Cultura

Salvare la memoria delle "differenze"

Scenari del ventunesimo secolo: il valore della cultura, una sentinella di libertà
venerdì 13 maggio 2005.
 

La Stampa - Tuttolibri - 2 aprile 2005

Si intitola "Scenari del XXI secolo il volume che aggiorna il "Grande dizionario enciclopedico" della Utet (noto come "il Fedele" dal nome del suo fondatore. Per informazioni, www.utet.it). Oltre 130 esperti delineano le "sfide del futuro", dall’ambiente, all’economia, dai diritti umani alla politica, dalla ricerca scientifica alla cultura. Anticipiamo un passo dall’introduzione di Gianni Vattimo al capitolo "Alla ricerca dell’uomo".

Che cosa ha da dire la cultura - letteratura, filosofia, scienza, politica, religione - che non si vuole arruolare nello scontro di civiltà di cui parla sempre più spesso una parte dell’Occidente industrializzato? Può forse solo proseguire l’impegno per la difesa delle differenze con cui cerca di combattere l’omologazione totale all’interno della bolla. La memoria che non si può perdere è anche quella che si esercita come ascolto di ciò che viene da lontano, e come sforzo di traduzione anche di ciò che appare, a prima vista, intraducibile. Un lavoro che sembra proporre, per chi fa cultura nel senso di produrre, o cercare di produrre, "opere", due modelli principali: quello del monaco e quello della quinta colonna (o agente segreto, o spia, o criminale: Moosbrugger). La memoria delle differenze si può cioè esercitare come conservazione delle tracce del passato che l’omologazione mercantile e mediatica tende a cancellare (l’inutilità delle discipline umanistiche nella scuola!), e allora il "lavoro culturale" si modella su quello dei copisti medievali che ci hanno trasmesso, anche attraverso i secoli del disordine postimperiale, i classici del passato (quelli che sono diventati tali anche per opera loro). Oppure si configura come una sorta di attività clandestina di erosione della omogeneità della cultura diffusa dai media e dal potere che li regge e ne è sostenuto. Vediamo bene che in nessuno dei due casi - né in quello del monaco né in quello della spia - c’è un criterio assoluto di valore: perché essere contro il potere se non è un potere malvagio? E perché accanirsi a copiare le opere del passato se non vi riconosciamo un valore intrinseco, "obiettivo"? Il valore della cultura che si coltiva in queste due attività è solo quello della differenza, che solo come tale, in fondo, è anche sinonimo di libertà. Non era questo lo spirito né dei monaci medievali né quello del dissidente interno, della spia, del traditore ecc. Entrambi erano agenti di una istanza che pretendeva di valere come "assoluta": il Dio della Bibbia che aveva segretamente ispirato anche gli autori pagani; o l’ideale politico di una società giusta che bisognava affermare contro l’ordine esistente. Il caso dell’uomo di cultura del nostro tempo è molto più difficile, posto che, come si è visto, il binomio cultura-culture è indice di una irriducibilità a un’unità di fatto. Nemmeno, prima di tutto, all’unità di un modello che si possa perseguire positivamente, sperando di poterlo un giorno vedere compiutamente realizzato, nell’al di qua dello Stato "giusto" o nell’al di là del regno di Dio. C’è un insuperabile aspetto di estetismo in questo modo di concepire il ruolo di chi "fa" cultura? Per deciderlo, bisogna anche discutere se e perché l’uno sia meglio dei molti - una questione che nemmeno Platone, che pure, nel Parmenide, ha dedicato al problema dell’uno tanta attenzione, ha mai davvero affrontato. Se anche l’uno offre vere ragioni del suo essere migliore dei molti, anche chi lotta per il valore assoluto può essere tacciato di estetismo: preferisce l’uno perché l’uno è il bene e il bene non può che essere uno. Peggio: come si può argomentare a partire da pensatori come Nietzsche, Heidegger, Lévinas e Derrida, l’uno è in genere preferito per motivi di dominio, per spirito di sovranità. Platone era del resto qualcuno che pensava allo Stato e al suo ordine, anche quando faceva metafisica.

... La novità di fronte a cui ci porranno la cultura e le culture del secolo a venire è la scoperta della pluralità come valore, degno di essere difeso e promosso di per sé, sia sul piano dei "prodotti culturali", sia anche sul piano della politica e delle istituzioni. Se la pace, come dice Agostino fin troppo spesso citato, è la "tranquillitas ordinis", essa sarà tale solo se è l’ordine di un molteplice, non l’affermazione di un unico potere di un unico impero, o chiesa che sia. Istituzioni internazionali forti, certo; ma non uno Stato mondiale, nel quale la sola possibilità di alternativa sia l’indisciplina sociale, la marginalità, fino al terrorismo. Su ciò, conviene richiamarsi ad Hannah Arendt (1982) e alla sua critica dell’ideale kantiano di ordine cosmopolitico. Non sarà di questo tipo, però, il modello di uomo di cultura che ci siamo ritrovati a proporre? Non ci sembra, almeno nel senso che il suo impegno di quinta colonna non è mai - e in ciò l’analogia con la spia e l’agente segreto mostra i suoi limiti - diretto a fondare un ordine diverso, ancora una volta a realizzare una umanità ideale che nella sua pretesa perfezione non tollererebbe alcuna alternativa, alcuna differenza. La cultura è dunque anche in questo caso memoria: richiamo a qualcosa che non può mai essere del tutto presente, e che nel suo sottrarsi è anche la migliore garanzia di apertura, ascolto, rispetto dell’altro e della comune libertà.

Gianni Vattimo


Sul tema, nel sito, si cfr.:

PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN...
-  FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.


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