Cultura

LE DUE LEGGI DELLO SGUARDO: all’Auditorium di Roma, si è tenuta, nel ciclo «L’Arsenale di Galileo», dedicato ai meccanismi neurofisiologici della visione, una lezione di Semir Zeki, neurobiologo dell’University College di Londra, sul «cervello visivo» - di Franco Voltaggio - selezione a cura del prof. Federico La Sala

lunedì 22 maggio 2006.
 

di Franco Voltaggio (il manifesto, 19.05.2006, aggiornato alla odierna)

In tedesco «arte» si dice Kunst, un vocabolo, la cui radice «kn» è riconducibile al radicale «gn» del greco ghighnosko e del latino cognosco. Questo nesso supera le barriere della mera glottologia e diventa il filo rosso di riflessioni cruciali della filosofia classica tedesca.

In Schelling l’arte è la chiave (una vera clavis universalis che apre la porta che si affaccia sul sapere assoluto, in Schopenhauer è l’unico modo consentito all’uomo di cogliere le forme immutabili dell’essere, sottraendole al movimento e alla vita che le rendono invisibili, volgendole in un fluire infinitamente sfuggente. Chiunque può ovviamente vedere gli elementi di un bosco che si trovi ad attraversare, ma la forma «bosco» può essere colta solo in un dipinto o in una buona fotografia. In caso contrario, la forma tende a dileguarsi infinitamente e lo stesso destino attende gli oggetti animati che in quello sono compresi, se non altro perché la loro visione si appanna nel ricordo e non è perciò recuperabile con precisione.

Sotto questo aspetto, il pittore o il buon fotografo sembra obbedire alla voce panica dell’essere che vuole emergere dal movimento e dalla vita e prestarsi al compito di uccidere l’uno e l’altra. Di qui il sospetto tipicamente romantico che l’artista abbia un’inconfessabile parentela con il delinquente e il deviante. Un sospetto la cui ultima traccia è reperibile nel Tonio Kröger di Thomas Mann, che definisce il protagonista, tipico poeta di fine Ottocento, un borghese traviato dall’arte.

Ci induce a queste considerazioni il testo di una conferenza che un neurobiologo dell’University College di Londra, Semir Zeki (introdotto dallo psicobiologo Alberto Oliverio dell’università La Sapienza, e con Pablo Echaurren nel ruolo di discussant) ha tenuto il 19 maggio all’Auditorium Parco della Musica di Roma all’interno di un’iniziativa promossa da «Musica per Roma» e dalla Fondazione Sigma-Tau di Roma.

Il tema da cui prende le mosse la riflessione di Zeki è la variabilità che contrassegna tanto l’opera d’arte quanto il suo apprezzamento da parte dello spettatore o del lettore. Il suo tratto distintivo è perciò quello di proporsi come un’innovazione che contribuisce in modo potente allo sviluppo della cultura e al progresso della civiltà.

Sotto questo aspetto, l’arte ha un preciso significato evolutivo. Il suo prodotto, pur presentandosi nella forma di un’informazione extragenetica, cioè culturale, ricorda da vicino l’indole del fenotipo che, in natura, esprime la variazione del carattere di una specie destinato poi a trasmettersi all’interno del gruppo filetico per via ereditaria.

Si tratta certamente di un’analogia che va presa con le molle, giacché l’opera d’arte è, per definizione, unica, dal momento che appena il caso di sottolineare che vi è un solo, e irripetibile, Bacchino malato di Caravaggio come vi è una sola, e irripetibile Iliade di Omero. Resta, ciò non di meno, il fatto che i valori plastici della tela caravaggesca come l’incanto degli esametri omerici hanno veicolato, e continuano a farlo, straordinarie innovazioni pittoriche e poetiche, come anche suggestioni di tipo filosofico ed etico, in una continua opera di evoluzione della civiltà e sul filo di un processo che - questo sì - sembra replicare il percorso evolutivo delle specie.

