IL COMMENTO
L’anima perduta
nella monnezza di Napoli
di ROBERTO SAVIANO *
NIENTE è cambiato. Si è tentato - tardi, tardissimo - ma non si è risolto nulla. L’esercito, i volontari, la pazienza e le proteste. Ma tutto versa nello stesso stato di prima. O quasi. Il centro e le piazze vengono salvati, si cerca di non farli soffocare dai sacchetti. E nella scelta dei luoghi in cui raccoglierli emerge la differenza fra le zone e le città. Zone dove conviene pulire per evitare che turisti e telecamere arrivino facilmente, strade dove vivono professionisti e assessori. E invece altre dove la spazzatura può continuare ad accumularsi. Tanto lì la monnezza non va in prima pagina. I paesi divengono discariche di fatto. Tutta la provincia è un’ininterrotta distesa di sacchetti. E la rabbia aumenta. Spazzatura ai lati delle strade, o che si gonfia in collinette multicolori fuori dai portoni, dove sono apparse scritte come "non depositare qui sennò non si riesce più a bussare". Niente è cambiato se non l’attenzione. Dalla prima pagina alle cronache locali.
Lentamente tutto questo rischia di divenire abituale, ordinario: la solita monnezza, parte del folklore napoletano, quotidiana come lo scippo, il lungomare e la nostalgia per Maradona. E invece qui è tragedia. Spazzatura ovunque, discariche satolle, gonfie, marce. Camion stracolmi, in fila. Proteste. E poi dibattiti, indagini, dimissioni, e colpevoli, ecologisti, camorristi, politici, esperti. Maggioranze e opposizioni e cadute di governo. Ma la monnezza resiste a tutto. E continua ad aumentare. La spostano dal centro alla periferia, la spediscono fuori città, qualcosa fuori regione. Però non basta mai, perché quella si riforma, si accumula di nuovo. Tutti pronti a parlare, in un’orchestra che emette suoni talmente confusi da divenire indecifrabili come il silenzio.
Certo risulta difficile credere che se Roma, Firenze, Milano o Venezia si fossero trovate in una situazione simile avrebbero continuato a far marcire i sacchetti nelle loro piazze, a tenersi strade bordate di pannolini e bucce di banana, a lasciar invadere l’aria dall’odore putrescente degli scarti di pesce. Difficile immaginare che in una di queste città la notte girino camion che gettano calce sopra ai cumuli per evitare che le infezioni dilaghino e soprattutto che vengano incendiati.
Il rinascimento napoletano finisce così, coperto di calce. Si sbandierava la rivincita della cultura, ma sotto il tappeto delle mostre, dei convegni e delle parole illuminate le contraddizioni erano pronte a esplodere. Non c’erano solo stuoli di progetti culturali e promozionali per il turismo. Negli ultimi cinque anni sono spuntati in un’area di meno di 15 km enormi centri commerciali. Prima il più grande del Sud Italia nel casertano, poi il più grande di tutt’Italia, poi il più grande d’Europa e da poco uno tra i più grandi al mondo: un’area complessiva di 200.000 mq, con 80 negozi di brand nazionali e internazionali, un ipermercato, 25 ristoranti e bar, una multisala cinematografica con 11 schermi e 2500 posti a sedere.
Ultimo arrivato, a Nola, il Vulcano Buono progettato da Renzo Piano che ha tratto spunto dall’icona napoletana per antonomasia: il Vesuvio. Una collina artificiale, un’escrescenza del suolo che segue le uniche e sinuose forme del vulcano. Alta 40 metri e con un diametro di oltre 170, un complesso di 150 mila metri quadri coperti e 450 mila in tutto. Si costruiscono centri commerciali come unico modo di far girare soldi. Quali soldi? Le stime dell’Istat segnalano che la Campania cresce meno del resto d’Italia. La regione è mortificata nei settori dell’agricoltura e dell’industria e incapace di compiere il salto di qualità nel comparto dei servizi.
