C’è chi teme la neuroestetica
Dieci anni fa nasceva una strana disciplina, oggi assi in voga.
Una vera rivoluzione, secondo Semir Zeki che ne è l’inventore
di Armando Massarenti (Il Sole-24 Ore, 01 maggio 2011)
L’estetica, sin dal tempo dalla sua fondazione da parte di Alexander G. Baumgarten, nel lontano 1735, si porta dietro uno statuto disciplinare piuttosto ambiguo. La nascita della neuroestetica, così chiamata da Semir Zeki nel 2001, ha fatto chiarezza nell’ambito di quella che un tempo era considerata filosofia dell’arte e che oggi invece si è sempre più propensi a considerare una scienza della percezione. Ho potuto porre questa domanda impegnativa proprio al fondatore dell’Istituto Internazionale di Neuroestetica, il neurofisiologo Zeki, padre della scoperta di comportamenti del cervello visivo quali la costanza cromatica e autore di testi fondamentali quali La prospettiva dall’interno e Splendori e miserie del cervello (recensito sul Domenicale il 26 febbraio scorso).
Perché è stato necessario creare una disciplina totalmente dedicata all’estetica? Ovvero, quale sarebbe la specificità della neuroestetica rispetto alle altre neuroscienze? È davvero possibile, attraverso lo studio del cervello, comprendere più a fondo un comportamento umano complesso, da sempre considerato "spirituale", come l’arte?
«La ragione per cui è stato fondato un Istituto di Neuroestetica - precisa Zeki - non è stata quella di avere una disciplina neuroscientifica dedicata esclusivamente all’arte. La ragione è stata, piuttosto, quella di incoraggiare i ricercatori che volevano utilizzare l’arte per comprendere meglio come funziona il cervello e di offrire loro un luogo adeguato per potere svolgere questo lavoro. L’idea che la scienza possa avventurarsi in aree che sono state a lungo considerate appartenenti alle scienze umanistiche è stata considerata a dir poco strana ai tempi. Sebbene la maggior parte degli scienziati abbia accettato questo fatto quale inevitabile conseguenza dello sviluppo degli studi sul cervello, alcuni studiosi appartenenti al mondo umanistico erano scettici, alcuni ostili e altri ancora semplicemente si rifiutavano di saperne di più; preferivano vivere nel mistero di ciò che sta alla base dell’ispirazione artistica, o della creatività, o ancora del ruolo del cervello nell’esperienza della bellezza. Tuttavia, ci tengo a precisarlo, non tutti gli umanisti reagiscono in questo modo. La maggior parte degli artisti, per esempio, si sono dimostrati molto accoglienti e hanno voluto saperne di più sul ruolo del cervello nella creatività artistica e nell’esperienza estetica. Oggi l’Istituto di Neuroestetica mira a un altro obiettivo ancora, che è quello di organizzare un forum in cui le idee relative alle neuroscienze e alle scienze umane possano essere discusse da tutti coloro che hanno fatto loro questo campo».
La maggiore sfida lanciata al mondo umanistico, che pare essere una delle motivazioni più forti di Zeki, parte proprio dalla convinzione che, anche attraverso l’arte, e in certi casi soprattutto attraverso l’arte, il cervello sia in grado di acquisire conoscenza. Chiedo a Zeki di che genere di conoscenza si tratta e a cosa servirebbe una conoscenza proveniente dall’arte.
«Wittgenstein ha affermato che spesso le persone rispettano la scienza considerandola un mezzo di acquisizione di conoscenza e rispettano l’arte quale mezzo che procura piacere, senza però ammettere che anche l’arte produce conoscenza. Credo che l’arte fornisca un tipo differente di conoscenza: spesso si tratta di conoscenza di tipo emotivo, che non è facilmente accessibile da parte del cervello "cognitivo", ma che non può non essere considerata conoscenza a tutti gli effetti. Si prenda a esempio la Pietà di Michelangelo nella basilica di San Pietro a Roma. I libri che sono stati dedicati a quest’opera non trasmettono la stessa conoscenza, relativamente al pathos alla delicatezza e alla bellezza, che il cervello visivo ed emotivo è in grado di produrre nel giro di pochi secondi. Perciò, esiste un intero sistema cognitivo, che noi possiamo definire conoscenza emotiva, che l’arte veicola e che è difficile da acquisire altrimenti. Tuttavia esistono altri generi di conoscenza che possono essere trasmessi attraverso l’arte: per esempio, un ritratto può diventare rappresentativo di una persona con un determinato carattere, ovvero il ritratto produce conoscenza circa le caratteristiche che vanno a costituire un carattere. La persona ritratta, in sé e per sé, diventa ininfluente: ciò che importa è invece il carattere che è ritratto. Aveva ragione Michelangelo quando una volta, poiché gli fu detto che le sue sculture non somigliavano affatto ai Medici, replicò: nel giro di mille anni, chi mai ricorderà l’aspetto dei Medici?»
Dalle parole di Zeki pare che il riduzionismo sia diventato uno strumento necessario per porre domande migliori sui perché dell’arte. Ma come spiega la sua convinzione che conoscere meglio cosa accade nel cervello quando si crea o si fruisce un’opera d’arte non significa cessare di amarne la bellezza?
«Trovo davvero strano che la gente non voglia saperne di più sui meccanismi fisiologici che sottostanno all’impulso atavico dell’amore, all’esperienza della bellezza. Anche un secolo fa devono esserci stati quelli che non volevano imparare nulla sul mistero della vita. Eppure la scoperta di tutta l’informazione necessaria a definire un organismo - anche quello dell’essere umano - con tutta la sua complessità, non ha affatto diminuito il nostro stupore per la vita. Il mistero, come ha affermato una volta Francis Crick, è stato sostituito dalla soggezione. La maggior parte di noi oggi è affascinata dalle scoperte astronomiche che cercano di scandagliare le origini e i limiti dell’universo; molti di noi ammirano Newton per aver individuato la legge di gravità che sta alla base del movimento dei corpi celesti. Forse questo ha diminuito il nostro entusiasmo e la nostra curiosità sull’Universo? Assolutamente no. E perché mai, allora, le conoscenze relative alla creatività, ai neurotrasmettitori dell’area della ricompensa, alla fisiologia dell’area della delusione dovrebbe diminuire la nostra ammirazione per le opere di Richard Wagner o Thomas Mann o Michelangelo? Io questo non lo capisco. Di una cosa sono certo: che coloro che non vogliono sapere, che rifiutano di sapere, semplicemente mancano di curiosità intellettuale. In un aneddoto su Galileo Galilei, questi, esasperato da coloro che non volevano credere nella sua visione copernicana ed eliocentrica dell’universo, li invitò a guardare attraverso il suo telescopio. Una versione è che essi, o almeno Giulio Libri, il professore aristotelico di filosofia a Pisa, si rifiutarono di guardare. Un’altra versione riporta che Libri guardò, ma non riuscì a vedere ciò che Galileo aveva visto. Quale che sia la corretta versione, la storia è una allegoria perfetta di coloro che, oggi, non vogliono sapere, che danno più valore al mistero che alla conoscenza. Il verdetto emesso dalla posterità sulla storia di Galileo e dei suoi detrattori è oggi chiaro. Un simile verdetto aspetta coloro che si rifiutano di imparare di più».
il personaggio
Semir Zeki insegna neurofisiologia presso l’University College di Londra ed è stato uno dei primi neuroscienziati a scommettere sull’arte quale strumento utile nello studio del cervello. A questo scopo egli ha fondato, nel 2001, l’Istituto di Neuroestetica all’Università di Berkeley, California.
I suoi studi sul cervello visivo - in particolare sul fenomeno della costanza cromatica - sintetizzati in volumi come La visione dall’interno (Bollati Boringhieri) e Splendori e miserie del cervello (Codice edizioni), hanno rivoluzionato il modo di intendere la conoscenza sensibile.
Convinto che gli artisti siano neuroscienziati che lavorano con strumenti che solo loro hanno a disposizione, egli ama collaborarvi: col pittore Balthus ha scritto il saggio La quête de l’essentiel (French edition). In questi giorni in libreria il suo testo più recente, scritto con Ludovica Lumer: La bella e la bestia. Arte e neuroscienze (Laterza, pagg. 144, €12).
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
Zeki, Semir, La visione dall’interno, arte e cervello. Recensione di Rodolfo Ciuffa - 24/11/2007
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA, ALTRO CHE MISTERO. LA LEZIONE DI KANT... *
Il casco di Dio e la mela: la logica vinta dalla “matematica del mistero”
C’è una razionalità orizzontale e una verticale: la prima crede di dominare il reale, la seconda esce dai binari del già scritto e comprende la totalità. È lo strumento per compiere la nostra umanità
di Raul Gabriel (Avvenire, domenica 29 dicembre 2019)
Il termine “razionale” viene usato spesso a sproposito. In sé non identifica alcuna categoria certa. La razionalità è una materia talmente malleabile che può schiudere visioni sorprendenti o ingabbiare in strutture di ragionamento rigide da cui non si riesce più a uscire. Tutto dipende dalla qualità della razionalità. E la qualità dipende in buona parte dall’asse su cui si sviluppa.
Ognuno di noi è razionale, e non è escluso che, sia pure con le limitazioni del caso, la razionalità possa essere estesa anche al mondo animale. L’interpretazione della parola “razionale” si infiltra nei labirinti sinaptici per strade che possono essere molto diverse. Persino in contraddizione tra loro.
Qual è il punto critico? Il fatto che alcuni sviluppano una razionalità orizzontale, caratterizzata da grande ricchezza di informazioni organizzate in maniera estremamente meccanica, rafforzata non di rado da un autocompiacimento che frena ogni possibile risonanza capace di espandere la struttura del ragionamento. Non è importante che si tratti di storia, arte, biologia, fisica, teologia, critica letteraria e così via. Ciò che importa è la propensione ad articolare il pensiero secondo concatenazioni vincolate e sequenziali che lo rendono simile ai processi produttivi delle macchine di produzione alfanumeriche.
Altri invece sviluppano una razionalità verticale e obliqua che al posto delle meccanicità orizzontali-aritmetiche, ha come fondamentale caratteristica la potenzialità dei salti di intuizione. Il modo verticale, se così possiamo chiamarlo, va spesso in conflitto con il procedimento meccanico. A differenza del modo orizzontale che si accontenta di risultati facilmente dimostrabili a patto di rimanere in prospettive estremamente limitate, non dà sempre garanzia di successo, ma è l’unico che può portare a veri salti cognitivi.
Un collezionista di Milano in visita al mio studio ha detto una cosa di cui sono profondamente convinto. Le intuizioni più potenti vengono praticamente sempre dagli autodidatti. Aggiungerei anche da coloro che hanno un rapporto profondamente conflittuale con gli studi e non ne diventano il breviario noioso e ragionieristico da esporre come una litania stanca per la troppa abitudine. L’intelligenza orizzontale ha molto a che fare con la burocrazia intellettuale, e spesso si sposa più con l’ansia di un facile riconoscimento da parte degli altri che con una sete di indagine.
Il casco di Dio
La ricerca di Michael Persinger, neuroscienziato sviluppatore del cosiddetto “casco di Dio”, originariamente “casco di Koren” da Stanley Koren il suo primo creatore, può essere emblematica della distinzione tra i procedimenti orizzontale e verticale. Soprattutto nelle sue conseguenze. Sono convinto che non molti conoscano Persinger, scomparso di recente e fondatore del Behavioral Neuroscience Program, settore di ricerca sulle neuroscienze che innesta psicologia, chimica, neurologia e biologia in un progetto sperimentale che ha generato branche di studio come la neuroteologia.
Cercherò di illustrare brevemente la sua esperienza. Il “casco di Dio” è un semplice casco da motoslitta dotato di due solenoidi in grado di emettere leggeri campi magnetici. Fatto indossare a una persona in un ambiente isolato senza suoni e stimoli di sorta, produce un leggero campo magnetico sul lobo temporale. La stimolazione porta l’individuo ad avvertire delle presenze. In alcuni casi i soggetti sono in grado di elencare numero e posizioni spaziali di queste presenze.
Durante l’esperimento sono state riferite sensazioni come “uscire dal corpo” e cose del genere. L’esperienza di per sé è estremamente interessante, come indagine conoscitiva e medica. La capacità del cervello, e per esteso del corpo, di sintonizzarsi su forze invisibili ma perfettamente presenti e “corporee”, reagire a esse generando percezioni di varia natura, è sicuramente un campo di indagine molto affascinante.
Ma questo è il dato empirico. In sé non significa nulla. Come tutti i dati sperimentali osserva ciò che succede ma non può dire nulla sul perché succede. Michael Persinger ha applicato alla interpretazione dei risultati ottenuti con questo apparato incredibilmente semplice, quella che definisco “razionalità orizzontale”. Cioè la stessa logica di un rebus da settimana enigmistica. Non voglio essere frainteso. Questo tipo di razionalità può arrivare molto in là nella complessità delle deduzioni. -Ciò che non può fare è uscire da una catena di cause e conseguenze vincolate e sequenziali, che non possono portare a vere novità, ma trovano la strada di un labirinto senza orizzonti, come una cavia addestrata alla ricerca del cibo premio.
