Davanti alla legge sta un guardiano. Un uomo di campagna viene da questo guardiano e gli chiede il permesso di accedere alla legge. Ma il guardiano gli risponde che per il momento non glielo può consentire.
L’uomo dopo aver riflettuto chiede se più tardi gli sarà possibile. «Può darsi,» dice il guardiano, «ma adesso no». Poiché la porta di ingresso alla legge è aperta come sempre e il guardiano si scosta un po’, l’uomo si china per dare, dalla porta, un’occhiata nell’interno.
Il guardiano, vedendolo, si mette a ridere, poi dice: «Se ti attira tanto, prova a entrare ad onta del mio divieto. Ma bada: io sono potente. E sono solo l’ultimo dei guardiani. All’ingresso di ogni sala stanno dei guardiani, uno più potente dell’altro. Già la vista del terzo riesce insopportabile anche a me.»
L’uomo di campagna non si aspettava tali difficoltà; la legge, nel suo pensiero, dovrebbe esser sempre accessibile a tutti; ma ora, osservando più attentamente il guardiano chiuso nella sua pelliccia, il suo gran naso a becco, la lunga e sottile barba nera all’uso tartaro decide che gli conviene attendere finché otterrà il permesso.
Il guardiano gli dà uno sgabello e lo fa sedere a lato della porta. Giorni e anni rimane seduto lì. Diverse volte tenta di esser lasciato entrare, e stanca il guardiano con le sue preghiere. Il guardiano sovente lo sottopone a brevi interrogatori, gli chiede della sua patria e di molte altre cose, ma sono domande fatte con distacco, alla maniera dei gran signori, e alla fine conclude sempre dicendogli che non può consentirgli l’ingresso.
L’uomo, che si è messo in viaggio ben equipaggiato, dà fondo ad ogni suo avere, per quanto prezioso possa essere, pur di corrompere il guardiano, e questi accetta bensì ogni cosa, però gli dice: «Lo accetto solo perché tu non creda di aver trascurato qualcosa.»
Durante tutti quegli anni l’uomo osserva il guardiano quasi incessantemente; dimentica che ve ne sono degli altri, quel primo gli appare l’unico ostacolo al suo accesso alla legge. Impreca alla propria sfortuna, nei primi anni senza riguardi e a voce alta, poi, man mano che invecchia, limitandosi a borbottare tra sè.
Rimbambisce, e poiché, studiando per tanti anni il guardiano, ha individuato anche una pulce nel collo della sua pelliccia, prega anche la pulce di intercedere presso il guardiano perché cambi idea.
Alla fine gli s’affievolisce il lume degli occhi, e non sa se è perché tutto gli si fa buio intorno, o se siano i suoi occhi a tradirlo. Ma ora, nella tenebra, avverte un bagliore che scaturisce inestinguibile dalla porta della legge.
Non gli rimane più molto da vivere. Prima della morte tutte le nozioni raccolte in quel lungo tempo gli si concentrano nel capo in una domanda che non ha mai posta al guardiano; e gli fa cenno, poiché la rigidità che vince il suo corpo non gli permette più di alzarsi. Il guardiano deve abbassarsi grandemente fino a lui, dato che la differenza delle stature si è modificata a svantaggio dell’uomo.
«Che cosa vuoi sapere ancora?» domanda il guardiano, «sei proprio insaziabile.» «Tutti si sforzano di arrivare alla legge,» dice l’uomo, «e come mai allora nessuno in tanti anni, all’infuori di me, ha chiesto di entrare?»
Il guardiano si accorge che l’uomo è agli estremi e, per raggiungere il suo udito che già si spegne, gli urla: «Nessun altro poteva ottenere di entrare da questa porta, a te solo era riservato l’ingresso. E adesso vado e la chiudo.»
LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA, IL MAESTRO DELLA LEGGE.
"Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka - da una lettera del giugno 1921 a Robert Klopstock, l’amico medico, che lo seguì sino alla morte).
Kafka - Della morte apparente *
Chi ha subìto una volta la morte apparente può raccontare le cose più terribili, ma non può dirvi che cosa c’è dopo la morte, in realtà non si è nemmeno avvicinato alla morte più di un altro, in fondo ha soltanto «vissuto» un’esperienza particolare che gli è servita a rendergli più preziosa la vita non particolare, quella comune.
Più o meno lo stesso accade a tutti coloro che hanno vissuto un’esperienza particolare. Mosè, ad esempio, sul monte Sinai ha certo vissuto un’«esperienza particolare», ma invece di abbandonarvisi, come potrebbe fare un morto apparente, che non dà segni di vita e resta disteso nella cassa, egli è scappato giù di corsa dalla montagna e aveva certo da raccontare cose inestimabili e amava gli uomini, presso i quali si era rifugiato, ancora molto più di prima, e in seguito ha loro sacrificato la sua vita, si potrebbe quasi dire per ringraziamento.
Da entrambi, però, dal morto apparente che torna come da Mosè che torna, si può imparare molto, ma non la cosa decisiva, perché non ci sono arrivati nemmeno loro. Se ci fossero arrivati, infatti, non sarebbero più tornati.
