di Alessia Grossi *
La teoria di Charles Darwin si evolve ancora e finisce su internet. Da giovedì online la prima bozza della rivoluzionaria teoria sull’evoluzione e altri documenti di Darwin consultabili gratuitamente grazie ad un’iniziativa dell’università di Cambridge.
L’obiettivo è quello di far conoscere meglio e su scala planetaria il pensiero di uno scienziato che «ha cambiato la nostra comprensione della natura».
Oltre ai documenti d’archivio - circa 20mila - il sito di Darwin rende possibile l’accesso a circa novantamila fotografie dello scienziato e la sua opera. Possono essere sfogliate tutte e sei le edizioni della grande opera «Sull’evoluzione della specie», la prima edizione del «Viaggio del Beagle», diario del viaggio durato 5 anni dall’America all’Africa su cui Darwin fondò la sua teoria. Ancora la «Zoologia del Viaggio», la «Discendenza dell’uomo», note, diari, giornali e autobiografia. Insomma un archivio talmente vasto e così poco noto ai più che una persona avrebbe bisogno di due mesi ininterrotti di tempo per poter consultare e scaricare ogni singolo documento e ogni singola immagine.
I cimeli originali ora visibili online sono custoditi fisicamente all’università di Cambridge dove Darwin - morto nel 1882 a 73 anni d’età e celebre soprattutto per il libro «Sull’Origine delle specie» uscito nel 1859 - studiò.
«La diffusione online - ha sottolineato il prof. John van Wyhe, specialista di Darwin e curatore dell’iniziativa - rende accessibili gratuitamente al mondo intero i suoi documenti privati, le sue montagne di note, le sue esperienze e ricerche alla base dei suoi libri. È una cosa semplicemente fantastica».
E nell’era di internet non poteva mancare a corredo dell’opera del grande scienziato una sezione "gossip". E eccola qua. Sul sito anche foto, di cui una parte ritraggono Darwin tra i suoi famigliari e tra i documenti e non tutti hanno un’importanza storica o scientifica. Ma un maestro del calibro del teorico dell’evoluzione ha molto da insegnare anche in campi dello scibile umano che storicamente non sembrano riguardarlo. Per farsene un’idea basta consultare ad esempio uno dei documenti in cui il biologo evoluzionista riporta una ricetta per la cottura del riso.
Chissà che dalla ricetta del riso non si riesca a comprendere meglio il percorso mentale che abbia portato Darwin a farsi un’idea «Sull’origine delle specie».
* l’Unità, Pubblicato il: 18.04.08, Modificato il: 18.04.08 alle ore 18.54
1922- 2018
Cavalli-Sforza, il signore dei geni
Dal sesso dei batteri al Dna dell’umanità, addio al pioniere che si fece maestro
di Telmo Pievani (Corriere della Sera, 02.09.2018)
Oggi tantissimi ricercatori in tutto il mondo lavorano all’ombra delle sue intuizioni. Nessuno meglio di Luigi Luca Cavalli-Sforza, il grande genetista spentosi all’età di 96 anni a Villa Buzzati di Belluno, ha incarnato la figura del pioniere, di colui che inaugura campi di studio prima inesplorati. Forse anche perché era alto, elegante e carismatico, ora che non c’è più viene da pensare ai giganti della scienza e a noi nani che guardiamo lontano arrampicandoci sulle loro spalle.
Dopo gli studi di Medicina a Torino e a Pavia negli anni delle leggi razziali e poi della guerra, Cavalli-Sforza dal 1942 fu introdotto allo studio della genetica del moscerino della frutta da un maestro del calibro di Adriano Buzzati Traverso, fratello dello scrittore Dino. Fu Buzzati Traverso a suggerirgli di aggiungere come secondo nome Luca, con cui tutti lo chiamavamo. Il legame di una vita con la famiglia Buzzati sarà sancito dal suo matrimonio con una nipote dei Buzzati, Alba Ramazzotti, che lo seguirà per tutta la sua carriera e gli darà quattro figli.
Fra il 1948 e il 1950 lavorò a Cambridge, sotto la guida di Ronald A. Fisher, insigne statistico e tra i fondatori della genetica delle popolazioni. Con il microbiologo Joshua Lederberg, poi premio Nobel nel 1958 a soli 33 anni, Cavalli-Sforza studiò l’allora sconosciuto sesso dei batteri, cioè lo scambio orizzontale di pacchetti di informazione genetica tra un batterio e l’altro. Dal 1951 ricoprì uno dei primi insegnamenti di Genetica e Microbiologia in Italia, a Parma, dove cominciò ad appassionarsi alla genetica umana. Qui intuì che i nostri geni recano con sé preziose tracce della storia umana profonda e degli antichi spostamenti di popolazioni.
Fiutò questa pista a modo suo, mescolando come nessuno aveva fatto prima dati provenienti da discipline diverse: analisi dei gruppi sanguigni, ricerca di marcatori genetici, registri parrocchiali, storia demografica, alberi genealogici e cognomi. Collaborò con l’Istituto sieroterapico milanese e dal 1962 fu professore di ruolo all’Università di Pavia. Divenne intanto antropologo anche sul campo, guidando spedizioni di ricerca sui cacciatori raccoglitori del deserto africano del Kalahari, e prima sui suoi amati popoli pigmei dell’Africa centrale. L’incontro con la diversità umana reale lo convinse sempre di più che attraverso la lente delle differenze genetiche umane fosse possibile ricostruire l’albero delle separazioni storiche tra i popoli della Terra e la diffusione dei geni tra le popolazioni tramite mescolanze e migrazioni.
Non sempre in armonia con le logiche accademiche italiane, nel 1971 Luigi Luca Cavalli-Sforza lasciò l’Italia per la cattedra di Genetica delle popolazioni e delle migrazioni all’ateneo americano di Stanford, dove assunse la guida di un programma di ricerca mondiale che mirava a ricostruire per via genetica l’albero genealogico dell’umanità. Le analisi sempre più raffinate sulla variabilità umana (sul Dna mitocondriale, sul cromosoma Y e poi sull’intero genoma) lo portarono a scoprire che la specie Homo sapiens ha avuto un’origine unica, africana e recente, confutando il vecchio modello che prevedeva centri multipli di origine graduale in differenti regioni. La sua idea, poi confermata e precisata, fu che una grande diaspora fuori dall’Africa aveva prodotto, circa 60 mila anni fa, il meraviglioso ventaglio delle popolazioni umane attuali e passate, diversificando i loro geni, ma anche le culture e le lingue del mondo. Geni, popoli e lingue (Adelphi) è uno dei suoi libri di maggior successo.
Se questo è il quadro dell’evoluzione umana recente, significa che siamo tutti figli di stratificazioni migratorie successive, dall’Africa all’Eurasia, e poi da questa all’Australia e alle Americhe. Ne discende, e Cavalli-Sforza lo capì subito, che la separazione dell’umanità in «razze» ben distinte non regge, perché la variabilità genetica umana si distribuisce in modo continuo a partire dall’Africa, dove ce n’è di più.
Collaborando con archeologi e linguisti, cominciò a utilizzare le comparazioni genetiche per ricostruire anche migrazioni più recenti, come quella degli agricoltori mediorientali che arrivarono in Europa, e per scoprire la struttura genetica di regioni più limitate (Italia compresa, crogiuolo di diversità).
Nel 1994, insieme a Paolo Menozzi e Alberto Piazza, diede alle stampe un’opera monumentale che ancora oggi è un riferimento: Storia e geografia dei geni umani (Adelphi). Qualche anno prima, con Marcus Feldman a Stanford aveva proposto la prima teoria quantitativa della trasmissione culturale, poi aggiornata nel libro L’evoluzione della cultura (Codice). Il valore della scienza di Cavalli-Sforza sta tutta in quella domanda, Chi siamo, che fa da titolo a un altro suo fortunato libro, scritto con il figlio Francesco (come anche la sua appassionante autobiografia scientifica: Perché la scienza; due volumi editi da Mondadori). La risposta è che siamo una storia di diversità, ancora in corso. Nel 2011 il Palazzo delle Esposizioni di Roma gli dedicò una mostra importante, Homo sapiens. La grande storia della diversità umana, inaugurata dal presidente della Repubblica.
Il contributo eccezionale che Luigi Luca Cavalli-Sforza ha dato alla scienza si misura nel mezzo migliaio di pubblicazioni internazionali, nelle alte onorificenze accademiche (tra le quali, accademico dei Lincei e membro straniero della Royal Society), nei premi (Balzan, Nonino, Serono), nelle lauree honoris causa. Come Darwin, non amava gli steccati disciplinari. Da dieci anni era professore emerito a Stanford, ma era tornato in Italia, spendendosi con generosità nella divulgazione e nella lotta ai pregiudizi antiscientifici. Era un uomo schietto, ironico, libero, che avresti voluto interrogare su tutto, e invece era sempre lui a fare le domande a te. Da ogni gesto e parola sprigionava quella gioia che nasce da insaziabile curiosità, sulla natura e sull’umano.
La Scomparsa di Cavalli Sforza
L’uomo che mostrò l’unicità dell’uomo
Se n’è andato lo scienziato che ci ha spiegato come l’umano sia uno solo, frutto di un mosaico di contaminazioni. Un innovatore da Nobel (che non gli fu dato) fin dalle ricerche sui microrganismi: come fanno l’amore i batteri?
di Guido Barbujani (la Repubblica, Robinson, 02.09.2018)
Con Luca Cavalli-Sforza, scomparso venerdì pomeriggio nella sua casa di Belluno, non se ne va solo una delle menti italiane più brillanti del Ventesimo secolo. Se ne va un formidabile innovatore: l’uomo che, nel corso di sessant’anni, ha portato la genetica mondiale a trasformarsi da una scienza artigianale - un bancone, qualche moscerino, poche attrezzature e tante idee - a una grande impresa transnazionale ad altissimo contenuto tecnologico. Se la moderna scienza dei genomi oggi ci offre possibilità senza precedenti di comprendere i meccanismi di base della vita, è merito di un piccolo gruppo di scienziati dalla vista lunga, con Luca Cavalli-Sforza appunto in prima fila. Lo chiamavamo tutti Luca, ma in realtà si chiamava Luigi.
Sull’origine del Luca circolano due leggende. Secondo la prima, pare che il padre della genetica italiana, Adriano Buzzati-Traverso, lo chiamasse Luca per sbaglio, e poi si giustificasse dicendo che comunque aveva "una faccia da Luca". Preferisco l’altra, secondo cui, arrivato in America, resosi conto che lì tutti hanno il middle name, aveva deciso di inventarsene uno. Aveva preso le prime sillabe del nome e del cognome e, baciato dalla grazia in questo come in tanti altri aspetti della vita, ne aveva ottenuto un nome, Luca.
Luca sembrava davvero un uomo baciato dalla grazia. Dava un’impressione di leggerezza, sia che derivasse formule matematiche sul bloc notes (lo faceva a velocità spaventosa) sia che prendesse la parola in consessi internazionali. Tutto quello che faceva era elegante, nulla di quello che faceva sembrava richiedere il minimo sforzo: a lui, voglio dire, mentre tutti gli altri, compreso chi scrive, dovevano sudare per star dietro ai suoi ragionamenti che poi, una volta esposti, sembravano limpidi, quasi banali. Versatile e curioso di tutto, aveva cominciato studiando la Drosophila, il moscerino della frutta caro ai genetisti, e poi, a Cambridge, i batteri. È stato lui a scoprire i cosiddetti ceppi Hfr, che avrebbero permesso di capire come è fatto il DNA del batterio Escherichia coli, nel frattempo rivelando stupefacenti aspetti della vita sessuale (sì, sessuale) di queste creature.
