almeno può prendersi la scrittura e leggersela tranquillamente. Ma è quello che non si vuole, perché la parola di Dio deve essere sempre mediata da qualcuno, perché se non è mediata da qualcuno, l’autorità per come viene intesa, cioè come possesso delle coscienze, va a farsi fottere tranquillamente.
Allora il lavoro che bisogna fare, a mio parere, è proprio questo [...] E’ mio compito oggi restituire tutte queste cose e restituirle con gli interessi! Perché io non appartengo a me stesso, ma appartengo a una comunità, sono figlio di una comunità e non posso tenerle solo per me. Ecco perché nella preparazione di questa grammatica sono arrivato a sei, sette lezioni, che è faticosissimo perché alle volte, in una giornata, scrivi solo due righe, tre righe, perché devi cercare in tutta la Bibbia greca dell’Antico Testamento, in tutti i libri, devi trovare la forma e poi metterla a confronto con testo ebraico. Poi devi dire il passaggio che c’è stato nelle varie poche, e diventa un lavoro appassionante.
Il Card. Martini, quando ci incontravamo in Gerusalemme, mi diceva: “Don Paolo sono queste le cose che dobbiamo fare perché la gente possa avere in mano gli strumenti per poter leggere la Bibbia per conto proprio e non necessariamente andare in una chiesa per avere una spiegazione”. Tu devi andare in chiesa per incontrarti con la tua comunità e condividere la parola perché non è più una parola sola per te, ma una parola che diventa profezia e questa profezia deve essere gridata, deve essere annunciata.
La richiesta che fa il figlio al padre è una richiesta fondamentale: “Padre, dammi la parte di vita che mi spetta”. Non dammi la parte del patrimonio. In greco usa il termine “ousìa - natura”, dammi la parte della tua natura. E subito dopo il padre - notate il gesto eucaristico - “prese la sua vita e la spezzò tra i due figli”. Questo è il compito di Dio, spezzarsi per darsi. E’ l’Eucaristia.
Quando il figlio va lontano non va lontano. Il verbo greco è apedêmēsen. E apedêmēsen è un aoristo che significa ... qui c’è il problema dell’aoristo con cui io ho problemi, perché in base alla scuola di Niccacci, dipende da dove si trova, e cioè nella lettura narrativa bisogna vedere dove è collocato il verbo principale, cioè in quale linea, in una linea di primo piano o secondaria, ecc. Però io qui non voglio fare questo discorso specialistico. Voglio dire solo che il verbo apedêmēsen viene da apò demèō, dèmos - popolo: “Il figlio, andandosene con la vita del padre, si allontanò dal suo popolo”. Non è semplicemente andare lontano, ma è staccarsi dalla sua identità. E infatti, secondo la traduzione italiana, aggiunge che “visse da dissoluto”. In greco non dice che visse da dissoluto, in greco dice che visse da “asôtos”, un avverbio che indica “senza salvezza”. Vi rendete conto che non è semplicemente una parabola. Quando ero giovane prete non ho mai fatto cantare “mi alzerò e andrò da mio padre ...” nel tempo di Quaresima, perché in tempo di Quaresima c’è tutto questo sciorinamento di questo figlio che si converte.
Ma non è così. Il figlio non si converte e non ritorna per amore del amore del padre, non ritorna perché è pentito, non ritorna per la coscienza di aver fatto male, ritorna perché vuole mangiare, ed è disposto anche a diventare schiavo del padre, non più figlio, pur di sbarcare il lunario e avere un piatto di minestra. E non c’è amore in questo, non c’è compassione in questo. E lo vedo sullo stesso piano dell’altro figlio che Rembrandt ... se voi guardate il quadro che si trova all’Ermitage di San Pietroburgo, se voi guardate il quadro per intero, voi vedete che il figlio maggiore è rappresentato dietro, sul nero, con un pugnale in mano.