Nell’interpretazione di Persinger i risultati degli esperimenti dimostrano l’inconsistenza degli stati caratteristici nelle esperienze mistiche come percezione di presenze, rivelazioni, catarsi, trasporti spirituali. Tutto ciò che si attribuisce a una attività spirituale o extrasensoriale dell’individuo è, secondo Persinger, il prodotto dell’influenza sul cervello di perturbazioni elettromagnetiche in cui ci si può imbattere occasionalmente.
Questo ragionamento aritmetico si svolge in un tunnel univoco. Mette gli elementi in fila uno davanti all’altro e trae una conclusione che non si scosta in alcun modo dalla stessa qualità dei dati empirici. Non tiene conto del fatto che i dati dell’esperimento mostrano semplicemente una modalità di interazione del cervello. La meravigliosa capacità del nostro corpo di intercettare visibile e non visibile, pur sempre corporeo, a livelli di finezza sorprendenti. Ma la sua lettura orizzontale non va oltre il dato e la sua ontologica insignificanza etica.
Non produce una sintesi capace di uscire da un labirinto logico privo di orizzonte. Il ragionamento si affanna a tracciare una linea tra i dati mantenendone il medesimo livello qualitativo. Non produce sintesi e salto cognitivo.
La razionalità orizzontale ci dice quello che sappiamo già: che esistono i dati, che hanno quella forma e scansione temporale. Dal punto di vista cognitivo non genera alcuno spostamento. Dire che la nostra vita extrasensoriale o spirituale è il frutto aritmetico della fisiologia del cervello sottoposto ad alcuni stimoli significa scambiare arbitrariamente gli effetti con le cause.
Se le dimensioni percepite a causa del casco sono artificiali, questo non esclude in alcun modo che esistano dimensioni vere e concrete che generano la stessa percezione.
Se Persinger avesse aperto la sua razionalità alla dimensione verticale avrebbe compreso che aveva dimostrato un fatto profondo e toccante: se un Dio esiste, si manifesta proprio attraverso la dote che è stata data al nostro corpo: reagire a quel campo magnetico leggero che a me fa tenerezza, come una carezza delicatissima dentro la nostra carne.
La logica senza frutto del peccato originale
Le considerazioni sul "casco di Dio", le direzioni della razionalità, la loro divisione radicale nel quadro delle facoltà cognitive umane, compresa la sfera spirituale, portano molto in là e possono aprire a ipotesi stimolanti.
Intelligenza orizzontale e verticale aprono a mondi completamente diversi e innescano comportamenti completamente diversi - con un riflesso evidente nel nostro modo di stare al mondo, di interagire con gli altri e nella società. Si tratta non solo di meccanismi cognitivi che si esplicano nel momento del loro esercizio, una sorta di “soluzione” diversa a una domanda. -Le due forme di intelligenza sono la porta verso visioni complessive della realtà totalmente differenti.
Vi è un filo conduttore che riconduce questo tema chiave della razionalità al primo dilemma posto dalla storia simbolica a riguardo dell’intelligenza come forma di contrapposizione e ribellione al divino, verticalità per definizione. Il “peccato originale” è l’enigma cognitivo alla radice della storia umana. Riguarda la natura del bene e del male e, a mio parere, riguarda profondamente la natura della razionalità, che con il bene e il male è indissolubilmente intrecciata.
Forse il frutto con cui il serpente tenta gli abitanti del Giardino primigenio non rappresenta la conoscenza tout court. -Rappresenta invece una conoscenza “orizzontale”, l’adesione a una razionalità meccanica che esclude i salti cognitivi e per questo esclude Dio e la sua presenza ab origine. Esattamente come Persinger, nelle sue affrettate conclusioni sui risultati sperimentali ottenuti con il “casco di Dio”.
Il peccato originale è un primo amalgama tra razionalismo e riduzionismo. La mela è l’intelligenza orizzontale, parziale, escludente, basata su una analisi puramente aritmetica del reale. La sua stessa essenza esclude la visione verticale, la conoscenza complessiva del Giardino. Una volta simbolicamente mangiata, genera istantaneamente le categorie che danno l’illusione della comprensione, forti di un legame in apparenza stringente con il reale.
La mela crea il labirinto orizzontale, privo di elevazione, che esclude dalla visione generale, dalla conoscenza totale. Il labirinto è quello della logica strutturata per concatenazioni incapaci di fare salti. La tentazione è forte. Mostrare la validità del proprio processo logico cognitivo facendo leva su parametri gestibili a distanza ravvicinata che pretendono di mostrare una concretezza inoppugnabile mentre evidenziano una profonda cecità di fondo.
Mangiare la mela della razionalità orizzontale significa rinunciare al proprio destino di umanità compiuta che funziona per logiche tutt’altro che lineari. Per fortuna. Rinunciare consapevolmente alla speranza del compimento del proprio destino significa autodegradarsi in nome di una conoscenza che diventa invece scissione.
Separazione dal Giardino.
Il “peccato” originale è stato questo. Scegliere di muoversi nella realtà come cavie da laboratorio, così impegnate nella progressiva risoluzione dei problemi e dei test da perdere la cognizione della possibilità del salto e della visione d’insieme. La visione di insieme, il Giardino, non sono aritmetici. Sono come un territorio incongruo, apparentemente eterodosso, la cui comprensione richiede un susseguirsi di sfide cognitive che possono essere tentate solo con una continua scommessa, intuibile ma ignota, che risponde a una matematica del mistero, se vogliamo chiamarla così.
Non vi è contraddizione tra intelligenza e divino. Il sapere, in alcuni momenti della storia, ma anche oggi negli anfratti delle sottoculture cristiane e non, viene visto come interferenza nell’ascesi, una sorta di tentativo di capire ciò che non si può capire e quindi tentativo di “essere Dio”.
Invece l’intelligenza è parte integrante del Giardino e dei suoi abitanti. A patto che sia una intelligenza verticale. Perché unico vero strumento per compiere la propria umanità.
L’esclusione dal Giardino non viene irrogata come punizione da un arbitro intransigente per un fallo di gioco. La esclusione è coincidente con la scelta della razionalità orizzontale che degrada gli esseri umani a meccanismi e li tenta semplicemente perché dà loro la impressione di controllare e poter essere controllata.
Non credo che si possa scegliere il proprio tipo di intelligenza. Forse non è neanche un processo volontario. Volontaria è la esibizione della razionalità come teoria di informazioni legate una all’altra, strumento di controllo, potere, narcisismo. Volontario è rivendicare una conoscenza che si crede di poter dimostrare assoluta perché limitata. Il problema è lo stesso delle geometrie euclidee e non euclidee. Con Euclide si può costruire un muro, e non è poco. Ma non si può in alcun modo mettere fuori la testa di più di dieci centimetri a contemplare l’universo di cui Euclide come l’intelligenza orizzontale non è altro che una minima manifestazione.
La mela è la tentazione mortale di fare di un particolare il tutto, rinunciando alla fiducia della scommessa cognitiva dentro la quale, solo, può essere contemplato il Giardino della propria e altrui realizzazione.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO"
KANT ALL’ATTACCO DEI DELIRI E DEGLI INGANNI DEI "GRANDI SAPIENTI": ANNO DI GRAZIA, 1766. Invito alla rilettura dell’opera del 1766, "I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica".
CREATIVITÀ: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETÀ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
FLS
Neuroetica
Analizzare e ricostruire l’io
di Adina Roskies (Il Sole-24 Ore, Domenica, 06.05.2018)
Gli ultimi decenni hanno visto lo sviluppo di molti nuovi modi di intervenire sul cervello. Di recente, scienziati e medici hanno cominciato a modulare direttamente le funzioni cerebrali grazie a stimolazioni elettriche focali. Alcuni nuovi strumenti si mostrano promettenti per il trattamento di malattie farmaco-resistenti. Tecniche come la stimolazione cerebrale profonda (DBS), con cui elettrodi impiantati forniscono una stimolazione elettrica a zone-bersaglio nelle zone profonde del cervello, stanno dando buoni risultati nell’alleviare i sintomi di alcune malattie invalidanti e altrimenti intrattabili, quali il Parkinson o il disturbo ossessivo compulsivo. Come per qualsiasi intervento clinico, le potenzialità della DBS devono essere valutate in base ai rischi e ai costi. Una delle preoccupazione è che le neurotecnologie abbiano un impatto su ciò che possiamo chiamare intuitivamente la nostra agency, o agentività.
Filosofi e scienziati usano spesso il concetto di agentività senza darne una chiara definizione esplicita. I filosofi a volte pensano all’agentività come a qualcosa che un individuo ha o di cui è privo, cioè come un termine binario. Altri studiosi lo considerano una quantità scalare, qualcosa di cui un individuo può essere più o meno provvisto. Io suggerisco che l’agentività sia meglio concettualizzata nei termini di una costellazione di capacità che la piena agency presuppone. Questa visione «capacitaria» dell’agentività è ben coerente con le opinioni predominanti sul libero arbitrio e sulla responsabilità morale e giuridica.
In breve, l’idea è che un agente per essere tale deve possedere un insieme di capacità identiche o strettamente correlate alle capacità che rendono possibile l’azione volontaria, l’autocontrollo e la responsabilità morale. -L’agentività è quindi sfaccettata; pensarla come una pura grandezza scalare implica una semplificazione che minaccia di ostacolare i nostri migliori sforzi per stabilire quali scelte adottare in situazioni dilemmatiche e per comprendere in modo più ampio le basi teoriche delle nostre deliberazioni.
Propongo pertanto di rappresentare l’agentività in uno spazio multidimensionale di cui dobbiamo ancora determinare gli assi. Con l’avvento di metodi per la raccolta e l’analisi dei big data, come valutazioni online e metodi di apprendimento automatico, potremmo avere anche un nuovo modo di integrare e testare le nostre teorie filosofiche. Un modo, che stiamo perseguendo, consiste nel presentare una lista dettagliata dei possibili aspetti dell’agentività a partire sia dall’intuizione sia dall’osservazione clinica. Ad esempio, i primi candidati quali dimensioni iniziali sono il controllo motorio, l’inibizione degli impulsi, l’attenzione, l’identificazione di sé, e così via.
Presentando domande che analizzano queste diverse dimensioni, possiamo stabilire dove si collocano in questo spazio virtuale le persone sane e le persone con disturbi clinici. Potremmo anche provare a imporre una metrica su quegli assi che tenga conto della variazione su una molteplicità di dimensioni. Se possiamo descrivere un tale spazio e una metrica relativa, potremmo identificare singoli punti che descrivono l’estensione delle capacità agentive di un individuo, ovvero un modo per visualizzare la sua agency. Una prova di questo test è valutare se le persone con diverse condizioni cliniche deviano in modi prevedibili rispetto alla popolazione generale.
Una volta messo a punto uno strumento di valutazione, possiamo usarlo per vedere come cambia il profilo dell’agente quando viene sottoposto a interventi di neurostimolazione. Se, per esempio, il trattamento con DBS è efficace, una persona che riceve la cura su alcune dimensioni avrà valori di agentività superiori ai valori di malati non trattati. Tuttavia, gli effetti collaterali indesiderati (almeno quelli che influiscono sull’agentività) possono spesso provocare una riduzione di valori su altri assi. Confrontare i profili delle persone mentre sono sotto l’effetto della DBS e quando non lo sono fornirebbe un modo oggettivo di valutare non solo il successo dell’intervento terapeutico, ma anche l’impatto degli effetti collaterali.
Sebbene questo tipo di strumento possa essere utile nella pratica clinica per valutare le decisioni circa il trattamento, un’avvertenza rilevante è che le misurazioni oggettive delle proprietà legate all’agency quasi certamente non coincideranno con le dimensioni valutative che dovrebbero governare le decisioni di trattamento. -Gran parte della letteratura biomedica sull’autonomia e sull’autenticità richiama infatti l’attenzione sui differenti valori che le persone possono coltivare e sull’importanza della propria auto-comprensione in tema di salute mentale. Una volta delineato uno spazio di agentività, è probabile che si scopra che alcune persone considerano certe dimensioni più importanti di altre. Si pensi al paziente olandese descritto da Albert Leentjens, il quale ha dovuto decidere se vivere il resto dei suoi giorni costretto a letto in una casa di cura a causa della sua impossibilità acquisita di movimento o invece scegliere il ricovero volontario in un’istituzione psichiatrica a causa della mania ingestibile provocata dalla DBS, che nello stesso tempo ha alleviato i suoi problemi motori.
Sfortunatamente, malati e comunità medica dovranno affrontare questo tipo di dilemmi. Il paziente olandese ha valutato la sua autonomia corporea e le sue capacità fisiche legate all’agency come superiori alle capacità razionali e alla libertà (teorica), ma si può facilmente immaginare un altro paziente nella stessa situazione che compie la scelta opposta.