E per quanto riguarda il valore aggiunto pro capite, se la media nazionale s’attesta a 21.806 euro per abitante, al Sud non supera quota 14.528. Keynes diceva che quando l’accumulazione di capitale di un paese diventa il sottoprodotto delle attività di un casinò, è probabile che le cose non vadano bene. Riguardo il nostro paese bisognerebbe sostituire al termine casinò la parola centro commerciale. Così rimangono, tra queste cattedrali di luci e cemento, gli interrogativi di sempre. Perché a Napoli c’è tutta questa spazzatura? Come è possibile quando cose del genere non accadono a Città del Messico e nemmeno a Calcutta o a Giakarta? È incomprensibile. Bisogna quindi essere didascalici. Perché le discariche napoletane sono piene? Semplice. Sono state usate male, malissimo. Sversandoci dentro di tutto, senza controllo.
Chi gestiva le discariche non rispettava i limiti, né le regole riguardo alle tipologie. Somiglianti più a buche fatte male che a strutture per lo sversamento, le discariche si riempivano di percolato divenendo laghi ricolmi di un frullato di schifezze, fogne a cielo a aperto. E così si sono riempite presto, e non solo di rifiuti urbani. Scavare crateri enormi, portare giù il camion e poi, uscito il conducente, saldare le porte del tir e sotterrare: era un classico. Un modo per non toccare i rifiuti nemmeno con un dito. Il tutto dava un guadagno talmente alto da poter sacrificare, intombandoli, interi tir. A Pianura, racconta la gente, c’è persino una carcassa di balena, e a Parete pacchi e pacchi di vecchie lire.
Ma perché i cittadini si ribellano alla riapertura delle discariche? Perché sembrano così folli da preferire i sacchetti che da circa due mesi hanno davanti a casa? Perché temono che insieme a quelli che dovrebbero essere solo rifiuti solidi urbani invece arrivino anche i veleni. Eppure ricevono le massime garanzie che la loro situazione non peggiorerà. Ma da chi le ricevono? Da coloro di cui non si fidano più. Da coloro che hanno sempre appaltato lo smaltimento a ditte colluse, a uomini imposti dai clan di camorra. E chi deciderà quindi davvero la sorte dei rifiuti? Come sempre i clan.
A loro non ci si può ribellare. Ma siccome allo Stato invece sì, spesso contando su una buona dose di pazienza dei reparti antisommossa, si fa ostruzione alle sue decisioni perché non accada poi che si inneschino i consueti accordi. Si preferisce rinunciare persino agli aiuti economici destinati a chi vive nei pressi della discarica, piuttosto che correre il rischio di finire marci di cancro per qualche sostanza intombata di nascosto. Certo, tra i manifestanti ci sono anche i ragazzotti dei clan pagati 100 euro al giorno per far chiasso, bloccare strade, saper lanciare porfido e caricare. Ma loro rendono soltanto esasperate paure che invece sobbollono in tutti. E le rendono isteriche perché più spazzatura ci sarà, meno controlli ci saranno per le ditte pagate per raccoglierla e più l’uso dei macchinari in mano ai clan sarà abbondante.
E più le discariche saranno bloccate, meglio si potranno infiltrare camion colmi di rifiuti speciali da nascondere mentre quelli bloccati fuori fanno da copertura. E i consorzi e la politica? I consorzi che gestivano i rifiuti lo facevano per conto di imprenditori e boss, mentre la responsabilità della politica locale e nazionale stava nella solita logica di non affidare posti a chi aveva competenze tecniche, bensì ai soliti personaggi con il solo requisito di essere in quota ai partiti. Quanti posti di lavoro distribuiti in periodi preelettorali, in strutture dove la raccolta dei rifiuti o la differenziata rappresentavano puramente un alibi. Perché non si è fatto nulla? Perché l’emergenza fa arrivare soldi a tutti. E quindi di emergenza si vive.