Ma nei libri di testo del futuro Cavalli- Sforza sarà ricordato soprattutto per il suo fondamentale contributo alla genetica umana. Mentre, nell’ultimo decennio del XX secolo, si lavorava intensamente a leggere l’intero genoma umano, Cavalli- Sforza aveva capito prima di tanti altri che un solo genoma non ci può dire molto. Quello che conta veramente, quello che fa di ognuno di noi un individuo unico e irripetibile, sono le nostre differenze, e quindi, per capirle, bisogna studiare tanti genomi. Il progetto HGDP, lo " Human Genome Diversity Project", da lui promosso e difeso quando la competizione per i fondi era durissima e la concorrenza spietata, è stata la chiave per comprendere meglio le cause di complesse malattie genetiche, e al tempo stesso rivelare aspetti sorprendenti della nostra vicenda evolutiva.
Io però penso che la cosa più importante nella luminosa carriera scientifica di Luca Cavalli-Sforza sia un’altra, e risalga agli anni Settanta. La genetica di popolazioni, la disciplina che più di ogni altra ha beneficiato della sua creatività e capacità organizzativa, allora era una disciplina modesta. Certe malattie genetiche sono trasmesse da portatori sani che, sposandosi, hanno una probabilità su quattro di fare un figlio malato; all’epoca non esistevano test sul DNA, i portatori sani erano difficili da individuare; la genetica di popolazioni cercava di minimizzare il rischio che si sposassero fra loro. Per primo, Luca Cavalli- Sforza capisce che nelle nostre cellule c’è ben di più: che il messaggio lasciato nel nostro DNA dalle generazioni precedenti ci permette di illuminare aspetti del passato altrimenti inconoscibili. Le prime vicende della preistoria umana in Africa; le migrazioni che hanno portato Homo sapiens a colonizzare tutto il mondo; e i continui scambi che hanno fatto della nostra specie il mosaico che è; su tutto questo oggi sappiamo molto, grazie a una geniale intuizione di Luca Cavalli-Sforza (e a quelli che hanno saputo seguirla).
Non gli hanno dato il Nobel; se lo meritava. A Stoccolma non hanno mai riconosciuto alla biologia evoluzionistica il peso che dovrebbe avere. Luca Cavalli-Sforza ha lasciato però tanti allievi, in Italia e all’estero. Pochi come lui hanno saputo attraversare i confini fra discipline diverse, sviluppando collaborazioni con antropologi, biologi molecolari, demografi, ecologi, linguisti, archeologi e storici (difficilissime quelle con i linguisti). Pochi come lui hanno saputo affascinare con le loro idee, formando generazioni di giovani scienziati che gli saranno per sempre debitori. In Italia non è un’esagerazione dire che, in un modo o nell’altro, siamo tutti suoi figli, noi genetisti. Io, in realtà, meno di altri, di chi ha lavorato per anni con lui, a Parma, a Pavia, e poi a Stanford. Laura Zonta, Suresh Jayakar, Gianna Zei, Alberto Piazza, Paolo Menozzi, Italo Barrai... mi scuso se non posso nominarli tutti. Come a loro, da oggi mi mancherà uno dei grandi italiani del secolo. Siamo un po’ più soli, e più tristi.
Curioso e libero così era mio padre
Hanno lavorato (e scritto) assieme per vent’anni.
E ora il figlio, da sempre stregato dalla sua capacità di scoprire strade nuove, ricorda: "L’evoluzione culturale? Lévi-Strauss gli disse che era un po’ troppo complicata..."
di Francesco Cavalli Sforza (la Repubblica, 02.09.2018)
Luca Cavalli- Sforza si è spento nel pomeriggio di venerdì, a 96 anni, nella casa di famiglia a Belluno dove trascorreva l’estate. Era Luigi all’anagrafe, Luca per gli amici. Da qualche settimana non riusciva ad alzarsi dal letto, non per malattia ma per la debolezza dell’età. È trascorso serenamente, in compagnia del figlio maggiore, Matteo, e di sua moglie Kima Guitart. Lascia i quattro figli avuti dalla moglie, Alba Maria Ramazzotti, scomparsa tre anni prima di lui. Luca era mio padre, e per vent’anni abbiamo lavorato insieme a divulgare quanto si andava scoprendo sull’evoluzione dell’uomo moderno, al cui studio aveva dedicato la vita. Spesso erano scoperte sue.
Abbiamo raccontato la sua autobiografia scientifica in un libro scritto a quattro mani, Perché la scienza: l’avventura di un ricercatore (Mondadori, 2005). Uno degli aspetti che ho sempre trovato più stimolanti dell’attività di mio padre è stata la sua capacità di imboccare strade nuove, ogni volta che se ne offriva la possibilità, e di lavorare in parallelo a più progetti scientifici, anche molto distanti tra loro.
Nei decenni "americani" ma in costante collegamento con il laboratorio di Pavia l’affluire continuo di dati genetici sulle più diverse popolazioni del mondo gli permetteva di ricostruire con precisione sempre maggiore l’evoluzione biologica dell’umanità moderna. In parallelo, però, si applicava a studiare l’evoluzione culturale umana, fino ad allora ignorata dagli antropologi («Perché è troppo complicata » , gli dirà Levi-Strauss incontrandolo) ma ovviamente fondamentale nello studio della nostra specie. Lavorando con il matematico e biologo Marcus Feldman produce un testo di modelli di evoluzione culturale. In collaborazione con l’archeologo Albert Ammermann ricostruisce la diffusione dell’agricoltura in Europa, dimostrando che si è trattato in larga parte di una diffusione demica, cioè della progressiva diffusione degli agricoltori, anziché della diffusione di una tecnologia, l’agricoltura. Con i colleghi Alberto Piazza, di Torino, e Paolo Menozzi, di Parma, pubblica nel ’ 97 History and Geography of Human Genes ( Storia e geografia dei geni umani, Adelphi 1997), con 800 grafici che mostrando la distribuzione dei geni sul pianeta illustrano la storia delle popolazioni umane. Con i linguisti Joseph Greenberg, Merritt Ruhlen e Bill Wang studia l’evoluzione del linguaggio, vera architrave della cultura umana.
Un altro aspetto che ho sempre trovato di grande valore è stata la sua capacità di collaborare con colleghi dei più svariati campi di studio, nel comune impegno a ricostruire il nostro passato portando a convergere i contributi offerti dalle più diverse discipline. Non ha mai scordato le sue origini di medico, pur avendo praticato poco l’attività clinica e solo al principio della carriera, e ha contribuito con le sue competenze alle più svariate ricerche di medicina genetica, un ambito divenuto sempre più importante negli ultimi decenni, pur rifiutando le offerte di applicare in ambito commerciale e farmaceutico le sue competenze. Il suo interesse è sempre stato rivolto alla semplice conoscenza, alla comprensione dei fenomeni. Penso considerasse limitanti e decisamente ambigue le applicazioni di tipo economico. Con altri colleghi, crea negli anni ’90 il Progetto della diversità genomica umana, mettendo a disposizione dei ricercatori, sulla base di un rigoroso codice etico, i dati genetici di una cinquantina di popolazioni aborigene.
Nei primi anni del secolo, lo sviluppo dei metodi di sequenziamento del genoma gli permette di ricostruire, con il gruppo di ricerca di Stanford, l’albero genealogico del cromosoma Y, che definisce il sesso maschile e viene trasmesso dal padre ai figli maschi, fino a risalire all’"Adamo Y", il cui cromosoma Y, in forma diverse, tutti noi maschi portiamo. Un’ultima ricerca, pubblicata quasi dieci anni fa, mostra la leggera ma continua perdita di diversità genetica dai luoghi d’origine della diffusione umana, in Africa orientale, fino ai suoi punti più lontani, nelle isole del Pacifico. È un risultato che conferma in pieno sia la nostra origine africana sia l’importanza del caso nell’evoluzione, ma soprattutto illustra i modi in cui è avvenuta la diffusione umana sul pianeta, attraverso un serie di tappe contrassegnate dall’"effetto del fondatore".
Per noi figli, il suo legato va ben al di là di ciò che ha scoperto e delle strade che ha tracciato. Ci lascia la sua libertà di spirito, l’indipendenza e l’onestà intellettuale, l’apertura verso tutto e tutti, la curiosità inesauribile, il rifiuto di qualunque dogmatismo, anche in campo scientifico. Diceva che l’unico contributo che si può dare agli altri è con il proprio esempio, e sempre ha aiutato chi incontrava, incoraggiandolo e promuovendone le capacità. Siamo tutti laici in famiglia, ma non per questo pensiamo che nostro padre sia scomparso: sappiamo anzi che le sue indicazioni resteranno con noi, e che la strada che ha tracciato, molto al di là delle sue realizzazioni scientifiche, offre itinerari che sarà affascinante percorrere
AnalisI
La psiche sotto l’occhio di Darwin
di Maurilio Orbecchi (La Stampa/TuttoScienze, 18.05.2011
Le grandi domande sull’uomo hanno determinato la nascita di tre settori culturali: la religione, la filosofia e, recentemente, la psicologia. Sono discipline che derivano da persone con idee eterogenee su aspetti essenziali della vita, e producono pertanto differenti visioni del mondo.
La scienza, invece, in radicale antitesi a questo modo di procedere, porta a risultati che possono essere controllati empiricamente. Per questo motivo riesce a superare le differenze tra le diverse opinioni e a imporsi nel mondo contemporaneo come il più importante elemento di condivisione interculturale e universale tra gli esseri umani (se non prendiamo in considerazione le frange di quanti hanno problemi con il pensiero razionale).
I risultati scientifici sono di tale rilevanza, rispetto alla conoscenza che l’uomo ha di se stesso, da incidere direttamente anche negli altri settori. Religione, filosofia e psicologia conservano certo una loro libertà espressiva, ma non hanno più tutta la libertà: il limite risiede proprio nell’impossibilità di contraddire in maniera troppo palese le scoperte scientifiche. Se un tempo era possibile costruire una filosofia che individuava nell’acqua e nel fuoco il principio di ogni cosa, oggi sarebbe insensato continuare a farlo. Fino a 150 anni fa il libro della Genesi era sostanzialmente proposto come verità letterale, mentre oggi perfino il Papa sostiene che è una narrazione simbolica.
Alcuni elementi offerti dall’evoluzionismo stanno cambiando anche il quadro teorico attraverso il quale l’uomo interpreta se stesso. Darwin sosteneva che la vita emozionale degli esseri umani condivide molte espressioni comuni con gli altri animali e lo spiegava per mezzo di una discendenza comune. Tuttavia si sono dovuti attendere gli Anni 70 del secolo scorso perché i biologi si occupassero anche della mente dell’uomo, oltre che del corpo. Tra questi va segnalato Robert Trivers, definito da Steven Pinker «uno dei grandi pensatori del mondo occidentale».