Un elemento del rispetto dell’autonomia dei pazienti concerne la possibilità di mantenere la propria posizione sulle dimensioni che devono avere la prevalenza, o almeno siano particolarmente significative. Pertanto, la metrica oggettiva dell’agentività discussa finora deve essere ponderata in base ai valori, agli impegni e ai desideri del paziente, con lo scopo di contribuire a scegliere una linea d’azione. Questo è un altro spazio multidimensionale, il quale costituisce un riformulazione del primo e riflette non solo le proprietà oggettive dell’agency di individuo sotto un trattamento, ma anche quelle proprietà che sono apprezzate dall’agente. (traduzione di Silvia Inglese)
* Adina Roskies, una delle massime autorità mondiali nel campo della neuroetica e del neurodiritto, riceverà la medaglia della Società Italiana di Neuroetica e terrà la sua lectio magistralis il prossimo 17 maggio nell’ambito del convegno internazionale «Neuroethics: Re-Mapping the Field», in programma dal 16 al 18 presso l’Università Vita&Salute San Raffaele di Milano (www.societadineuroetica.it)
Quanta poesia si nasconde in laboratorio
Nei legami inattesi tra formule e versi gli indizi della nostra creatività
di Marco Pivato (La Stampa, TuttoScienze, 06.01.2016)
Scienziati e poeti sono «ingegneri» della cultura: alla loro creatività spetta il compito di elaborare i messaggi di una civiltà evoluta. Il poeta e critico Leonardo Sinisgalli lo sosteneva nel secolo scorso, auspicando una sinergia tra umanisti e scienziati. Ho chiesto la collaborazione di molti professionisti delle «due culture» per verificare questa teoria, scoprendo prima conferme su quanti strumenti, metodi e scopi siano coincidenti nel mestiere di scienziati e poeti e poi quanto l’auspicata sinergia sia oggi necessaria. Linguisti, letterati, matematici e fisici, Nobel inclusi, si sono confrontati sulla comunanza di obiettivi nel proprio lavoro e il risultato di questa consultazione è confluito nel pamphlet «Noverar le stelle. Che cosa hanno in comune scienziati e poeti» (Donzelli).
Continuità tra scienza e poesia mi fu suggerita innanzitutto da Ezio Raimondi, oggi scomparso, padre dell’italianistica e filologo. «La poesia - secondo lui - è progettare il destino dell’uomo: ha il compito di colmare le distanze tra noto e ignoto e dunque i suoi messaggi hanno il ruolo, analogo a quello della scienza, di incidere sulla formazione della cultura, che è motore della civiltà». Nulla, per il linguista, esime lo scienziato e il poeta dall’interpretare l’uomo e la natura. L’esistenzialismo di certa poesia «romantica», per esempio, insegue quello della fisica moderna, che «con le sue “grandi domande” - sostiene il Nobel per la Fisica Serge Haroche - mette in scena il dramma della ricerca di un rapporto armonico tra sé e il mondo».
Scienza e poesia invocano risposte su origine e senso dell’Universo e dunque dell’uomo. Per Friedrich Schiller questa ricerca è frustrante, sebbene ineludibile: «Perché leggi in lei quel che tu stesso vi hai scritto?/ Perché ordini in gruppi per l’occhio le sue manifestazioni?/ Tese le tue cordicelle sul suo campo infinito/ T’illudi che il tuo spirito senta e comprenda la grande Natura».
E se Leopardi si struggeva, chiedendo conto della ragion d’essere dell’amore, le neuroscienze non sono da meno nel proporre dinamiche biochimiche alla base degli affetti. Semir Zeki, neurobiologo allo University College di Londra, spiega la radice comune della contemplazione «scientifica» e di quella «poetica» che è, come sostiene Raimondi, il desiderio di conoscenza. «Come tutti i processi cognitivi - chiarisce Zeki - la conoscenza è un processo affettivo, perché si svolge grazie alle relazioni che instauriamo con oggetti e persone e quindi la nostra specie impara sia attraverso strumenti razionali sia irrazionali: ora con l’esperimento, ora con l’intuizione».
Scontiamo dunque la necessità di essere nutriti di conoscenza, che le neuroscienze cognitive mostrano essere naturale per la costruzione della società. L’attività contemplativa di scienza e poesia è allora una «tecnologia biologica» esclusiva, per quanto si sa, dei Sapiens. Peccato che scienziati e poeti siano oggi attori minori in un’epoca in cui - ed è la nota polemica del libro - il privilegio di fare il «brutto e cattivo tempo» è prerogativa di politici e opinion leader quasi mai capaci di tradurre la conoscenza in diritti e progresso.
Cervelli da coltivare
Ora le neuroscienze esplorano la genialità
Che cosa accende la “scintilla” decisiva? Ed è possibile educare alla creatività?
di Nicla Panciera (La Stampa TuttoScienze, 17.12.2014)
Si racconta che fu grazie alla sua passione per la fotografia che il patologo australiano Robin Warren ebbe l’illuminazione decisiva che gli valse il Nobel. La colorazione con nitrato d’argento delle sezioni istologiche dello stomaco lo portò alla scoperta del batterio Helicobacter Pylori e, in seguito, del ruolo nella gastrite e nell’ulcera, quando ancora si credeva che i batteri non potessero sopravvivere all’acidità.
Un’idea geniale, frutto dell’incontro tra rigore e creatività e che, anche nella scienza, compare d’improvviso, dopo un lungo lavoro. Oggi molti team di neuroscienziati sono all’opera per studiare i meccanismi segreti della creatività e d’altra parte sono i ricercatori i primi che potranno beneficiare delle nuove scoperte su come far scattare la «scintilla»: la medicina, in particolare, ha bisogno non solo di fondi e laboratori d’avanguardia, ma di cervelli sempre più sofisticati che affrontino sfide gigantesche, dalla lotta ai tumori a quella contro le malattie neurodegenerative, due emergenze del XXI secolo.
Reti neurali diverse
Che cosa c’è di così speciale nella struttura dei cervelli creativi per antonomasia, come quelli di van Gogh, Mozart o Einstein? La rocambolesca vicenda dell’encefalo del genio della fisica e padre della Relatività - oggi conservato al National Museum of Health and Medicine di Chicago - è degna di un thriller, ma neppure lo studio di quella celeberrima materia grigia ha dato, almeno al momento, risposte definitive. Ma, intanto, i progressi delle neuroscienze ci sono. Per esempio quelli sulle funzioni dell’ammasso di neuroni che portiamo con noi.
Si è scoperto, per esempio, che le aree coinvolte nei processi creativi differiscono, anche perché sono specifiche per le diverse espressioni e, quindi, nel caso dei tre geni, pittoriche, musicali o scientifiche. In ogni fase dei processi creativi, poi, si è osservato come entrino in gioco reti neurali di volta in volta differenti, con processi cognitivi che, spesso, non raggiungono nemmeno il livello della coscienza. E infatti, secondo il neuropsicologo Rex Jung dell’Università del New Mexico, se si vuole uscire dagli schemi di ragionamento stereotipati ed elaborare nuove idee, realizzando il «pensiero laterale» di cui tanto si parla, bisogna lasciare la mente libera di vagare: è fondamentale inibire la rete neurale dell’attenzione esecutiva, all’opera quando si è concentrati su un compito specifico. Solo così si può tentare di entrare nello «stato di grazia»: si annulla la distanza tra noi e la realtà, si «spegne» l’attività cosciente e possono scattare i lampi di genio.
Nella mente, però, il lavorio è frenetico: tutto viene passato in rassegna. «E’ come se l’inconscio cognitivo operasse una selezione naturale, attingendo alle nostre risorse fatte di idee, memorie, esperienze, ed è esattamente per questa ragione che l’intero nostro bagaglio di vita è fondamentale nella risoluzione di problemi anche molto specifici, che sembrano lontanissimi dagli eventi quotidiani», spiega Alberto Oliverio, professore di psicobiologia all’Università La Sapienza di Roma. Questa condizione, chiamata anche di flusso creativo, «è simile alla trance proprio per il coinvolgimento di aree sottocorticali, come i gangli della base, che lasciano che il processo si svolga al di sotto del livello della coscienza», dice Oliverio. E, infatti, la psichiatra Kay Redfield Jamison della Johns Hopkins University di Baltimora ha creduto di individuare il segreto della creatività (e del legame con la follia) nella dopamina, il neurotrasmettitore fondamentale nel funzionamento di alcune aree sottocorticali. E’ stato poi il neurologo francese Pierre Pollak del Centro Ospedaliero Universitario di Grenoble ad aver notato che una stimolazione elettrica dei gangli della base e che le alterazioni della dopamina possono portare a radicali modifiche della personalità, come la perdita della creatività in artisti già famosi.
«Publish or perish»
E gli scienziati? Spiega Oliverio che, «se non esiste una formula magica, c’è però bisogno di un ambiente non dogmatico. I “dissidenti”, quelli che evidenziano problemi e criticità, non vanno messi sbrigativamente a tacere: le loro idee, impraticabili oggi, potrebbero essere utili domani». Ecco perché - secondo i critici - l’attuale politica europea della ricerca, concentrata sui finanziamenti a progetti che devono risolvere problemi specifici (e «pratici») costituisce un vincolo. «Una strategia finalizzata non è sbagliata. È però sbagliato cancellare tutte le iniziative che sembrano non avere ricadute immediate».
Resta il problema che lo spazio per l’originalità - e per una possibile scoperta - arriva a volte troppo tardi: la vita di un ricercatore è fin da subito schiacciata dall’imperativo «publish or perish», «pubblica o muori»: ciò significa, spesso, una crescita esponenziale delle pubblicazioni, che globalmente si trasforma in un aumento del «rumore di fondo scientifico». Tanta ridondanza, segnata da basse dosi di innovazione. «D’altra parte ci si deve liberare anche dell’idea ottocentesca del genio che sa fare tutto - ammonisce Oliverio -: la ricerca è un lavoro di team, dove c’è spazio sia per l’invenzione geniale sia per certosini miglioramenti».
L’esplorazione di questo universo mentale è appena iniziata. Ma - concordano gli studiosi - alimentare la creatività richiederà molte risorse. E diverse tra loro. Già sui banchi di scuola e nelle università, prima di vedere le vere «scintille» nei laboratori.
Evolversi con le storie
Jonathan Gottschall spiega perché la mente umana ha bisogno di narrazioni per crescere
Le neuroscienze cognitive al servizio della letteratura
di Ernesto Ferrero (il Sole-24ore/domenica, 30.03.2014)
L’uomo è l’unico animale che non può vivere senza racconti, cioè senza produrre e consumare continuamente affabulazioni, invenzioni, fantasie. Elabora racconti persino quando dorme in quelle libere fiction autogestite che sono i sogni, di cui è più spettatore che regista. Sin da bambino si appassiona al gioco del «come se», si immedesima in personaggi di sua invenzione, adora i travestimenti, l’arte e la musica, è spontaneamente multiplo. E da adulto, anche a occhi aperti elabora una visione della realtà in cui la componente immaginativa ha una parte essenziale.
Questa che si configura come una vera e propria dipendenza non è un lusso, un simpatico optional per i momenti di relax. Se si trattasse soltanto di regalarci delle occasioni di piacevole intrattenimento, l’evoluzione si sarebbe già incaricata di eliminarla come un inutile spreco di energia. È stata proprio l’evoluzione a crearla, ad affinarla, a renderla indispensabile, quasi una componente dell’equipaggiamento genetico.
È questa la tesi di fondo del libro di Jonathan Gottschall, docente di inglese al Washington & Jefferson College di Pittsburgh, che si muove darwinianamente tra biologia, psicologia, neuroscienze e letteratura (The storytelling animal è il titolo originale, più suggestivo di quello italiano). Siamo dunque in presenza di un istinto fondativo, come già sapeva Sharazade, che riusciva a sospendere la sua condanna a morte incantando il sultano con le sue narrazioni.
Sappiamo benissimo che i racconti che produciamo o ascoltiamo sono fittizi, eppure ne abbiamo un bisogno assoluto. È una narrazione anche la politica, quasi un talent dove i giudici sono i cittadini che votano (spesso preferendo inganni piuttosto evidenti a scelte razionali). Forse lo è persino la scienza, almeno fino a quando non sottopone le sue «narrazioni» a verifica; di sicuro la psicoterapia, dove il terapeuta diventa una sorta di editor del racconto che il paziente fa della propria vita, e cerca di metterlo in pulito.
Tuttavia l’uomo non sembra cercare storie a lieto fine. Al contrario, dimentica per un istante la sua quotidianità per immergersi in vicende complicate e spaventevoli: Edipo che si acceca per l’orrore, Medea che uccide i propri figli, i cadaveri di cui rigurgitano i drammi di Shakespeare, persino le truculente fiabe dei Grimm. La finzione narrativa si basa su problemi, conflitti, difficoltà d’ogni genere e sul loro superamento finale, come già aveva accertato Propp (curiosamente assente dal libro).
Esiste insomma una grammatica generazionale delle storie, ma perché il nero, la paura, l’orrore vi occupano una parte prevalente? Perché, sostiene Gottschall, le storie, a partire dai miti sono come dei simulatori di volo che, ponendoci di fronte a situazioni difficili, ci insegnano a elaborare i comportamenti adatti a gestirle. Sono lo spazio in cui sviluppiamo le competenze necessarie alla vita sociale. Esperimenti di laboratorio hanno dimostrato che anche gli animali sognano situazioni di pericolo o di paura, che rappresentano per loro come per gli umani un ottimo training.
