LA METAMORFOSI *
L’opera è il racconto di un uomo comune, Gregor Samsa, un modesto impiegato che un mattino si sveglia e si accorge di essersi trasformato in un enorme scarafaggio. La prima reazione dell’uomo non è di sgomento, né di meraviglia per il suo nuovo stato, ed anzi si preoccupa più del modo in cui andare al lavoro (è commesso viaggiatore) in quelle condizioni, tenendo conto anche del fatto che era in mostruoso ritardo. Nonostante i suoi tentativi di tenere nascosta la sua situazione al resto della famiglia,al procuratore,ed al suo datore di lavoro, questi ultimi riescono ad entrare nella stanza. Il terrore che colpisce i suoi familiari ed il procuratore, tuttavia, li obbliga a richiudere immediatamente la porta, spingendo il povero Gregor dentro con un bastone. La vista di Gregor in quelle condizioni porta a reazioni di orrore in tutti loro (la madre sviene, il padre piange ed il procuratore ha un gesto d’orrore).
Il resto del racconto narra della nuova vita di Gregor Samsa, abbandonato da tutti tranne che dalla sorella Grete che si preoccupa di lui e gli procura il cibo. Le reazioni del padre e della madre sono tuttavia ancora ostili: una volta Gregor prova ad uscire dalla sua stanza, provocando lo svenimento della madre e l’attacco del padre con il lancio di alcune mele: una di queste lo colpisce e lo ferisce.
Dopo poco tempo, tuttavia, Gregor viene completamente abbandonato a sé stesso, anche dalla sorella che nel frattempo ha trovato un lavoro, ed il conseguente malessere lo porta in uno stato tale da rifiutare il cibo offertogli fino a giungere ad una morte lenta, causata dal rifiuto nei suoi confronti della sua famiglia. Agli occhi della famiglia, infatti, egli è divenuto un peso, visti anche i problemi economici che i familiari devono affrontare a causa della perdita del lavoro di Gregor, unico componente della famiglia che lavorava. Il padre, con cui aveva avuto dei contrasti, arriva persino a pensare a come liberarsi del figlio, visto ormai solo come un mostro.
Si sbarazza infine del cadavere di Gregor la serva, mentre la famiglia spera in una ripresa dalla crisi finanziaria con un matrimonio conveniente della figlia, che nel mentre è divenuta una bella ragazza e si avvicinava all’età del matrimonio. Il racconto infine si conclude con il trasloco dell’intera famiglia in una dimora più piccola, iniziando così una nuova vita, dimenticando per sempre Gregor.
* La Metamorfosi è il racconto più noto dello scrittore boemo Franz Kafka. Il titolo originale dell’opera, in tedesco, è Die Verwandlung e venne pubblicata per la prima volta nel 1915 dal suo editore Kurt Wolff (Leipzig). (Wikipedia)
Nel sito, si cfr.:
IL BERLUSCONISMO E IL RITORNELLO DEGLI INTELLETTUALI
LA METASTASI
di Mario Pancera
Comincia con un’ombra, poi il dubbio, infine la paura... *
Una parte della magistratura costituisce una metastasi, cioè una malattia diffusa e in pratica mortale per la giustizia in Italia: questo il concetto più volte espresso, da anni, dall’attuale presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi. Lo stesso concetto, con la stessa parola, è stato espresso al congresso socialista da Bobo Craxi, figlio di Bettino, che fu pure presidente del Consiglio ed è morto nel 2000 in Tunisia: per i suoi amici è morto in esilio, per i suoi avversari era inseguito da condanne definitive. Il leader socialista Bettino Craxi e l’imprenditore Silvio Berlusconi erano molto amici, si sono aiutati a vicenda raggiungendo entrambi i vertici del potere politico e muovendo entrambi montagne di denaro.
La magistratura può costituire un cancro, che si diffonde nel corpo della società italiana e che soltanto pesanti interventi chimici e chirurgici possono tentare di arrestare: così pensano molti, e anche parlamentari e addirittura ministri. La parola, francamente, fa paura e, più volte ripetuta, tende a mettere a tacere gli oppositori. Va a finire che, a poco a poco, più d’uno pensa: «Forse è vero», e comincia a credere che non solo qualcuno (può succedere), ma molti magistrati siano corrotti, infami, ignoranti, perversi persecutori, dediti a danneggiare il Paese.
Si forma così un’altra metastasi: il dubbio. I cittadini cominciano a dubitare, viene meno la fiducia nella giustizia, si allargano nella società lo scetticismo e il cinismo, crolla il senso dell’uguaglianza di tutti davanti alla legge. In fondo, si pensa, processo più o processo meno, chiudiamo l’argomento e portiamo avanti altri temi importanti: l’inflazione, il precariato, la mafia, la nuova povertà, l’immondezza, i migranti, l’ambiente. Con la seconda metastasi - dimenticare - si copre e si cancella la prima - cercare la verità. Il silenzio rivela un’altra metastasi nel tessuto della società: la paura.
La sera dell’8 luglio, nella trasmissione «Primo piano» su Rai 3, la giornalista Bianca Berlinguer ha intervistato Antonio Polito, direttore del «Riformista» e uomo politico, già redattore dell’«Unità», e Piero Sansonetti, direttore di «Liberazione», quotidiano del Partito della liberazione comunista. Tre nomi, le stesse origini e nessuno, apparentemente, di destra. Il tema era quello della cancellazione dei processi e dell’immunità per il presidente del Consiglio. Polito si è barcamenato, Sansonetti alla fine è sbottato concludendo press’a poco: «Chi se ne frega dell’immunità per le quattro più alte cariche dello stato, i problemi degli italiani sono ben altri». Le parole non erano proprio queste, ma il concetto sì. Dormire, sopire.
Non c’è confronto: davanti al pane, anche lo schiavo non pensa alla libertà. Che discorsi sono, questi? Che confusione si fa? La metastasi del menefreghismo, del lassismo, e diciamolo pure della supponenza e dell’ignoranza, non solo politica, è senza limiti. La libertà e la verità sono deviate e soffocate in un qualunquismo che sembra inarrestabile.
Se questi sono gli intellettuali di sinistra, che hanno in mano buona parte dell’informazione televisiva, gli italiani che danno loro credito non possono non aumentare i consensi per rafforzare le neo tentazioni autoritarie. È un dolore, e penso soprattutto ai laici cattolici, vedere come non si trovino più in Italia uomini di stato, che si occupino della politica con amore e con sacrificio, pensando al paese, ai cittadini, al popolo.
Mario Pancera
* IL DIALOGO, Sabato, 12 luglio 2008
Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E LETTERATURA E ARTE:
"GREGOR SAMSA" E IL "QUADRO DELLA DAMA CON LA PELLICCIA", #DANTE ALIGHIERI E #WILLIAM SHAKESPEARE CON #KAFKA, A #PRAGA, PER CERCARE LA VIA DI #USCITA DALL’INFERNALE "STATO DI DANIMARCA" :
LA #METAMORFOSI (DELLA #FAMIGLIA): TOLTO IL #QUADRO (DELLA "DAMA CON PELLICCIA"), LA #STANZA DIVENTA UNA #TANA, E "LA FAMIGLIA CHE UCCIDE", "FELICE E CONTENTA", CAMBIA CASA: "[...] Quando la sorella tolse il #quadro dalla #stanza non annientò forse, senza volerlo, l’ultimo residuo di dipendenza dall’umanità di Gregor Samsa il quale poté vivere la sua autonomia e la sua diversità soltanto nelle spoglie di un insetto destinato a soccombere?" (A. M. Iacono, cit.).
NOTE:
Kafka cent’anni ("Doppiozero").
Kafka: la diversità e la fuga
di Alfonso Maurizio Iacono (Doppiozero, 19 Agosto 2024)
Nel racconto Una relazione accademica un’ex scimmia, da cinque anni divenuta uomo, racconta la storia della sua umanizzazione, dal momento in cui fu catturata e ferita al momento in cui imparò a stringere la mano e a parlare e ad essere dunque accettata nella nobile comunità degli umani. Dopo la cattura e il ferimento, l’ex scimmia si svegliò in una gabbia. Questa era troppo bassa per stare in piedi e troppo stretta per stare seduti. "Si ritiene vantaggioso, osserva l’ex scimmia, custodire le bestie in questo modo nei primi tempi della prigionia; e oggi, in base alla mia esperienza, non posso negare che, umanamente parlando, sia effettivamente così". Gli animali sono in questo modo ammorbiditi e disponibili a ricevere l’ammaestramento. Cosa effettivamente li dispone a ciò? L’impossibilità di una via d’uscita. L’ex scimmia aveva sì scoperto una fessura, ma appunto di fessura si trattava, insufficiente a far passare persino la coda. In una condizione siffatta, "o sarei morto presto o, se fossi riuscito a sopravvivere al primo periodo critico, sarei stato molto facile da ammaestrare. A quel periodaccio sopravvissi". Sopravvivendo non trovava vie d’uscita. E poiché non poteva vivere senza almeno una via d’uscita, decise di fare l’unica cosa che a rigor di logica poteva fare: smettere di essere una scimmia e diventare uomo.