Trivers ha avuto grande impatto nella biologia evoluzionistica. Tra i suoi contributi, lo studio sull’«altruismo reciproco», un meccanismo geneticamente determinato che porta l’individuo a ridurre temporaneamente la propria «fitness», in vista del ricambio successivo da parte dell’individuo beneficiato; quindi la teoria dell’investimento parentale differente tra maschi e femmine, un comportamento che deriva dalla limitata capacità riproduttiva delle femmine rispetto ai maschi. Per questo motivo le femmine sono un bene di valore, per il quale i maschi lottano tra loro. O ancora, la comprensione del conflitto genitori-figli su base genetica, che deriva dal fatto che ogni membro di una famiglia è imparentato al 100% con se stesso e solo al 50% con gli altri. La conseguenza è che ciascun fratello ritiene equa una spartizione in cui riceva il doppio dell’altro. Purtroppo, però, anche gli altri la pensano allo stesso modo, con risultati immaginabili.
Una delle teorie più affascinanti di Trivers di cui uscirà in autunno «Deceit and Self-Deception» - è quella sull’autoinganno, interpretato come una forma aggressiva di inganno. Il tentativo di raggiro è presente in tutto il mondo biologico e deriva dalla necessità degli organismi di mantenersi in vita e raggiungere il successo riproduttivo.
Secondo Trivers, l’autoinganno, come l’inganno, ha una funzione di adattamento all’ambiente perché nascondendo la verità anche a se stessi, permette a chi lo attua di sembrare più vero. Questo meccanismo porta a raggiungere i propri scopi di manipolazione più facilmente: non c’è miglior impostore di chi si convince di essere autentico, proprio quando mente. L’autoinganno, geneticamente predisposto negli individui, diventa così una delle maggiori fonti di conflitto nella vita perché ogni persona si rappresenta - ingannandosi - migliore di quanto non sia. Ha sempre l’impressione che in ogni rapporto e in ogni compromesso sia l’altro a guadagnarci.
Contributi come questi sono importanti non solo perché danno la possibilità di capire quanto l’uomo sia simile agli altri animali, ma soprattutto perché permettono di comprendere quanto la teoria dell’evoluzione sia una chiave interpretativa dalla quale non si può prescindere se si vuol davvero capire l’uomo.
La corsa di Darwin: così riuscì a beffare il collega più giovane
Accelerò la pubblicazione e cambiò le scienze
di Telmo Pievani (Corriere della Sera, 15.12.2010)
L’ opera alla quale stava lavorando da anni avrebbe dovuto assumere i contorni di un trattato in più volumi, ma l’imbarazzante circostanza di un collega più giovane che era giunto dopo di lui alle stesse conclusioni lo aveva indotto a stenderne in tutta fretta una sintesi. Nei tredici mesi di lavorazione la moglie Emma aveva letto le bozze, trovandovi un certo eccesso di punteggiatura. Infine giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale.
L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare - pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri- era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un giovedì 24 novembre 1859, negli uffici di Albermarle Street, John Murray, l’editore londinese delle guide turistiche per vittoriani, annunciò l’uscita del nuovo libro del naturalista e geologo inglese Charles Darwin, dal titolo L’origine delle specie per selezione naturale.
L’autore era nello Yorkshire per le cure di «idroterapia» e ostentò serenità: «Sono infinitamente compiaciuto e fiero dell’aspetto della mia creatura» . Amato e odiato in pari misura, quel testo peculiare - pieno di citazioni di sconosciuti allevatori, di collezionisti dilettanti, di agronomi, viaggiatori e giardinieri- era in procinto di innescare una delle più accese discussioni scientifiche e filosofiche di tutti i tempi, incidendo in modo irreversibile sulla storia del pensiero e della cultura moderna. Spesso si dimentica che non fu l’opera di un esordiente, bensì di un cinquantenne ben affermato nella comunità scientifica britannica, Royal Medal per i suoi studi monumentali sui cirripedi, già noto al di fuori della cerchia accademica per quel Viaggio di un naturalista intorno al mondo definito «eccellente» da chi di esplorazioni si intendeva, Alexander von Humboldt.
Non fu dunque una pubblicazione per la carriera, ma una sofferta gestazione dopo venti anni di osservazioni meticolose, di sperimentazioni e di congetture teoriche, tenute in gran parte segrete. A quelle idee, che ben presto diverranno evidenze corroborate - e cioè la trasformazione incessante delle specie biologiche per «discendenza con modificazioni» nel corso di milioni di anni e la parentela fra tutti gli esseri viventi sulla Terra, specie umana compresa- il naturalista stava infatti lavorando già dal 1838, quando iniziò a mettere nel cassetto i suoi Taccuini della trasmutazione.
Ma l’attualità di Darwin non sta soltanto nell’affermazione dell’evoluzione come fatto assodato, quanto nella solida longevità del «lungo ragionamento» con il quale spiegò cause e meccanismi dei processi evolutivi. Benché nel libro non vi potesse essere traccia dell’ereditarietà, il nucleo centrale della teoria dell’evoluzione continua oggi a essere, pur con le opportune revisioni ed estensioni, quello darwiniano: variazione nelle popolazioni e selezione naturale. Non solo, la sesta e ultima edizione del 1872 venne riscritta da Darwin integrando le risposte alle critiche.
In quelle pagine si trovano ipotesi aggiuntive, come quella della cooptazione funzionale di strutture già esistenti, che sono state persino rivalutate in tempi recenti. La storia delle specie veniva per la prima volta efficacemente descritta come un processo interamente naturale, colmo di imperfezioni e di contingenza, senza più il bisogno di ricorrere a cause finali e a creazioni speciali. Da lì i difensori della nuova visione evoluzionistica seppero promuovere una vera e propria politica culturale ed educativa a favore della rivoluzione darwiniana. Nell’Autobiografia, con uno strappo alla solita modestia, Darwin scriverà: «Ha avuto fin dall’inizio un grande successo» .
Un successo al quale non sono estranee l’efficacia argomentativa e la prosa suggestiva con cui L’origine, né saggio specialistico né libro divulgativo, fu composto. A farne un classico della letteratura scientifica fu anche, come notò lo scrittore armeno Osip Mandel’štam nel 1932, lo stile affabile del naturalista vittoriano: «Non è una sonata, né una sinfonia... ma piuttosto una suite.
L’energia dell’argomentazione si scarica in "quanti", in fasci. Accumulo e resa, inspirazione ed espirazione, flussi e riflussi» . Il «bel tempo scientifico di Darwin» splende quando «raggruppa il dissimile, il contrastante, il diversamente colorato» della natura. Mentre da ogni pagina sventola «la bandiera della flotta britannica» , si assapora il gusto di un’amabile conversazione fra gentiluomini di campagna.
L’intervista.
Lo studioso racconta il suo ultimo libro sul padre dell’evoluzione
Richard Dawkins.
"Darwin, antidoto all’ignoranza"
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 19.02.2010)
Il suo libro, "Il più grande spettacolo della terra. Perché Darwin aveva ragione" in uscita per Mondadori, riporta sondaggi inquietanti, secondo cui il 20% degli italiani nega che l’uomo discenda in qualunque modo dagli animali, e il 32% pensa chei primi uomini siano vissuti all’epoca dei dinosauri! Come spiega, professor Dawkins, una tale ignoranza scientifica in un’epoca tecnologica e in un paese sviluppato?
«Purtroppo non è un problema solo italiano, ma europeo e statunitense. E non riguarda solo l’evoluzione: una percentuale analoga, del 24% in Italia, pensa che la Terra impieghi un mese a girare attorno al Sole! Il che significa che c’è un’ignoranza scientifica generalizzata». Ma con l’evoluzionismo ci sono ovviamente ragioni particolari, non crede? «Certamente, soprattutto tra i fedeli della cosiddetta Chiesa Bassa dei paesi protestanti. Sarei sorpreso che fosse così in un paese a maggioranza cattolica. Mi sembra che la Chiesa accetti l’evoluzione, almeno ufficialmente, a parte l’origine dell’anima umana: se ho ben capito, secondo loro a un certo punto ci dev’essere stato qualcuno che aveva un’anima, mentre i suoi genitori non l’avevano».
A dire il vero, l’enciclica di Pio XII Humani generis dice esplicitamente che un cattolico deve credere all’esistenza reale, e non metaforica, di Adamo ed Eva.
«Questa non la sapevo! Mi faccia controllare in rete. Ohibò, è vero! Molto interessante. Io sono stato criticato per aver attaccato i fondamentalisti, invece che i "veri" teologi, ma qui abbiamo addirittura un papa recente che dice queste cose! Affascinante, lo userò d’ora in poi».
Il papa attuale, Benedetto XVI, e il suo allievo Christian von Schönborn, cardinale di Vienna, si sono invece espressi apertamente a favore del Disegno Intelligente. Lei cosa ne pensa?
«Molti aspetti del mondo vegetale e animale mostrano che, se ci fosse un Disegno, sarebbe non intelligente! E’ più sensato pensare che non ci sia stato nessun Disegno, e che la Natura sia il prodotto di un’evoluzione storica».
E il Principio Antropico, secondo cui viviamo in universo fatto apposta in modo da permettere la nostra esistenza?
«Oh, quella è un’altra faccenda, da tenere ben distinta dalla precedente, benché le due cose vengano spesso mescolate. Il Principio Antropicoè un argomento ateo, che isola scientificamente le condizioni necessarie alla vita».
Anche il Disegno Intelligente, però, non è necessariamente teistico.
«E’ vero. Si può pensare che la pianificazione sia stata fatta da alieni, ad esempio, come nella teoria della panspermia difesa nientemeno che da Francis Crick nel suo libro La vita stessa. Ma naturalmente questo è solo un Disegno locale, che non spiega l’origine degli alieni che avrebbero dato origine alla vita terrestre».
Vogliamo ora passare alle prove dell’evoluzione? Per cominciare, inizierei da quelle che già Darwin aveva dato, a partire dall’analogia con la selezione artificiale.
«E’ un esempio eccellente, che oggi viene usato meno di quanto si dovrebbe. In fondo, la selezione artificiale non è altro che la verifica sperimentale della selezione naturale: in parte effettuata coscientemente nei laboratori oggi, ma in parte effettuata inconsciamente nel corso dei secoli da coltivatori e allevatori. Darwin amava molto gli esperimenti sui piccioni, ma a me sembra che l’esempio più spettacolare di quanti cambiamenti si possano produrre in poco tempo sono i cani, dal chihuahua all’alano».
Darwin ha anche refutato fin da subito l’obiezione creazionista dei cosiddetti "organi complessi", come l’occhio.
«Sì, facendo notare che spesso non è vero che un organo complesso funziona soltanto come sistema integrato di tutte le sue parti: anche un quarto, o addirittura un centesimo, di occhio vedono meglio che nessun occhio! E nel regno animale si trovano esempi di vari stadi di evoluzione incompleta dell’occhio, che lo dimostrano».
Darwin fece anche notare le tracce lasciate dall’evoluzione negli organi vestigiali, come le ali degli uccelli che hanno smesso di volare.
«Quegli organi non più funzionanti sono esempi meravigliosi ed eleganti di un avvenuto cambiamento, di cui forniscono una testimonianza storica. Oggi poi sappiamo che ci sono non solo organi, ma anche geni vestigiali: i cosiddetti pseudogeni, che hanno tutta l’apparenza dei geni normali, ma non sono più nemmeno trascritti. Sono un po’ l’analogo dei frammenti di programmi e di file che rimangono sull’hard disk del nostro computer, benché non siano più accessibili».
Vorrei ora passare alle prove che ai tempi di Darwin non avevano sufficiente evidenza, tipo i fossili.