Del resto non vogliamo arrivarci neanche noi. E ce lo prova il fatto che, ad esempio, potrebbe anche venirci il desiderio di vivere l’esperienza del morto apparente o quella di Mosè (avendo però il ritorno assicurato, quasi un «salvacondotto»), che ci avviene perfino di desiderare la morte: ma neppure col pensiero vorremmo restar vivi dentro la bara senza alcuna possibilità di ritorno, oppure sul Sinai ...
(Questo non ha niente a che vedere, in fondo, col terrore della morte ...)
(Kafka, Paralipomeni)
* Fonte: L’arte dei pazzi, 24 gennaio 2018.
Letteratura.
Humor e misericordia, l’arte ebraica del narrare
Un saggio di Daniele Castellari indaga il manifestarsi del sorriso umano e della pietà divina nei romanzi di grandi autori ebrei del Novecento, da Yehoshua a Grossman, da Roth a Singer a Elie Wiesel
di Roberto Righetto (Avvenire, giovedì 20 febbraio 2020)
[Foto] Marc Chagall, “Sogno e magia”
Umorismo e misericordia. Ma anche angoscia e rabbia. E tanto, tantissimo dolore. Sono alcune delle caratteristiche di gran parte della narrativa ebraica. Prendiamo il romanzo Il responsabile delle risorse umane di Abraham Yehoshua (Einaudi 2004), dove il protagonista deve svelare il mistero di un’ex dipendente dell’azienda, morta in un attentato terroristico a Gerusalemme e il cui corpo giace all’obitorio senza che nessuno l’abbia riconosciuto. D’accordo col proprietario dell’impresa, accusata da un giornale scandalistico di disumanità per aver dimenticato la donna, egli con un atto di magnanimità e fra mille peripezie conduce la salma di Julia nel Paese da cui era venuta, uno dei tanti dell’ex Urss. E qui scopre le origini ebraiche della vittima e, dopo averne incontrato i parenti, compie una scelta spiazzante: decide di riportare il corpo a Gerusalemme assecondando la richiesta della madre. Yehoshua mantiene un approccio laico alla vicenda e nel romanzo manca l’elemento della misericordia divina, ma c’è tanta compassione umana. Come non rassegnarsi all’orrore e far spazio all’accoglienza dell’altro, anche se non lo conosciamo?
A queste e a tante altre domande poste dalla letteratura ebraica cerca di rispondere un libro di Daniele Castellari, Non so se il riso o la pietà prevale, edito da Aliberti (pagine 190, euro 18; con prefazione di Moni Ovadia), che prende in esame sette romanzi del secolo scorso.
Umorismo e misericordia nel romanzo ebraico del Novecento è il sottotitolo del volume: nel caso di Yehoshua giustamente si annota come, in una vicenda che assume spesso toni grotteschi, il senso di responsabilità verso l’altro emerga a poco a poco nella coscienza dei personaggi coinvolti. Così anche in altre due opere contemporanee, Vedi alla voce: amore di David Grossman (Einaudi 1999) e La scatola nera di Amos Oz (Feltrinelli 2002).
In Grossman sembra prevalere l’humour nero, precisamente nel patto fra lo scrittore ebreo autore di novelle per bambini, prigioniero nel lager, e l’aguzzino nazista che ne ha ucciso la moglie e la figlia. Scoperte le qualità del prigioniero, il comandante tedesco vuole sfruttarne le abilità e lo costringe a comporre nuovi racconti, che poi farà leggere alla compagna, che l’ha lasciato a causa delle sue efferatezze, nella speranza che ritorni. Ma cosa spinge Anshel Wasserman ad accettare quella che ci pare una scandalosa sfida? Egli medita una vendetta paradossale: indurre a poco a poco il carnefice dei suoi cari a credere nella compassione. Con la storia che scrive riesce a «iniettare la belva nazista di umanità», come commenta Castellari.
Allo stesso modo i tanti personaggi del romanzo epistolare di Oz, incentrato su una famiglia in cui il rancore dell’uno verso l’altro sembra avere la meglio, si ritrovano avvolti sempre più nella logica del perdono. Non è un caso che Amos Oz più volte nelle sue interviste abbia dichiarato che il vero antidoto al fanatismo è il senso dello humour. Nell’articolata introduzione, Castellari distingue l’umorismo dall’ironia e ricorda come secondo il teologo André Neher il riso costituisca una sorta di pietrificazione capace di rendere inoffensivo il silenzio di Dio, tema di cui molto si parla in queste pagine in riferimento alla Shoah. Che è sempre presente negli altri romanzi esaminati, scritti da Joseph Roth, Israel Joshua Singer, Vasilij Grossman e Elie Wiesel.
Di quest’ultimo l’autore ha preferito analizzare Il testamento di un poeta assassinato (Giuntina 1981) invece che altre opere più note del premio Nobel per la pace dell’86, come La notte. Nel volume il riso si manifesta nella figura del guardiano del poeta padre del protagonista, incarcerato dai nazisti e poi dai comunisti. È il suo diario del gulag che Viktor preserva e grazie al quale egli ritrova, quando Paltiel Kossover (alter ego di Peretz Markish, figura realmente esistita a cui Wiesel di ispira) viene messo a morte, la capacità di ridere come riappropriazione della propria umanità. Il poeta e il suo custode in tal modo riescono a beffare il crudele regime sovietico, permettendo al figlio Grisha di conoscere la vera storia del genitore.