In una situazione come questa descritta da Kafka, la ricerca di una via d’uscita può essere obbligata per la sopravvivenza ma il passaggio può comportare il mimetizzarsi, l’accettare l’assimilazione all’altro, alle sue regole, ai suoi costumi, alle sue leggi, il farsi colonizzare, insomma una prigionia. La scimmia che si fa ammaestrare e diventa uomo rappresenta la più straordinaria e beffarda caricatura dello stato di libertà. Essa in realtà esprime una metamorfosi che non conduce affatto verso l’autonomia, ma dentro il mondo degli altri, dei carcerieri della scimmia, i quali hanno annichilito la sua alterità, rendendola così disponibile ad essere ammaestrata. È un’uscita senza scelta: o scimmia e prigioniera o morta, oppure uomo e libero, ma non autonomo. Del resto, in un mondo di uomini, chi potrebbe mai dubitare che essere uomo non sia meglio che essere scimmia? Come ci ha ricordato Nietzsche, andate a dire alla zanzara che non è il centro del mondo! Dal punto di vista di un uomo, quale migliore aspirazione per una scimmia che diventare uomo? Se, per ottenere la libertà, si è costretti ad essere assimilati, a mimetizzarsi, questa costrizione è il prezzo che inevitabilmente si paga per una libertà che non può essere affiancata dall’autonomia. Anche le lotte per la libertà possono creare costrizione e impedire l’autonomia.
Nel breve racconto di Kafka che Max Brod intitolò La partenza, mentre il protagonista sta sellando il cavallo per la partenza, il servo gli chiede: “Dove va il signore con il suo cavallo?”. “Non lo so”, dissi io, “purché sia via di qua, solo via di qua. Via di qua senza sosta, soltanto così potrò raggiungere la mia meta”. “Dunque conosci la tua meta”. “Sì”, replicai,“l’ho detto, no? Via-di-qua... ecco la mia meta”.
Per il protagonista mettersi alle spalle il luogo della partenza diventa dunque esso stesso una meta. A dire il vero, questa strana meta non sembra essere molto diversa dalla fuga. Cosa può far sì che una simile meta non si identifichi necessariamente con una fuga? Il fatto che il "Via-di-qua", il mettersi alle spalle il luogo della partenza diventi non la meta stessa, ma un momento di una meta che ancora non si conosce. Non si tratta della medesima cosa. Una differenza percorre la linea di confine tra la ricerca di una via d’uscita che assume i tratti caratteristici di una fuga e la ricerca di una uscita che invece assume i tratti caratteristici dell’autonomia. Nel primo caso la scelta è, per così dire, obbligata, nel secondo caso è, per così dire, voluta. Di solito si fugge per sopravvivere, quando si è prigionieri di altri o di sé stessi. La ricerca dell’autonomia sembra invece avere più a che fare con un atto di volontà che si accompagna a un processo di separazione e di isolamento dagli altri. L’autonomia, nella nostra cultura, tende a identificarsi con quel risultato della separazione e dell’isolamento che per solito chiamiamo indipendenza.
Ma le cose stanno davvero così? È davvero così marcata, chiara ed evidente la differenza tra fuga e autonomia, tra la disperata ricerca di una via d’uscita, come quella attuata dagli animali protagonisti di moltissimi racconti di Kafka, la cui sopravvivenza è affidata al loro nascondersi nel buio di una tana o alla loro abilità mimetica, oppure come quella di prigionieri in un carcere o in un lager, e l’uscita dalla minorità che Kant descrive come un volontario e consapevole passaggio alla luce, un processo di rischiaramento? E se invece la differenza fosse più ambigua e sottile di quel che sembra? E se il problema stesse proprio nel confine che, invece di separare il buio della sopravvivenza dalla luce dell’autonomia, li mette in comunicazione diventando esso stesso linea di una cornice, luogo di un passaggio che rivendica un proprio senso autonomo? In fondo, quando Robinson Crusoe si imbarcò per poi, dopo vari viaggi, naufragare nell’isola deserta e lì edificare i tratti dell’individuo borghese, maschio, bianco, adulto, isolato e indipendente, con la Bibbia in una mano e il fucile nell’altra, lo fece disubbidendo al padre. Fu una fuga? Quale è il confine tra la fuga dal padre e la ricerca della propria autonomia? E inoltre, quella Bibbia e quel fucile, insieme a tutti gli altri oggetti che egli recuperò dal relitto, non sono forse, come già aveva rilevato Marx, i testimoni silenziosi della sua dipendenza da quel mondo storico-sociale da cui era stato isolato a causa del naufragio?
Quando la sorella tolse il quadro dalla stanza non annientò forse, senza volerlo, l’ultimo residuo di dipendenza dall’umanità di Gregor Samsa il quale poté vivere la sua autonomia e la sua diversità soltanto nelle spoglie di un insetto destinato a soccombere?
FRANZ KAFKA, IL #BAMBINO DI PRAGA, E UNA "ARCHAICA" PREMESSA DI CIVILTÀ.
UNA NOTA di ANTROPOLOGIA FILOSOFICA (#KANT2024), SULLO STORICO PRESENTE DELL’#EUROPA:
"[...] Sull’orlo dell’abisso, non ci resta che venir fuori dallo stato (cartesiano-hegeliano) di sonnambulismo: seguire il filo del corpo (l’ombelico!), riacchiappare il senso della vita, e riattivare la memoria delle origini. Con Kant, con Feuerbach, con Marx, con Nietzsche, con Freud, con Rosenzweig, con Buber, e con Kafka ... si tratta di capire il significato della “spada” impugnata dalla “statua della Libertà”, ritrovare “la fotografia dei genitori” (cfr. America) e riconciliarci con lo spirito di quei due esseri umani, di quei due io, che hanno fatto UNO e dato il via alla più grande rivoluzione culturale mai verificatasi sulla Terra - la nascita di noi stessi e di noi stesse e dell’intero genere umano - e riprendere il nostro cammino di esseri liberi e sovrani, figli della Terra e dello Spirito di D(ue)IO. Camminare eretti, senza zoppicare e con gli occhi aperti, è possibile. Non è un’utopia. Milano,20.01.2001 d.C».
NOTE:
IL "SAPERE AUDE" (#ORAZIO), LE "FRUTTIFERE" OPERE DELL’IMPERATORE RODOLFO (ARCIMBOLDO), E LA "PACE PERPETUA" (#KANT): #ARTE, #LETTERATURA, TEOLOGIA-POLITICA E... "PARADISO PERDUTO" (JOHN #MILTON)?!
***
LA LUNGA ONDA DEL #RINASCIMENTO, IL SOGNO "UTOPICO" DEL GIARDINO, E IL "CORPO MISTICO" DELL’IMPERATORE RODOLFO II D’ASBURGO...
LA LEZIONE DI ARCIMBOLDO ( https://it.wikipedia.org/wiki/Giuseppe_Arcimboldo ): UN GRANDE INVITO AD AVERE L’ORAZIANO (E KANTIANO) CORAGGIO DI ASSAGGIARE E A FARE UN BUON USO DELLA PROPRIA FACOLTÀ DI #GIUDIZIO.
NOTE:
#LETTERATURA #ARTE #ARTETERAPIA E #PSICHIATRIA: LA #METAMORFOSI DI #KAFKA, UNA LEZIONE DI #SCHIZOFRENIADELLASALUTE. In #memoria di #RubinaGiorgi...
#PSICOANALISI #CLAUSTROFILIA (#ELVIOFACHINELLI, 1983) E #NASCITA. La #creatività e la #saggezza di #FranzKafka (#Praga, #3luglio 1883 - #Kierling, #3giugno 1924) è tale e tanta che la Metamorfosi, nella sua potenza "filmica", fa emergere anche lo #sguardo ampio, chiaro e consapevole, dello stesso "regista". Il #racconto appare essere anche un’opera eccezionale che svela il #trucco "cinemato-grafico" del #film del #Regista dell’#Occidente (#Platone) e sollecita a strappare "dalla #catena i fiori immaginari", a "gettare via la catena" (K. #Marx, 1844). e portarsi fuori dalla #caverna, a cogliere "i fiori vivi".
#Kafka: “È senz’altro pensabile che lo splendore della vita circondi chiunque, e sempre nella sua intera pienezza, accessibile ma velato, nel profondo, invisibile, molto lontano. Però esso sta lì, non ostile, non riluttante, non sordo. Se lo si chiama con la parola giusta, con il nome giusto, allora viene” (Considerazioni sul peccato, il dolore, la speranza e la vera via: "Aforismi di Zürau").
Il mistero rivelato /8.
I sette tempi della bestia
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 21 maggio 2022)
I nostri atti di giustizia non sono il prezzo della nostra salvezza, sono solo espressione di una legge di reciprocità. L’interpretazione del sogno del grande albero si conclude con un consiglio di Daniele al re Nabucodònosor: «Perciò, o re, accetta il mio consiglio: sconta i tuoi peccati con la giustizia e le tue iniquità con atti di misericordia verso gli afflitti, perché tu possa godere lunga prosperità» (Daniele 4,24-25). La conversione del re e le sue opere di misericordia non sono la condizione per essere ristabilito un domani nel suo regno. Il consiglio di Daniele ci dice comunque che è conveniente convertirsi e fare atti di giustizia e di misericordia verso gli afflitti. È bene tornare giusti e misericordiosi. Potremmo non farlo, e Dio ci amerebbe lo stesso, perché se non lo facesse sarebbe peggiore di noi che amiamo i nostri figli anche quando sono cattivi e ingrati. Ma possiamo anche decidere di essere misericordiosi, possiamo desiderare di somigliare a Dio. Lo possiamo fare proprio perché siamo liberi, perché siamo certi di essere amati anche se non lo facessimo. Sta in questo incontro di eccedenze, in questo dialogo di libertà d’amore, il cuore della Bibbia e, forse, il mistero del suo Dio. Ci vogliono una intera vita e una infinita mitezza per riuscire a mantenere i nostri sguardi al livello degli occhi di Dio, e dentro questo incontro alto di pupille imparare che siamo più belli dei nostri meriti e meno brutti delle nostre colpe.