«Di fossili animali ce n’erano già allora, naturalmente, ma mancavano quelli umani: è a quelli che ci si riferiva, parlando di "anelli mancanti". In seguito ne sono stati trovati un’enormità: soprattutto in Africa, che era il luogo in cui già Darwin aveva capito si sarebbero dovuti cercare, a causa della grande somiglianza degli uomini con le scimmie africane quali gli scimpanzè e i gorilla, più che con le scimmie asiatiche quali gli oranghi e i gibboni».
Ci sono poi argomenti che Darwin non poteva addurre, perché si basano su scoperte successive, come la genetica.
«Effettivamente, se c’è un campo nel quale Darwin si sbagliò, fu certamente la genetica. Dopo la scoperta della doppia elica da parte di Watsone Crick, direi che la genetica è diventata una branca dell’informatica: una sequenza di DNA è simile a un nastro di computer, benché in un alfabeto quaternario invece che binario, e si legge e si trascrive nello stesso modo».
Nonostante tutte queste prove, come mai i creazionisti insistono a non considerare l’evoluzione una teoria scientifica?
«Forse perché la considerano una teoria storica, parte dell’umanesimo invece che della scienza (benché, ironicamente, quasi tutti i creazionisti siano umanisti). Ma sbagliano, perché invece è basata su evidenza sperimentale, predittiva, e verificabile o refutabile: ad esempio, l’evoluzionismo prevede che non si possano trovare fossili di mammiferi negli strati del devoniano, e un loro ritrovamento sarebbe una confutazione della teoria».
C’è un’ultima obiezione, proposta da un paio di fisici balzani, secondo cui l’evoluzionismo non sarebbe scientifico perché non descritto da formule matematiche.
«Questa, poi! Il neodarwinismo moderno è basato sull’idea che la frequenza dei geni nelle popolazioni cambia nel tempo, e le principali ipotesi necessarie al cambiamento, e dunque all’evoluzione, si derivano da una famosa formula dovuta a Hardy e Weinberg. La moderna genetica evolutiva è altamente matematica, piena di formule: ci sono addirittura riviste scientifiche interamente dedicate ai fondamenti matematici della teoria. Anche questa obiezione, come tutte le altre, è semplicemente disinformata».
Il genetista Cavalli-Sforza racconta i meccanismi che hanno scandito il progresso
dell’Homo sapiens. L’appuntamento al Festival della Mente
L’evoluzione culturale batte quella biologica
Così la specie umana ha conquistato il pianeta
di Luigi Luca Cavalli-Sforza (Corriere della Sera, 29.8.2009)
Che l’uomo sia un animale, non vi sono dubbi. Che abbia alcune caratteristiche diverse dagli altri animali, è chiaro. Ma se ci avviciniamo al problema con il solo aiuto dell’osservazione e del ragionamento, cioè scientificamente, quali sono queste caratteristiche? Vi sono naturalmente differenze biologiche tra l’uomo e gli animali, anche quelli più vicini a noi.
Sappiamo che le differenze biologiche tra individui e tra specie stanno nel programma che serve a un individuo per costruire se stesso. Sappiamo che questo programma è scritto nel Dna e l’eredità biologica è resa possibile dalla copiatura, a ogni generazione, del Dna di ogni individuo per passare il Dna copiato a un figlio, che la usa come modello per costruire se stesso, ma anche per farne copie per i suoi discendenti e così via. Ma sappiamo che in ogni processo di copiatura possono avvenire errori e gli errori di copiatura del Dna sono trasmissibili, perché i figli costruiscono se stessi e poi copiano il modello che hanno ricevuto, per passare il programma ai loro figli (introducendo nuovi errori).
Gli errori di copiatura sono chiamati mutazioni genetiche e sono responsabili dei cambiamenti ereditari. Più spesso questi cambiamenti sono in peggio, perché gli errori di copiatura del Dna sono casuali e possono recare danno anche fatale in un organismo delicato e complesso come quello di un vivente. Ma qualcuno può essere benefico, ad esempio vi è sempre una possibilità che uno di essi porti una maggior capacità di resistere a una delle tante cause di malattie, magari molto diffuse come è, e anche da noi era, la tubercolosi.
Se il portatore della mutazione è resistente, così potranno essere i suoi figli che portano il Dna copiato e lo trasmettono e il tipo mutato aumenterà automaticamente di frequenza nelle generazioni successive. Questo è un esempio di quella che Darwin ha chiamato selezione naturale. Ma specie in organismi lenti come noi, che impieghiamo trent’anni a riprodurci, in media, e formiamo coppie che hanno solo pochi figli, possono essere necessarie migliaia di anni, magari anche molti di più perché una popolazione in cui è avvenuta una mutazione in un individuo divenga interamente del tipo mutato.
Archeologia e genetica ci hanno mostrato che la nostra separazione dalla scimmia più vicina a noi vivente oggi, lo scimpanzé, cominciò circa sei milioni di anni fa in Africa. I nostri più vecchi antenati scesero dagli alberi e svilupparono la capacità di correre sulle gambe e liberare le mani, cominciando a usarle per fabbricare strumenti: i primi oggi riconosciuti hanno tre milioni di anni. Gli strumenti furono perfezionati al punto che un po’ meno di due milioni di anni fa l’uomo cominciò a espandersi, dall’Africa all’Asia e all’Europa, probabilmente anche grazie all’aiuto dell’uso del fuoco. La testa dell’uomo e con essa il cervello cominciarono a crescere di volume molto presto e l’aumento continuò fino a portare il volume del cervello a quattro volte il valore iniziale, che invece nello scimpanzé e in altri primati rimase invariato.
Una delle cause più importanti nell’aumento del cervello fu l’acquisizione del linguaggio, cioè la capacità di articolare i suoni in modo da scambiarci facilmente idee e informazioni. Aumentò così molto la velocità di quella che chiamiamo evoluzione culturale, cioè l’accumulo di nuove conoscenze. Anche gli animali hanno evoluzione culturale, ma molto meno intensa e meno facilmente trasmessa agli altri che nella nostra specie. Le novità culturali sono nuove idee: invenzioni, scoperte, innovazioni, molte della quali hanno lo scopo di migliorare le condizioni di vita. Le novità culturali non sono cambiamenti del Dna; a differenza di essi possono trasmettersi a un largo numero di individui nel corso di una generazione e con i moderni mezzi di comunicazione in tempi brevissimi. Inoltre, mentre le novità genetiche, cioè le mutazioni sono casuali, quelle culturali sono dirette a scopi precisi, di solito benefici.
L’evoluzione biologica ha quindi perduto molta importanza nella nostra specie, perché quella culturale soddisfa le nostre necessità assai più presto. Anche per questo, troviamo che le differenze genetiche fra le popolazioni umane viventi oggi sono modeste. Oggi siamo sei miliardi; poco più di 55 mila anni fa eravamo una piccola tribù africana di forse mille o duemila individui, ma tutti i suoi membri avevano un linguaggio sviluppato come quelli esistenti oggi. Tutti vivevano di caccia, pesca, raccolta di vegetali, cioè di cibo naturale.
In un tempo breve si sparsero in tutto il mondo, comprese America e Oceania, raggiungendo circa 10 mila anni fa la saturazione demografica permessa dalle risorse locali, che furono sufficienti per arrivare a un numero di abitanti del mondo stimato fra uno e 15 milioni. Ma cominciò allora, in diverse parti del mondo, la produzione del cibo mediante la coltura di vegetali e l’addomesticamento di animali e permise una nuova crescita demografica fino ai sei miliardi di oggi, un aumento di circa mille volte negli ultimi 10 mila anni.
La selezione naturale continua a essere importante, ma è ora largamente diretta dalle novità prodotte dall’evoluzione culturale assai più che da quella biologica. Per darne un semplice esempio: quando 30 mila anni fa i nostri antenati popolarono la Siberia, non ebbero bisogno di attendere la comparsa di mutazioni che permettessero la crescita di una fitta pelosità o altri meccanismi biologici di difesa dal freddo. Quella pelosità che avevamo in comune con le scimmie, da cui siamo separati da almeno sei milioni di anni, era scomparsa da tempo, forse per i pericoli cui è esposto un animale peloso che vive vicino al fuoco (anch’essa una selezione naturale indotta da un’innovazione). Per popolare la Siberia si vestirono di pelli di animali cucite con ago e filo e costruirono case molto resistenti al freddo, tutti prodotti di invenzioni utili. In questi e molti altri modi il numero di appartenenti alla nostra specie è aumentato in modo enorme e questo è il grande successo di selezione naturale che dobbiamo largamente all’evoluzione della cultura, ma l’evoluzione biologica ha avuto poco tempo per agire e quella culturale ha sopperito largamente alle necessità di adattamento ad ambienti diversi.
Darwin il milanese
Decisivi i legami tra la città e «il Galileo della biologia»
di Peppe Aquaro (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Conosciuto, senz’altro. Qualche volta contestato, quasi sempre sostenuto. Charles Darwin non fece mai tappa a Milano (la moglie, Emma Wedgwood, sì, particolare, forse, che di scientifico ha ben poco), ma i contatti tra lo scienziato e il mondo accademico meneghino risultarono decisivi per lo sviluppo della teoria dell’evoluzione delle specie. Lo mette in evidenza la mostra «Darwin 1809-2009», promossa dal Comune di Milano, prodotta da Palazzo Reale, «Codice. Idee per la cultura» e Civita, con la partnership di Intesa Sanpaolo, che da domani al 25 ottobre approda nel capoluogo lombardo, alla Rotonda della Besana, dopo la tappa a Roma.
L’esposizione - mille metri quadrati, più ampia della prima versione curata a New York da Niles Eldredge e Ian Tattersall, prosecutori dell’opera del genio britannico - presenta, tra l’altro, alcune lettere della corrispondenza tra lo scienziato inglese e i colleghi milanesi. Su tutti: Giovanni Omboni, Angelo Andres e Tito Vignoli. Tra le chicche, una delle primissime segnalazioni, sulla rivista milanese «Il Politecnico » del 1860, un anno dopo la pubblicazione, di «On the Origin of Species», di cui è mostrata anche l’edizione originale (ne furono stampate solo 2.500 copie), prestata al Museo di storia naturale di Milano. A Vignoli, storico direttore del Museo, appartiene la sentita commemorazione funebre del celebre scienziato (1882): «Egli è certamente e sarà il più grande uomo del nostro secolo, e come io ebbi l’onore di scrivergli qualche anno fa, egli è il Galileo delle scienze biologiche». Pochi anni prima, sempre lo stesso museo aveva battuto sul tempo la concorrenza di Modena e Napoli, nominando Darwin socio onorario.
«Quando si parla di Darwin e dei suoi rapporti con il mondo italiano, non si tratta soltanto di analogie fra studiosi, ma di vere e proprie anticipazioni alle teorie darwiniane - osserva Eldredge - come quella del geologo bassanese Giambattista Brocchi il quale, già a inizio Ottocento, affermava che le specie nascono, hanno una storia e alla fine muoiono». Una scoperta nella scoperta, il rapporto tra l’Italia e Darwin. «Nel 1879 lo scienziato riceve il premio Bressa, e lui che fa? Ne devolve il ricavato alla Stazione zoologica di Napoli», ricorda Telmo Pievani, filosofo della scienza, allievo di Eldredge e Tattersall e curatore della mostra che vuole essere essenzialmente un omaggio alla figura di Darwin e all’importanza della scoperta scientifica.