A sua volta il romanzo di Singer La famiglia Karnowski (Adelphi 2013), che si snoda attraverso tre generazioni, ristabilisce un clima di pietà e perdono al termine di lunghe tribolazioni. Lo stesso accade nelle due opere più famose prese in considerazione, Giobbe di Roth (Bompiani 1987) e Vita e destino di Grossman (Adelphi 2008). Mendel Singer, il primattore inventato dal più grande scrittore della Mitteleuropa, dopo immani sofferenze, esattamente come il personaggio biblico, recupera la pace e il senso di tutto il suo calvario. Singer voleva «bruciare Dio», fino al ritrovamento del figlio Menuchim di cui aveva perduto le tracce e che incontra per caso a New York senza riconoscere. L’aveva abbandonato perché gli pareva un idiota, ma è divenuto un musicista di talento e si è costruito una famiglia. «Mendel si addormentò. Si riposò così dal peso della felicità e della grandezza dei miracoli» sono le ultime parole del romanzo. Per non parlare di Vita e destino, una delle opere più importanti del ’900.
Nella messa a nudo delle efferatezze dei totalitarismi, pressoché gemelli come emerge mirabilmente nel dialogo fra il comandante delle Ss Liss e il suo prigioniero russo Mostovskoj, Grossman riesce ad enucleare una teologia della bontà. Condensata in una scena drammatica che si svolge dopo l’assedio di Stalingrado e la vittoria sovietica, allorché una donna russa offre un pezzo di pane a un ufficiale tedesco fatto prigioniero, mentre il nazista sta per essere linciato. Ma in vari altri episodi traspare «l’umanità semplice dei vecchi e dei bambini», «la bontà umile», come dice Castellari, una bontà che si esprime in gesti apparentemente illogici ma non è che il segno del «sollievo umoristico della misericordia ».
Alcuni critici hanno notato che Kafka, a Praga, mentre leggeva agli amici La metamorfosi, rideva fino alle lacrime e indubbiamente rimane un mistero la presenza del comico all’interno del tragico. Proprio per questo Milan Kundera, nel saggio L’arte del romanzo (Adelphi 1993), cita un proverbio ebraico: «L’uomo pensa, Dio ride». Il sorriso e lo humour sono uno dei volti della misericordia, come ben precisa Moni Ovadia.
Kafka*
Il primo numero monografico è dedicato a Kafka (Kafka, la scrittura della destituzione?) ed è disponibile a questo indirizzo.
VEDI: Gianluca Miglino, Nella tana della metafora assoluta. Poetologia e storia nell’ultimo Kafka.
Milena Jesenská
Una grande giornalista nota ormai solo come amica di Kafka
di Giorgio Fontana (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.07.2018)
Milena Jesenská è conosciuta soprattutto per la sua relazione epistolare con Franz Kafka, e per essere stata la sua prima traduttrice: nel 1920 pubblicò Il fochista in ceco presso il settimanale «Kmen». Ma questa veste ancillare le sta stretta: anche prima di conoscere Kafka era una figura nota del panorama culturale praghese di inizio Novecento; poco più tardi sarebbe diventata una brava scrittrice di feuilleton e una reporter di grande spessore.
A colmare il vuoto pensa Qui non può trovarmi nessuno, edito da Giometti&Antonello nella traduzione di Donetalla Frediani - dal tedesco e non dal ceco: scelta curiosa, ma giustificata dall’eleganza della resa. Nel volume, curato da Dorothea Rein, compare una selezione degli scritti di Jesenská, ordinati cronologicamente e con otto lettere a Max Brod su Kafka in appendice.
Leggiamo per primi i bozzetti su Vienna, città in cui la scrittrice visse con il marito ma dove si sentì assai infelice. Sono scene di vita quotidiana: i mercati neri degli operai, la miseria del dopoguerra e i bagordi dei bohémien, con un gusto particolare per gli spaccati dei sobborghi. Un esempio: «lo spettacolo che si offre ai vostri occhi allorché vi avvicinate alla stazione di una grande città, le facciate posteriori delle case incollate l’una all’altra, le cucine e i pianerottoli illuminati da una luce grigio-giallastra, la biancheria stesa alle ringhiere dei ballatoi dove sono i servizi - immaginate una sera d’agosto nella città deserta, infocata, una giostra dei sobborghi, col suo organetto di Barberia, le sue perle, i suoi diamanti blu e i suoi cavallini di legno». Degli uomini che abitano queste zone Jesenská conosce la dignità come la stortura. Sa che la miseria partorisce i difetti più tremendi, e che «la fame non spinge l’uomo verso una scodella piena, ma alla folle dissipazione». Riconosce il cinismo dei mendicanti, la loro capacità di trasformare la sofferenza in pubblicità, e la compara al nudo dolore di una madre dal figlio morto, che non chiede nulla e provoca la fuga della scrittrice - «quasi fossi io a dovermi salvare».