La mente umana non è stata modellata per le storie, ma dalle storie, dice Gottschall. La finzione narrativa ci fornisce informazioni, precetti morali, emozioni: ci plasma. Quando ci immedesimiamo nelle storie che leggiamo o che vediamo al cinema o in tv, i nostri neuroni si comportano come se fossimo effettivamente lì. Le cellule attivate si legano insieme, e questo spiega i processi di apprendimento e il loro progressivo affinarsi: la ripetizione dei gesti corre lungo un network già stabilito. Non solo: sin da quando venivano trasmesse oralmente, le storie continuano ad adempiere la loro antica funzione di creare un legame sociale e di rafforzare una comune cultura. Sono una forza coesiva nella partita che si gioca contro il caos e la morte.
Per entrare nella mente umana, un messaggio ha bisogno di una storia che sappia creare un coinvolgimento emotivo, e in questo la narrativa funziona meglio della saggistica (difatti per sedurci l’autore ogni tanto si concede qualche inserto un po’ più raccontato). Gli uomini privilegiano l’irrazionalità dei miti e delle religioni perché non riescono a tollerare l’inspiegabile, perché devono conferire un ordine e un senso alla loro esistenza e rispondere alle grandi domande che li assillano. È una strategia di sopravvivenza anche questa. C’è chi, come Richard Dawkins, sostiene che il lato oscuro e violento di certe religioni rappresenta un tragico difetto del l’evoluzione. Altri biologi pensano invece che la religione faccia funzionare meglio le società umane, connoti i gruppi, favorisca la coesione, mantenga l’ordine, privilegi l’utilità collettiva.
Qualcuno ha detto che la verità avvelena la fantasia. La nostra disponibilità a immaginare al di fuori d’ogni logica non si estende per fortuna alla sfera morale. Anche quando parla di atrocità e orrori, la funzione narrativa sottintende un senso etico, un giudizio morale. La violenza non è (per lo più) presentata in modo neutro, anche se il discorso non vale per cinema e video, dove per via dei neuroni specchio i comportamenti violenti finiscono per creare assuefazione e produrre aggressività.
E oggi? Qualcuno teme per la conservazione delle forme finzionali, alte o basse che siano ma, come è stato scritto, il futuro è poco promettente per la realtà. Grazie alle potenzialità offerte dalle tecnologie digitali, vivremo immersi in mondi sempre più virtuali e sempre meno fisici. La vera migrazione che l’umanità sta compiendo non è e non sarà quella verso lontani pianeti, ma verso i continenti fittizi offerti da tablet e smartphones. In questa overdose di virtualità si annidano molti pericoli. Speriamo che l’evoluzione abbia previsto anche questo, o quanto meno si attrezzi per limitare i danni.
«Ma per i simboli ci vuole l’arte» Ludovica Lumer: «Allargo la visione con la neuroestetica»
di Roberta Scorranese ( Corriere della Sera-La Lettura, 20.10.2013)
Mentre dipingeva le sue mele gialloverdi, Cézanne ripeteva spesso: «Nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello. E devono aiutarsi tra loro». Si era nella seconda metà dell’Ottocento, ma il legame profondo tra arte e materia cerebrale cominciava a prendere forma, in un’Europa sempre più attenta agli abissi psichici. A Vienna, più tardi, Freud e Arthur Schnitzler si confronteranno in accese discussioni sull’argomento, dopo aver condiviso i banchi universitari negli studi in medicina; le forme inquietanti di Klimt indagheranno sulle ferite inconsce, mentre le teorie di Darwin avevano diffuso l’idea di un essere umano come prodotto «di un’evoluzione biologica». Misurabile, dunque.
«Oggi l’anello che tiene insieme arte e cervello è declinabile in numerose discipline, prima fra tutte la neuroestetica», dice Ludovica Lumer, 42enne milanese. Ludovica ha studiato filosofia e neurobiologia, prima di specializzarsi in neuroestetica con il britannico Semir Zeki, massimo studioso di questa particolare scienza che analizza il cosiddetto «occhio del cervello». Da due mesi, Lumer è a New York per fare un passo avanti: è stata ammessa alla Psychoanalytic Society & Institute. «In sostanza - ride - unirò la psicanalisi allo scandaglio della neuroestetica». Uno sguardo completo, dunque, che abbraccia l’intero concetto di «visione», esterna e interna, quella che si ferma sull’opera d’arte e quella che ne restituisce una parte all’inconscio.
Ma in che modo l’arte ci ha aiutato a comprendere i meccanismi del cervello? «In molti modi - afferma la ricercatrice - io credo che l’estetica, oggi più che mai, sia fondamentale. Ci aiuta a dare delle risposte laddove la scienza deve necessariamente fermarsi. Un artista e medico come Cesare Pietroiusti, durante un convegno, ha detto che se improvvisamente l’arte sparisse dal mondo, il microfono che lui in quel momento aveva in mano non avrebbe mai più avuto la possibilità di essere altro che un microfono». Così come il famoso orinatoio di Marcel Duchamp cesserebbe di essere un’opera e tornerebbe a essere un accessorio scabroso. Ecco il primo «sostegno»: l’arte aiuta il cervello a costruire significati simbolici. Produce senso, come aveva intuito anche lo storico e critico Ernst Gombrich (per il quale le immagini che l’artista crea, vengono poi ricreate, a loro volta, nel nostro cervello).
Lumer cita esperimenti: «Per visualizzare le fasi dell’elaborazione dei colori nel cervello umano, Zeki ha utilizzato le opere dei Fauves». E anche alcuni dipinti di Cézanne, come «Pommes, pêches et poires». Con una vera risonanza magnetica. Il potere dei colori di Monet o delle distorsioni di Picasso va anche oltre: alcuni ricercatori parlano di «simulazione incarnata», l’inclinazione a ripetere le azioni che vediamo nell’opera.
«In un altro esperimento - continua la studiosa - è stata analizzata la “risposta” davanti al celebre “La trahison des images” di Magritte. Ebbene, detto in termini molto semplici, l’occhio interiore registra l’immagine della pipa e la parola “pipa” in modi interessanti». E ancora: perché alcune opere d’arte ci piacciono e altre no? «A questo - annota Lumer - ha cercato di rispondere una ricerca di Zeki condotta con il collega giapponese Kawabata. Hanno mostrato tele molto diverse tra loro a un centinaio di persone. Al di là del risultato dell’esperimento, quello che incuriosisce è il paradigma che ne è scaturito, il disegno della misurabilità di un’esperienza soggettiva così personale, intima». Zeki e Kawabata hanno osservato che, mentre i rappresentanti del campione scelto guardavano quadri descritti come «belli», nel cervello si attivava l’area nota per il suo coinvolgimento nei meccanismi di ricompensa. Dunque, il bello ci rende felici. Lo ha dimostrato, in Italia, il gruppo di ricerca di Enzo Grossi, che ha esaminato un campione di quasi duemila persone.
Ma vale la pena ricordare che il cervello stesso ha una sua valenza estetica: una specie di meccanismo di precisione irrorato da alchimie ancora inspiegabili in una forma emblematica, simile a una ghianda, un guscio fertile. Non è una divagazione: il neurologo americano Frank Lynn Meshberger, visitando la Cappella Sistina, ha ravvisato, nel gruppo pittorico michelangiolesco «Creazione di Adamo», l’immagine di un cervello (lo ha scritto in un famoso articolo pubblicato sul Journal of American Medical Association). Se dunque è vero, come diceva Cézanne, che «nella pittura ci sono due cose: l’occhio e il cervello», l’arte è un validissimo sguardo segreto da non lasciar appassire.
Bauman: «Non c’è spiegazione senza teoria, il fattore umano sarà sempre necessario»
di Riccardo Staglianò (la Repubblica, 8 settembre 2013)
Il fattore umano spariglia ogni previsione. Quando entra in campo, i conti non tornano quasi mai. E non esistono computer tanto potenti da neutralizzare questa variabile. Per questo le scienze umane, sostiene il sociologo Zygmunt Bauman, teorico della “modernità liquida”, sono e resteranno insostituibili.
Da una parte le neuroscienze spiegano ogni azione umana in termini di funzioni del cervello. Dall’altra i Big Data promettono di rendere computabile qualsiasi trend sociale. Professore, la sua è una disciplina in via di estinzione?
«Non direi. Le scienze sociali, o scienze della cultura, stanno a metà strada tra scienze e umanesimo. E oscillano tra due modelli teorici, quello di Emile Durkheim e quello di Max Weber, e le loro numerose riscritture».
Ci riassume le differenze?
«Durkheim, ardente positivista, proponeva il metodo scientifico universale e lo applicava al regno dei “fatti sociali”, che considerava realtà come le altre perché determinano i comportamenti. Weber, anti-positivista, riconosceva che la sociologia è una scienza, però diversa da quelle che si occupano della natura. Non per il terreno che coltiva, ma per il metodo di coltivazione. Nel senso che non si ferma alla spiegazione (trovare le cause) ma procede verso la comprensione (trovare il significato). Un naturalista può descrivere tutto di un albero ma non, ovviamente, come si sente. Questo è il lavoro del sociologo: cercare di capire gli oggetti del suo studio».
E in questo le neuroscienze non ci possono aiutare...
«L’oggetto della sociologia è l’esperienza umana. Che i tedeschi definiscono in due modi: Erfahrung,“qualcosa che mi è successo” ed Erlebnis, “qualcosa che ho vissuto”. Il primo può essere descritto dall’esterno, in termini oggettivi. Il secondo no, solo attraverso i racconti, pensieri e sentimenti del soggetto. E qui le neuroscienze si fermano, lasciando il posto alle scienze umane».
Riguardo ai Big Data, la quantità senza precedenti di dati digitali su ogni attività umana, dovrebbero essere una manna per uno scienziato sociale. O invece alimentano l’illusione informaticocentrica che tutto possa essere calcolabile?
«Già nel XVII secolo il grande matematico Pierre-Simon Laplace disse che se gli avessero fornito “tutti i dati” sullo stato del mondo avrebbe potuto predire ogni suo successivo stato. Sono ambizioni che ritornano. Tuttavia è una prospettiva impraticabile non a causa della scarsità di informazione quanto per l’essenziale e irreparabile contingenza del mondo e l’irremovibile presenza di accidenti che lo caratterizzano. Le possibilità sono infinite e l’infinito non può essere calcolato».
Stiamo sconfinando sul terreno della meccanica quantistica, o sbaglio?
«Esattamente. La “teoria dei molti mondi” propone che “ogni volta che si realizza un’azione subatomica l’universo si divide in multiple, differenti copie di se stesso, per cui ogni nuovo mondo rappresenta uno dei possibili esiti”. Un’ipotesi, questa degli universi costantemente proliferanti, rilanciata più di recente dalla “teoria delle stringhe”, che sostiene che esisterebbero 10.500 diverse possibilità della loro equazione, pari ad altrettanti universi. Un numero che nessun computer può gestire».
Tra i vari esempi di questa Hybris epistemologica (tutto può essere calcolato) c’è quello dei rischi finanziari. I quant di Wall Street presumevano di sapere quali mutui sarebbero stati ripagati e quali no. Che lezione possiamo trarne?
«Che l’unica verità ottenuta con criteri scientifici si basa sulla dicotomia cartesiana tra soggetto e oggetto. Nel caso delle scienze umane sarebbe raggiungibile se gli oggetti, gli esseri umani, fossero privati della loro soggettività, il che non era totalmente vero neppure nei casi più estremi come Auschwitz o i gulag. L’indisciplinato intruso tra la verità scientifico-naturale e quella scientifico-sociale è rappresentato proprio dalla soggettività umana».
Intanto Facebook ha assunto un sociologo che studia le tendenze a partire dal miliardo di suoi utenti. Ha un senso scientifico?
«Dipende da chi pretendono di rappresentare. Le grandi catene di supermercati usano già campioni del genere per predire, ad esempio, quanto l’aumento di un grado di temperatura incida sulla domanda di prodotti per il barbecue. Sono ricerche a fini commerciali, come i sondaggi tentano di strologare la politica. Ma se pretendiamo di ricavarne tendenze stocastiche nel comportamento umano generale possono rivelarsi pericolosamente fuorvianti. Vaclav Havel, vecchia volpe politica, era solito dire che per predire il futuro bisogna sapere “quali canzoni la nazione è disposta a cantare”, ma poi aggiungeva che “non c’è modo di conoscere cosa vorrà cantare l’anno prossimo”».
C’è chi azzarda che non ci sarà più bisogno di teorie, basterà dedurre la giustezza di un’idea dai dati. Che ne pensa?
«Che essa stessa è una teoria. Costoro non sarebbero in grado di provare ciò che fanno senza una teoria, basata come tutte su una serie di assunti condivisi».
Creare significa «fare»
L’etimo antico del genio
Alle radici di un attributo divino e umano
di Umberto Curi (Corriere della Sera, 30.08.2013)
L a genealogia del verbo italiano «creare» - e di altri termini simili nelle lingue moderne, come il francese creer e lo spagnolo criar - è insieme istruttiva e sorprendente. La derivazione più attendibile è infatti dal sanscrito kar-, che ritroviamo nel greco kaino («produco»), oltre che in krantor (il «dominatore») e kreion («colui che fa»), sempre col significato di «produrre», «generare», «fabbricare». Ne troviamo traccia anche in «crescere», che sarebbe una forma incoativa di «creare», e starebbe appunto a indicare il processo mediante il quale qualcuno o qualcosa si va formando.