E questo pugnale indica che il fratello desiderava la morte del fratello minore, cioè c’era una competizione tra di loro. Ed è la competizione che si trova nella chiesa primitiva fra gli ebrei che si considerano figli prediletti e i greci che invece non devono far parte allo stesso titolo della stessa chiesa. Ed è contro questa impostazione che Paolo si scaglia. E oggi è contro un’umanità di fronte a cui ci troviamo e verso cui la chiesa, o parte di essa, fa delle esclusioni perché si identifica in una civiltà e in una cultura. L’eresia di oggi è affermare che il cristianesimo è identificabile come civiltà occidentale. Non esiste un cristianesimo occidentale. Nella mia chiesa noi diciamo il Padre Nostro - per quattro anni l’abbiamo detto - in aramaico. E da domenica scorsa l’abbiamo iniziato in greco, proprio per far capire dal punto di vista dei segni, che la lingua di Gesù, cioè il cristianesimo nasce in Oriente: Avunà di bishmaiàh itkaddàsh shemàch tettè malkuttàch tit’avèd re’utàch, non sembra di sentire un arabo? Come possiamo dire che il cristianesimo si identifica con la civiltà occidentale? Questa è una bestemmia! Il cristianesimo si identifica con Gesù Cristo, il quale deve essere detto e letto in ogni lingua, in ogni cultura e ambiente può essere annunciato. E deve essere letto con le categorie specifiche di ciascuno [...]
* Il Dialogo, Martedì 25 Gennaio,2011 Ore: 14:41 (RIPRESA PARZIALE:
http://www.ildialogo.org/parola/Incontri_1295962929.htm).
Il peso dei padri
Che cosa significa ereditare il passato
Qual è il rapporto con la tradizione e come ci si fa carico di riceverla evitando di esserne schiacciati? Ecco la riflessione del filosofo
Oggi cerchiamo spesso di liberarci da certe cose per essere autonomi e senza impegni
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 04.05.2011)
Subisce il termine "erede" la stessa sorte di tanti altri preziosi "nomi", che la chiacchiera quotidiana consuma e dissipa. Si fanno merci anch’essi, il cui valore è relativo esclusivamente all’utilità che se ne ricava. Siamo eredi che ignorano l’essenza più nobile della nostra eredità: il linguaggio - e lo massacriamo come fosse un mero strumento a nostra disposizione. Siamo, sotto questo aspetto, eredi che non sanno parlare, infanti, nepioi, dice il Vangelo.
Eppure, proprio l’essere-eredi rappresenta per San Paolo il nostro "titolo" più alto: se siamo figli, siamo eredi (kleronòmoi), eredi di Dio, co-eredi di Cristo. Ma il figlio sa rivolgersi al padre, sa liberamente fare ritorno a lui - e allora soltanto eredita. Non si è "naturalmente" eredi, nessuna semplice nascita garantisce l’eredità - così come non conosciamo la nobiltà del linguaggio solo perché abbiamo ascoltato parlare la mamma. Erede sarà colui che riconosce in sé, come costitutivo del proprio sé, la relazione col padre, e cerca di esprimerla in tutta la sua tremenda difficoltà. Se è così, allora proprio l’erede sarà chi, "all’inizio", avverte la propria mancanza, la propria solitudine. Si fa erede soltanto colui che si scopre abbandonato. Heres latino ha la stessa radice del greco kheros, che significa deserto, spoglio, mancante. Può ereditare, dunque, solo chi si scopre orbus, orphanos (stessa radice del tedesco Erbe). Per essere eredi occorre saper attraversare tutto il lutto per la propria radicale mancanza. Così, per San Paolo, non si eredita se non facendosi co-eredi col Cristo - il che significa: attraverso la imitazione della sua Croce.
Nulla forse ci è più estraneo di questa idea di eredità. Per quanto essa possa essere balenata nell’Umanesimo più filosoficamente e teologicamente audace, i grandi figli della modernità non si riconoscono più come veri eredi. L’eroico idealismo della nuova scienza e della nuova filosofia è dominato da homines novi, dall’idea di "uomo nuovo", che si infutura da sé, in base a ciò che egli stesso ha scelto di essere. L’"uomo nuovo" è un orfano felice. L’eredità non ha per lui alcun interesse sostanziale. Illusioni, favole, saperi inutili, di cui liberarsi in ogni modo.