Molto interessanti sono anche gli scritti sul cinema, dove Jesenská recensisce alcune pellicole dell’epoca (Chaplin, von Stroheim, Lubitsch, Stiller), e naturalmente il breve e stupendo ricordo di Kafka, apparso pochi giorni dopo la sua morte. Ma a rivelare la reale caratura dell’autrice sono i lunghi reportage commissionati dalla testata «Pítomnost» nel difficile periodo 1937-1939: testi sulla condizione degli emigrati tedeschi in Repubblica Ceca e sull’emarginazione dei neri a Vienna, dove si impedisce loro di lavorare e gli si confisca ogni bene (un «linciaggio compiuto all’ombra della legalità»); e in particolare gli straordinari dispacci sull’annessione dei Sudeti da parte del Reich. Qui vediamo davvero la Storia in presa diretta: ma l’occhio di Jesenská ne coglie soprattutto le ricadute sulla quotidianità, come il rifiuto da parte di due bambine di salutare con «Sieg Heil», e la punizione che ne segue.
Jesenská cercò a lungo, nella parola come nella vita, un luogo «in cui nessuno potesse trovarla». Non vi riuscì. Nel 1940 fu rinchiusa nel campo di concentramento di Ravensbrück, dove morì quattro anni dopo; ma fino all’ultimo conservò la sua lucidità di pensiero e la sua resistenza alle compromissioni. Ulteriori buone ragioni per rileggerla oggi.
Garzanti
Ritradurre i classici: il caso Kafka
«Lettera al padre» è uno dei grandi testi del ‘900: affronta i nodi dell’esistenza umana e storica. E ha un destinatario preciso, il signor Hermann Kafka, il padre dell’autore
di CLAUDIO MAGRIS (Corriere della Sera, 12 luglio 2016)
I grandi capolavori devono essere tradotti pressoché a ogni generazione, perché contengono delle potenzialità nascoste, che la Storia via via estrae dal loro nucleo e dalla loro forma; contengono delle risposte brucianti a domande dell’epoca non ancora esplicitamente formulate e che essi esprimono con una forza che investe i lettori e continua a investire le generazioni che si succedono nel tempo.
Nessuna traduzione, anche eccellente, di una grande opera è definitiva; per questo è stato ad esempio necessario che Renata Colorni ritraducesse di recente La montagna magica di Thomas Mann o che vi siano diverse traduzioni di Moby Dick, nonostante la geniale versione di Cesare Pavese. È quanto ha fatto ora, con risultati eccellenti, Nicoletta Giacon con un altro capolavoro, la Lettera al padre di Franz Kafka. Nicoletta Giacon è un’agguerrita e valente germanista, perfettamente di casa - fatto non molto frequente - nel tedesco come nell’italiano. Formatasi all’Università di Padova sotto la guida di Emilio Bonfatti, il più grande critico della letteratura barocca tedesca, è una profonda conoscitrice della Germania, in cui ha vissuto e lavorato a lungo.
La Lettera al padre è uno dei grandi testi del Novecento, che, come ogni grande testo, sfonda i confini della pur altissima letteratura per investire i fondamentali nodi dell’esistenza umana e storica. In questo caso, ovviamente ma certo non soltanto, il rapporto tra padri e figli, tema centrale e forse fin troppo sbandierato e volgarizzato sulla scia di superficiali letture ideologiche di Sigmund Freud, non imparziali riguardo ai due contendenti, ognuno invece dei quali - e non solo, come si tende a dire, il figlio - ha i suoi grovigli e le sue pene.
Grande letteratura aldilà della letteratura, odissea nei meandri oscuri e dolorosi della condizione umana. Troppo spesso si è letto questo testo immortale come se in esso esistesse solo Franz Kafka e non anche l’altro, Hermann Kafka, il padre. E troppo spesso si legge la Lettera al padre come si leggono ad esempio la Metamorfosi o Il Verdetto, i grandi racconti, dimenticando che essa è almeno anche una vera lettera, il cui interlocutore, a differenza dai romanzi, dai racconti e forse anche dai diari, non è - o almeno non è in primo luogo - il lettore sconosciuto, ma un destinatario preciso, il signor Hermann Kafka, il padre.
Nicoletta Giacon riesce a far sentire tutto questo sia nella felicissima versione - che rende splendidamente l’ambiguità di questo capolavoro ibrido, l’intreccio di universalità e di umano-troppo umano, strazianti e anche penosi panni di famiglia. È la traduzione, la ricreazione-trasformazione della lingua che permette di penetrare a fondo, di fare un passo ulteriore nella conoscenza di questo capolavoro universale e ambiguo, così come l’introduzione, filologicamente precisa e narrativamente fluida, permette di ricostruire la genesi di questo singolarissimo testo e di spingersi più a fondo nella sua cristallina chiarezza e nelle sue tortuosità, tanto adulterate da troppi interpreti che ne hanno fatto quasi uno slogan standardizzato. Padri e figli - così spesso entrambi derelitti e sopraffatti, quando si affacciano, per rubare un’espressione alla curatrice di questo unicum della letteratura mondiale, «alla finestra del mondo».
*
La nuova edizione della «Lettera al padre» di Franz Kafka, con introduzione, traduzione e note di Nicoletta Giacon, è pubblicata da Garzanti, pagine 67, € 6.