Il viaggio del visitatore alla ricerca delle proprie origini è lo stesso di quello compiuto dal naturalista inglese, dal 1831 al 1835, a bordo del brigantino Beagle. Quei cinque anni che sconvolgeranno il mondo scientifico costituiscono la parte centrale di un percorso che parte dal mondo prima di Darwin - si riteneva che la Terra avesse soltanto 6.000 anni di vita, una visione sostenuta dal rigido e passatista mondo vittoriano - continua con un Darwin adolescente, ossessionato dai coleotteri. «Suoni e colori diversi accompagnano il visitatore tra una sezione e l’altra - spiega Pievani - non appena si entra nel Viaggio intorno al mondo, dalla Terra del Fuoco all’arcipelago delle Galápagos, è tutto un caleidoscopio di colori». Protagonisti sono gli animali vivi, come l’armadillo e l’iguana verde dell’Amazzonia, o estinti, come il gliptodonte gigante, ricostruito sulle forme del fossile custodito al Museo di storia naturale di Milano.
Il giro prosegue alla volta di Londra: a dominare sono le tonalità grigie, che avvolgono come nebbie i cinque anni in cui Darwin elabora le proprie idee. «Da questo momento si entra nella mente dello scienziato, che comincia a sviscerare i suoi taccuini, rivedendo gli appunti del viaggio», ricorda Niles Eldridge nella prefazione del catalogo della mostra newyorkese del 2005 «Darwin. Alla scoperta dell’albero della vita», quello disegnato nei taccuini esposti. «In alto a sinistra, in una delle pagine si legge ’I Think’: accelerazioni, ripensamenti evidenziano quanto Darwin sia vicino alla meta», aggiunge Pievani.
Ma esiterà a pubblicare. Sui tentennamenti di Darwin è interessante andare a rileggersi la lettera-risposta del 1844 (esposta nella mostra milanese) spedita dallo stesso scienziato a un collega geologo: «Sono sicuro di aver capito, ma non me la sento di pubblicare il tutto. Sarebbe come confessare un omicidio». Quell’omicidio lo confesserà solo nel 1859, preferendo dedicarsi, fino ad allora, ad anni di studio forsennato chiuso a Down House: d’effetto la ricostruzione a grandezza naturale del suo studio, con libri, microscopio e la celebre poltrona a rotelle su cui trascorse, ormai infermo, gli ultimi anni. «Ma noi non facciamo morire Darwin - conclude Pievani - se a New York l’epilogo erano i funerali, qui si entrerà in una scenografia luminosa, il sandwalk, lo spazio dei pensieri da percorrere per approdare a ’L’evoluzione oggi’, il ritorno al presente».
«L’origine delle specie»? Emozionante come un albo di Tex
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Se il celebre resoconto della sua avventura «sulla regia nave Beagle» era davvero Il viaggio di un naturalista intorno al mondo, quel capolavoro scientifico che è L’origine delle specie è la storia di un viaggio nei labirinti della spiegazione di quello che all’epoca era «il mistero dei misteri»: perché tante forme viventi «bellissime e meravigliose» presentano analogie che risultano inspiegabili, se si crede che ogni specie animale o vegetale sia uscita così com’è, una volta per tutte, dalla volontà del Creatore? Del resto, la migliore definizione dell’Origine delle specie l’ha data Darwin stesso: «un lungo ragionamento » che affianca a ipotesi audaci domande e obiezioni. Spesso sembra di ascoltare Darwin in persona che rimugina tra sé e sé, dubbioso e perplesso. Questo è l’aspetto dell’Origine che mi ha maggiormente colpito fin dalla prima lettura: era l’edizione italiana presentata dal grande biologo Giuseppe Montalenti e pubblicata nella «Universale scientifica» Boringhieri (1967).
Avevo recuperato in un cineforum il film di Stanley Kramer, dedicato al «processo delle scimmie » (1925) in cui era incappato un insegnante di una cittadina del Sud degli Stati Uniti per aver dichiarato ai suoi allievi che l’uomo è parente prossimo degli scimpanzé più che degli angeli. Il titolo della versione italiana era E l’uomo creò Satana, mentre l’originale alludeva alla Bibbia: Eredita il vento (1960). La crosta terrestre «è un grande museo» di reperti fossili, ma le sue collezioni sono «terribilmente incomplete »: perché mai, se le specie non sono fisse, ma derivano da altre attraverso impercettibili gradazioni, non disponiamo di tutte le forme intermedie? E se la natura sottopone a «severo scrutinio» le variazioni del vivente, perché mai tale selezione naturale «produce da una parte un organo di importanza trascurabile come una coda di una giraffa che serve per scacciare le mosche e dall’altra un organo così meraviglioso come l’occhio umano?». Le trappole che avvocati maligni tendono all’imputato nel corso del processo non erano diverse da quelle che, con grande onestà intellettuale, Darwin esponeva come «difficoltà della propria teoria».
A quel punto non mi interessava più se l’imputato se la fosse cavata con i suoi inquisitori, ma come Darwin fosse riuscito a tramutare le pretese confutazioni in vittorie della sua concezione. Era una vicenda affascinante almeno quanto qualsiasi bel racconto d’avventure.
Aspettavo la conclusione con la stessa impazienza con cui di mese in mese attendevo... la nuova puntata di Tex! Darwin aveva compreso che «il tempo profondo» del nostro Globo giustificava le lacune nelle testimonianze fossili. E l’occhio? «Quando per la prima volta fu detto che la Terra gira intorno al Sole, il senso comune del genere umano dichiarò che la dottrina era falsa; ma il vecchio detto Vox populi vox Dei, come ogni filosofo sa, non vale nella scienza. La ragione mi dice che se si può dimostrare l’esistenza di numerose gradazioni da un occhio semplice e imperfetto a uno complesso e perfetto, tutte utili alla sopravvivenza ed ereditabili da una generazione all’altra, la cosa non è più una smentita della nostra teoria, anche se pare insuperabile per la nostra immaginazione». Ma proprio questo vuol dire liberarsi dai pregiudizi: se non se ne è capaci davvero «eredita il vento »! È un’arte di cui Darwin si rivela, nell’Origine, grande maestro; ma lui con modestia avrebbe detto: «È la mia natura, non posso fare altrimenti». Sembra quasi Lutero alla Dieta di Worms, quando sfidò insieme Papato e Impero. Darwin, invece, si era limitato a contrastare l’ortodossia dominante entro la stessa comunità scientifica, cambiando così la nostra concezione del posto dell’uomo nella natura.
La doppia vita del dottor Charles
Dopo aver girato il pianeta a bordo della Beagle, si ritirò in campagna
di Giovanni Caprara (Corriere della Sera, 3.06.2009)
«Rivedere la caduta delle foglie, udire il gorgheggio dei pettirossi come nelle campagne di Shrewsbury, provare ancora la dolce monotonia delle cose consuete, l’assenza delle chiassose novità che affaticano gli occhi e la mente». Scorre il piacere nelle parole di Charles Darwin ricordando l’emozione della vita nella nuova casa di Down. E aggiunge: «È il luogo più tranquillo in cui io abbia mai vissuto. A Est e ad Ovest vi sono delle valli invalicabili, a Sud solo un sentiero molto stretto, e a Nord, attraverso il villaggio , altre due stradicciole: è come se ci trovassimo all’estremo limite del mondo».
È difficile immaginare l’altra anima di Darwin, quella che lo aveva portato ad esplorare veri e remotissimi luoghi del pianeta a bordo della nave Beagle. Eppure quando entra nella palazzina di tre piani immersa nel verde, il ritmo dell’esistenza cambia e tutto il suo orizzonte è segnato dalle piante che vede dalla finestra, dal sentiero che ogni mezzogiorno percorre cinque volte meditando e che per questo lui chiama il «viottolo del pensiero» ma soprattutto dalla famiglia, dalla moglie Emma Wedgwood e dai sette figli che cresce leggendo le favole di Dickens. Altri due bimbi muoiono poco dopo la nascita e uno di questi, appena entrati nella nuova casa di Down.
Poi perderà anche l’amatissima figlia Annie a soli 10 anni di età e la sua scomparsa segnerà ogni giorno seguente preoccupato che il suo matrimonio con la cugina Emma avesse condannato la sorte dei figli. Così non fu, in realtà, perché tutti i sopravvissuti crebbero in salute conquistando talvolta posizioni di prestigio.
Ma dove erano l’ebbrezza che lo aveva portato ad imbarcarsi con i pescatori di ostriche di Newhaven quando era ancora studente o il coraggio di affrontare il lungo periplo del pianeta a bordo della piccola nave comandata da Robert Fitzroy, come il botanico ed entomologo John Stevens Henslow gli aveva suggerito?
Partì dopo gli studi a Cambridge contro il volere del padre che giudicava il viaggio previsto di due anni soltanto una perdita di tempo. Rimase in navigazione cinque anni e al ritorno nel 1836 era già famoso perché durante la spedizione inviava lettere e materiali che venivano fatti conoscere.
La lunga traversata sugli oceani era stata ardua. Non solo perché Darwin soffriva terribilmente il mare, ma anche perché mentre Fitzroy scandagliava i fondali delle coste sudamericane per costruire le nuove mappe ordinate dall’ammiragliato di sua Maestà, Charles scendeva a terra ed esplorava i territori quasi sempre inospitali dai quali rubava i campioni in seguito preziosi per la sua rivoluzionaria teoria.
Al rientro aveva 27 anni e vivendo per lo più a Londra iniziava a dare forma alle sue idee come rivelano i diari. Per poco, però. Intanto scrive del suo viaggio ma la pressione degli impegni lo ammala. Accusa «sconfortanti palpitazioni del cuore» e i medici lo obbligano a sospendere il lavoro. L’anno successivo, nel 1838 sta ancora peggio: mali di stomaco, dolori di testa, cuore alterno; tutti guai che si trascinerà per l’intera vita senza mai scoprirne la causa. Nemmeno le cure, talvolta drastiche e spiacevoli come bagni d’acqua gelida, l’aiuteranno.
Intanto sposa Emma e Londra diventa insopportabile. Con lei cerca casa lungo la nuova linea ferroviaria che gli permetterà di andare in città, se necessario, e tornare in giornata per cenare in famiglia. La troverà nel 1842 appunto nel villaggio di quaranta tetti di Down e in due ore poteva sedersi alle riunioni della Royal Society quando serviva.
Nella quiete delle stanze piene di libri, carte e giochi dei bambini definisce scrive «L’origine delle specie per mezzo della selezione naturale». Ma chiuso nel suo piccolo mondo non è intenzionato a parlarne perché ne teme le conseguenze. Si rende conto di quanto le sue intuizioni fossero rivoluzionarie. Le darà alle stampe soltanto nel 1859 quando scopre che il più giovane Russel Wallace, anche lui dopo un viaggio avventuroso, era giunto alle sue stesse conclusioni.
E come era facilmente intuibile l’anno successivo inizieranno gli attacchi del vescovo Samuel Wilberforce che giudicava la teoria un’idea eretica perché contro la creazione. In quel momento nasceva il creazionismo tutt’ora forte e a sua volta evoluto nel tempo per contrastare la rivoluzione darwiniana.
Accanto alla casa Charles costruirà una piccola serra con piante tropicali e altri reperti: era il suo laboratorio domestico, forse l’angolo dei ricordi. E tra quelle pareti e quelle passeggiate trascorrerà quarant’anni distaccato dal clamore che i suoi scritti scatenavano. A Londra andava sempre meno, solo nelle occasioni eccezionali e l’unica concessione era un liquorino dopo cena fino a che i medici non glielo proibivano. Non amava i conflitti e le discussioni in pubblico sempre più frequenti soprattutto dopo la pubblicazione «Sull’origine dell’uomo» che portava allo scoperto l’evoluzione umana nel contesto naturale e il suo legame con i primati. Immerso nel verde e nel silenzio di Down House si sentiva protetto.