Terminata la spiegazione del sogno, il libro ci dice che la profezia contenuta in quella visione si compie: «Dodici mesi dopo, passeggiando sopra la terrazza del palazzo reale di Babilonia, il re prese a dire: "Non è questa la grande Babilonia che io ho costruito come reggia con la forza della mia potenza e per la gloria della mia maestà?". Queste parole erano ancora sulle labbra del re, quando una voce venne dal cielo: "A te io parlo, re Nabucodònosor: il regno ti è tolto!"» (4,26-28). Questo pensiero di Nabucodònosor è estremamente importante, una chiave di lettura di questo complesso e bellissimo capitolo. Possiamo immaginare il re mentre passeggia tra i giardini pensili. A un certo punto un pensiero cresce, si stacca da tutti gli altri, si impone nella sua anima fino a diventare il pensiero dominante: ho realizzato davvero qualcosa di straordinario, e l’ho fatto solo "con la forza della mia potenza".
Un sentimento opposto a quello che Italo Calvino attribuiva a Kublai Khan: «Nella vita degli imperatori c’è un momento, che segue all’orgoglio per l’ampiezza sterminata dei territori che abbiamo conquistato (...); un senso come di vuoto che ci prende una sera con l’odore degli elefanti dopo la pioggia e della cenere di sandalo che si raffredda nei bracieri (...); è il momento disperato in cui si scopre che quest’impero che ci era sembrato la somma di tutte le meraviglie è uno sfacelo senza fine né forma» (Le città invisibili).
Nabucodonosor si trova invece in tutt’altro stato d’animo. È al culmine del proprio successo. Lo vede ovunque, ed è convinto di essere il principale, se non unico, artefice di quell’opera straordinaria. I greci avevano una parola precisa per descrivere questo sentimento del re: hybris, una combinazione di orgoglio, tracotanza e superbia.
Il libro di Daniele ci dice poi che ogni potere assoluto è ateo, anche quando è benedetto da sacerdoti e l’incoronazione avviene nel tempio, perché il re finisce per non riconoscere che l’origine dei suoi successi e della gloria è al di fuori e sopra di lui. Ed ecco allora il senso della pedagogia della sconfitta e della catastrofe, che arriva a ricordare ai re che non sono dèi e ai loro popoli di non trattarli da divinità. Tutto questo la Bibbia lo imparò durante la grande sconfitta dell’esilio babilonese, e non lo ha dimenticato più. Ma oggi non sono sufficienti neanche le catastrofi a farci comprendere la vera natura idolatrica di questi poteri: e i capi continuano indisturbati a sentirsi dio e noi a considerarli divinità.
La storia conosce una profonda legge dell’evoluzione e del declino dei popoli e delle persone. Il suo centro è la gestione di quel tipico sentimento che si era impossessato del re di Babilonia nel suo giardino. Quando una vita, una comunità, cresce e si sviluppa molto, è inevitabile che un giorno arrivi il pensiero dominante di Nabucodònosor. In un primo tempo, le persone più oneste e religiose riescono a pensare che loro sono soltanto degli strumenti, delle "matite" nelle mani di Qualcun altro che è il vero autore del grande trionfo; ma, quasi sempre, in un altro giorno arriva puntuale il momento quando i successi diventano così sbalorditivi da convincere i "re" che senza di loro tutto quell’impero non ci sarebbe stato, e ne diventano i padroni. Quasi nessun dittatore nasce dittatore, ci diventa un giorno passeggiando nel giardino.
Le storie individuali e collettive di successi straordinari che sono state capaci di durare nel tempo, sono quelle, rarissime, che non sono cadute in questa trappola tremenda, che non sono state colpite da questa "maledizione dell’abbondanza"; perché nel momento stesso in cui quel pensiero seducente e tremendo prende possesso della mente e del cuore, inizia la morte delle persone e delle comunità: "in quel momento stesso ... il regno ti è tolto". Muoiono perché il passato si divora il futuro. Lo studioso inizia a dedicare le proprie energie per promuovere i libri di ieri e non più per studiare per scrivere quello migliore di domani, a frequentare soltanto i luoghi del consenso e degli applausi e a fuggire le critiche, a iniziare a sfogliare i libri degli altri dall’ultima pagina per cercare il proprio nome nella bibliografia.
Nelle esperienze collettive i danni sono poi ancora maggiori e più gravi. L’illusione del grande impero si diffonde come peste tra tutti, si auto-rafforza nei dialoghi, diventa infrangibile e infalsificabile. Le voci critiche vengono taciute o, più facilmente, si auto-zittiscono e, magari in buona fede, la celebrazione del Dio della comunità lascia il posto alla auto-celebrazione della comunità diventata dio. Le poche storie di grande successo che riescono a non essere eliminate dal proprio successo sono quelle dove i loro protagonisti sono capaci di una sistematica politica di auto-sovversione, che riescono a curare questa sindrome dello stra-successo quando ancora è solo incipiente. Si fermano prima della soglia critica, tornano poveri e piccoli prima di essere diventati troppo grandi e ricchi per riuscire a farlo, smontano i palazzi e tornano costruttori di tende.
Quando tutto ciò non accade, inevitabile c’è il compimento della parola pronunciata dal cielo sul re: «Egli fu cacciato dal consorzio umano, mangiò l’erba come i buoi e il suo corpo fu bagnato dalla rugiada del cielo, i capelli gli crebbero come le penne alle aquile e le unghie come agli uccelli"» (4,30). Qui è molto probabile che il testo attribuisca a Nabucodònosor un episodio della vita di suo genero Nabonide, l’ultimo re di Babilonia (vedi la preghiera in esergo). È comunque straordinaria la forza narrativa di questi versi. Nello spazio di un mattino il re si ritrova trasformato da sovrano più grande della terra in essere immondo simile ai mostri dell’Eneide o della Divina commedia.
Da semi-dio a bestia. Quante volte lo abbiamo visto, e continuiamo a vederlo. La cattiva gestione del grande successo produce sovente queste metamorfosi: ci si addormenta nel letto di sempre e ci si sveglia scarafaggio, senza sapere perché. C’è bisogno di "sette tempi" per sperare di capirlo, e a volte non bastano.
Importante notare che a Nabucodònosor il sogno viene spiegato dodici mesi prima del suo avveramento. Sembra che il re avesse avuto un anno, un intero tempo, per cambiare condotta ed evitare la rovina. Ma è una falsa percezione. In realtà, neanche la presenza di profeti veri riesce a salvare gli imperi dal loro declino, perché quando i sogni tremendi arrivano dentro le notti dei re, il declino è già iniziato da tempo, il punto di non-ritorno è stato già superato. -La profezia è autentico dono non perché rivela il futuro, ma perché svela ciò che è già presente sebbene i protagonisti non ne abbiano ancora coscienza. Quel pensiero della passeggiata era già padrone del cuore del re, aveva già occupato tutta la sua vita, molte volte in molti tempi. I profeti non vengono ascoltati dalle loro comunità perché svelano ciò che le comunità sono già diventate, e non vogliono saperlo. Il profeta vede "in sogno" i segni della metamorfosi prima che essa si compia: e così vede già bestie dove tutti gli altri vedono ancora uomini e donne. E nessuno li prende sul serio.
Poi arriva il giorno in cui la metamorfosi si attua davvero e tutti vedono, dentro e fuori la comunità, che si è diventati davvero bestie. Lì, qualche volta, ci accorgiamo che eravamo usciti da molto tempo dal consorzio umano, che ci comportavamo già da lupi mannari e licantropi, e senza saperlo abbiamo divorato molte prede mentre costruivamo il nostro successo infinito. Il tempo della bestia è sempre un tempo tremendo. È un tempo lungo: sette tempi. Ci sentiamo circondati da fiere e ci sentiamo animali anche noi: abbiamo paura, proviamo molta rabbia e un infinito rimorso. Vorremmo scappare, ma dobbiamo restare, perché la sola cosa saggia che possiamo fare è attendere la fine dei "sette tempi". Chiediamo agli alberi di insegnarci la loro mansuetudine, alla terra la sua humilitas, diventiamo mendicanti di umanità verso piante, sassi, stelle, e con Giobbe impariamo il linguaggio dei vermi. E finalmente capiamo i Salmi, iniziamo a pregare dopo aver detto tante preghiere. Ci parlano Geremia e Osea, il canto del servo di YHWH diventa il nostro unico canto. È il tempo del dolore immenso, dell’umiliazione. Si può anche morire, alcuni muoiono davvero. Ma si può anche decidere di continuare a vivere: qualcuno ci riesce, qualche volta anche la comunità.