Finita l’emergenza, finiti i soldi. Bisognava forse ribellarsi anche nei giorni in cui i clan prendevano terre. E il termovalorizzatore di Acerra su cui tanto si discute, che per anni non è stato costruito e ora lentamente sta per realizzarsi? Quel genere di impianto non è dannoso, dichiarano gli oncologi, al centro di Vienna uno simile è persino divenuto un palazzo prestigioso. Certo. Ma in un territorio dove l’indice di mortalità per cancro svetta al 38.4%, chi rassicura la gente che negli impianti verrà bruciato solo quel che si deve? Quale politica saprà mantenere la promessa di massimo controllo in una terra che è stata definita la Cernobyl d’Italia? Il centrosinistra ha creduto di essere immune dalle infiltrazioni camorristiche perché la questione camorra riguardava l’altra parte. Ma non era così. Le porte dei circoli della sinistra si sono aperte ai clan mai come in questi ultimi anni.
E il crimine è stato percepito come un male naturale, fisiologico. La politica ha continuato a presentarsi sempre più come qualcosa di indistinto con l’affare e il crimine. Destra e sinistra uguali, basta mangiare. Il qualunquismo italiano forse non è mai stato così sostenuto dall’esperienza. E oggi occupano, bloccano, non collaborano perché non si fidano più di nessuno. Non c’è altro da dire e da fare. Togliere, togliere la monnezza subito. Non si può più aspettare. Togliere e poi capire chi ha ridotto così questa terra e accorgersi che i meccanismi che qui hanno portato allo scempio totale sono gli stessi che governano in modo meno mostruosamente suicida l’intero paese. In questi giorni mi è venuta in mente una scena di un racconto di Salamov, forse il più grande narratore dell’aberrazione del potere totalitario. Quando i soldati sovietici misero in isolamento alcuni prigionieri del gulag, tutti invalidi tranne Salamov, pretesero che consegnassero le loro protesi: busti, dentiere, occhi di vetro, gambe di legno.
A Salamov che non ne aveva, il soldato, scherzando, chiese: "E tu che ci consegni? L’anima?". "No, l’anima non ve la do" rispose. Prese una punizione durissima per aver difeso qualcosa che fino ad allora credeva inesistente. Questo è il momento di capire se ancora abbiamo un’anima, e non farcela togliere come una gamba di legno. Non consegnarla. Prima che non ci restino che protesi.
© 2008 by Roberto Saviano. Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency
* la Repubblica, 4 febbraio 2008.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Da Gorbaciov a Tutu le prime firme a favore dello scrittore campano
Un appello allo Stato affinché intervenga per proteggerlo dalle minacce
I premi Nobel al fianco di Saviano
"La sua libertà riguarda tutti noi"
di PAOLA COPPOLA *
ROMA - I Nobel si mobilitano per Roberto Saviano. Lanciano un appello per chiedere allo Stato di intervenire, di proteggerlo dalle minacce di morte dei Casalesi e sconfiggere la camorra. Chiedono di garantire "la libertà nella sicurezza" all’autore del bestseller "Gomorra", che vive da clandestino, sotto scorta. Il caso Saviano è "un problema di democrazia", scrivono. Ma è, anche, "un problema di tutti noi".
Per questo motivo sono già sei i primi nomi autorevoli - Dario Fo, lo scrittore tedesco Günter Grass e il turco Orhan Pamuk, Nobel per la letteratura; Mikhail Gorbaciov e l’arcivescovo sudafricano Desmond Tutu, Nobel per la pace; Rita Levi Montalcini, Nobel per la medicina - che sono intervenuti in difesa dello scrittore con un testo che sta già avendo altre adesioni e che, a partire da oggi, è possibile firmare sul sito di Repubblica, che darà voce alla mobilitazione in favore dello scrittore.
Dopo la pubblicazione di "Gomorra", Saviano è nel mirino della camorra. Ha subito pesanti minacce, le ultime pochi giorni fa, quando informative e dichiarazioni di collaboratori di giustizia hanno rivelato l’esistenza di un piano per ucciderlo da parte del clan dei Casalesi. Dal 13 ottobre del 2006 vive sotto scorta. Sempre a Repubblica alcuni giorni fa lo scrittore ha confessato il desiderio di poter tornare a una vita normale. "Andrò via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà" ha confessato. "Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale". L’intervista ha suscitato numerose prese di posizione, il presidente della Repubblica Napolitano e il premier Berlusconi hanno scritto a Repubblica per sostenere lo scrittore e assicurare il sostegno dello Stato, in tutta Italia sono scattate manifestazioni di solidarietà.