Ne uscirà solo nel 1882 quando moriva a 73 anni e il suo corpo era sepolto nell’Abbazia di Westminster accanto ad un altro grande rivoluzionario, Isaac Newton, che prima di lui aveva sconvolto, ma con minori conflitti, i cieli.
«L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi»
Un poema sullo scienziato
E il nonno Erasmus mi ha insegnato la polifonia culturale
di Luigi Trucillo (Corriere della Sera, 3.06.2009)
Come nasce un libro? Basandomi sulla mia ultima esperienza direi che bisogna sempre fare affidamento sui nonni, intesi qualche volta come antichi maestri. Cioè, in altri termini, sulla catena delle affabulazioni. A prescindere dall’ammirazione per i suoi scritti, infatti, probabilmente la prima idea di scrivere un libro di poesie su Darwin mi è balenata scoprendo che il nonno, il medico Erasmus Darwin, oltre a inventare i pozzi artesiani aveva rappresentato in versi la teoria dell’evoluzione di Lamarck. Se quell’approccio alla scienza era stato possibile allora, perché non riprovarci adesso? Sappiamo che l’attrazione che la natura esercita sulla psiche umana è innata e si definisce biofilia: come lasciar cadere la possibilità di una sua rappresentazione estetica? A ben guardare, le intuizioni di Darwin fanno capolino dappertutto, quindi anche all’interno della poesia. Certo, non tutto è stato semplice, credo che per ogni scrittore sia stranissimo calarsi nell’opera di uno scienziato, perché si vede costretto a fare i conti con un tessuto di teorie sistematiche percepite dalla scrittura come una materia sottile del linguaggio, una specie di sostanza segreta già apparentemente confezionata che germoglia di nuovo nella propria elaborazione.
L’idea base che personalmente mi ha affascinato in Darwin, e che mi guida da sempre, è quella della metamorfosi. Ne ho fatto quasi un’epica profonda, e mi sembrava interessante riversare la spaziosità di quest’epica contro l’idea di controllo così incombente nelle scienze applicate. E Darwin con la sua natura stupita e profondamente democratica era evidentemente un esploratore più che un erogatore di controllo. Secondo me, ad esempio, la sua idea di ereditarietà che allude nel tempo all’asse familiare evoca, attraverso la teoria delle piccole progressioni del cambiamento, un sistema orizzontale, di passaggio fraterno, opposto in ultima analisi alla verticalità edipica e metafisica attribuita di norma alla trasmissione. La metamorfosi come elemento fraterno: non è questa un’idea bellissima, vicina in qualche misura al fondamento della poesia? Non è il barlume di una speranza non gerarchica? E gli scienziati, quelli veri, non sono immersi nell’elemento creativo? Per me quindi valeva la pena tentare di aprire la materia di una teoria scientifica all’apporto di alcuni elementi classici come la tragedia, il mito, la metafora, cercando a tentoni il varco verso un’epistemologia inconscia. Del resto proprio uno scienziato, Bateson, elaborando la sua fittissima struttura che connette ha parlato di una complessità organizzativa del vivente che non consente meccanicismi. E ha invitato a una metaforizzazione della scienza. Io non ho fatto altro nei miei versi che imbucarmi in quest’idea di polifonia culturale. Ha detto Bateson che «la natura pensa per storie, racconta storie». E l’evoluzione allora non è per noi poeti una versione delle Mille e una notte che le specie si raccontano per non morire? Alla fine nella teoria di Darwin circola un ascolto profondo delle leggi naturali che è anche un invito all’apertura, all’attenzione verso ciò che ci appare, nudo, dinanzi. Per chi sa respirare i mutamenti è un percorso verso la riconciliazione. (Con «Darwin», Quodlibet, Trucillo ha vinto il Premio Napoli per la poesia 2009)
.Nell’anniversario della nascita del fondatore del moderno evoluzionismo .cosa resta della sua teoria sull’origine della specie
I duecento anni di Darwin,
sfidò millenni di pregiudizi
di LUIGI LUCA CAVALLI SFORZA *
SONO passati duecento anni dalla nascita di Darwin, centocinquanta dalla pubblicazione del suo libro sull’origine delle specie. L’idea dell’evoluzione non era completamente nuova. Lamarck l’aveva avanzata più di cinquant’anni prima, ma non aveva dato una spiegazione convincente della causa. Invece, Darwin l’aveva trovata, e la biologia ha potuto crescere, anche e soprattutto grazie a questo riconoscimento fondamentale, che era però in urto con millenni di pregiudizi.
In questo secolo abbiamo raggiunto lo stadio in cui la biologia è diventata una scienza esatta, in due modi diversi. Il primo è chimico, perché la chimica degli organismi viventi non è più limitata allo studio di poche, piccole molecole biologiche di secondaria importanza, come era la chimica biologica di cinquant’anni fa. Oggi conosciamo le vere molecole della vita, che sono grandi e complicate. La struttura fondamentale delle specie viventi è contenuta in lunghissimi "libri" che formano il patrimonio ereditario o genoma: una descrizione chimica, scritta in un alfabeto a quattro lettere, i nucleotidi, le unità che attaccate l’una all’altra in lunghissimi filamenti formano il Dna.
In questo secolo conosceremo il Dna di moltissime dei due milioni di specie di piante ed animali che hanno ricevuto un nome dai tassonomi che le studiano, e potremo ricostruirne l’albero evolutivo in forma di una genealogia molto complicata, ma esatta. La tassonomia zoologica e botanica e dei microrganismi diventeranno librerie enormi, ogni specie un libro molto lungo, fatto di tanti capitoli quanti sono i cromosomi (in numero caratteristico di ogni specie: uno nei batteri, 23 nell’uomo). Ogni capitolo è fatto di sezioni, i geni, tanti quante sono le proteine diverse poiché ogni gene contiene le istruzioni per fare una proteina specifica, ognuna con costituzione chimica, forma e funzione speciale. Queste istruzioni dipendono dall’ordine in cui i nucleotidi sono entro il cromosoma, in media una migliaia di nucleotidi per gene, e vi sono decine di migliaia di geni nel nostro genoma. Vi sono anche lunghi tratti di Dna fra i singoli geni di cui sappiamo meno, ma vi è molta attività per imparare se e quale funzione hanno. Tutto insieme il Dna determina la forma e funzione del corpo di ogni organismo vivente e delle sue parti.
Il secondo progresso sarà nello studio delle forze e leggi che producono l’evoluzione, cioè la trasformazione di ogni specie, la loro differenziazione, l’origine di nuove e l’estinzione di vecchie. Questi studi sono cominciati all’inizio del secolo scorso con teorie matematiche che sono paragonabili a quelle della fisica nello studio della materia non vivente. Abbiamo applicato così la raccomandazione di Galileo di ricordare che "la materia è scritta in termini matematici" - ma aggiunge subito, quasi per tranquillizzarci, esempi che ci parlano di forme geometriche che ci sono famigliari. Forse già ai suoi tempi era diffusa una certa paura dei numeri e delle formule.
Quel che Darwin trovò è una spiegazione semplice e universale che ci permette di capire come sono fatti gli organismi viventi e perché devono cambiare, adattandosi sempre meglio al loro ambiente. Noi, come tutti gli altri organismi viventi, abbiamo una certa complessità, e siamo capaci di riprodurre altri individui estremamente simili a noi stessi: la proprietà fondamentale della vita, che la rende possibile, è l’auto-riproduzione. Al tempo di Darwin si pensava che ogni essere vivente fosse stato creato da un Ente soprannaturale e non cambiasse mai. Ne era convinto anche il nostro eroe quando ha cominciato le sue esplorazioni attraverso il mondo: tutte le specie furono create circa 6000 anni fa, secondo la interpretazione letterale della Bibbia, che riassume in sei "giorni" i quasi sei miliardi di anni di vita della Terra. Parlare di "epoche" sarebbe stato un po’ meno erroneo; molte volte una parola ci tradisce - un errore di traduzione della parola "giorni"? Darwin è stato aiutato da varie osservazioni a capire quel che succede, anche se la storia della nostra specie è molto corta ed eravamo poco interessati a scoprirla. Solo recentemente gli archeologi e i paleontologi hanno cominciato a studiare cadaveri molto antichi, pietrificati. Avevano cominciato ai tempi di Darwin ma non vi era accordo sulla loro interpretazione: un grande medico tedesco, Rudolf Virchow, fondatore dell’anatomia patologica, alla cui analisi furono sottoposti i primi scheletri di Neanderthal dichiarò che le anomalie ossee riscontrate erano dovute a fatti patologici. Ma sotto l’influenza dell’addomesticazione, gli animali hanno avuto una profonda evoluzione.
Ieri guardavo i complimenti che si scambiavano due cani, un pechinese e un gran San Bernardo. Sono così diversi, che sarebbe assai difficile a noi riconoscere che sono la stessa specie se non lo sapessimo dalla storia di pochi secoli. Perché la loro apparenza è così differente? Sono i loro padroni che li hanno cambiati come hanno voluto, continuando a scegliere per la riproduzione certi individui strani e diversi. Hanno potuto farlo per molte generazioni, dato che i cani si riproducono assai più rapidamente di noi. Questo processo di scelta volontaria dei riproduttori non ha però modificato la loro capacità di riprodursi fra loro: ha avuto il nome di "selezione artificiale", e le molte osservazioni mostrano che può provocare una rapida evoluzione.
Altro aiuto alle elucubrazioni di Darwin venne dalle osservazioni demografiche dell’economista inglese Thomas Robert Malthus, circa l’insufficienza delle risorse di vita rispetto alla rapida riproduzione degli organismi viventi, che crea situazioni di competizione per cui solo una frazione piccola dei nati riesce a riprodursi. Il titolo della prima opera di Malthus sembra preannunziare la selezione naturale: Un saggio su un principio demografico che influenza il miglioramento futuro della società; in realtà l’economista Malthus si riferiva all’aumento di ricchezza, non di adattamento biologico della popolazione al proprio ambiente di vita. Difatti la selezione naturale è un fenomeno strettamente demografico che agisce automaticamente selezionando i "migliori", che sono coloro che si riproducono di più nell’ambiente di vita. Ma il processo può funzionare solo per i caratteri ereditarii, cioè che si ripresentano sufficientemente immutati nei figli. Sappiamo che un certo tipo ereditario (per esempio, la pelle scura) dà più probabilità di sopravvivere ed avere figli, a confronto con un tipo ereditario diverso (la pelle chiara) in un ambiente tropicale in cui il sole batte forte, perché i raggi ultravioletti solari provocano tumori cutanei, potenzialmente mortali, molto meno frequentemente negli individui di pelle scura. Infatti, il pigmento cutaneo scuro impedisce agli ultravioletti di traversare la pelle e giungere alle cellule capaci di produrre il tumore. È chiaro che in questo modo la popolazione tenderà a diventare più nera di pelle ai tropici, tanto più rapidamente quanto più alta è la mortalità da tumore negli individui di pelle chiara rispetto a quella di pelle scura, limitatamente ai tropici. È necessario, naturalmente, che il colore della pelle sia ereditato, e lo è largamente. L’intensità della selezione naturale dipende dalla differenza di probabilità di sopravvivere fino a riprodursi, e dalla fecondità tra i due tipi ereditarii nell’ambiente comune ai due tipi. Il "teorema fondamentale della selezione naturale" di R. A. Fisher (1930) che prevede la velocità di cambiamento di un carattere ereditario sotto selezione naturale usa appunto le curve di sopravvivenza e di fecondità in funzione dell’età per i diversi tipi ereditarii.