La presenza della radice sanscrita nel nome di due divinità - Kronos (il «creatore»), padre di Zeus, e Ceres («quella che produce»), divinità delle messi, in modi diversi connessi con la coltivazione dei campi, confermerebbe il fatto che la capacità di creare, la creatività, rappresenta una forma specifica del fare, con particolare accentuazione sulle potenzialità generative. La concezione cristiana del Dio «creatore» chiarisce ulteriormente il quadro concettuale: vi è ribadita la funzione «generativa» della creazione, con l’aggiunta di un ex nihilo, che sottolinea l’anteriorità cronologica e ontologica di Dio rispetto ai prodotti della creazione.
Il mondo greco antico conosce due modi ben distinti - e due termini diversi - per alludere a ciò che chiamiamo intelligenza: nous e metis. La prima è l’intelligenza inattiva e contemplativa, quella che intus-legit, e cioè «legge dentro» le cose, le conosce nella loro essenza concettuale, senza tuttavia preludere ad alcun tipo di azione o di comportamento. È l’intelligenza astratta, disimpegnata da ogni vincolo con il «fare». Ben diversa è, invece, la metis, l’intelligenza attiva ed esecutrice, preposta all’azione, e dunque provvista di abilità e di prudenza, di astuzia e pazienza. Il nous contempla. La metis, come la creatività, genera.
Già nell’Iliade, Odisseo è presentato come polymetis («molto astuto») e polymechanos («molto abile»), polytlas («molto paziente»), un campione di quell’intelligenza pragmatica capace di creare soluzioni anche in situazioni all’apparenza senza sbocchi. La guerra di Troia si concluderà per quello che potremmo chiamare un esempio di vivace creatività, un vero «colpo di genio», di Ulisse, al quale si potrebbe dunque riferire ciò che Eraclito scrive di Pitagora, quando lo accusa di essere kopidon archegos, «inventore primo di inganni».
Ma campione della metis è anche Prometeo, che la metis porta già nel suo stesso nome. Egli sarà assunto anzi come patrono degli artigiani, perché accreditato in forma eminente della capacità di produrre. Senza dimenticare che Zeus riuscirà a vincere la lotta per la conquista dell’Olimpo solo quando avrà ingoiato colei che egli aveva scelto come sua compagna - Metis, appunto - riuscendo con ciò ad aggiungere a Kratos e Bia, al Potere e alla Violenza, anche l’intelligenza pratico-creatrice. Quasi a dire che, per governare, non basta l’esercizio della violenza e l’uso del potere, poiché è non meno indispensabile la creatività.
Così si comprende anche per quale motivo la dimensione temporale che più si addice alla creatività della metis non è il chronos, il tempo della successione, la misura del divenire, l’accezione quantitativa di tempo. Connesso alla metis è piuttosto il kairos, il tempo opportuno, l’attimo che fugge, e cioè quella variante qualitativa del tempo in cui si manifesta un evento extra-ordinario, che va afferrato al volo, come insegna la raffigurazione classica del kairos: un giovane calvo sulla nuca e provvisto di un vistoso ciuffo sulla fronte, che dobbiamo afferrare quando ci viene incontro, se non vogliamo perdere il «momento buono».
Ciò che nella nozione originaria di metis appare ancora implicito e indistinto, esplode nella cultura moderna e contemporanea talora in forma di contrapposizione insanabile. Da un lato, soprattutto nella concezione romantica, la creatività è un requisito attinente all’affettività e ai sentimenti, ma non alla ragione, il cui dispotismo geometrico è considerato in contrasto con la libera espansività della creazione artistica. Già dai primi decenni del Novecento, però, l’irrompere della Gestaltpsychologie prima, e del cognitivismo poi, in campo psicologico e l’affermazione impetuosa delle neuroscienze conducono a un simmetrico rovesciamento dell’impostazione romantica. Non l’arte, ma la scienza, non gli affetti ma la razionalità, costituiscono il terreno di espressione della creatività.
Si profila con ciò una sorta di dualismo - documentato nella collana di testi pubblicati dal «Corriere della sera» e dal Festival della mente - fra due accezioni diverse di affettività, a seconda che essa venga riferita all’intuizione e alla sfera generale dei valori poetici, in una visione in sostanza antirazionalistica che sopravvive nel pensiero francese fino all’inizio del nostro secolo; ovvero che essa sia collegata allo stereotipo dell’uomo di genio in campo scientifico, capace di produrre innovazione anche in campo tecnologico, secondo una concezione che gode di particolare credito nei Paesi di lingua inglese. Al di là di questo dissidio, la recente forte ripresa di interesse per la creatività non può occultare un punto decisivo, e cioè che essa conserva tuttora un margine di enigmaticità, tale da renderla solo parzialmente decifrabile. Al punto da far apparire tutt’altro che paradossale la corrosiva battuta di Einstein: «Il segreto della creatività è saper nascondere le proprie fonti».
Il libero arbitrio. La condanna di scegliere al tempo delle neuroscienze
Uno dei grandi protagonisti degli studi sul cervello racconta i traguardi delle nuove ricerche. E spiega perché certi limiti non si possono varcare
di Michael Gazzaniga (la Repubblica, 07.02.2013)
Mi ricordo di aver visto alcuni anni fa un toccante documentario della Bbc in cui si raccontava una storia molto semplice. Un reporter di lungo corso della tv britannica stava viaggiando per l’India e decideva di andare a fare visita a un suo amico indiano. Le riprese mostravano il giornalista e il cameraman che facevano lo slalom tra escrementi e rifiuti in una baraccopoli sorta sul fianco di una collina, per infine arrivare alla casa di due metri per tre dell’amico.
Là si trovava lui, sorridente e festoso alla vista dell’amico inglese. Si scopriva allora che la casa, dove viveva con la moglie e i due figli, era anche il suo luogo di lavoro, il suo negozio; vi vendeva scarpe da tennis per ragazzi, di quelle che lampeggiano. In qualche modo riuscivano a far stare tutto in quel bugigattolo e, mentre il cameraman stentava a rimanere fermo nel negozio a causa degli afrori insopportabili, il dignitoso indiano consegnava un paio di scarpe all’amico inglese perché le portasse ai suoi figli.
Si trovavano in uno stato che un occidentale definirebbe di povertà e miseria totali, ma lo scambio umano trascese tutto il resto, culminando in uno di quei momenti che ci aiutano a capire davvero chi siamo. È questa grandezza dell’essere “umani” che tutti noi abbiamo a cuore, e che non vogliamo ci sia portata via dalla scienza. Vogliamo sentire il nostro valore e il valore dell’altro.
Ho sempre cercato di dimostrare come una comprensione scientifica più completa della natura della vita, e del rapporto tra mente e cervello, non intacchi questo valore caro a noi tutti.
Siamo persone, non cervelli: siamo quell’astrazione che si manifesta quando una mente, che emerge da un cervello, interagisce con il cervello stesso. È in questa astrazione che esistiamo e, di fronte a una scienza che sembra intaccarla, siamo alla disperata ricerca delle parole per descrivere cosa siamo davvero. Siamo instancabilmente curiosi di sapere come tutto ciò funzioni.
La prospettiva deterministica globale che pervade tutto ciò che è scienza sembra spingerci verso un punto di vista sconfortante: quello secondo cui, in definitiva, per quanto ci agghindiamo siamo una macchina di qualche tipo che funziona in modo automatico e senza controllo esplicito, quasi dei veicoli delle forze dell’universo, forze più grandi di noi e fisicamente determinate. Ma allora nessuno di noi è prezioso, perché siamo tutti pedine.
Il modo consueto per uscire da questo dilemma è ignorarlo, e affermare qualcosa a proposito della grandezza della vita a livello fenomenologico, di come sia bello il parco Yosemite, di quanto sia fantastico fare l’amore e di quanto siano meravigliosi i nipoti, e goderci il tutto. E noi ce lo godiamo, perché siamo fatti per gioire di queste cose: è il modo in cui funzioniamo, e anche la fine del problema. Prenditi un Martini Dry, metti i piedi sul divano e leggiti un buon libro.
Ho provato a fornire una diversa prospettiva nell’approccio al problema. Alla fine ho concluso che tutte le esperienze di vita, personali e sociali, hanno un’influenza sul nostro sistema mentale emergente. Tali esperienze sono forze potenti che modulano la mente: non soltanto vincolano i nostri cervelli, ma rivelano anche che è l’interazione dei due strati di cervello e mente a consentire la nostra realtà cosciente e il nostro viverla in tempo reale.
Il compito delle neuroscienze moderne è la demistificazione del cervello; tuttavia, per portare a termine tale compito, le neuroscienze devono trovare come le leggi e gli algoritmi che governano tutti i moduli separati e distribuiti operino insieme per dare origine alla condizione umana.
Capire che il cervello funziona in modo automatico, e che segue le leggi del mondo naturale, è una cosa confortante e rivelatrice: confortante, perché possiamo avere fiducia nel fatto che il nostro strumento decisionale, il cervello, ha una struttura affidabile nell’esecuzione delle scelte riguardo all’azione; e rivelatrice, perché è chiaro che tutta la misteriosa questione del libero arbitrio è un concetto mal congegnato, basato su delle convinzioni sociali e psicologiche formate in periodi particolari della storia dell’umanità, che non hanno origine dalla conoscenza scientifica moderna sulla natura del nostro universo, e che sono in disaccordo con essa.
Come mi suggerisce John Doyle: «Siamo in qualche modo abituati all’idea che quando un sistema sembra mostrare funzioni e comportamenti coerenti e integrati, deve esservi qualche elemento “essenziale” - e, soprattutto, centrale, o comunque capace di controllo centralizzato - responsabile di ciò. Siamo profondamente essenzialisti, e il nostro cervello sinistro troverà quell’essenza. E se non riusciamo a trovarla, ce la costruiamo. La chiamiamo omuncolo, mente, anima, gene e così via [...] Ma di rado è nel consueto senso riduzionistico [...] Ciò non significa che non esista qualche “essenza” responsabile; solo che è distribuita. Si trova nei protocolli, nelle leggi, negli algoritmi, nei programmi. È così che funzionano i formicai, Internet, gli eserciti, i cervelli. La cosa ci risulta difficile da afferrare perché non è contenuta in una qualche scatola, da qualche parte. Se così fosse si tratterebbe infatti di un errore di progettazione, perché quella scatola costituirebbe un singolo punto di vulnerabilità. In effetti, è importante che non stia nei moduli, ma nelle regole di funzionamento che devono seguire».
Nel compiere uno sforzo per rendere più chiaro il tutto, vedo che la mia prospettiva si va modificando. È il modo in cui vanno le cose nella scienza: i fatti non cambiano; quello che cambia, specialmente nelle scienze in cui c’è una forte componente di interpretazione, come le neuroscienze e la psicologia, sono le idee su quei fatti che vanno accumulandosi. Tutte le mattine ogni singolo scienziato va ripetendosi una tormentosa domanda: la spiegazione che ho proposto per questo e quello coglie davvero ciò che accade? Nessuno conosce le debolezze di un’idea meglio di colui che la propone; costui, di conseguenza, è sempre sul chi vive. E non è una condizione facile da sopportare.
Una volta chiesi a Leon Festinger, uno degli uomini più intelligenti del mondo, se si fosse mai sentito inadatto. Rispose: «Certo! È quello che ti rende adatto». Mi sono reso conto di quanto occorra un linguaggio unificato, non ancora sviluppato, per cogliere ciò che accade quando i processi mentali vincolano il cervello e viceversa. L’azione si trova nel punto in cui questi livelli si interfacciano; secondo un certo vocabolario, è dove la causalità dall’alto verso il basso incontra quella dal basso verso l’alto; secondo un altro vocabolario non è per niente là, bensì nello spazio tra i cervelli che interagiscono l’uno con l’altro. È quanto avviene all’interfaccia dell’esistenza organizzata a strati che fornisce una risposta al nostro tentativo di comprendere la relazione mente-cervello.
Come dobbiamo descriverla? Il livello che emerge ha un suo andamento temporale, e una sua connessione alle azioni che vengono svolte. E quell’astrazione ci rende presenti nel tempo, e responsabili. L’intera questione del cervello che compie tutto prima che ne siamo consapevoli diventa opinabile e irrilevante dalla prospettiva di un diverso livello di funzionamento. Comprendere come sviluppare un vocabolario per quelle interazioni su diversi livelli costituisce, a mio avviso, la sfida scientifica di questo secolo.
© 2013 Codice edizioni Torino
Scienze
La coscienza interiore
C’è un’area del cervello deputata a «gestire» il flusso di informazioni
La chiamano «l’interprete» e ci fornisce gli strumenti per rispondere a situazioni di pericolo. Il neuroscienziato Michael Gazzaniga nel suo ultimo libro «Chi comanda?» ipotizza un livello superiore della consapevolezza che riguarderebbe la sfera sociale e il libero arbitrio
di Eugenio De Rosa (l’Unità, 21.01.2014)
INSOMMA, SAPPIAMO CIÒ CHE FACCIAMO (PRIMA DI FARLO) O NO? E’ UNA DOMANDA A CUI SI COLLEGANO MIGLIAIA DI ANNI DI RIFLESSIONI DI FILOSOFI CON OPINIONI MOLTO DIVERSE CHE HANNO AL CENTRO IL PROBLEMA DEL LIBERO ARBITRIO: siamo o non siamo liberi di decidere che fare? Oggi al dibattito dei filosofi si aggiungono gli studi rivoluzionari di neurofisiologia, quelli che cercano di capire come funziona il nostro cervello, dove, per l’appunto si troverebbe la sede della nostra capacità di decidere.