A Robert Klopstock [Matliary, giugno 1921] *
Mio caro Klopstock, veranda, con l’antica insonnia, con l’antico calore degli occhi, la tensione nelle tempie: ... incredulo non sono stato mai in questo punto, ma stupito, angosciato, la testa piena di tanti interrogativi quanti sono i moscerini su questo prato. Nella situazione, diciamo, di questo fiore accanto a me che non è del tutto sano, solleva bensì la testa verso il sole, e chi non lo farebbe ma è pieno di segrete preoccupazioni a causa di dolorosi avvenimenti nelle sue radici e nei succhi, qualcosa vi è successo, e succede ancora, ma esso ne ha soltanto notizie molto vaghe, dolorosamente vaghe, eppure non può curvarsi, scalzare il terreno e controllare, ma deve fare come i suoi fratelli e tenersi ritto, lo fa anche ma con stanchezza.
Potrei anche immaginare un altro Abramo che (ma non arriverebbe a essere il patriarca, anzi nemmeno un mercante di abiti usati) fosse pronto a adempiere la richiesta della vittima, pronto come un cameriere, ma ciò nonostante non riuscisse a fare il sacrificio perché non può allontanarsi da casa, è indispensabile, l’andamento della casa ha bisogno di lui, c’è sempre ancora qualche cosa da mettere in ordine, la casa non è finita, ma senza che sia finita, senza questo appoggio egli non può allontanarsi, lo capisce anche la Bibbia poiché dice: “Egli sistemò la sua casa” e Abramo aveva realmente già prima ogni abbondanza; se non avesse avuto la casa, dove avrebbe allevato suo figlio, in quale trave avrebbe tenuto conficcato il .coltello del sacrificio.
Il giorno seguente: ho riflettuto ancora molto su questo Abramo, ma sono vecchie storie, non mette conto di parlarne, specialmente del vero Abramo; egli ha avuto tutto già prima, vi fu portato fin dall’infanzia, non riesco a vedere il salto. Se aveva già tutto e tuttavia doveva essere condotto piú in alto, ora bisognava togliergli qualcosa, almeno in apparenza, questo è logico e non è un salto. Non così gli Abrami superiori, questi stanno nel loro cantiere e a un tratto devono salire sul Monte Moria; può darsi che non abbiano ancora un figlio e già lo debbano sacrificare. Queste sono cose impossibili e Sarah ha ragione se ride. Rimane dunque soltanto il sospetto che costoro facciano apposta a non portare a termine la loro casa e - per citare un esempio grandissimo - nascondano la faccia in magiche trilogie per non doverla alzare e vedere il monte che sorge in lontananza.
Ma ecco un altro Abramo, uno che vuole assolutamente offrire un sacrificio giusto e, in genere, ha il giusto fiuto di tutta la questione, ma non può credere che tocchi a lui, l’antipatico vecchio, e a suo figlio, il sudicio giovane. Non che gli manchi la vera fede, questa fede ce l’ha, e sacrificherebbe nello stato d’animo giusto, purché potesse credere che si intenda lui. egli teme che uscirà a cavallo in qualità di Abramo con suo figlio, ma lungo il percorso teme di trasformarsi in Don Chisciotte. Il mondo di allora sarebbe rimasto atterrito se avesse guardato Abramo, questo invece teme che a quella vista il mondo muoia dal ridere. Non teme però il ridicolo in sé (certo teme anche questo, soprattutto la sua partecipazione alla risata), soprattutto però teme che questo ridicolo 1o renda
ancore più vecchio e antipatico, e suo figlio ancora più sudicio, ancora più indegno di essere realmente chiamato. Un Abramo che arriva senza essere chiamato! È come se lo scolaro migliore
dovesse ricevere solennemente il premio alla fine dell’anno e nel silenzio dell’attesa lo scolaro peggiore, in seguito a un malinteso, uscisse dal suo lurido ultimo banco e tutta la classe scoppiasse a ridere. E forse non è affatto m malinteso, egli è stato veramente chiamato per nome, la premiazione del migliore dev’essere, nelle intenzioni del maestro, ad un tempo la punizione del peggiore.
Cose orrende... basta.
Lei si lamenta della felicità solitaria, che dire della solitaria infelicità? Davvero, fanno quasi una coppia. [...]
* Franz Kafka, Tutte le opere, Epistolario, vol. IV, t. I, a c. di Ervino Pocar, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1964, pp. 393-395, senza le note.
Meraviglioso, semplicemente meraviglioso. Mi ha lasciata amareggiata ma allo stesso tempo mi ha fatto capire molto, tantissime cose. Le scorciatoie, le vie facili...ciascun ostacolo deve essere affrontato, non raggirato. Dobbiamo combattere per entrare nelle nostre porte e non aspettare o supplicare come fanno gli inetti e tutti coloro che non hanno abbastanza forza di volontà.. Sono cose ovvie scusate... ma volevo scriverle lo stesso. E’ incredibile come la penna possa aprire così tanto la mente di una persona.
Nessun guardiano mi dirà più che non posso entrare nelle porte che mi attireranno.
Caro "Andrex"
evidentemente hai scritto frettolosamente e non hai ben riflettutto sul testo: Kafka era ed è stato uno dei più grandi maestri della Legge - dell’Alleanza di fuoco - della Vita non della morte!!!