Saviano sta scontando il successo del suo bestseller che, a gennaio 2008, aveva venduto solo in Italia più di un milione e 200mila copie, è stato tradotto in 43 paesi, ha ottenuto diversi riconoscimenti e ispirato l’omonimo film del regista Matteo Garrone, candidato all’Oscar. Nell’appello dei Nobel si legge: "È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo paese". Saviano, dunque, è "un giovane scrittore, colpevole di avere indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere", continua il testo.
Così i Nobel spendono la loro autorevolezza per chiedere allo Stato "di fare ogni sforzo per proteggerlo e sconfiggere la camorra". Ricordano che non si può liquidare il "caso Saviano" solamente come un problema di polizia, perché "è un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini", scrivono. "Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008".
L’appello dei premi Nobel
"Lottiamo per Saviano" *
Roberto Saviano è minacciato di morte dalla camorra, per aver denunciato le sue azioni criminali in un libro - Gomorra - tradotto e letto in tutto il mondo.
È minacciata la sua libertà, la sua autonomia di scrittore, la possibilità di incontrare la sua famiglia, di avere una vita sociale, di prendere parte alla vita pubblica, di muoversi nel suo Paese.
Un giovane scrittore, colpevole di aver indagato il crimine organizzato svelando le sue tecniche e la sua struttura, è costretto a una vita clandestina, nascosta, mentre i capi della camorra dal carcere continuano a inviare messaggi di morte, intimandogli di non scrivere sul suo giornale, Repubblica, e di tacere.
Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. È un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini.
Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
DARIO FO
MIKHAIL GORBACIOV
GUNTHER GRASS
RITA LEVI MONTALCINI
ORHAN PAMUK
DESMOND TUTU
* la Repubblica, 20 ottobre 2008
Firma per Roberto Saviano ( clicca qui di seguito -> sul rosso
Lo Stato deve fare ogni sforzo per proteggerlo e per sconfiggere la camorra. Ma il caso Saviano non è soltanto un problema di polizia. E’ un problema di democrazia. La libertà nella sicurezza di Saviano riguarda noi tutti, come cittadini. Con questa firma vogliamo farcene carico, impegnando noi stessi mentre chiamiamo lo Stato alla sua responsabilità, perché è intollerabile che tutto questo possa accadere in Europa e nel 2008.
"Io, prigioniero di Gomorra lascio l’Italia per riavere una vita"
di Giuseppe D’Avanzo (la Repubblica, 15 ottobre 2008)
ANDRO’ via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà...", dice Roberto Saviano. "Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido - oltre che indecente - rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. ’Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l’odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri - oggi qui, domani lontano duecento chilometri - spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".
La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d’animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un’imprevedibile popolarità, dall’odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall’invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia - e non il dolore - accresce la vita di un uomo. "Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all’anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E’ come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell’attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell’energia sociale che - come un’esplosione, come un sisma - ha imposto all’agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E’ la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono.... I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E’ una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?".
Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E’ poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l’autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l’esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile. E’ poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l’ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l’inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.
Lo sento addosso come un cattivo odore l’odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l’onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell’infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell’esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell’infame ha scritto il libro. E quest’argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l’intera comunità può liberarsi della malattia che l’affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell’inciviltà e dell’impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E’ il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l’informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano - ne ammazzarono cinque - finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro - soltanto un libro - potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L’ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli - come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre - avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo - lo so - ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest’ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe’, tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là"".
A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano - quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie - sono sempre di più un affare della democrazia italiana.
La sua vita disarmata - o armata soltanto di parole - è caduta in un’area d’indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.
