Lettere

Davanti alla legge (1914) - di Franz Kafka

sabato 15 aprile 2006.
 

Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire.

L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi,» dice il guardiano, «ma adesso no». Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno.

Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me.»

L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all’uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso.

Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l’ingresso.

L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, però gli dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.»

Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sè.

Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea.

Alla fine gli s’affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge.

Non gli rimane più molto da vivere. Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell’uomo.

«Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano, «sei proprio insaziabile.» «Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?»

Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo.»


SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:

LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA, IL MAESTRO DELLA LEGGE.

-  "Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka - da una lettera del giugno 1921 a Robert Klopstock, l’amico medico, che lo seguì sino alla morte).


Kafka - Della morte apparente *

Chi ha subìto una volta la morte apparente può raccontare le cose più terribili, ma non può dirvi che cosa c’è dopo la morte, in realtà non si è nemmeno avvicinato alla morte più di un altro, in fondo ha soltanto «vissuto» un’esperienza particolare che gli è servita a rendergli più preziosa la vita non particolare, quella comune.

Più o meno lo stesso accade a tutti coloro che hanno vissuto un’esperienza particolare. Mosè, ad esempio, sul monte Sinai ha certo vissuto un’«esperienza particolare», ma invece di abbandonarvisi, come potrebbe fare un morto apparente, che non dà segni di vita e resta disteso nella cassa, egli è scappato giù di corsa dalla montagna e aveva certo da raccontare cose inestimabili e amava gli uomini, presso i quali si era rifugiato, ancora molto più di prima, e in seguito ha loro sacrificato la sua vita, si potrebbe quasi dire per ringraziamento.

Da entrambi, però, dal morto apparente che torna come da Mosè che torna, si può imparare molto, ma non la cosa decisiva, perché non ci sono arrivati nemmeno loro. Se ci fossero arrivati, infatti, non sarebbero più tornati.

Del resto non vogliamo arrivarci neanche noi. E ce lo prova il fatto che, ad esempio, potrebbe anche venirci il desiderio di vivere l’esperienza del morto apparente o quella di Mosè (avendo però il ritorno assicurato, quasi un «salvacondotto»), che ci avviene perfino di desiderare la morte: ma neppure col pensiero vorremmo restar vivi dentro la bara senza alcuna possibilità di ritorno, oppure sul Sinai ...

(Questo non ha niente a che vedere, in fondo, col terrore della morte ...)

(Kafka, Paralipomeni)

* Fonte: L’arte dei pazzi, 24 gennaio 2018.


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