M. grazie per l’intervento.
M. saluti.
Per la redazione
Federico La Sala
Caro Tiano benissimo hai fatto a riprendere questo straordinariotesto di KAFKA, a mio parere - il più grande ’avvocato’ della LEGGE, della VITA e della VERITA’!!! Egli continua a ricordare a tutti gli esseri umani che sono "cittadini sovrani" (come anche poi don Milani) e che "questo ingresso" è destinato soltanto a loro!!! Il suo ’grido’ e il suo ’dolore’ era tutt’uno, e diceva la stessa cosa della tradizione ebraica e della tradizione eu-angelica: SVEGLIA!!! VOI SIETE DEI!! Mi auguro che ti faccia piacere - ti allego qui, una mia vecchia (del 2000 ca.) nota ’poetica’, intorno alla sua opera e a Lui dedicata. M. cordiali saluti e Buona Pasqua, Federico La Sala
RIATTIVARE LA MEMORIA DELLA VITA (e la navigazione di "me" e "te" nel gran mare dell’essere e della verità) di Federico La Sala
A FRANZ KAFKA, ALLA SUA MEMORIA, CHE VIVA IN ETERNO IN TUTTE LE GENERAZIONI PRESENTI E FUTURE DEL PIANETA TERRA... E DI TUTTE LE TERRE DELL’UNIVERSO! (E al piccolo ELIAN e a ogni persona, disabile nel corpo e nell’anima)
Mi sono ricordato di tanti, tanti, tanti esseri umani,
compagni e compagne, che, nel buio dei deserti,
delle miniere, delle ‘scuole’ di morte, e delle ‘tombe’
della vita, interno ed esterno, hanno scavato, scavato,
scavato con i trapani e le trivelle delle loro carni,
delle loro unghie, e dei loro denti.
Mi sono ricordato di Primo Levi
e ho considerato se questo è un uomo:
“Gregorio SaMSa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo”.
La metamorfosi ... di noi stessi - un io senza memoria e senza istoria, una Legge senza vita, e un legame senza cuore - in miseri, poveri, neri, scarafaggi...
E, allora, infine, ho ritrovato il filo che mena, porta, e il porto, a Napoli, a casa mia.
Mi sono ricordato di mia mamma:
“ogni scarafone è bello per la mamma sua”.
E, allora, ho capito. A Nea-Polis, nella nuova Città, nella nuova Terra, tutti gli scarafoni sono belli
per il solo, Uno, Sole, Amore di tutti e due,
di mamma e papà - al di là del mare di sangue e della terra insanguinata.
Mi sono ricordato di Te, di Me, e di tutti e di tutte, compagni e compagne delle strade della vita
e del nostro mondo...
Ho incontrato "te" e ho ripreso a cantare...
Brod lasciò Praga nel ’39 poco prima dell’invasione nazista e portò con sé le carte in Palestina
Una storia degna di un suo romanzo
di Siegmund Ginzberg (la Repubblica, 18.07.2008)
C’è chi parla e racconta, fin troppo. E chi non parla, si tiene stretti ricordi e documenti, resistendo ad ogni sollecitazione. Conosco bene il tipo. La signora Ilse Esther Hoffe, che si è fatta beffe, fino alla sua scomparsa, della caccia mondiale all’archivio di Franz Kafka, mi ricorda mia zia Perla. Entrambe erano vissute nella Praga di Kafka. Quasi coetanee, si sarebbero potute anche conoscere. Entrambe ebree, si sono sempre rifiutate di raccontare, specialmente di quegli anni. Ilse è morta che aveva 101 anni. Senza che nessuno fosse riuscita a scucirle la bocca su quali autografi di Kafka le avesse passato Max Brod, di cui era stata segretaria e intima.
Zia Perla se n’è andata che ne aveva 104, senza mai raccontarmi, malgrado le mie insistenze, della Praga degli anni Venti, di come da entraineuse in un caffè era diventata la moglie di uno degli uomini più ricchi e famosi della Cecoslovacchia di quei tempi. «Sai, non ricordo...», il refrain di zia Perla. Un giorno, quando aveva da tempo superato la novantina, le avevo chiesto, a bruciapelo: «Ma le altre ragazze del caffè, che fine hanno fatto?» «Ah, allora sai tutto...», si era lasciata andare, ma solo per un istante. Non ho mai capito il perché di tanta insistenza sui segreti di famiglia. Perla di chi poteva avere paura? Di mia cugina, che ha passato la settantina, ha cioè pressappoco l’età delle figlie di Esther Hoffe, e che un anno dopo la morte di mia zia mi ha chiesto: «Ma mia mamma era ebrea?». Certa gente semplicemente non parla, nemmeno sotto tortura. O se parla e scrive magari si pente, come Kafka, che aveva chiesto all’amico Brod di bruciare tutti i suoi manoscritti, il quale fortunatamente disobbedì e tradì le sue ultime volontà. Max Brod lasciando Praga nel 1939, giusto poco prima dell’invasione nazista, se li portò in un paio di valigie in Palestina, allora sotto mandato britannico. Per imbarcarsi verso la Palestina potrebbe aver preso lo stesso treno da Praga che, negli stessi giorni, prese mio padre richiamato alle armi nell’esercito turco, ma questa è un’altra storia.