La Bibbia ci dona infatti una grande buona novella: anche i sette tempi della bestia possono essere un tempo di salvezza: «Ma finito quel tempo io, Nabucodònosor, alzai gli occhi al cielo e la ragione tornò in me e benedissi l’Altissimo» (4,32). Al termine dei sette tempi, il re-bestia alza di nuovo gli occhi. È nel libro di Daniele dove la Bibbia iniziò ad un usare la parola "cielo" come sinonimo di Dio.
La seconda metamorfosi sta tutta in quel grugno che ritorna volto mentre si torce in cerca di stelle.
Kafka*
Il primo numero monografico è dedicato a Kafka (Kafka, la scrittura della destituzione?) ed è disponibile a questo indirizzo.
VEDI: Gianluca Miglino, Nella tana della metafora assoluta. Poetologia e storia nell’ultimo Kafka.
Il sogno di Kafka?
Le guide di viaggio low cost
Voleva diventare milionario scrivendo manuali turistici era alto, di bell’aspetto, gentile e divertentissimo
di Giorgio Fontana (La Stampa, Tuttolibri, 15.10.2016)
A pochi scrittori è stato riservato un destino di stereotipo simile a quello di Kafka. Il suo nome evoca sconforto, autodistruzione e cupezza: di lui si pensa che fu unicamente un individuo infelice, oscuro in vita, e schiavo del potere paterno; e l’aggettivo che ne deriva, kafkiano, è usato altrettanto a sproposito.
Per correggere questa rappresentazione, Reiner Stach - il maggior biografo dello scrittore ceco - ha raccolto «99 reperti» che illuminano gli aspetti curiosi, ma non per questo meno caratterizzanti, della vita di Kafka: regalandoci così un testo molto ben documentato, specie per quanto riguarda l’apparato iconografico, e a tratti veramente spassoso.
Albert Camus scrisse che l’opera di Kafka obbliga il lettore a rileggere. E «l’ardente desiderio di umane spiegazioni che i suoi testi vanno di continuo suscitando si riversò, per così dire, anche sulla sua esistenza privata e sull’ambiente culturale, politico e sociale che lo circondava», annota Stach. Fino a produrre appunto «un’immagine stereotipata, che riduce Kafka a una sorta di essere alieno: [...] un uomo inquietante che suscita cose inquietanti»: mortificando così non solo la sua prosa, ma anche lo scrittore stesso. Che invece fu un uomo alto, di bell’aspetto e - per quanto certamente tormentato - gentilissimo e dotato di grande vis comica.
Attraverso le numerose prove documentarie, Stach si propone dunque di «scuotere il monopolio» di un’immagine parziale con delle immagini di segno opposto: i suoi reperti “ci mostrano lo scrittore in contesti insoliti, sotto una luce insolita, e permettono di percepire tonalità registrate di rado”. Così il saggista aggiunge un salutare punto interrogativo al preconcetto. Aderendo ad esso, molti lettori pensano di sapere benissimo che «questo è Kafka»; e invece qui tocca lasciare spazio allo stupore e domandarsi - è davvero questo Kafka?
Lo è, decisamente. Certo, alcuni reperti sono abbastanza noti: il suo grande interesse per la lingua ebraica, o i testamenti che disponevano quali suoi scritti salvare e quali invece distruggere (testamenti che furono traditi da Max Brod, peraltro dopo averli pubblicati postumi). Ma altri fatti sono davvero sorprendenti: uno su tutti, il rapporto di Kafka con la medicina. Diffidente nei confronti delle terapie tradizionali, lo scrittore si affidava a vaghi principi naturalistici - vivere «secondo natura» e senza stress - anche per malattie come la sua tubercolosi. (Arrivò persino a rifiutare i vaccini prescritti per legge). Poco nota è anche l’idea commerciale elaborata da Kafka e Brod nel 1911, quando studiarono un nuovo modello di guida turistica chiamato «A buon mercato»: una sorta di manuale low-cost ante litteram. Il progetto non fu portato avanti, con grande disappunto di Kafka: secondo lui, avrebbe potuto farli diventare milionari.
Altri reperti ancora sono piccole, deliziose curiosità: l’unica lettera in nostro possesso che gli inviò un lettore; i ricordi della nipote Gerti; l’elenco degli errori geografici del romanzo America; i suoi flirt e le sue puntate nei bordelli; la canzone preferita dello scrittore (Addio piccola stradina di von Schlippenbach e Silcehr); i soldi persi con Brod giocando d’azzardo a Lucerna. È interessante anche apprendere che Kafka barò all’esame di maturità, collaborando con dei ragazzi per sottrarre al professore di greco i brani da tradurre alla prova. (Fra l’altro, il suo diploma fu assolutamente nella media).
Stach dissolve un ulteriore equivoco: certo Kafka non fu un autore di successo in vita, ma il suo nome «rispondeva a una delle talentuose promesse su cui, di tanto in tanto, si puntavano i riflettori della critica». Peraltro, l’unico riconoscimento letterario che vinse in vita accadde per procura: il premio Fontane 2015 fu assegnato a Carl Sternheim, ma solo a patto che egli ne devolvesse pubblicamente l’importo a Kafka. (Lui, com’è comprensibile, ne rimase molto ferito). Veniamo a sapere anche che Kafka - guardato con affetto e simpatia da chiunque - era profondamente odiato dal medico e scrittore Ernst Weiss a causa di una mancata recensione; e che a sua volta, caso più unico che raro, detestava la poetessa Else Lasker-Schüler.
Insomma, è davvero difficile scegliere l’aneddoto più affascinante in una collezione così varia. La descrizione della sua scrivania come se fosse un teatro, tratta dai diari? Il necrologio scritto da Milena Jesenská, che rende giustizia alla sua «coscienza tanto scrupolosa da rimanere vigile anche là dove gli altri, i sordi, già si sentivano al sicuro»? Il suo attacco incontrollabile di riso davanti al presidente dell’Istituto che gli aveva appena confermato una promozione? Ci provo: per me è la difficoltà di stabilire il colore dei suoi occhi. Per quattro conoscenti erano scuri, per altri quattro erano grigi, per tre erano azzurri e per altri tre invece castani. Il passaporto dello scrittore risolve la questione nel modo più graziosamente kafkiano possibile: indicando il loro colore come «grigio-azzurro scuro».
Un testo dello scrittore boemo in esclusiva per "Repubblica"
L’insostenibile bellezza del Processo di Kafka
di Milan Kundera (la Repubblica, 13.04.2013)
Si sono scritte un numero infinito di pagine su Franz Kafka, eppure è rimasto (forse proprio grazie a questo numero infinito di pagine) il meno compreso di tutti i grandi scrittori del secolo scorso.
Il processo, il suo romanzo più noto, cominciò a scriverlo nel 1914, esattamente dieci anni prima che uscisse il primo Manifesto dei Surrealisti, i quali non avevano la più pallida idea dell’immaginazione «sur-realista» di un Kafka, autore sconosciuto e i cui romanzi sarebbero stati pubblicati molto tempo dopo la sua morte.
È perciò del tutto comprensibile che questi romanzi che non assomigliavano a nulla siano apparsi estranei al calendario della storia letteraria, nascosti in un luogo che apparteneva soltanto al loro autore. Eppure, malgrado l’isolamento, le loro anticipazioni estetiche rappresentavano un evento che non poteva non influenzare (anche se a scoppio ritardato) la storia del romanzo. «È Kafka che mi ha fatto capire che un romanzo si poteva scrivere in un altro modo», mi ha detto una volta Gabriel García Márquez.
Kafka, come si può vedere chiaramente nel Processo, analizza i protagonisti dei suoi romanzi in maniera del tutto particolare: non dice una parola sull’aspetto fisico di K. né sulla sua vita prima dei fatti narrati nel romanzo; anche del suo nome ci permette di conoscerne soltanto una lettera. Invece, dal primo paragrafo alla fine del libro, si concentra sulla situazione del personaggio, sulla situazione della sua esistenza.
Il Processo esplora la situazione di colui che è accusato. All’inizio tale accusa si presenta in modo piuttosto divertente: un mattino due signori del tutto ordinari giungono a casa di K., che è ancora a letto, per informarlo, nel corso di una piacevole conversazione, che è accusato e che l’esame del suo caso andrà per le lunghe. La conversazione è tanto assurda quanto comica. Del resto, quando Kafka lesse per la prima volta questo capitolo ai suoi amici, tutti si misero a ridere.
Delitto e castigo? Ah no, queste due nozioni dostoevskijane non c’entrano assolutamente nulla. Ciononostante reggimenti di kafkologi le hanno considerate come i temi principali del Processo.
Max Brod, il fedele amico di Kafka, non ha il minimo dubbio che K. nasconda una grave colpa: secondo lui K. è colpevole di "Lieblosigkeit" (incapacità di amare); allo stesso modo Eduard Goldstücker, un altro celebre kafkologo, pensa che K. sia colpevole «perché ha lasciato che la sua vita si trasformasse in quella di una macchina, di un automa, di un alienato» e così facendo ha trasgredito «la legge alla quale tutta l’umanità deve sottomettersi e che recita: sii umano».
Ma ancora più frequente (e io direi ancora più stupida) è l’interpretazione contraria che, per così dire, orwelizza Kafka: secondo tale lettura K. è perseguitato dai criminali di un potere "totalitario" ante litteram, com’è il caso, ad esempio, del celebre adattamento cinematografico del romanzo realizzato nel 1962 da Orson Welles.