Penso al povero Mitja (Dmitrj Fedorovic Karamazov) che sulla carretta dei deportati si avvia verso la Siberia per un parricidio che non ha commesso e con l’anima stravolta invece per il ferimento di Grigorij, il servo che lo ha allevato con amore. I fatti: Mitja, follemente innamorato di una ragazza desiderata anche dal padre, entra nel giardino della casa paterna, vede che la ragazza non è lì, decide di fuggire, cerca di saltare il muro di cinta ma si sente afferrare per una gamba. È Grigorij che gridando erroneamente «assassino di tuo padre!» lo trattiene per una gamba; istantaneamente il braccio di Mitja si leva e un potente colpo di un pestello di bronzo si abbatte sul cranio del poveretto che stramazza al suolo in un lago di sangue.
Ora Mitja è libero ma non fugge, scende dal muro e si precipita ad asciugare il sangue che esce copioso; con disprezzo per se stesso, lancia l’arma lontano. Poi convinto di avere ucciso riprende la fuga. La domanda che ci si può porre oggi alla luce dei nuovi risultati della neurofisiologia è: Mitja era cosciente di quel che stava facendo a Grigorij o no? E dunque è colpevole o no?
Nel 1878, quando Dostoesvskij scriveva I fratelli Karamazov l’unico modo di studiare il comportamento del cervello sul piano fisiologico era di osservare eventuali difetti nei cadaveri di persone che da vive avevano manifestato particolari patologie. È così che Paul Broca, medico francese, ha scoperto nel 1861 che il suo paziente incapace di pronunciare una sola parola tranne «tan!» e perciò soprannominato Tan, un’area cerebrale danneggiata che è stata chiamata appunto «centro della parola» e poi «area di Broca», altrettanto fece il tedesco Carl Wernickee rivelando in pazienti che udivano correttamente le parole ma non ne capivano il significato. Progressi importanti che dimostravano che c’erano nel cervello aree dedicate a precise funzioni. Era però impossibile vedere il cervello durante il suo funzionamento.
Ora ci sono diverse tecnologie che invece lo consentono e in particolare la fRM (risonanza magnetica funzionale) che posa sul fatto che quando lavora il cervello usa più ossigeno portato dall’emoglobina del sangue. La risonanza valuta quanto ne affluisce, dove e in quanto tempo: dice cioè quali parti del cervello stanno lavorano in quel momento e quanto. Siccome si tratta di una tecnica non invasiva è molto usata e ha rivelato molte cose alcune molto sorprendenti.
Fra queste è che esiste una parte del cervello i cui affluiscono tutte le informazioni provenienti da ciascuna delle altre. Alcuni la chiamano «l’interprete» per non chiamarla «coscienza»: è quella parte infatti che si attiva dopo qualunque atto o informazione ricevuta dai sensi e ne ricostruisce o ne dichiara la storia; l’attivazione si manifesta dopo poco più di mezzo secondo e poi prosegue. Mezzo secondo: sembra poco e invece è molto se si pensa soprattutto alle situazioni di pericolo.
E infatti esistono altre parti del cervello che ci hanno salvato la vita nel corso dell’evoluzione. In particolare l’amigdala (o i neuroni a specchio, grande scoperta italiana) che recepito il pericolo ordinano al corpo di reagire senza attendere l’interprete: è la cosiddetta reazione «mordi o fuggi», decisione automatica fuori dal controllo della coscienza. La reazione si manifesta in circa un quinto di secondo, meno cioè della metà del tempo necessario all’attivazione dell’interprete. Il quale poi ricostruirà ciò che è accaduto sulla base delle informazioni ricevute.
Michael Gazzaniga, autore del libro straordinario cui mi ispiro (Chi comanda?, Codice Edizioni, Le Scienze) racconta delle sue esperienze nei deserti americani popolati da serpenti a sonagli: vedo l’erba che si muove, faccio un balzo all’indietro «chissà quante volte sarei morto se non avessi avuto questa rapidissima reazione» che solo dopo l’interprete spiega mettendo insieme erba in movimento, possibile serpente, associazione innata tra serpente e pericolo, anche se poi verificherà che era solo un soffio di vento tra l’erba.
Torniamo a Mitja: sta fuggendo, qualcosa lo trattiene alla gamba mettendolo in pericolo, un quinto di secondo e il colpo di pestello piomba sul cranio di Grigorji, è libero, passa mezzo secondo e solo allora lui si rende conto di cosa ha fatto, non fugge, torna indietro cerca di soccorrere ma sembra impossibile e lui maledice l’arma scagliandola lontano. Colpevole o non colpevole? Il suo libero arbitrio è intervenuto nella sua azione? Dove comincia e dove finisce la responsabilità di un uomo «libero»?
Un grande dilemma di cui comincia ad occuparsi anche qualche tribunale americano. Aggiungiamo che, come per serpente o vento, anche l’interprete (la coscienza) si basa non su certezze ma solo sulle informazioni che altre parti del cervello gli forniscono. Fin qui la scienza sperimentale. Gazzaniga però si spinge oltre facendo intervenire un «livello» superiore che si baserebbe sui rapporti sociali, una coscienza generale che si sovrapporrebbe a quella definita sperimentalmente. A che velocità? Quando? Ospitata da cosa e dove? Nessuno può dirlo: al momento questa più che scienza sembra metafisica. Probabilmente dovremo attendere che alla neurofisiologia si accostino profondi studi di antropologia sociale.
C’è una macchina del piacere. Si agita nella corteccia del cervello
Dall’innamoramento all’attrazione per l’arte: le avventure della neuroestetica
di Luca Francesco Ticini (La Stampa TuttoScienze, 21.11.2012)
L’intenso piacere che proviamo nell’ascoltare la musica preferita o nell’ammirare un’opera pittorica particolarmente bella è legato ad una serie di risposte neurochimiche del cervello, omologhe a quelle scatenate durante l’innamoramento. Infatti, sia l’amore romantico sia l’estasi di fronte ad un lavoro artistico attivano le aree cerebrali associate al rilascio di dopamina, l’ormone del piacere. Questa stretta relazione tra l’esperienza estetica, il desiderio ed il piacere è studiata da una disciplina nota come neuroestetica. In particolare, la neuroestetica è impegnata nel caratterizzare i meccanismi cerebrali coinvolti nell’esperienza edonica.
Dunque, cosa piace al cervello? Le tecniche di visualizzazione dell’attività cerebrale, come la risonanza magnetica funzionale, indicano che la bellezza nella musica o nelle arti visive mette in azione meccanismi specifici: assieme alle aree del piacere, l’arte stimola la parte sensorimotoria, emozionale e cognitiva, aggiungendo così all’esperienza estetica ulteriori dimensioni, come per esempio la simulazione involontaria delle azioni, vale a dire sensazioni ed emozioni che osserviamo nelle creazioni artistiche.
In situazioni particolari un’esperienza estetica di forte impatto emotivo, e che altrimenti verrebbe indicata come positiva, può essere causa di stati di ansietà, tachicardia e allucinazioni: una condizione psicosomatica conosciuta come «sindrome di Stendhal». In generale, un indicatore delle preferenze del cervello è l’attività della corteccia orbitofrontale, un’area localizzata nella parte frontale, la cui attività cresce assieme all’apprezzamento estetico.
Tuttavia, nel cervello umano vi è un articolato network funzionale dedicato all’esperienza edonica, che coinvolge territori neurali differenti. Ad esempio, mentre l’insula media la percezione oggettiva della bellezza, l’amigdala è coinvolta nel giudizio soggettivo. Poiché l’insula ha un ruolo importante nella regolazione dell ’e q u i l i b r i o fra l’intero organismo e gli stimoli ambientali, la sua attività potrebbe corrispondere ad una valutazione di come gli oggetti soddisfino (o meno) i bisogni del corpo.
Rimane perciò da chiarire se nel corso dell’evoluzione l’uomo abbia sviluppato dei centri cerebrali specializzati per il piacere estetico oppure se le aree del piacere siano state successivamente cooptate dall’esperienza estetica. Un recente studio supporta la prima ipotesi: le proprietà di una creazione artistica sembrano, infatti, avere un’influenza peculiare sull’attivazione della corteccia orbitofrontale, che non è osservabile per un oggetto comune. Eppure, anche un oggetto di uso quotidiano può assumere un valore estetico, quando le indicazioni dei critici d’arte, la conoscenza del valore economico dell’oggetto e del nome dell’artista riescono a modulare l’attività di queste aree del cervello. Per esempio, è stato dimostrato che l’attività della corteccia orbitofrontale ed il valore estetico di un oggetto aumentano quando questo è collocato in un contesto artistico (basti pensare ai «ready made»).
Dunque, ciò che piace al cervello non è solo quel tipo di informazione sensoriale che stimola un complesso sistema di meccanismi cerebrali, alcuni dei quali già identificati. Infatti, a determinare il grado di attività del network cerebrale dedicato all’estetica c’è un insieme complicato di diversi fattori, tra i quali il contesto culturale a cui siamo stati esposti fin dall’infanzia. Questa conoscenza, di certo, non ci nega il mistico piacere al cospetto di un’opera d’arte. Anzi, parafrasando Richard P. Feynman, aggiunge all’esperienza estetica la consapevolezza che dietro a una simile e gradevole sensazione c’è un complicato mondo ancora tutto da esplorare.
I tanti legami tra neuroni e arte Si chiama «Reti Incontri straordinari di musica, scienza, poesia»: è il festival che si svolgerà al Teatro Palladium di Roma dal 27 al 29 novem bre. L’obiettivo spiegano gli organizzatori è indagare una serie di meccanismi cerebrali: «Dalle scintille neurona li che danno vita alla materia artistica fino all’origine del giudizio estetico». Sono previsti tre giorni di incontri, in cui le neuroscienze si intrecciano con l’arte. Tra i protagonisti, il 29 novembre, Luca Francesco Ticini, che interagirà con un gruppo di artisti.
Cervello ed eros, dove nasce l’ispirazione
Lo psichiatra viennese Kandel alle origini della creatività negli artisti e scienziati
di Sandro Modeo (Corriere della Sera, 20.10.2012)
Nonostante si presenti come un manufatto avvolgente - cadenzato da un’elegante iconografia - L’età dell’inconscio di Eric Kandel non è un libro rassicurante. Destinato a diventare un classico, lo sarà in quanto lettura che esalta e inquieta, costringendo il lettore a smuovere pregiudizi e autoinganni consolatori.
Kandel, infatti, segue il corso di due rivoluzioni conoscitive, essenziali non solo nel riformulare il rapporto arte/cervello (asse tematico del libro), ma di incidenza più estesa e profonda. La prima - l’aprirsi della porta mentale sull’inconscio, decisiva, oltre che per gli artisti, per psicologi e scrittori - ci fa risalire alla Vienna tra la fine dell’800 e l’inizio del ’900, città paragonata dal viennese-ebreo Kandel, con comprensibile trasporto, alla Firenze rinascimentale, e in cui una borghesia emergente - proprio grazie all’immissione di tante intelligenze ebree - sovrappone al tramonto asburgico il chiarore di altre svolte culturali: la filosofia di Wittgenstein, la musica di Mahler e Schönberg, l’architettura pre-Bauhaus di Loos e Otto Wagner.
La seconda rivoluzione - collegata alla prima dal ponte della psicologia della Gestalt, usata da altri viennesi, gli storici dell’arte Kris e Gombrich, per spiegare la percezione dello spettatore - ci porta invece alle implicazioni ultime (filosofiche e psicologiche) delle neuroscienze, area di competenza di Kandel: e qui, dimostrando come questa seconda rivoluzione sia, della prima, un’integrazione e una revisione critica, il libro non si limita a tracciare cerniere inedite tra arte e scienza, ma inquadra tutte le funzioni superiori della mente (coscienza e inconscio, attenzione e memoria, fino alla creatività) come fossero nuovi paesaggi o - per richiamare Proust - paesaggi abituali sotto uno sguardo nuovo.
Nel lungo prologo sulla Grande Vienna, Kandel individua il break generativo nella visione darwiniana estesa dalla Scuola medica di Carl Von Rokitansky (il primo a impiegare la patologia come cartina di tornasole della fisiologia) al salotto di Berta von Zuckerkandl (critica d’arte e studiosa di biologia in quanto moglie d’un anatomista); visione che culmina nelle scoperte di un allievo di Rokitansky, Theodor Meynert, sui rapporti tra le pulsioni «inconsce, innate, istintive» del cervello rettiliano e il «comportamento riflessivo» della corteccia.