No, non c’entra l’Alzheimer. Non è che Perla ed Esther non ricordassero. Mi piacerebbe essere rimbambito quanto erano furbe, vispe e lucide loro da centenarie. Esther era già ultrasettantenne quando nel 1974 l’arrestarono all’aeroporto Ben Gurion di Tel Aviv, diretta in Svizzera con parte dell’archivio Kafka avuto in consegna da Brod. Brod, morto nel 1968, l’aveva nominata suo esecutore testamentario, esattamente come l’amico Kafka aveva fatto mezzo secolo prima con lui. Ma era Esther a custodire gelosamente tutto il materiale da prima ancora della morte di Brod. L’editore tedesco Klaus Wagenbach è uno dei pochi che possano sostenere di aver preso, negli anni Cinquanta, almeno fugacemente visione di parte di quel materiale, che, secondo la sua testimonianza, oltre ad alcuni disegni e manoscritti autografi di Kafka, comprenderebbe il carteggio di Brod. «Brod mi lasciò visionare il materiale, ma di nascosto da Esther, che non voleva fosse maneggiato o portato via da nessuno», ha raccontato alla Frankfurter Allgemeine. «Esther era ossessionata dall’idea che qualcuno se ne appropriasse, o le venissero rubati», racconta un amico di famiglia dei Brod. C’è chi sostiene che li abbia messi in banca, e quindi non li tenesse affatto nel suo appartamento pieno di gatti e cani. Non c’è dubbio che la vecchia Esther fosse pienamente cosciente del loro valore. Ma si deve pure vivere. Nel 1987 era stata battuta all’asta a New York, per oltre mezzo milione di dollari, una collezione di 327 lettere di Kafka alla "fidanzata" Felice Bauer, l’ispiratrice del personaggio di fraulein Burstener nel Processo (lei, pur non ricambiandolo molto, aveva conservato le lettere di lui, lui aveva distrutto le lettere di lei). L’anno successivo il manoscritto originale del Processo fu venduto al prezzo allora record di quasi 2 milioni di dollari da Sotheby’s. Per conto della signora Esther Hoffe. Aveva pare promesso a un editore tedesco, per una cifra notevole, se non dello stesso ordine di grandezza, anche i diari di Max Brod. Ma a tutt’oggi non si sa che fine abbia fatto la transazione.
Il termine "kafkiano" fu usato per la prima volta in inglese, sulla rivista NewYorker, nel 1947, per indicare un intrico di vicoli ciechi. Da allora è entrato nei vocabolari di tutte le lingue, compresa la nostra, con un significato anche più ricco, che comprende ogni forma di angustia dell’individuo nei confronti degli altri e del potere in generale. Devo fare una confessione: Kafka mi attira e, al tempo stesso, mi spaventa, perché ogni volta che lo ripiglio in mano sono travolto più dall’angoscia che dal piacere, insomma mi viene una voglia irresistibile di buttarmi dalla finestra. Il fascino del kafkiano non è nella sua stranezza, è nella sua ovvietà quotidiana. Come nella vicenda dei manoscritti, come dire, galleggianti. Tutti viviamo nella realtà e negli incubi di ogni giorno storie kafkiane. Non tutti sappiamo raccontarle impietosamente, spietatamente, come faceva Franz Kafka.
Diventa un caso la storia della donna di Tel Aviv che custodirebbe manoscritti dell’autore del "Processo" Franz Kafka. Il mistero delle carte perdute(la Repubblica, 18.07.2008)
Hava Hoffe ha ereditato l’archivio, tramite la madre, da Max Brod, amico dello scrittore.
Ma nessuno ha visto il materiale. Che in parte è stato anche venduto
Nel 1973 Esther Hoff fu fermata in aeroporto mentre stava partendo per l’estero con le valigie piene di preziosi materiali
La legge israeliana impedisce di esportare materiali importanti per la storia del popolo ebraico. E anche su questo è polemica
TEL AVIV. L’ultimo mistero nella tragica storia della vita di Franz Kafka è nascosto in una casetta nel centro di Tel Aviv. Viene custodito come un tesoro da cui ricavare benessere da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che ieri per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo un appostamento degno delle vicende dello spionaggio israeliano. Da qualche settimana la storia ha iniziato a interessare chi in Israele, in Germania, a Praga ha seguito la vicenda del più interessante scrittore in tedesco del Novecento. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell’appartamento.
Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che è morta l’anno scorso e che a sua volta li aveva ricevuti dall’uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L’uomo era Max Brod, un grande amico di Kafka, anzi il suo più grande amico; giornalista, scrittore, musicista, Brod fu anche medico di Kafka, provò per esempio ad indirizzarlo al sanatorio di Kierling, vicino Vienna, nel tentativo di fermare la tubercolosi che inarrestabile uccise Kafka a 41 anni, nel 1924. Kafka aveva lasciato a Brod tutto il suo archivio, le lettere, soprattutto le opere incompiute, con il compito di bruciare tutto.
Brod non poteva rispettare quell’impegno, e anzi la pubblicazione delle opere non terminate di Kafka contribuì a completare proprio il disegno di «incompiutezza» dello scrittore praghese. Nel 1939, incalzato dal nazismo, Brod, anche lui ebreo, decide di spostarsi a Tel Aviv, in quella che era la Palestina del mandato britannico. Lì lavorò all’archivio, e quando morì nel 1969 passò tutto ad Esther Hoffe. In cambio di milioni di dollari, Esther riuscì a vendere negli anni alcuni dei manoscritti, riuscendo addirittura in un’occasione a organizzare un’asta in Svizzera. Nel 1973 il direttore degli archivi di Stato israeliani fece fermare dalla polizia la Hoffe all’aeroporto di Tel Aviv mentre stava partendo per l’estero con le valigie piene di carte.