Ora, K. non è innocente né colpevole. Egli è un uomo colpevolizzato, cosa del tutto diversa. Sfoglio il dizionario: il verbo colpevolizzare è stato usato in Francia per la prima volta nel 1946 e il sostantivo colpevolizzazione ancora più tardi, nel 1968. La nascita tardiva di queste parole prova che non erano banali: ci facevano capire che ogni uomo (se posso io stesso giocare con i neologismi) è colpevolizzabile; che la colpevolizzabilità fa parte della condizione umana. La colpevolizzabilità è sempre fra noi, sia quando la nostra bontà teme di ferire i deboli, sia quando la nostra viltà ha paura di offendere quelli più forti di noi.
Kafka non ha mai formulato riflessioni astratte sui problemi della vita umana; non amava inventare teorie; atteggiarsi a filosofo; non assomigliava né a Sartre né a Camus; le sue osservazioni sulla vita si trasformavano immediatamente in fantasia; in poesia - la poesia della prosa.
Un giorno K. è invitato (da una voce anonima, per telefono) a presentarsi la domenica successiva in una casa di periferia per partecipare a una breve inchiesta che lo riguarda. Per non complicare e tanto meno prolungare il processo, decide di ottemperare all’invito. Dunque ci va. Sebbene non sia stato convocato a una ora precisa, si affretta. All’inizio vuole prendere un tramvai. Poi si rifiuta per non umiliarsi, grazie a una puntualità troppo docile, davanti ai suoi giudici. Tuttavia non desidera prolungare lo svolgimento del processo e perciò si mette a correre; sì, corre (nell’originale tedesco la parola "correre", "laufen" si ripete tre volte nello stesso paragrafo); corre perché vuole salvare la sua dignità e, allo stesso tempo, per non arrivare in ritardo a un appuntamento la cui ora resta sconosciuta.
Tale combinazione di gravità e leggerezza, di comicità e tristezza, di senso e non senso, accompagna tutto il romanzo fino all’esecuzione di K. e fa nascere una bellezza strana e incomparabile; mi piacerebbe definire questa bellezza, ma so che non ci riuscirò mai.
(traduzione di Massimo Rizzante)
«Kafka, il mio rebus tra le note» Silvia Colasanti: una sfida sonora rappresentare La metamorfosi
di Giuseppina Manin (Corriere della Sera, 01.05.2012)
Risvegliarsi un mattino e ritrovarsi trasformato in un enorme insetto immondo... Il celebre incubo di Kafka, incipit di uno dei racconti più emblematici del 900, metafora della repulsione per il «diverso». Da emarginare, occultare, spazzar via. Come accade al povero Gregor Samsa, protagonista di quella favola nerissima che è «La metamorfosi».
Silvia Colasanti: è anche il titolo della sua opera. Curioso e rischioso averla scelta per il suo esordio al Maggio...
«Amo le sfide. E l’idea di cimentarmi con quel mondo surreale, di tramutarlo a mia volta in qualcos’altro, mi ha subito tentata», confessa la compositrice trentasettenne romana.
Lei è anche il primo autore donna a cui l’Ente lirico fiorentino abbia mai commissionato un’opera...
«Paolo Arcà, il direttore artistico, che conosceva i miei lavori precedenti, mi ha chiesto di pensare a un soggetto in sintonia con il tema di quest’anno, la Mitteleuropa. L’apologo di Kafka, traboccante di tanti spunti così attuali, mi è parso perfetto. Poi ho avuto la fortuna di avere un artista come Pier’Alli a firmare libretto, regia, scene e costumi. Abbiamo lavorato fianco a fianco, in un fitto scambio di idee musicali e teatrali».
Il problema compositivo più arduo?
«Come rappresentare musicalmente il protagonista. Ibrido tra uomo e animale, la sua voce deve comprendere quei due mondi, evocare l’idea di una mostruosità e dar corpo a tante sonorità distorte. Un personaggio multiplo, polifonico».
Come comparirà in scena?
«Gregor avrà diverse incarnazioni, fisiche e sonore. Archi, fiati e percussioni, gli strumenti impegnati con l’Orchestra e il Coro del Maggio diretti da Marco Angius. A interpretarlo, un attore, un mimo, e soprattutto il coro».
Si vedrà la sua metamorfosi?
«Come nel racconto, anche qui apparirà già trasformato, ma visibile solo alla fine del primo atto... Insetto, ma per niente realistico. Lo stesso Kafka raccomandò al suo editore di non mettere in copertina nessun disegno esplicito. E poi le metamorfosi di questa storia sono tante...».
In che senso?
«Gregor cambia solo esteriormente. Dentro il guscio d’insetto la sua anima resta uguale. Sensibile e sofferente, pronta a risvegliarsi in tutta la sua umanità al suono di un violino. Quello che invece muta davvero è lo sguardo degli altri, persino dei suoi cari, su di lui. Se la sua è una trasformazione improvvisa e spettacolare, quella di chi lo circonda è progressiva e insidiosa. Alla fine i veri mostri sono loro».
L’umanità, avverte Kafka, spesso si nasconde dove meno appare. E il potere della bellezza, nel caso la musica, è di rendere visibile l’invisibile.
«La musica è un dono straordinario. Ascoltarla, eseguirla, comporla, è sempre un gran privilegio. Per me, la vera passione della mia vita».
Non deve esser stato facile affermarsi come compositrice. In Italia un mestiere arduo per chiunque. Figurarsi per una donna...
«Quando andavo al Conservatorio di Santa Cecilia ero l’unica allieva al corso di composizione... E ancora adesso mi pare sia così. Però non ho mai incontrato particolari difficoltà. Ho fatto i miei studi, mi sono perfezionata con maestri come Corghi, Vacchi, Rihm, Dusapin, ho partecipato a vari concorsi, molti li ho vinti, ho scritto brani sinfonici e opere per il teatro musicale... La mia femminilità non è mai stata un handicap. Forse siamo noi donne a crearci per prime delle remore».
In quanto tempo compone un’opera?
«Per “La metamorfosi” ci ho messo 9 mesi».
Il tempo di una gravidanza...
«Tempo reale, visto che l’ho composta proprio mentre ero incinta. L’opera l’ho terminata lo scorso dicembre, Antonio, mio figlio, è nato a gennaio. Una doppia gestazione, entrambe bellissime. La trasformazione del racconto l’ho vissuta anch’io, sul mio corpo, dentro di me. Ma fortunatamente in modo molto più lieto e sereno».
Philip Roth
"Perché mi affascina la magia di Kafka"
"Bisogna sempre partire dagli esseri umani. Se non c’è vita non è possibile creare della buona arte"
"Quando lo leggi cerchi continuamente di entrare nei segreti del suo mondo senza mai riuscirci"
In un libro giovanile ora tradotto in Italia lo scrittore americano spiega la sua singolare attrazione per la figura dell’autore della "Metamorfosi"
di Antonio Monda (la Repubblica, 16.05.2011)
NEW YORK Philip Roth aveva appena compiuto quaranta anni quando scrisse Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno, ovvero, guardando Kafka, uno dei suoi scritti più inventivi, sofferti e bizzarri, che uscirà per Einaudi (pagg. 40, euro 8, traduzione di Norman Gobetti)). In quel periodo scoprì una fotografia dello scrittore ceco scattata quando Kafka aveva la sua stessa età. L’immagine lo colpì profondamente, e decise di scriverne: «È il 1924, con ogni probabilità l’anno più dolce e pieno di speranza della sua vita adulta, e l’anno della sua morte». La foto comunica in primo luogo angoscia, e Roth riflette sulla tragedia che avrebbe sconvolto il mondo da lì a pochi anni, che Kafka evitò a causa della morte per tubercolosi: «C’è un tratto familiare ebraico nel naso, un naso lungo e leggermente appesantito in punta - il naso di metà dei ragazzi ebrei che erano miei amici alle superiori. Crani cesellati come questo furono spalati a migliaia dai forni; se fosse sopravvissuto, il suo sarebbe stato fra quelli, insieme ai crani delle tre sorelle minori. Ovviamente pensare a Franz Kafka ad Auschwitz non è più orribile che pensare a chiunque altro ad Auschwitz. Ma lui morì troppo presto per l’olocausto».
Questo senso di cupa ineluttabilità e della relazione tra un dramma personale ed una tragedia universale è l’elemento principale di un testo strutturato in due sezioni: una riflessione su Kafka uomo e scrittore (la prima parte è il testo di una lezione all’Università della Pennsylvania) ed una folgorante invenzione letteraria, nella quale si immagina che Kafka si sia trasferito in America, divenga a sua volta docente, nonché amico della famiglia Roth, al punto che i genitori del futuro scrittore americano immaginano di presentargli Rodha, una zia nubile, perché convoli con lei a nozze.
Nel breve testo Roth è un bambino di nove anni che insieme agli amici ribattezza Kafka Dr. Kishka, termine yiddish per "intestino", a causa dell’alito pesante. Il giovane Roth è tuttavia affascinato da Kafka, al punto da imitarne lo strano accento e dai suoi racconti scopre cosa sta succedendo in Europa. «Ovviamente tutto questo è immaginario» racconta lo scrittore nel suo appartamento dell’Upper West Side «ma è assolutamente vera la crescente fascinazione che ho vissuto nei confronti di Kafka, al punto da voler visitare i luoghi in cui ha vissuto e conoscere alcuni parenti».