Ma vi è ancora un’altra cosa. Caravaggio pagò lo scotto per il suo capolavoro con una vita travagliata ed errabonda, attraversata da non pochi momenti di deviazione criminale; a sua volta, Omero - il cui nome, ricordava un illustre grecista come Perrotta, significa «ostaggio» - scrisse i suoi poemi, conquistando la bellezza a prezzo di un’esistenza misera, per di più afflitta dalla cecità. Ma se questo è vero, e crediamo che non vi siano dubbi a riguardo, tante e così gravi traversie non ricordano forse la complessità dei fenomeni che scandiscono la comparsa di una variazione in una specie?

Stando così le cose, è tutt’altro che illegittimo adottare nell’interpretazione dell’arte un approccio biologico. E’ quanto fa Zechi, a riguardo del cervello visivo, chiedendosi se l’arte figurativa non costituisca, al di là del carattere eccezionale dei suoi prodotti, l’esito di un comportamento delle cellule cerebrali sostanzialmente identico in tutti gli individui, artisti e non.

Osserva, in particolare, Zeki: «Il cervello visivo è dotato di diverse aree, ciascuna delle quali è specializzata per elaborare una specifica componente della scena visiva, in quanto ognuna di esse dispone di cellule dotate di caratteristiche che le rendono espressamente rispondenti a un preciso elemento del contesto visivo.

L’area V5, per esempio, è specializzata per la rivelazione del moto visivo. Le sue cellule riflettono perfettamente il moto di uno stimolo in una certa direzione, mentre sono indifferenti al suo colore e alla sua forma».

Per contro altre aree sono specializzate nella percezione della forma di un oggetto al di là di tutti i mutamenti che intervengono in esso. Sotto questo aspetto, «l’arte visiva (leggi ’figurativa’) obbedisce alle leggi del cervello visivo e ce le rivela».

Tra queste leggi, due sono fondamentali: la legge della costanza e quella dell’astrazione. In virtù della prima, l’oggetto percepito è salvato e colto nella sua interezza al di là del cambiamento; in forza della seconda il cervello, affrancandosi dai limiti del suo sistema di memoria, procede dai particolari al generale(leggi ’universale’) dando vita a quelli che Zeki chiama concetti sintetici del cervello e che, in buona sostanza, equivalgono alle idee di Platone.

A dispetto di un’ingenuità speculativa che investe la reale natura delle idee di Platone (che, condividendo una convinzione radicata ed erronea, Zeki sostiene essere veri e propri oggetti ideali dotati di un’esistenza separata e autonoma rispetto a quelli delle cose), lo studioso perviene comunque a conclusioni del più grande interesse. Quello che innumerevoli artisti contemporanei, da Calder a Malevic a Braque a Picasso, hanno tentato di fare, riproducendo in pittura il moto degli oggetti o per contro cogliendone la permanenza delle forme, non è altro che l’applicazione delle regole seguite dal cervello visivo con le sue aree specializzate.

Studiarle con i procedimenti della neurobiologia può effettivamente aiutarci a comprendere il significato dell’arte e fare delle acquisizioni neurobiologiche la piattaforma di una sorta di neuroestetica. Ma forse il contributo più significativo di Zeki è ancora un altro. La neuroestetica può contribuire a farci apprendere che cosa è la conoscenza e, in quale modo, l’arte può costituire una fonte di suggestioni preziose validabili empiricamente.

L’arte, tipica espressione del cervello visivo, non riproduce la realtà visibile, ma, in qualche modo proietta le nostre elaborazioni mentali, le rende visibili - materializza un sogno, come sosteneva Picasso - ponendo così in evidenza il percorso conoscitivo quale esteriorizzazione di un processo mentale interno, come, d’altronde, affermava Kandinsky in Della spiritualità dell’arte. Se si accetta questo assunto, forse si abbandona tutta la positività del realismo, ma forse, chissà, la si recupera a un altro livello, sul piano cioè dell’evidenziazione di un organo, il nostro cervello che, in modo tipicamente evoluzionistico, non registra la realtà, ma agisce su di essa. Sarà davvero così? La ricerca continua.


Sul tema, nel sito, si cfr.:

ESTETICA, CREATIVITA’, E PAURA DELLA NEUROESTETICA. Alcune risposte di Semir Zeki ad Armando Massarenti


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