Oggi Yehoshua Freundlich è il nuovo capo dell’Archivio ebraico: «La nostra legge impone che tutto quanto riguardi la storia del popolo ebraico possa essere ispezionato e fotocopiato dallo Stato prima di lasciare Israele. Per questo abbiamo scritto per anni alla signora Hoffe, e adesso abbiamo scritto alla figlia Hava e anche a sua sorella Ruth». Il problema è che da quando la notizia dell’esistenza dell’archivio Kafka è stata ricordata da Haaretz all’inizio di luglio, i giornalisti, gli studiosi e anche le università di mezzo mondo sono corsi in Israele. Il più titolato è forse l’Archivio letterario tedesco di Marbach, la maggiore organizzazione privata tedesca di questo tipo. «Ho letto che anche loro volevano impossessarsi della carte di Kafka», dice Freundlich, «ma ho scritto anche a loro per ricordare che la legge israeliana impedisce di rimuovere liberamente materiali che siano di importanza per la storia e la cultura del popolo ebraico».
Ieri Haaretz ricordava che anche la Biblioteca nazionale di Gerusalemme per anni ha provato a gettare uno sguardo su quelle carte: «Dal 1982 abbiamo iniziato una corrispondenza con la signora Hoffe, la speranza era quella di avere le carte conservate da Brod. Niente da fare, lei come minimo era una donna impossibile».
Adesso però un nuovo tema sembra affacciarsi attorno a questo archivio: Kafka scriveva in tedesco, sognava di vivere a Berlino: cosa c’entra con Israele, dice apertamente Shimon Sandbank, il professore che ha tradotto i suoi libri in ebraico «Israele, l’ebraismo non sono talmente decisivi in Kafka da poterci far dire che la sua eredità debba rimanere ed essere preservata qui da noi in Israele, da dover costringere gli studiosi che lavorano a Marbach a fare un viaggio a Tel Aviv solo per vedere parte del lavoro di Kafka». Per ora comunque, le sorelle Hoffe hanno tutte le intenzioni di tener ben chiuso quell’archivio.
Gli incubi e i fantasmi che assediavano lo scrittore
Quelle opere da mandare al rogo (la Repubblica, 18.07.2008)
In una casa nel centro di Tel Aviv è custodito l’ultimo mistero della vita di Franz Kafka. Viene custodito da Hava Hoffe, la donna di 74 anni che per la prima volta il fotografo del quotidiano Haaretz è riuscito a ritrarre dopo lunghi appostamenti. Articoli, manoscritti, disegni, lettere di Kafka sono in quell’appartamento. Hava Hoffe li ha ereditati dalla madre Esther, che a sua volta li aveva ricevuti dall’uomo col quale aveva lavorato come segretaria. L’uomo era Max Brod, giornalista, scrittore musicista, e grande amico di Kafka.
Già a metà ottobre Kafka scriveva a Brod che «i fantasmi notturni» l’avevano scovato. Quando componeva lettere o libri, gli spettri notturni, le potenze malvagie, che aveva evocato per amore della letteratura, dominavano con un piacere intollerabile la sua esistenza. Dunque, anche lì, a Berlino, era stato sconfitto.
Come combattere contro i fantasmi? Abbiamo un solo indizio. Kafka pensò a una specie di rogo rituale, dove ardere tutto quello che aveva scritto sotto il dominio degli spettri notturni: quasi tutta la sua opera. Se avesse bruciato tutto avrebbe riacquistato quella che chiamava la sua libertà diventando un altro scrittore. Si accontentò di meno. Un giorno, quando era malato, fece bruciare a Dora alcuni manoscritti, tra cui alcuni racconti e un lavoro teatrale: non sappiamo assolutamente di cosa si tratti.
Intanto parlava continuamente a Dora dell’arte nuova libera dai fantasmi, che dopo di allora avrebbe cominciato a scrivere. Ma noi non conosciamo nessun «nuovo Kafka»: il grande racconto La tana è, per esempio, un capolavoro suggerito dai fantasmi.
Tranne diversi racconti giovanili e degli ultimi mesi di vita, e alcuni importanti epistolari, Max Brod pubblicò le opere complete di Kafka. La sua edizione è buona, anche se non perfetta: la recente edizione critica non ha portato innovazioni sostanziali. La notizia data dal giornale israeliano Haaretz, sui manoscritti di Kafka che forse possederebbe la signora Hava Hoffe, solleva molti dubbi ai quali non so come rispondere. Cosa ha la signora Hoffe? Quale materiale kafkiano, ereditato dalla madre e da Max Brod? Non si capisce per quale ragione Brod, così meticoloso, non avrebbe pubblicato tutti i testi narrativi di Kafka che aveva in mano. Esiste, forse, una possibilità. Potrebbe trattarsi di epistolari, che egli non giudicava ancora adatti, per una ragione qualsiasi, alla pubblicazione.