Darwin sapeva che in qualche modo si producono differenze ereditarie per caratteri specifici fra individui, ma non sapeva come. Oggi sappiamo che la riproduzione implica il passaggio dai due genitori a ogni figlio di una copia completa del genoma del padre e di quello della madre. Ma la produzione di una copia del Dna comporta una certa frequenza di "errori di copia", di cui i più semplici e comuni sono l’errore di trascrizione di un singolo nucleotide in un singolo punto di un particolare cromosoma: in pratica, la sostituzione di uno dei quattro tipo di nucleotidi con uno degli altri tre. Questo cambiamento del Dna detto una mutazione è trasmissibile ai figli e tutti i discendenti, poiché la copia con l’errore passata ai figli viene a sua volta copiata per la trasmissione dai figli ai loro figli.
La mutazione è un fenomeno spontaneo, raro, e viene considerato come un fatto "casuale", cioè normalmente non prevedibile se non per la frequenza con cui avviene, e che può essere modificata da condizioni ambientali o anche genetiche, ma non è una risposta adattativa all’ambiente specifico. L’unica forza che aumenta sistematicamente ed automaticamente l’adattamemto di una popolazione al suo ambiente di vita è la selezione naturale. Vi sono altre forze evolutive che influenzano la velocità di evoluzione, e sono anch’esse di natura demografica come la deriva genetica (drift, in inglese) che dipende dal numero di individui che formano la popolazione (o, più esattamente dal numero di riproduttori che formano la generazione successiva), e la migrazione fra popolazioni diverse. La specie umana è più facile da studiare sotto questo profilo di quasi qualunque altra poiché è più facile ottenere informazioni demografiche anche storiche; ed è la specie che ci interessa di più. Però la specie umana ha aggiunto una nuova evoluzione a quella strettamente biologica in modo più importante di qualunque altro organismo: l’evoluzione culturale, intendendo per cultura tutto quanto apprendiamo dalla famiglia e dalla società in cui viviamo. Essa può essere molto più rapida di quella biologica perché ha altri metodi di trasmissione, assai più potenti. Quel che viene trasmesso sono le invenzioni , cioè le idee e la loro applicazione alla vita di ogni giorno.
In pratica oggi l’evoluzione culturale cambia sistematicamente la selezione naturale cui siamo sottoposti. La selezione naturale resta però sotto controllo, dato che la nostra evoluzione culturale influenza probabilità di sopravvivenza e fecondità. Basta pensare agli effetti che una guerra nucleare potrebbe avere - non si può neanche escludere la scomparsa della nostra specie.
* la Repubblica, 11 febbraio 2009
Ansa» 2009-02-10 19:07
DARWIN: L’EVOLUZIONE IN MOSTRA AL PALAEXPO’
di Nicoletta Castagni
ROMA - Un armadillo di nome Charlie, futuro beniamino dei romani, un’iguana, alcune tartarughe, la grande mappa del viaggio di cinque anni sul Beagle, i celebri taccuini e lo schema del ’corallo della vita’, primo abbrozzo della teoria evoluzionistica: Charles Darwin arriva a Roma con la bella mostra che dal 12 febbraio a Palazzo delle Esposizioni ne celebra i duecento anni dalla nascita. Un’importante rassegna scientifica, forse la più esaustiva realizzata sul naturalista inglese, che con le sue idee rivoluzionò il mondo.
Presentata alla stampa, ’Darwin 1809-2009’ è stata organizzata dall’Azienda Speciale Palaexpo e da Codice. Idee per la cultura e si basa su una mostra organizzata dall’American Museum of Natural History di New York in collaborazione con il Museum of Science di Boston, The Field Museum di Chicago, il Royal Ontario Museum di Toronto e il Natural History Museum di Londra. "L’aristocrazia mondiale dei musei", ha chiosato il direttore generale Mario De Simoni, che ha parlato di "esperimento nuovo per il Palaexpò, ma anche per l’Italia" (dopo Roma, la mostra sarà a Milano, alla Rotonda della Besana dal 4 giugno e a Bari, al Castello Svevo, da novembre).
"Una straordinaria mostra scientifica, ma visivamente appagante", ha aggiunto il nuovo presidente dell’Azienda Speciale Palaexpò, un’emozionata Ida Gianelli, che, insediatasi ieri, non ha voluto mancare questo primo appuntamento. Arricchito, rispetto all’edizione anglosassone, con due sezioni inedite, dedicate rispettivamente al darwinismo in Italia e all’origine dell’uomo. Un ulteriore approfondimento ideato da Telmo Piovani, che affiancato i curatori Niles Eldredge e Ian Tattersal, definiti da De Simoni "tra i maggiori evoluzionisti del momento". Decisamente soddisfatto dell’allestimento romano, emozionante e pieno di luce, Eldredge ha spiegato che lo scopo della mostra è quello di raccontare il processo creativo che sta dietro alle terorie darwiniane.
E se "Darwin ci ha lasciato ìqualcosa come 13 milioni di parole, tra taccuini, lettere, libri, e quindi è facile ricostruire la sua lunga avventura", il taglio individuato è stato quello di mettere in risalto il lato della ricerca scientifica. Questa è "un’attività profondamente umana", non dissimile da qualsiasi altra produzione culturale, contraddistinta dalla creatività. Le sezioni introduttive illustrano la scienza prima di Darwin, per introdurre quindi alla sua giovinezza, la difficoltà di trovare la strada giusta, poi i cinque anni in mare, a bordo della nave Beagle, e le sue più importanti fonti di ispirazioni. Non solo le Galapagos, ma anche il Sudamerica, l’Australia e le ricerche del geologo Giambattista Brocchi, che lo avevano molto influenzato.
"Senza Brocchi - ha detto Eldredge - non ci sarebbe stato Darwin", come dimostrano gli appunti del 1832, che precedono di tre anni la sosta alle Galapagos. La mostra indaga il dibattito dopo la pubblicazione del ’L’origine delle specie’ fino ad arrivare all"Origine dell’uomò, che viene approfondito in una suggestiva sezione conclusiva che spiega lo stato attuale della ricerca.
Quest’anno al via le celebrazioni per il bicentenario
Darwin, il plagio inventato. La storia del "caso" Wallace
Chi tra i due fu il primo a formulare la famosa teoria sull’origine della specie?
Una falsa domanda perché in realtà si trattò solo di un’"impressionante coincidenza"
I loro lavori furono presentati assieme
Il naturalista gallese parlò d’un "caso fortunato"
I due scienziati svolsero, nello stesso periodo di tempo, studi paralleli
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 7.1.2009)
È appena iniziato l’anno darwiniano, che celebra il bicentenario della nascita di Charles Darwin e il cento cinquantenario della pubblicazione del suo capolavoro L’origine delle specie. E ancora prima dell’inizio delle feste sono cominciati i fuochi di fila dei guastafeste, che probabilmente dureranno per tutto il 2009: ad esempio, come ha riportato Repubblica il 29 dicembre, di quelli che si sono appena inventati un possibile "plagio" di Darwin ai danni di Alfred Russell Wallace.
Si tratta, ovviamente, di una di quelle bufale che tanto piacciono a coloro dei quali canta la statua del Commendatore nel Don Giovanni di Mozart: «Non si pasce del cibo celeste [della scienza], chi si pasce del cibo mortale [dei pettegolezzi]». È ben noto, infatti, che Wallace arrivò indipendentemente alla formulazione della teoria dell’evoluzione, ma accettò di buon grado la priorità di Darwin e si accontentò sempre dell’onore della condivisione: fu addirittura lui stesso a coniare il termine Darwinismo, in un omonimo libro del 1889. D’altra parte, sarebbe comunque riduttivo descrivere Wallace come L’uomo che gettò nel panico Darwin, come fa il titolo della peraltro completa e affascinante antologia di suoi scritti curata da Federico Focher (Bollati Boringhieri, 2006). Quelle stesse pagine mostrano infatti che c’è molto di più nella vita e nelle opere di Wallace, oltre alla (ri) scoperta della teoria dell’evoluzione, e vale la pena di vedere cosa.
I due eventi cruciali della sua formazione furono l’incontro con Henry Bates e la lettura di Malthus. Agli inizi solo il primo ebbe però un effetto immediato: i due amici, ispirati fra l’altro dalla lettura del Viaggio di un naturalista antorno al mondo di Darwin, progettarono infatti una spedizione in Amazzonia da finanziare con la raccolta di esemplari rari di insetti e farfalle da vendere ai collezionisti, e partirono il 20 aprile 1848 da Liverpool per approdare un mese dopo a Belèm. Dopo qualche mese di coabitazione, i due si separarono. Bates si dedicò al Rio delle Amazzoni, rimanendovi undici anni. Wallace si dedicò invece al Rio Negro, e tornò dopo quattro anni: senza esemplari, però, perché la nave fece naufragio e lui perse tutto eccetto i ricordi, che pubblicò nel 1853 nel Racconto di viaggio sulle Amazzoni e il Rio Negro.
Benché nei dieci giorni alla deriva e nei settanta del viaggio di ritorno egli si fosse ripromesso di non reimbarcarsi mai più, due anni dopo era di nuovo in partenza: questa volta per l’arcipelago malese, dove rimase otto anni, e fu lì che egli trovò gradualmente il bandolo della matassa di quel problema dell’origine delle specie che già prima di partire per l’Amazzonia aveva identificato, in una lettera a Bates, come uno degli scopi del suo primo viaggio.
Il primo passo fu compiuto nell’articolo del 1855 Sulla legge che ha regolato l’introduzione di nuove specie, nel quale è enunciata la cosiddetta legge di Sarawak (dal nome della provincia in cui Wallace era ospite del "raja bianco" James Brooke, che ispirò il personaggio omonimo del ciclo di Sandokan di Emilio Salgari): «ogni specie ha avuto un’origine coincidente, sia nello spazio che nel tempo, con una specie preesistente strettamente affine», e dunque «la successione naturale delle affinità rappresenta anche l’ordine secondo il quale le varie specie sono venute alla luce».
In particolare, secondo la metafora dell’albero della vita che sarebbe stata usata anche da Darwin, «si è creata una complicata ramificazione delle linee di affinità, tanto intricata quanto i rametti di una quercia nodosa o il sistema vascolare del corpo umano».
La chiarezza delle idee di Wallace e la persuasività delle sue argomentazioni fecero vacillare la posizione fissista del grande geologo Charles Lyell, ma non furono sufficienti a spingere Darwin a rivelargli di aver già trovato la soluzione dell’enigma: ancora nel gennaio del 1858 Wallace scriveva infatti a Bates che «la grande opera che Darwin sta preparando, e per la quale raccoglie materiale da vent’anni, potrebbe risparmiarmi la fatica di aggiungere altro sulla mia ipotesi, oppure potrebbe mettermi nei guai arrivando a un’altra conclusione».