Ed è da questa visione che se ne irradiano di altrettanto innovative: la psicoanalisi freudiana mutua dall’enfasi evoluzionista sul riprodursi degli organismi la centralità delle pulsioni sessuali (e del loro risvolto dark, quelle di morte) e traduce le intuizioni di Meynert nella lotta tra Es e Super-Io, combattuta sul ring dell’Io; mentre i romanzi dello scrittore-medico Schnitzler - dalla Signorina Else a Doppio sogno - impiegano il monologo interiore per far emergere quello stesso conflitto col rimosso e l’onirico.
Per i pittori viennesi «modernisti», l’apertura alla biologia e al teatro interiore è anche un’alternativa alla via del realismo, chiusa dall’irruzione della fotografia. Così, Gustav Klimt, lettore di Darwin, punteggia i suoi ori bizantini di citoplasmi e nuclei cellulari; Oskar Kokoschka rivela l’inconscio dei soggetti ritratti attraverso un’ipersensibilità molecolare verso i loro tratti, sguardi e gesti; e lo splenetico Egon Schiele esprime nelle «distorsioni anatomiche esasperate» delle sue figure la biopsicologia della sessualità (specie di quella femminile, che ha capito più di Freud) e il suo fondersi con l’autodistruttività e il nonsenso (vedi tele come «La morte e la fanciulla» o «La morte e l’uomo»).
Non casuale, per inciso, è l’influenza esercitata su tutto il gruppo da Charcot, il neurologo della Salpêtrière: Freud ne ha appreso la pratica dell’ipnosi; Schnitzler ne è stato assistente; Kokoschka e Schiele hanno preso a modello le mani delle sue pazienti isteriche.
La cornice biologico-evoluzionistica della svolta viennese è ancora più decisiva per seguire Eric Kandel verso la neuropsicologia dell’artista e dello spettatore. Il punto di partenza è vedere la funzione estetico-cognitiva dell’arte come un’applicazione particolare - e insieme un’estensione - della predisposizione del cervello ad acquisire e a elaborare informazioni sul mondo per sopravvivere, scremando ordine dal caos e regolarità dal caso: per i nostri progenitori, per esempio, era vitale discriminare un oggetto da un contesto (una mela rossa) o un corpo statico da uno dinamico (un animale pericoloso).
Risalendo a questa remota eredità filogenetica, è possibile capire certi «universali estetici innati», su cui ogni cultura e ogni artista innestano poi specificità storico-stilistiche: collegare la nostra predilezione per la simmetria figurativa a quella per la fisionomia del partner (buona simmetria equivale a buoni geni), o la nostra sensibilità all’«esagerazione» dei tratti e all’intensificazione del colore (che troviamo negli scultori gotici e negli espressionisti, nei manieristi e nel fumetto) alla possibilità, vantaggiosa sul piano adattativo, di una discriminazione visiva più nitida e veloce.
Entrando nei dettagli neuroanatomici e neurobiologici di quella predisposizione - di quell’allerta costante con cui frughiamo il mondo, già dai continui movimenti oculari, alla ricerca di stimoli -, Eric Kandel riassume la nostra reazione davanti a un oggetto (un quadro o un volto dipinto, ma anche una montagna o un volto in carne e ossa) come una complessa orchestrazione in due tempi: un insieme di processi inconsci «dal basso» (non solo visivi, ma anche motori, emotivi, mnemonici e pre-semantici) e una loro successiva integrazione «dall’alto» (in certe aree della corteccia) che li porta alla luce della coscienza. È la stessa cadenza che agisce - con tempi e modi specifici - a livello sia di creazione che di fruizione (di ri-creazione) dell’opera d’arte.
A proposito della fase creativa, Kandel ricorda da un lato, in generale, quanto conti per artisti e scienziati, scrittori o musicisti, il momento di incubazione (quel «lasciar vagare la mente» in cui l’inconscio reimposta un problema ed elabora fitte combinazioni-permutazioni), arrivando a identificare il momento dell’eureka (la soluzione-emersione di quel lavoro silente) in una precisa regione del lobo temporale destro. Dall’altro, entrando nei dettagli del talento figurativo, ne conferma il correlato neurale non solo nello stesso lobo temporale, ma in tutto l’emisfero destro, come dimostra il suo attivarsi paradossale e parossistico - conseguente ai deficit di quello sinistro - in autistici savant come Nadia, che a cinque anni dipinge cavalli simili a quelli di Leonardo. È un’ennesima prova, da manuale, sulla dialettica cerebrale tra specializzazione e plasticità.
Quanto ai processi empatici dello spettatore (al suo sintonizzarsi con l’opera), oggi vediamo confermate le intuizioni della Gestalt su come il cervello reagisca all’ambiguità dell’immagine (a volte insolubile, come nel caso-cult dell’anatra-coniglio di Jastrow) procedendo con una «messa a fuoco», di nuovo, dal bottom-up al top-down, dall’inconscio mimetico (il fantasma dell’immagine) all’immagine carica di significato emotivo e simbolico.
Nella sua stratificazione tirannica, L’età dell’inconscio (o «dell’intuizione», secondo l’originale) patisce qualche strana omissione (uno scrittore-scienziato austriaco come Robert Musil, tra l’altro attento alla Gestalt) e qualche occasione persa. Prendiamo i vari casi di «inconscio creativo» nella scienza, a partire dal «serpente che si morde la coda» nel sogno del chimico Friedrich Kekulé, che si rivela la soluzione notturna di una sua lunga ricerca sulla struttura dell’anello del benzene.
Oppure vengono appena sfiorati da Eric Kandel certi passaggi cruciali, come quello in cui l’arte diventa una risposta adattativa al lutto e alla perdita (vedi le mani ocra e nere di certa arte rupestre, secondo alcuni interpreti leggibili come disperati richiami per quelle dei defunti). Ma questi, va da sé, non sono né lapsus né rimozioni; solo le imperfezioni di ogni vero classico, come le irregolarità di certi tappeti pregiati.
Cercando il «neurone di Dio»
di Alberto Melloni (Corriere della Sera, 13 giugno 2011) *
L’interesse per il rapporto fra cervello ed esperienza religiosa non nasce con la scienza moderna o la filosofia della mente. L’ermeneutica biblica dell’uomo imago Dei, le tradizioni d’Oriente, la teologia del logos, la dottrina dei «sensi» spirituali delle teologie cristiane, la pretesa di «razionalità» della rivelazione coranica costituiscono un patrimonio immenso di figure e interessi. Un patrimonio che spiega perché Cartesio cercasse di localizzare l’anima in una ghiandola del cervello e perché il rapporto della religiosità con la mente e il cervello susciti tanto interesse nel secolo XX.
Sarebbe sbagliato rappresentare questa ricerca come un banale conflitto fede/scienza. Perché per alcuni - non sempre, non tutti - la scienza non è un metodo, ma un giudice al quale si deve chiedere di «dimostrare» vuoi la illusorietà vuoi la solidità dell’atto religioso. Sia chi crede di provare che l’idea Dio è una mera funzione interna al pensare sia chi pensa che proprio l’esistenza di funzionalità «spirituali» nel cervello dovrebbe convincere tutti che un disegno superiore presiede all’evoluzione della nostra razionalità - gli uni e gli altri condividono un terreno che spesso viene chiamato «neuroteologia» (una espressione dello scrittore di fantascienza Aldous Huxley).
Per gli uni e per gli altri l’esperienza religiosa viene identificata con uno stato di appagamento, di felicità quieta, di acquisizione di «senso» come rassicurazione del sé, una «sensazione» pacificata: una visione che la letteratura ben conosce - come spiegava già la descrizione del paradisiaco istante che precede l’attacco epilettico ne L’idiota di Dostoevskij - e che viene assolutizzata.
È una storia che inizia già con William James (1842-191o). Lo psicologo di Harvard, di fede calvinista, affronta il tema in modo apodittico e pragmatista: la mente sana pensa Dio in positivo come un aiuto, mentre la mente malata vive la fede come espressione di angoscia. Più tardi James H. Leuba (1867-1946), rigido «naturalista», trova nella religione, intesa come esperienza estatica, una espressione primitiva e ripetibile anche grazie a sostanze stupefacenti. Queste teorie della psicologia della religione e le loro evoluzioni diventeranno negli anni Cinquanta oggetto di esperimenti, coerenti però con l’idea che la «sensazione» sia la semantica del religioso. E quando Wilder Penfield (1891-1975) scopre che una stimolazione elettrica del lobo temporale destro produce stati estatici, si apre un nuovo filone che si concentra su questa patologia e sulle sue analogie con la meditazione mistica.
* La voce "neuroteologia" scritta da Alberto Melloni per il dizionario «la Mente» dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani .
In parte questa ricerca si muove in una direzione dichiaratamente antireligiosa. Ancora nel 1994 Laurence O. McKinney scrive che il sentimento religioso, pur nella varietà delle forme che prende, è «universale» solo perché lo sviluppo cerebrale impedisce di recuperare informazioni sufficienti sull’infanzia e questo «vuoto» genera la domanda sul «da dove veniamo», alla quale il fatto religioso s’incarica di rispondere.
Da tempo, comunque, un medico canadese - Michael Persinger, che si presenta come un liberatore dalla mistificazione religiosa e viene contestato da manifestazioni di evangelicali inferociti - ricorre a uno «strumento» per dimostrare sperimentalmente la stessa tesi. Inventa un «casco» che produce disturbi magnetici, durante i quali il lobo temporale farebbe «esperienza» di un Dio: finalmente smascherato come effetto elettrico... Perfettamente funzionante con molti suoi studenti, il «casco» dà solo serie emicranie a volontari di maggior rango e di sicuro ateismo come Richard Dawkins... Tramite la tomografia a emissione di fotone singolo, Andrew Newberg, Eugene D’Aquili e Vince Rause monitorano il cervello di religiosi in meditazione.
La scoperta dei centri attivati dalla pratica religiosa dimostra una attività della corteccia prefrontale: il fatto che la meditazione funzioni come una iperquiescenza basta, secondo loro, a dimostrare che «il cervello ha una capacità innata (built-in) di trascendere la percezione di un sé individuale» e che dunque ciò che si chiama usualmen te religiosità è una sua funzione. Il sarcasmo anticartesiano di Spinoza avrebbe senz’altro definito questa scoperta una «qualità più occulta» di quella che si voleva scoprire. Ciò che invece accade è che molti scienziati percorrono la stessa via in senso apologetico: i nomi di Harold Koenig e Esther M. Sternberg sono molto citati dachi, a partire dagli studi sul nesso fra cervello e sistema immunitario, sostiene che la minor incidenza di malattie nella popolazione «religiosa» sarebbe la riprova di una empirica «salutarità» della fede.
E James H. Austin, con il suo Zen and the Brain, dimostra gli effetti benefici della meditazione su mente e cervello: cosa che entusiasma i sostenitori di una apologetica del religioso su base scientifica. Perché - è la tesi di Wentzel van Huyssten - l’idea dell’imago Dei sarebbe il codice cifrato di queste scoperte: la religiosità come attitudine essenziale all’essere uomo sarebbe dimostrata dalla neuroteologia, perché direbbe che mente e cervello hanno i codici per comprendere l’amore di Dio.
A questo upgrade della ricerca neurologica a criterio di decostruzione dell’esperienza religiosa, tipica delle spiritualità fondamentaliste, s’è opposto l’appello di teologi e scienziati ad una certa «neuroumiltà». Strumenti di indagine assai raffinati dimostrano soltanto di saper individuare i correlati neuronali degli stati mentali propri dell’esperienza religiosa: né più né meno. Il tentativo di ridurre Dio a movimenti di neuroni e quello di usare i neuroni per dimostrarne l’esistenza si muovono in un vicolo cieco da ambo i lati. Se c’è una zona del cervello attivata dalla meditazione religiosa, ciò non significa che neurologia e teologia hanno cessato di avere compiti diversi e metodi ai quali ciascuna si deve attenere. Dove il teologo difende la libertà dell’individuo, lo scienziato scopre che credenza, agnosticismo e incertezza pongono alla sua ricerca una unica e identica domanda.
* La voce "neuroteologia" scritta da Alberto Melloni per il dizionario «la Mente» dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani .
Giulio Tononi Neuroscienziato
RUOLO: È PROFESSORE DI PSICHIATRIA ALL’UNIVERSITÀ DEL WISCONSIN DOVE DIRIGE IL «CENTER FOR SLEEP AND CONSCIOUSNESS» IL SITO: WWW.SLEEPCONSCIOUSNESS. ORG/PEOPLE/GIULIOTONONI.HTML
Intervista
“Con la formula Phi prendo le misure all’Io”
Da una serie di test nasce la “teoria dell’informazione integrata”
“Il prossimo passo è mappare tutte le connessioni cerebrali”
I COLLEGHI AMERICANI «Questa è l’unica ipotesi promettente su cos’è la coscienza»
di Silvio Ferraresi (La Stampa/TuttoScienze, 15.06.2011)
Solo 20 anni fa la coscienza era considerata una materia impalpabile ed effimera, inconcepibile come oggetto della scienza. Giulio Tononi - professore di psichiatria all’Università del Wisconsin a Madison - la pensava diversamente già al liceo. Era convinto che fosse svelabile, come negli Anni 50 era accaduto con la realtà della vita. E prima a Pisa e a New York e poi a La Jolla con Gerald Edelman, e ora a Madison, ha perfezionato la sua «teoria dell’informazione integrata», che Christof Koch - il più stretto collaboratore di Francis Crick - ha definito «l’unica teoria promettente sulla coscienza».