Che importanza ha avuto per lei Kafka come scrittore?
«L’ho sempre considerato un mago, come Beckett e Bellow: quando lo leggi cerchi di entrare nella sua scrittura e nel suo mondo per capirne i segreti, senza tuttavia riuscirvi. C’è qualcosa di magico, anzi di miracoloso nel suo universo letterario. Le prime cose che ho letto sono stati i racconti: La Metamorfosi e Nella Colonia Penale, poi il Processo, Il Castello, America, le lettere e quindi la biografia di Max Brody. Kafka mi affascina ancora di più come persona, con i suoi tormenti ed il suo particolarissimo punto di vista sul mondo. All’inizio degli anni settanta sono andato ogni primavera a Praga, dove ho conosciuto Milan Kundera ed altri scrittori oppressi dalla dittatura comunista. Rimasi molto colpito dalla loro disperazione e questo mi avvicinò ulteriormente a Kafka. Conobbi anche Vera Saudkova, una delle sue nipoti, che aveva perso il lavoro per questioni politiche. Mi raccontò della madre, e delle altre due sorelle di Kafka, morte ad Auschwitz. Lei era riuscita miracolosamente a sopravvivere perché il padre non era ebreo. In quel periodo cercai di capire l’uomo ancora prima dello scrittore: ricordo che mi mostrò le foto, e i suoi luoghi di lavoro. Feci lo stesso anni dopo, quando conobbi, a Londra, Marianne Steiner, un’altra nipote, figlia della sorella Wally.
E. L. Doctorow ha detto che Kafka non appartiene ad alcuna nazionalità, perché è universale.
«È certamente universale, perché in grado di parlare a chiunque. Era tedesco, ebreo e ceco. Sono elementi essenziali per comprendere la sua intimità e la sua grandezza. La sua lingua era il tedesco, ma quando scriveva in ceco la sua fidanzata Milena supervisionava la scrittura».
L’elemento ebraico dell’opera e della personalità di Kafka hanno avuto molto peso nel modo in cui lei racconta il suo rapporto con l’ebraismo?
«Non ho mai messo le due cose in relazione diretta, certo in Kafka l’elemento ebraico è determinante. Per quanto mi riguarda, è evidente che si tratta del tema centrale di tutto il mio lavoro».
Che importanza ha avuto nella sua vita l’insegnamento?
«Ho sempre amato insegnare. Ho iniziato a Chicago subito dopo il servizio militare, ed avevo appena ventiquattro anni. Poi ho insegnato all’Università della Pennsylvania per dodici anni. È stata la mia vera educazione letteraria: dovevo studiare gli autori che insegnavo, per essere in grado di discutere con gli studenti».
Quali erano gli autori che prediligeva insegnare?
«Scrittori europei: tra gli italiani Ignazio Silone, Primo Levi e Carlo Levi. Tra i francesi Colette, Genet, Celine e Mauriac».
Ha avuto a sua volta buoni maestri?
«Ho studiato al Bucknell College, in Pennsylvania: non era una grande scuola, ma nel mio dipartimento c’erano degli ottimi professori, e ho capito quanto possa essere determinante una buona educazione. Ricordo in particolare le lezioni su Beowulf e Virginia Woolf».
Lei immagina che Kafka inviti la zia Rodha al cinema. Come mai?
«Perché era il modo per evadere dalla quotidianità, di sognare. Il luogo dove ci si poteva innamorare. Rodha è un personaggio inventato, ma avevo una zia che le assomigliava molto, che rimase nubile tutta la vita».
Kafka incoraggia la zia Rodha a recitare nelle Tre Sorelle di Cechov.
«È una idea che mi è venuta da una lettera di Kafka, nel quale cita Cechov, con evidente ammirazione».
Nella sua storia immaginaria in America, Kafka rimane un uomo alienato dalla società che lo circonda.
«Altrimenti avrei tradito il vero Kafka. La mia storia cerca di riproporre alcune sue caratteristiche: le angosce, le incertezze, le fragilità di un uomo tormentato, ma anche alcune insospettate certezze».
Saul Bellow ha scritto che "nella storie della tradizione ebraica il mondo, e persino l’universo, ha un significato umano. L’immaginazione ebraica si è resa colpevole di "sovraumanizzare" ogni cosa".
«In questo sono diverso da lui: io temo che la vita ci porti troppo spesso a "sottoumanizzare". Credo in altre parole che si debba partire sempre dagli esseri umani».
La cosa più tragica è che il Kafka immaginario "Non lascia nemmeno libri: niente Processo, niente Castello, niente diari". Sembra che l’arte sia più importante della stessa vita.
«No, assolutamente no. Come scrittore, e soprattutto come appassionato di Kafka lamento la possibile assenza di grandissimi libri, ma la vita viene sempre prima. Altrimenti non sarebbe possibile fare buona arte».
Kafka. Lettere alla sorella
di Andrea Tarquini (la Repubblica, 30.01.2011)
Di tutta la famiglia, Ottla era la persona più importante per l’autore de "La metamorfosi". Martire volontaria ad Auschwitz per non abbandonare dei bambini ebrei al loro destino, la più giovane dei fratelli era quella che Franz definisce "grande, matura, forte", quella che lo fa sentire "completamente diverso, rispetto a come sono davanti agli altri". Come testimonia un epistolario dello scrittore che ora sta per andare all’asta in Germania
La pensa in ogni suo viaggio, le scrive cartoline dalla Slesia, da Versailles, dal lago di Garda
Ottla fu la sorella più giovane, e la sua preferita. Per nessun’altra persona al mondo Franz Kafka provò tanto affetto e confidenza. Le scriveva da ogni suo viaggio, e chiudendosi come giovani complici nel bagno di casa, nel bel centro borghese di Praga, Franz e Ottla adolescenti e poi giovani passavano ore a scambiarsi confidenze. Un mondo di sentimenti, un altro volto dell’autore de Il processo e La metamorfosi, un mondo che ci viene tramandato da documenti straordinari. Sono centoundici lettere che Franz scrisse a Ottla per anni e anni, dall’inizio del secolo fino alla sua morte. Testimonianze eccezionali, tutte vergate da Franz con la stilografica. Gli eredi di Ottla conservarono per decenni quel carteggio, lo hanno fatto custodire a Oxford dalla Bodleian Library, e ora vogliono venderlo. In aprile andrà all’asta, e nessuna istituzione culturale europea sembra avere in tasca i soldi, da cinquecento a ottocentomila euro, per assicurarselo: con ogni probabilità, quel pezzo pregiato del patrimonio culturale del Vecchio continente finirà in mano a qualche ricco collezionista privato, lontano ore e ore di aereo da Praga o dalla Mitteleuropa. Contro questa ipotesi, per conservare l’accesso del pubblico mondiale al patrimonio dell’epistolario, i maggiori istituti di ricerca letteraria e archivi tedeschi hanno lanciato un appello per una grande colletta, in modo che l’asta sia vinta da un’istituzione pubblica.
Una storia affascinante ma triste, insomma: parlando di Kafka non potrebbe essere altrimenti. Per anni e anni, dalla più acerba gioventù fino alla morte nel 1924, Franz ebbe in Ottla la confidente preferita. Lui vedeva in lei, e glielo scrisse in tante lettere, il meglio dei temperamenti dei genitori: «Testardaggine e sensibilità, senso della giustizia, inquietudine, autoconsapevolezza della forza d’animo di noi Kafka». Lei, la più giovane, appariva sempre «grande, matura e forte» al fratello di nove anni più vecchio. Lui la adorava per la capacità di replicare con fermezza al padre, «a casa dove dimorano i giganti», la vedeva «senza detrimento per il mio affetto verso gli altri fratelli» come «di gran lunga la più cara».
Franz scriveva a Ottla da ogni dove, da Weimar, da Versailles o dal Lago di Garda. Lui morì nel 1924, Ottla finì deportata dai nazisti ad Auschwitz-Birkenau. Nel 1943, Ottla si trasferì prima nel campo di Theresienstadt e a ottobre si unì volontariamente a un convoglio di bambini diretto ad Auschwitz, dove morì. Dopo la disfatta hitleriana nel 1945, i discendenti di Ottla ritrovarono quelle lettere, nel caos postbellico di Praga. Decisero di non rinunciare alla memoria. Conservarono alla meglio, ma accumulate in disordine in un cassettone, quelle 45 lettere, 32 cartoline postali e 34 cartoline illustrate fitte di saluti affettuosi e racconti buttati giù a penna. Dopo la fine della guerra fredda, le spedirono a Oxford per farle custodire.
Pagine straordinarie, rivelatrici. Nelle righe scritte con amore nel suo tedesco raffinato e letterario, Franz rivela di sentirsi, nel rapporto con Ottla, «una persona completamente diversa, rispetto a come sono davanti agli altri». Scrive affettuoso delle sue emozioni nei viaggi. Da Kratzau, dove «nel ristorante dell’albergo "Al destriero" ho assaggiato un ottimo vitello con frutti di bosco, innaffiato da buon sidro, poi la cameriera si è seduta accanto a me, abbiamo parlato delle onde del mare e dell’amore, poi ci siamo separati, tristi». O dalla Slesia, da cui Franz inviò a Ottla una spiritosa cartolina-fumetto intitolata «vedute della mia vita quotidiana qui», con disegni ironici a illustrare notti insonni, tavolate, incontri con gente del posto. Sotto c’è scritto: «E tu come stai? Natale si avvicina e porta gioia, t’interrogherò su come avrai vissuto il prossimo Natale».