Figli siamo costretti a nascere, ma il figlio sarà davvero tale, cioè liber, quando saprà rifiutare d’essere erede. Le grandi visioni del mondo storicistiche non contraddicono affatto, nell’essenza, questo formidabile paradigma "progressivo". Il loro richiamo alle "radici", al fondamento di ogni sapere nei linguaggi "ereditati", alla necessaria connessione degli eventi, è tutto dominato dal presupposto che la storia, ora, nel nostro tempo, riveli un suo senso e un suo fine. Possiamo allora, sì, dirci eredi - ma eredi che "superano" in sé il padre. Quest’ultimo è divenuto, per così dire, il combustibile della nostra storia. Non l’erede fa ritorno a lui, ma è lui a consumarsi come alimento della vita nuova dell’erede. L’erede è "pieno" del padre, orbo di nulla, ma, anzi, occhio onniveggente. Allora anche la domanda sulle "radici" assume questo "prepotente" aspetto: quale paternità abbiamo meglio assimilato, quale ci risulta più utile per "progredire", quale ha più efficacemente funzionato da combustibile? E se una non basta, mescoliamole un po’... Padri "a disposizione" sul mercato dei beni-valori-merci.
Che di fronte al formidabile dispositivo teleologico che informa di sé questa visione della storia e questa idea di eredità risultino del tutto impotenti sedentarie erudizioni, la cura meramente conservatrice del "così fu", dovrebbe risultare ovvio. Il passato diviene davvero una gabbia che impedisce di fare storia non appena si riduce a semplice "participio passato".
Qualsiasi religio del passato, in questo senso, nega l’essenza di quell’erede, che vuole fare ritorno, ma che alla luce di questo ritornare concepisce il proprio stesso procedere. Qui consiste il paradosso dell’autentico erede: erede nomina una dinamica, dal riconoscimento di un proprio, essenziale, mancare , attraverso la ricerca di una relazione che possa presentarsi altrettanto determinante per il proprio carattere, fino al riconoscersi in essa. Eredità non significa "caricarsi" di contenuti dati, presupposti, ma ricercare il proprio stesso nome nell’interrogazione del passato. Eredità non significa assumere dei "beni" da ciò che è morto, ma entrare in una relazione essenziale, non occasionale, non contingente, con chi ci appare portante passato. Ma una tale relazione potrà essere voluta soltanto da chi si sente, da solo, in quanto semplice "io", deserto, mancante, impotente a dire e a vedere.
La chiacchiera dominante concepisce la ricerca di eredità esattamente all’opposto. Come ricerca di fondamento e di assicurazione. Mille volte meglio, allora, il gesto prepotente di quei "padri" che pretendevano di potersi "decidere" da ogni passato. Poter essere eredi comporta, invece, provare angoscia per una condizione di sradicatezza o di abbandono, porsi, su un tale "fondamento", all’ascolto interrogante del "così fu", cogliere di esso quelle voci, quei simboli che ci siano riconoscibili come relazioni essenziali, costitutive della trama del nostro stesso esserci. Dinamica arrischiata quanto altre mai, poiché il passato può sempre inghiottire chi se ne cerca erede, e in particolare proprio colui che presume di potersene appropriare.
Erede è nome di una relazione massimamente pericolosa, il cui senso è oggi soffocato tra impotenti nostalgie conservatrici, quasi a voler fare del figlio l’automatico erede, e idee sradicanti, se non deliranti, di libertà, e cioè di un essere liberi in quanto assolutamente non destinati alla ricerca di essere eredi, di un necessario rapporto con l’altro da sé. Non solo non cerchiamo di essere eredi, ma accogliamo soltanto eredità che non impegnino, che non obblighino, che ci rassicurino ancor più nella nostra pretesa "autonomia" - quando qualsiasi eredità è "partecipabile" per definizione. Ma ciò che è dimenticato non per questo è morto, e nessun destino impedisce di riascoltare il nome di "erede" in tutta la pregnanza che nella nostra lingua, ancora, nonostante tutto, si custodisce.