Professore, come nasce la sua teoria?
«Dall’esperimento mentale del fotodiodo - il sensore che si attiva o si disattiva in presenza di luce e di buio -: l’ho concepito quando ancora studiavo medicina».
In che cosa consiste il test?
«Immaginiamo di condividere una stanza buia con il fotodiodo. Sia noi sia lui registriamo l’assenza di luce. La differenza è che noi “vediamo” il buio - ne abbiamo un’esperienza cosciente - mentre quasi certamente il fotodiodo no. Dove sta la differenza tra la sua organizzazione e i circuiti coscienti del cervello, mi sono chiesto? La risposta è la teoria della informazione integrata».
Che cos’è l’informazione integrata?
«Cominciamo definendo l’informazione. Confrontando il fotodiodo e il cervello, sappiamo che il primo può assumere solo due stati, attivo e disattivo. Per noi, invece, ogni esperienza cosciente - per esempio un’ esperienza di puro buio - è quello che è per come si distingue da miliardi di altri stati possibili, i miliardi di immagini diverse che potrebbero presentarsi ai nostri occhi. L’informazione, in questo senso, non è una quantità trasmessa o archiviata, ma una misura di quanto si riduce l’incertezza, quando vediamo una particolare immagine, anziché infinite altre immagini possibili. Inoltre è un’informazione che dipende dal continuo riassestamento dei collegamenti interni».
E’ qui che entra in scena l’integrazione?
«Possiamo spiegarla con l’esempio della fotocamera digitale. Per quanto la fotocamera, a differenza di un fotodiodo, possa avere miliardi di stati diversi - uno per ciascuna immagine possibile - questa manca di integrazione: i suoi elementi, i pixel, sono milioni di piccoli moduli non connessi e pertanto non integrati. La coscienza, invece, è integrata: ogni esperienza cosciente è quello che è come un tutto non riducibile alle sue parti: in un’immagine cosciente non esiste la sinistra senza la destra, la forma senza il colore, e così via. In sintesi, la fotocamera genera molta informazione, ma nessuna integrazione; il fotodiodo pochissima informazione e nessuna integrazione; il nostro cervello cosciente molta informazione e molta integrazione. Negli anni ho cercato di tradurre queste intuizioni sulla coscienza - l’informazione e l’integrazione - in una forma matematica e in una misura che ho definito Phi».
Che cosa indica Phi?
«Il valore è elevato quando un sistema è costituito da elementi che sono sia specializzati, ossia svolgono funzioni diverse, sia integrati, ossia comunicano in modo efficace. I sistemi modulari, invece, hanno una bassa informazione e una bassa integrazione».
Phi può esistere in un sistema artificiale creato dall’ uomo?
«E’ una quantità che, in linea di principio, può associarsi a qualsiasi sistema fisico e non solo al cervello, a condizione di avere una particolare organizzazione interna. Perciò non è fuori luogo concepire entità coscienti, fatte di silicio o di altre sostanze diverse da quelle dei neuroni».
Quanto è compatibile l’architettura del cervello umano con la sua teoria della coscienza?
«Alcuni dati sul cervello sembrano confermarla. Emblematico è il cervelletto, una struttura dell’encefalo che ha miliardi di neuroni e di connessioni e che, tuttavia, non origina la coscienza. La ragione, pensiamo, è che ha una struttura regolare e svariati moduli separati, che lo rendono poco integrato e quindi con un valore di Phi molto basso».
Più il cervello è attivo più siamo coscienti?
«Non necessariamente. Ci sono aree della corteccia molto attive pur in assenza di coscienza. Succede, per esempio, durante le crisi epilettiche, in cui la maggioranza dei neuroni nella corteccia cerebrale è intensamente attiva all’unisono, ma si riduce il repertorio di stati possibili e così l’informazione».
Siamo davvero in grado di capire se una persona è cosciente?
«Come primo passo, con Marcello Massimini, ora all’Università di Milano, e Fabio Ferrarelli, abbiamo dimostrato che durante il sonno senza sogni, in cui perdiamo la coscienza, l’attività cerebrale perde le caratteristiche dell’informazione integrata. Inoltre, pur ricevendo stimoli sensoriali ed essendo i suoi neuroni attivi, la corteccia si scompone in moduli separati (perde quindi integrazione) e riduce anche il repertorio di risposte (perde informazione). E’ un’indicazione che l’impianto della teoria va nella direzione giusta e il primo passo per sapere se il cervello di una persona o un sistema fisico sono coscienti. Attualmente sono in corso, in collaborazione con il “Coma Science Group” dell’Università di Liegi studi su pazienti con gravi lesioni cerebrali, dei quali è difficile stabilire il livello di coscienza».
La sua teoria riesce a spiegare le proprietà qualitative della coscienza, come l’aroma di un vino o il suo colore rosso?
«I filosofi li chiamano “qualia”: nella teoria dell’informazione integrata ogni esperienza cosciente è una forma nello spazio dei “qualia” stessi, uno spazio multidimensionale definito dagli stati del sistema e dalle loro relazioni informazionali. E, poiché le nostre esperienze cambiano da un singolo istante a quello successivo, cambia anche la forma generata in questo spazio, un solido che può assumere infinite configurazioni, ben più complesso di un solido platonico. Se disponessimo di un “qualiscopio”, vedremmo nel cervelletto non cosciente tante piccole strutture informazionali scollegate. Invece, nei circuiti tra la corteccia e il talamo - implicati nella coscienza - vedremmo emergere forme straordinariamente complesse, come una cattedrale, una sorta di Sagrada Familia, la cui struttura si modifica in continuazione».
Per stabilire la qualità e la quantità della coscienza dovremo conoscere come variano le connessioni del cervello?
«Sarà un passaggio inevitabile. Nel 2005, con Olaf Sporns e Rolf Kötter, proponemmo l’idea del connettoma, preconizzando il “Progetto connettoma” finanziato dall’Istituto statunitense della Salute Mentale: un giorno ci permetterà di capire in dettaglio come sono organizzate le connessioni tra aree cerebrali, dato fondamentale per comprendere meglio non solo le basi neurali della coscienza ma anche di disturbi mentali come l’autismo o la schizofrenia».
Secondo lei, com’è nata la coscienza?
«Le strutture complesse possono nascere in due modi: in base a un progetto o per selezione post hoc di strutture formatesi per caso. In futuro i progettisti potremmo essere noi; finora ha lavorato la selezione: darwinianamente».
La matematica dei fratelli Karamazov
La storia della geometria non euclidea tra le intuizioni di Beltrami e i dubbi di un certo ingegner Dostoevskij
Quando Escher conobbe quelle teorie realizzò i suoi disegni più celebri
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 23.11.2015) *
Nella seconda parte dei “Fratelli Karamazov” Ivan e Alioscia hanno una lunga conversazione teologica in trattoria, nel corso della quale il primo se ne esce sorprendentemente con queste parole: «Posto che Dio esista, e che abbia realmente creato la Terra, questa, come tutti sappiamo, è stata creata secondo la geometria euclidea, e l’intelletto umano è stato creato idoneo a concepire soltanto uno spazio a tre dimensioni. Vi sono stati, invece, e vi sono pure ora, geometri e filosofi, anche fra i più grandi, i quali dubitano che tutta la natura, o più in generale tutto l’universo, siano stati creati secondo la geometria euclidea. E s’avventurano perfino a supporre che due linee parallele, che secondo Euclide non possono a nessun patto incontrarsi sulla Terra, potrebbero anche incontrarsi prima o poi nell’infinito».
La sorpresa però svanisce quando si tiene conto di due fatti. Anzitutto, che Dostoevskij era un ingegnere, laureatosi nel 1843 all’Università Politecnica Militare di San Pietroburgo. E poi, che la geometria non-euclidea alla quale egli alludeva nel 1879 era un’invenzione russa del 1829, diventata nel frattempo di dominio pubblico in tutta l’Europa, e certo non dimenticata nel suo paese.
In realtà, fin dagli inizi dell’Ottocento i tempi erano ormai maturi per la scoperta o l’invenzione della geometria non-euclidea: una geometria, cioè, in cui «per un punto fuori di una retta passa più di una parallela alla retta data », invece che una sola come nella geometria euclidea. E, come spesso accade in matematica, quando i tempi sono ormai maturi se ne accorge più di una persona, e non una sola. Ma per la storia conta la prima che, oltre ad accorgersene, lo fa sapere al resto del mondo.
Nel caso della geometria non-euclidea questa persona fu appunto un russo di nome Nikolaj Lobachevskij, che nel 1826 tenne all’università di Kazan, oltre gli Urali, un’Esposizione succinta dei princìpi della geometria, con una dimostrazione rigorosa del teorema delle parallele.
Quasi un millennio prima un altro letterato, più sensibile alla matematica dell’ingegner Dostoevskij, era già stato attratto dalla possibilità di una geometria non-euclidea. Si trattava del poeta persiano Omar Khayyam, autore delle famose Rubaiyat, “Quartine”, che l’Occidente venne a conoscere soltanto nell’Ottocento, in una libera e popolare traduzione inglese di Edward Fitzgerald.
Khayyam intravide l’esistenza di tre tipi di geometrie, distinte tra loro dal fatto che le parallele a una retta data passanti per un punto fuori di essa sono rispettivamente nessuna, una o più. O, se si preferisce, dal fatto che la somma degli angoli di un triangolo è rispettivamente maggiore, uguale o minore di 180 gradi. La seconda geometria, quella intermedia in cui c’è una sola parallela e la somma degli angoli di un triangolo è uguale a 180 gradi, è ovviamente la geometria piana studiata ancor oggi nelle scuole.
La prima, quella in cui non c’è nessuna parallela e la somma degli angoli di un triangolo è maggiore di 180 gradi, è la geometria sferica. Le sue rette sono i meridiani, analoghi a quelli così chiamati sulla sfera terrestre. E poiché due meridiani si incontrano sempre in due poli opposti, non possono appunto mai essere paralleli. Il problema è capire come raffigurarsi la terza geometria, quella in cui ci sono più parallele e la somma degli angoli di un triangolo è minore di 180 gradi. Lobachevskij ne aveva descritte le proprietà, ma c’era il rischio che si trattasse della descrizione di un mondo puramente immaginario, senza nessun modello reale. Il primo a capire come raffigurarsela in termini concretamente visualizzabili fu Eugenio Beltrami nel 1868, nel suo Saggio di interpretazione della geometria non- euclidea.
L’idea era che bisognava trovare qualcosa che fosse l’analogo, uguale e contrario, della sfera. Beltrami lo individuò in quella che egli chiamò pseudosfera: una strana superficie che in ogni punto aveva la stessa curvatura negativa, esattamente come la sfera in ogni punto ha la stessa curvatura positiva. E ne costruì a mano alcuni modelli, chiamati da un giornale satirico dell’epoca “cuffie della nonna”, a causa del loro aspetto ondulato come i bordi dei cappelli da notte di pizzo di una volta.
Ad esempio, era noto fin dall’antichità che il piano si può pavimentare con piastrelle triangolari regolari, raggruppate sei a sei attorno ai vertici. I pitagorici avevano scoperto che se si raggruppano invece i triangoli cinque a cinque, si ottiene una superficie che si chiude su se stessa, e diventa un solido regolare chiamato icosaedro, così chiamato perché ha venti facce triangolari, che approssima una sfera. Beltrami capì che un’analoga approssimazione della pseudosfera si poteva ottenere raggruppando invece i triangoli sette a sette.
In seguito si è scoperto che queste cose esistono già bell’e fatte in natura. Molti organismi biologici, soprattutto marini, esibiscono infatti una geometria non-euclidea, dalle alghe kelp ai nudibranchi, e così fanno le foglie di lattuga e di cavolo nero. Ma proprio a causa dei loro tipici bordi ondulati, questi modelli non si possono distendere perfettamente sul piano. Beltrami inventò dunque altri modelli piani, mettendo le piastrelle della pavimentazione dentro un cerchio, e facendole diventare sempre più piccole man mano che si avvicinano al bordo, in modo da farcene stare infinite.
Oggi questi modelli sono diventati famosi perché al Congresso Internazionale dei Matematici del 1954, che si tenne ad Amsterdam, il grafico Maurits Cornelis Escher ne venne a conoscenza e se ne innamorò. Dedicò dunque quattro opere ai Limiti del cerchio, la terza delle quali viene considerata la più bella raffigurazione del piano non-euclideo prefigurato dal persiano Khayyam, scoperto o inventato dal russo Lobachevskij, modellato dall’italiano Beltrami e rappresentato dall’olandese Escher, in un lavoro collettivo e millenario tipico delle imprese matematiche e scientifiche.
* LA CONFERENZA Piergiorgio Odifreddi oggi sarà tra i relatori della conferenza “Dalla Neva alle Alpi: avventure del pensiero matematico che scorrono attraverso la Scienza, l’Arte e la Musica”, organizzata a San Pietroburgo nel Consolato Generale d’Italia. La sua lezione si concentrerà sulla figura di Eugenio Beltrami