O ancora da Versailles, accennando a favole e sogni con appunti su una cartolina che illustra il giardino della reggia. O da Weimar, una cartolina che riproduce la casa di Goethe, con confessioni di tristezza. Angoscia e gioia, incertezze e sollievi, confessati alla sorella più amata in quelle centoundici lettere e cartoline. È una delle raccolte più ampie dei manoscritti privati di Kafka quella che i discendenti di Ottla hanno saputo salvare e difendere dall’usura del tempo e dalle insidie della storia. E che ora - patrimonio pubblico della memoria del continente e del mondo - rischia di cadere nelle mani di qualche ricco privato.
di Massimo Rizzante (la Repubblica, 30.01.2011)
Rileggendo le Lettere di Franz Kafka ai suoi amici, ai suoi genitori, alle sue donne, alla sorella Ottla, ci si rende conto di come la discrezione, il pudore e la volontà di restare dietro le quinte alimentino la tonalità maggiore dell’epistolario, cioè il suo stile pieno di humour, di sfumature malinconiche e bizzarre, di distacco carico di comprensione per gli elementi apparentemente più infimi delle cose. Nelle Lettere una solitudine inseparabile dalla costruzione dell’opera getta continuamente ponti levatoi verso la vita degli altri per poi, come nel caso di Felice e di Milena, le due donne con cui Kafka pensava di sposarsi, ritirarli. Ogni lettera sembra un tentativo di uscire dal castello dei propri fantasmi per partecipare alla guerra dei fantasmi altrui, per poi sottrarsi allo scontro decisivo.
Nelle Lettere troviamo spesso la metafora della guerra. A Max Brod, Kafka, già molto malato, scrive: «Sì, è credibile che la tubercolosi venga arginata, tutte le malattie finiscono con il venir arginate. Lo stesso avviene nelle guerre, ciascuna è portata a termine e nessuna finisce». Non si tratta di viltà o di disperazione. Che senso ha disperarsi se nessuna guerra, come nessuna malattia, finisce, ma può essere solo «portata a termine»? Lo stesso si potrebbe dire delle altre guerre che Kafka condusse nel corso della sua esistenza: la guerra con il padre, la guerra con il mondo femminile, la guerra con la letteratura... Tutte queste guerre l’autore de Il processo le arginò e le portò a termine grazie a un’ostinata strategia difensiva. Adorno affermò una volta che Kafka non predicava l’umiltà, bensì «l’astuzia». Kafka non era, come il suo grande amico Max Brod sosteneva, «un santo del nostro tempo». La sua modestia «soprannaturale» non gli ha impedito di frequentare i bordelli e di scoprire nella sua opera la sessualità, occultata per tutto il Diciannovesimo secolo, come parte integrante, perfino banale dell’esistenza. La sua umiltà era un’astuzia per disertare il mondo al fine di meglio esplorarlo.
Da qui si comprende la tonalità maggiore delle Lettere, quel suo distacco pieno di humour. Ma allo stesso tempo ci suggerisce la distanza che separa la biografia dall’opera: l’immaginario erotico che produce il coito tra K. e Frieda su un pavimento coperto di sporcizie e pozze di birra del Castello non traspare nelle lettere alle sue amate. Per entrare nell’opera, Kafka ha bisogno della sottrazione finale, di ritirarsi dalla guerra dei fantasmi altrui, di sollevare tutti i ponti levatoi che le Lettere hanno gettato. Nel racconto Una vecchia pagina, un calzolaio, che ha il suo laboratorio nella piazza dove si trova il palazzo dell’Imperatore, assiste all’arrivo di un popolo barbaro, dalla lingua incomprensibile, che depreda tutto. Egli guarda un macellaio che per salvarsi dai barbari porta nel suo negozio un bue vivo. E che cosa fa? «Mi ammucchiai addosso tutti i miei vestiti, le coperte e i guanciali pur di non sentire i muggiti di quel bue che i nomadi assalivano da ogni parte per strappargli coi denti brandelli di carne viva». Nell’Altro processo, Canetti, si domanda: «Si può dire davvero che il narratore si sottrasse all’intollerabile?». Il calzolaio, di fronte all’orrore, si stende al suolo e cerca di sparire, desidera farsi invisibile, diminuire il suo peso.
Nell’opera di Kafka, l’uomo si trasforma a volte in un piccolo animale che non riesce neppure a sollevarsi dal suolo. Kafka conosceva bene ciò che egli stesso ha definito una volta, in una lettera a Felice, «l’angoscia della posizione eretta», che è a fondamento di ogni potere dell’uomo sugli altri uomini. Non dobbiamo andare troppo fieri della nostra posizione eretta, scrive Kafka a Felice. Ma, per cercare di sottrarsi ai diktat di ogni potere, foss’anche quello dell’amata, e per vincere la sua guerra con la letteratura, Franz Kafka si è trasformato in qualcosa di ancora più insignificante, senza peso, in un insetto.
Franz Kafka. Impiegato fannullone? No, modello Genio e regolatezza. Una biografia ne documenta lo zelo in ufficio
Kundera lo definì "il segretario dell’invisibile" per la sua capacità di andare in profondità
"Di tutti gli scrittori", notò Elias Canetti, "è il massimo esperto sul potere"
Gregor Samsa ha paura che i suoi superiori lo giudichino un assenteista
"Il Castello" è una grande allegoria della burocrazia che lo scrittore ben conosceva
Era lecito sospettare che il romanziere trascurasse il suo lavoro in un Istituto per le
assicurazioni
Invece un nuovo libro mostra la stretta relazione tra gli scritti impiegatizi e lo straordinario mondo kafkiano
di Siegmund Ginzberg (la Repubblica, 2.1.2009)
Era lecito sospettare che l’impiegato Franz Kafka fosse un burocrate fannullone. Dove mai poteva trovare il tempo di immaginare tutto quello che ha immaginato, scrivere tutti quei racconti, tutti quei romanzi, tutti gli abbozzi e i rifacimenti, le cose che pubblicò, i manoscritti che affidò all’amico Max Brod chiedendogli di bruciarli, e le carte che stracciò lui stesso, e i diari, e le lettere alle fidanzate, se non nell’orario di ufficio? Se non imboscandosi dietro la scrivania, facendo finta di lavorare mentre pensava ad altro, la testa tra le nuvole? E invece no. Viene fuori che al contrario si portava l’ufficio in casa, travasava nei romanzi e nel resto il suo lavoro da impiegato, che faceva praticamente gli straordinari anche nel tempo libero. È la sorprendente scoperta di un libro fresco di stampa, Kafka: The office Writings (Princeton University Press, copyright 2009). I cui curatori, Stanley Corngold, Jack Greenberg e Benno Wagner, non si limitano a tradurre per la prima volta in inglese quello che Kafka scriveva in ufficio (le relazioni e la corrispondenza da impiegato dell’Istituto per le assicurazioni contro gli infortuni sul lavoro di Praga, i pareri legali, l’attività da speech writer per il suo capufficio), ma lo collegano direttamente, in modo meticoloso, perfino un po’ pedante, ai suoi scritti letterari. Nato nel 1883, laureatosi in legge all’Università tedesca di Praga, Kafka aveva brevemente lavorato per la triestina Assicurazioni Generali, prima di essere assunto dall’Istituto alle cui dipendenze rimase ininterrottamente dal 1908 al 1922 (non fece la Grande Guerra perché nel 1915 era stato esonerato dal servizio militare in quanto impegnato in attività di "interesse pubblico"), finché non lasciò l’incarico "per motivi di salute" (la tubercolosi che l’avrebbe ucciso un paio di anni dopo, nel 1924). L’Istituto, che aveva in organico circa duecento tra avvocati, matematici, ingegneri, medici, impiegati, dattilografi e personale di supporto si occupava di tutti gli aspetti dell’anti-infortunistica. Aveva iniziato come esperto nella minuziosa classificazione delle industrie e dei rischi connessi, e dei contributi dovuti dai datori di lavoro, era passato a dirigere la commissione di revisione dei ricorsi e si era affermato come alter ego dei massimi dirigenti, scrivendone le relazioni. Gran parte di questi "scritti d’ufficio" sono dedicati a respingere le istanze di datori di lavoro che chiedono di essere esentati dalle loro responsabilità o riduzioni dei contributi a loro carico. Ad esempio ha a che fare col ricorso di un proprietario di alberghi che rifiuta di pagare le quota di assicurazione per l’ascensore con l’argomento che il motore è all’esterno, quello di un proprietario di cave che vorrebbe assicurare i suoi operai come braccianti agricoli e quello dei fabbricanti di giocattoli che si lamentano degli oneri che rischiano di mettere la loro produzione "fuori mercato" rispetto alla concorrenza internazionale.