Un mese dopo, nel febbraio del 1858, Wallace risolse il problema da solo, in un momento di illuminazione venutogli durante un attacco di febbre, brividi e vampate di calore che lo costrinse a letto per ore. Impossibilitato a far altro che pensare, gli tornò alla memoria il Saggio sul principio di popolazione di Malthus che aveva letto circa vent’anni prima, e intuì che le stesse cause che limitano la crescita della popolazione umana agiscono in continuazione anche nel mondo animale. Si domandò perché alcuni muoiono mentre altri vivono, e la risposta fu ovviamente che, nel complesso, sopravvivono i meglio adattati.
Quella stessa sera, appena calata la febbre, Wallace scrisse il famoso articolo Sulla tendenza delle varietà a divergere indefinitamente dal tipo originale. Due giorni dopo lo spedì a Darwin, che lo ricevette il 18 giugno 1858 e vi trovò esposta una teoria identica alla sua.
Darwin inviò l’articolo di Wallace a Lyell, parlando di una «coincidenza impressionante» col suo lavoro, di cui «non si sarebbe potuto fare un riassunto migliore». Fortunatamente per lui, nel settembre 1857 egli aveva scritto una lunga lettera al botanico Asa Gray esponendogli i punti salienti delle sue ricerche, e Lyell propose di pubblicarla insieme all’articolo di Wallace: i due lavori furono presentati alla Società Linnea il 1 luglio 1858, il giorno stesso in cui Darwin seppelliva il figlio Charles morto di scarlattina a diciotto mesi.
Lungi dal gridare al "plagio", Wallace accettò di buon grado la situazione e riconobbe che in fondo solo «un caso fortunato» gli aveva permesso di condividere ufficialmente con Darwin un’idea alla quale essi avevano dedicato, rispettivamente, «una settimana contro vent’anni». E tornò al suo interesse principale, che era la biogeografia, pubblicando nell’estate del 1859 l’articolo Zoogeografia dell’arcipelago malese, in cui individuava il confine che separa le regioni zoologiche australiana e indiana, nonostante la loro sostanziale identità climatica e geologica. In seguito estenderà la sua attenzione all’intero globo, in ricerche compendiate nella sua opera principale, La distribuzione geografica degli animali del 1876.
A offuscare la sua fama scientifica rimane però un articolo del 1869 su I limiti della selezione naturale applicata all’uomo, in cui Wallace sosteneva che «un’intelligenza superiore ha guidato lo sviluppo dell’uomo in una ben precisa direzione e per uno scopo speciale, esattamente come l’uomo governa lo sviluppo di molte forme animali e vegetali». Darwin ne fu inorridito, e gli scrisse: «Se non me lo aveste detto, avrei pensato che quelle frasi le avesse aggiunte qualcun altro», chiosando: «Spero che non abbiate del tutto assassinato la vostra e mia creatura».
In realtà Wallace fece anche di peggio, prendendo apertamente posizione a favore dello spiritismo e dei fenomeni paranormali, e scrivendo nel 1885 un pamphlet in cui accusava la vaccinazione di essere «inutile e dannosa». Nonostante le sue sbandate irrazionaliste, non arrivò comunque mai al punto di apprezzare la religione, e rimase sempre un sostenitore del socialismo ideale e della nazionalizzazione della terra, dedicando all’impegno sociale una parte apprezzabile della sua lunga, avventurosa e intensa vita.
Nel bicentenario della nascita del grande naturalista tre studiosi individuano le ragioni per cui le sue teorie sono tanto contestate
Così Darwin spiega Dio
Una spinta evolutiva ci fa ritenere che tutto abbia uno scopo: perciò tendiamo a credere nell’esistenza di un essere superiore
di Edoardo Boncinelli (Corriere della Sera, 2.1.2009)
Tutto deve avere per noi una spiegazione. Ogni spiegazione che ci danno o che ci diamo, la accogliamo con una grande soddisfazione e un vero sollievo psicologico. Perché ne abbiamo bisogno. Non possiamo vivere senza spiegazioni. Che sono poi di due grandi tipi: che cosa ha causato o causerà un dato evento e con quale scopo ciò è accaduto o accadrà. L’esistenza di una causa, ma soprattutto di un fine, presuppone quindi quasi sempre per noi l’intervento di un agente animato, anche per spiegare l’origine del mondo e le vicende del processo evolutivo. È per noi uomini quasi una necessità fisica. Questa, stretta stretta, potrebbe essere la sintesi del bel libro Nati per credere di Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara recentemente uscito da Codice Edizioni (pp. 203, e 19). A tutto questo andrebbe in verità aggiunto il fatto che noi viviamo come «cuccioli » o giovani adulti per tanto tempo e ci aspettiamo sempre, più o meno inconsapevolmente, che qualcuno ci accudisca, o almeno pensi a noi e non ci ignori.
Queste considerazioni chiariscono la nostra naturale inclinazione a credere all’esistenza di esseri e agenti sovrannaturali o preternaturali, e potrebbero rappresentare un potente antidoto alle tonnellate di sciocchezze, più o meno intellettualmente raffinate e finemente argomentate, che ci toccherà di ascoltare in questo 2009, anno darwiniano per eccellenza, contro Darwin e le affermazioni del darwinismo nel suo complesso. Perché siate sicuri che qualcosa del genere accadrà; troppa è la nostra naturale diffidenza, se non avversione, nei riguardi delle semplici e lineari formulazioni del darwinismo e del neodarwinismo.
Possiamo comprendere perché le cose stiano in questi termini? Tale è appunto la domanda che i nostri autori si pongono e alla quale cercano di rispondere nel quadro delle loro competenze individuali - rispettivamente la psicologia cognitiva del pensiero e del ragionamento (Girotto), la dottrina evoluzionistica (Pievani) e l’etologia (Vallortigara). Tutti e tre concordano comunque sul fatto che la spiegazione possa e debba essere cercata nelle pieghe dello stesso processo evolutivo che ha forgiato il nostro corpo e la nostra mente.
Per poter controllare il proprio comportamento e renderlo adeguato alle mutevoli circostanze della vita, molti animali e certamente gli esseri umani hanno bisogno di rendersi conto di cosa produce cosa e di che cosa si deve fare per ottenere un certo risultato. È parte integrante della loro percezione del mondo e della pianificazione del loro agire. Poiché noi siamo particolarmente bravi in questo e abbiamo dimostrato di riuscire a cogliere le minime sfumature dei rapporti causali e della finalizzazione delle azioni, è naturale pensare che tutto questo ci sia particolarmente presente, fin dalla nascita. Gli esperimenti lo dimostrano e mostrano come queste nostre convinzioni largamente innate vengano progressivamente alla ribalta negli anni della nostra infanzia e possano però anche essere «educate» e modificate sulla base delle esperienze di vita cui ciascuno di noi va incontro. Il libro di cui stiamo parlando è particolarmente ricco di osservazioni e di resoconti di esperimenti del genere.
Direi che quasi niente è stato trascurato e il libro si dipana magistralmente tra argomentazioni, controargomentazioni, riflessioni e risultanze sperimentali. Apprendiamo quindi, tra le altre cose, che il bambino possiede già a pochi mesi di vita una sua idea della causalità e della necessità di un agente causale per generare un movimento, mentre occorre aspettare tre-quattro anni perché concepisca l’idea di finalità e la attribuisca ad un agente dotato di mente e di possibilità di progettare (e di simulare). Ciò fa parte, a quanto pare, dell’ordine naturale delle cose. È interessante notare altresì che alcuni ammalati di Alzheimer perdono la nozione di causalità senza perdere quella di finalità.
Tanto si può dire per la nostra avversione ad ammettere l’esistenza di meccanismi semplici e chiari, ma ciechi e senza scopo, alla base del processo che ha portato a tutte le attuali forme di vita a partire da un primitivo gruppo di organismi ancestrali vissuti sulla terra quasi quattro miliardi di anni fa. Il passaggio da questo atteggiamento alla fede vera e propria in uno o più esseri superiori è assai breve. Basta assumere, come fanno i nostri autori, che in noi operino un paio di effetti collaterali della spinta evolutiva che ci porta a credere che tutto abbia una causa e uno scopo.
Uno di questi potrebbe essere che la fede in un essere superiore che ci segue dall’alto e può giudicarci favorisca il comportamento altruistico, o almeno non troppo egoistico, necessario per lo sviluppo di una vita sociale, della quale noi abbiamo particolarmente bisogno. Il secondo punto potrebbe essere che la fede in una qualche forma di sopravvivenza, del corpo o di una parte di esso, aiuti a superare il terrore della fine, fondamentale per noi che siamo gli unici animali a sapere che moriremo. Ciascuna di queste due convinzioni, se ben radicata, costituisce un fattore che favorisce la sopravvivenza, nostra e dei nostri antenati.
Personalmente non sono sicuro che questi siano effetti collaterali di una sola spinta evolutiva primaria o piuttosto non costituiscano essi stessi potenti spinte evolutive indipendenti e concorrenti, portanti ciascuna un suo vantaggio. A tutto questo aggiungerei, come ho già detto sopra, la nostra inclinazione a volerci sentire «pensati» da qualcuno, qualcuno che sia vivo, sollecito e dotato di progettualità. Tutto questo e molto di più si può trovare nel bel libro Nati per credere. Ed è anche inutile aggiungere che tutto quello che abbiamo detto non si applica soltanto alla spiegazione della nascita di una religiosità naturale, ma può riguardare anche lo sviluppo delle religioni rivelate. Anche in questo caso infatti occorre spiegare perché a tali rivelazioni abbiamo creduto, in massa e con entusiasmo, perché ne abbiamo accolto il Verbo e lo abbiamo fatto nostro. .------------------------------------------------
1809-1859. Doppio anniversario di celebrazioni (e di polemiche)
di Antonio Carioti (Corriere della Sera 2.1.2009)
Dal 2003 anche in Italia si festeggia il Darwin Day ogni 12 febbraio, data di nascita del grande naturalista: una ricorrenza creata da tempo nel mondo anglosassone per celebrare la scienza e il libero pensiero.
Ma il 2009 è un vero e proprio anno darwiniano, perché ricorrono insieme il bicentenario della nascita dello scienziato (1809) e il centocinquantesimo del suo testo più noto, L’origine delle specie (1859). Molte le iniziative in programma (il calendario completo sul sito www.pikaia.eu), tra cui una mostra multimediale che sarà a Roma (Palazzo delle Esposizioni) dal 12 febbraio al 3 maggio e a Milano (Rotonda della Besana) dal 6 giugno al 24 novembre.
Tutto ciò riproporrà di certo le polemiche sull’evoluzione, molto vivaci negli Stati Uniti e ormai approdate anche in Italia, specie da parte degli ambienti, perlopiù di matrice religiosa, che in alternativa al darwinismo propongono l’idea che la natura si sviluppi sulla base di un progetto trascendente ( Intelligent Design).
Tra i sostenitori più convinti di Darwin ci sono i biologi evoluzionisti, che terranno il loro congresso europeo a Torino dal 24 al 29 agosto (vedi www.sibe-iseb.it), ma la disputa ha anche un aspetto filosofico.
È stata infatti l’Unione degli atei (www.uaar.it) che ha importato il Darwin Day in Italia, mentre la Chiesa cattolica si appresta a dire la sua in un convegno promosso a Roma (3-7 marzo) dal Pontificio Consiglio della Cultura guidato da Gianfranco Ravasi. Un altro contributo verrà dal saggio L’anima e Darwin (in uscita da Donzelli), nel quale Orlando Franceschelli respinge le tesi di chi individua nell’evoluzionismo le radici dell’eugenetica hitleriana.