Negli articoli destinati alla stampa, scritti su ordine e con la forma dei superiori che gli avevano commissionato una difesa delle assicurazioni in crisi, Kafka riesce a destreggiarsi tra le critiche provenienti da tutte le parti, tra le pressioni dei datori di lavoro che tirano solo a risparmiare e quelle dei sindacati ai quali ricorda che distribuire piccoli risarcimenti e pensioni di invalidità a pioggia finisce per sottrarre risorse al risarcimento degli incidenti più gravi. È in questo campo che si forma come maestro dell’ambiguità, del dire e non dire. «Scritto un articolo sofistico? a favore e contro l’Istituto», la confessione di suo pugno in una delle lettere a Felice. A un certo punto si trova ad affrontare, in una nota al Ministero dell’Interno, il problema degli ispettori che danno quasi sempre ragione ai datori di lavoro, mentre il loro compito dovrebbe limitarsi all’analisi dei fatti. Lamenta che «dopo 25 anni di esistenza delle assicurazioni contro gli infortuni le agenzie non hanno il diritto di ispezionare i luoghi di lavoro che assicurano», e che le informazioni fornite dalle imprese «sono così difettose e inadeguate che non rappresentano affatto la realtà attuale e finiscono col determinare una distribuzione totalmente ingiustificata degli oneri». La conclusione, molto "kafkiana", è che non c’è rimedio, perché ogni volta che l’Istituto fa obiezioni, gli viene risposto che si tratta di "un caso eccezionale", quindi si ottiene "piena soluzione in principio", ma completamente "futile" in pratica, perché "tutti si dimenticano della normativa nel momento stesso in cui viene emanata". Si occupa anche di psichiatria quando gli viene dato l’incarico di istituire un ospedale per la riabilitazione dei soldati affetti da "shock da esplosioni". "Patriottismo" non è sacrificarsi per lo Stato, è occuparsi degli individui, la sua argomentazione. C’è anche un documento del 1909 in cui propone di estendere l’assicurazione obbligatoria alle automobili, definendo l’automobile privata come "impresa" e il guidatore come "proprietario". L’argomento, osservano i curatori nel commento, sarebbe sfociato nella pagina del romanzo Amerika dove le automobili diventano quasi persone ansiose di "raggiungere il più velocemente possibile i loro proprietari".
Una corposa sezione contiene le lettere che Kafka indirizzava ai suoi datori di lavoro. Tutte quelle dal 1910 al 1917 sono richieste di aumento dello stipendio: non generiche ma veri e propri saggi, dense fitte di statistiche sul diminuito potere d’acquisto e quelle che riteneva sperequazioni rispetto agli stipendi in altre branche della pubblica amministrazione. In particolare, nota la "palese disparità di trattamento" tra le sue competenze e quella di altri impiegati con meno esperienza, non giustificata "né dall’anzianità né dalle mansioni svolte". Anche in questo siamo tutti un po’ Kafka. Ma lui era anche ebreo, e già il fatto di essere stato assunto in un ruolo di dirigente nel pubblico impiego era all’epoca un’eccezione, se non un privilegio. Anche mio nonno Siegmund era avvocato, ma per esercitare aveva dovuto emigrare dalla Romania a Costantinopoli.
Il lavoro d’ufficio al Kafka scrittore andava evidentemente stretto. Ma al tempo stesso non ne avrebbe potuto fare a meno. Non passava giorno senza che avesse da scrivere qualcosa per l’ufficio. Ma al tempo stesso non c’è suo scritto in cui non ricompaiano, trasformati, gli stessi temi. Una simbiosi, si potrebbe dire. Nel 1913 scrive alla fidanzata Felice Bauer lamentandosi che «la scrittura e l’ufficio non si possono conciliare, dal momento che la scrittura ha il suo centro di gravità nella profondità, mentre l’ufficio si colloca nella superficie della vita. Così va su e giù e uno finisce con l’essere dilaniato nel processo». «L’inferno vero è qui in ufficio, nient’altro può crearmi terrore», aveva calcato. All’altra fidanzata, Milena, aveva descritto il suo ufficio come «non stupido, ma fantastico (phantastisch, che evoca insieme spettrale e fantastico)».
Il Castello, il suo romanzo incompiuto, è stato da alcuni interpretato come allegoria religiosa. Ma altri vi hanno visto un’allegoria della burocrazia. Parla di un aspirante impiegato, l’agrimensore K. che non sa bene se è stato davvero assunto, ed è incerto su quali mansioni debba effettivamente svolgere. Gli vengono affiancati due "assistenti" di cui non vengono mai spiegate le funzioni. Mentre cerca continuamente chiarimenti da un management completamente al di fuori della sua portata, gli viene assegnato un supervisore inaccessibile quanto il castello in cui è asserragliato. Nella Colonia penale è il burocrate capo a finire spellato vivo, nella soddisfazione generale, dalla sua macchina.
L’ufficio è ben presente anche nel più noto dei racconti di Kafka, uno dei pochi da lui pubblicato, la Metamorfosi. Gregor Samsa è un impiegato, ossessionato dal non essere giudicato dai suoi superiori alla stregua di fannullone, assenteista, quanto dalla sua improvvisa trasformazione in insetto. «Suonarono alla porta di casa. "È qualcuno dell’ufficio" si disse Gregor, e si sentì quasi agghiacciare mentre le sue zampine ballavano ancora più velocemente. A Gregor bastò intendere la prima parola di saluto del visitatore per capire subito chi fosse? Perché mai Gregor era condannato a lavorare in una ditta presso la quale la più piccola trascuratezza provocava il maggiore sospetto? Gli impiegati erano dunque tutti quanti dei mascalzoni? Non esisteva dunque tra di loro un uomo affezionato e fidato che, quando non aveva utilizzato un paio d’ore del mattino per il lavoro, diventava come pazzo dal rimorso e non era quindi in condizione di lasciare il letto?... "Non si sente bene", diceva la mamma, "non si sente bene, mi creda"? "Signor Samsa, che succede dunque? Lei si barrica nella sua stanza, risponde soltanto con sì e no, procura ai suoi genitori dei gravi e inutili pensieri e trascura - questo sia accennato soltanto di passaggio - i suoi doveri d’impiegato in maniera veramente inaudita?"».
«Ora - disse Gregor, ed era sicuro di essere l’unico che avesse mantenuto la calma - mi vestirò subito? lei vede bene che non sono testardo e fannullone? può capitare di essere temporaneamente incapaci di lavorare, ma proprio allora è il momento di ricordarsi del lavoro compiuto prima e di pensare che più tardi, superato l’ostacolo, certamente si lavorerà con maggiore entusiasmo e raccoglimento. Io sono già molto obbligato al principale, questo lei lo vede benissimo. D’altra parte ho da pensare ai miei genitori e a mia sorella?». La visita fiscale si è già conclusa, quello ha preso la fuga. Ma c’è tra i commentatori anche chi si è esercitato a scrivere la domanda con cui Gregor Samsa avrebbe anche potuto chiedere l’invalidità per infortunio professionale, anche se non sul lavoro.
Avrebbero magari avuto argomenti per negare la richiesta, come avviene in uno dei frammenti del racconto incompiuto raccolti da Max Brod sotto il titolo Durante la costruzione della muraglia cinese, quello intitolato La supplica respinta: tutti sanno che verrà respinta, perché questo è il compito istituzionale del funzionario che «quando gli arriva dinanzi una delegazione con qualche richiesta, egli si presenta come il muro del mondo». Ma per nulla al mondo rinuncerebbero al rito. C’è chi ha osservato che in quei tempi parlare della Grande muraglia era un modo diffuso per parlare della burocrazia asburgica. Io mi sono fatto l’idea che era un modo per parlare del mondo. Anche se fatto di frammenti scomposti è una miniera inesauribile. C’è persino la leggenda dell’imperatore che, in punto di morte, decide di rivolgersi al cittadino comune, «proprio a te, individuo, a te, misero suddito, ombra minuscola, rifugiatasi dal sole imperiale nella più remota lontananza», e manda un messaggero, "uomo robusto e instancabile", che ce la mette tutta ma "si affanna per nulla": «ancora si sforza di attraversare le stanze più interne del palazzo; non le potrà superare mai; e se vi riuscisse non sarebbe niente di guadagnato; dovrebbe lavorare di gomiti per scendere le scale; e se anche potesse farlo non ne avrebbe vantaggio; dovrebbe attraversare i cortili; e dopo i cortili il secondo palazzo che li contiene; e ancora scale e ancora cortili; e un altro palazzo; e così via nei millenni; e se infine uscisse di corsa dal portone estremo - ma non potrà avvenire mai, mai - si troverebbe dinanzi la città imperiale, l’ombelico del mondo, piena colma della sua feccia. Qui nessuno può passare? Tu invece, seduto davanti alla finestra, te lo sogni quando scende la sera». Ma come aveva fatto, Kafka, ad anticipare persino la televisione? O la concorrenza sleale, l’aleatorietà delle "decisioni d’affari" e le intercettazioni telefoniche (frammento intitolato Il vicino)?
«Di tutti gli scrittori, Kafka è il massimo esperto sul potere», notò Elias Canetti. "Segretario dell’invisibile", lo definì Milan Kundera. Dalla scrivania del suo ufficio riusciva a tirare fuori materiale sufficiente per parlare di tutto il mondo, di quello che è fuori e anche di quello, ancora più vasto e minaccioso che è nascosto in profondità dentro ognuno di noi. Rileggendolo con un occhio rivolto ai suoi scritti d’ufficio questi mondi si moltiplicano ulteriormente, si scoprono ancora altre galassie. Provare per crederci.