Lo scrittore chiude il Festival di Mantova
con una denuncia su crimine e informazione
La camorra a mezzo stampa
e Saviano sfida i legali dei boss
di FRANCESCO ERBANI *
MANTOVA - "Ognuno di voi lettori fa paura". Fa paura ai poteri camorristi che lui racconta. La voce di Roberto Saviano scende sul silenzio della platea del Teatro Sociale di Mantova, pieno fino all’ultimo posto. "Oggi sono 695 giorni che vivo sotto scorta. 11.120 ore. Non prendo treni, non salgo in macchina. Ho il sogno di una casa. Ma a Napoli l’ho cercata in via Luca Giordano, via Solimena, via Cimarosa. Niente. A Posillipo hanno chiesto un appartamento per me i carabinieri. Avevano risposto sì. Quando hanno visto che ero io, hanno detto: l’abbiamo affittata un’ora fa".
Gli accessi del teatro sono controllati, agenti in borghese camminano fra le poltrone, quattro di loro stazionano sul palco. In platea - dice Saviano - anche gli avvocati dei boss che in aula lessero una lettera di minacce allo scrittore, al giudice Raffaele Cantone e a Rosaria Capacchione, giornalista del Mattino.
Le parole di Saviano raccontano la camorra a mezzo stampa, disegnano lo spazio stretto di una narrazione alla quale è impedito il movimento libero e che è costretta a esprimersi in uno stato di limitazione che è l’antitesi del narrare e in fin dei conti della letteratura. Ed è a questo valore simbolico che si sono richiamati gli organizzatori del Festival mantovano chiedendo allo scrittore campano di chiudere la dodicesima edizione. Saviano è arrivato a Mantova con la sua scorta, "la mia falange", lasciando fino all’ultimo in sospeso gli organizzatori che hanno potuto comunicare la sua presenza solo venerdì mattina. Ottocento i biglietti venduti, svaniti nel giro di un’ora. Fuori al teatro si assiepa una folla silenziosa e ordinata.
Saviano, camicia bianca e jeans, racconta come certa stampa locale si sia fatta megafono della camorra, con i suoi titoli e le allusioni, Pochi giorni dopo l’omicidio di don Peppe Diana, Il Corriere di Caserta titola "Don Peppe Diana era un camorrista": sono le parole di un boss, compaiono fra virgolette, ma per il giornale hanno un crisma di verità. Quando viene arrestato, l’assassino del sacerdote, De Falco, viene definito "boss playboy" e segue un pezzo sulle doti amatorie di altri camorristi. Quando è sequestrato il piccolo Tommaso Onofri, il giornale Cronache di Napoli titola: "Tommaso, il dolore dei boss". Qualche giorno dopo viene trovato il corpo di Tommaso. Titolo su Cronache di Napoli: "Tommaso è morto: l’ira dei padrini".
Quando viene catturato un cugino di Francesco Schiavone, il titolo suona: "Cicciariello arrestato con l’amante". Il boss Prestieri viene dipinto come appassionato d’arte. Si racconta la passione di capoclan per la poesia e la narrativa. Un killer vince un premio letterario.
Un altro titolo: "Sandokan a Berlusconi: i pentiti sono contro di noi". "Ma noi chi?", si chiede Saviano. E prova a rispondere. "Io sono un imprenditore, dice di sé Sandokan, e mi rivolgo al numero uno degli imprenditori, perché i pentiti non sono altro che concorrenti sleali".
Le parole dette e scritte, rilanciate dai titoli. I ragazzi di Casal di Principe che recitano, come una cantilena: "Gomorra è pieno di favole, sono solo favole". Dalla carta stampata alla tv. Sullo schermo parte un video. La sorella di uno Schiavone, in un programma Mediaset, senza apparire fa sentire la sua voce a proposito di Saviano: "Ma cosa gli abbiamo fatto noi di Casale, gli abbiamo violentato la fidanzata?". Lo scrittore alza il viso dallo schermo: "Chi di voi dopo queste parole può dire che non è successo niente? Questa notte pensate se qualcuno viene da voi e dice queste parole, domandatevi se la vostra vita d’improvviso non diventa un pericolo per chi vi sta vicino".
Gli avvocati dei boss che in aula hanno letto la lettera dei boss "sono qui in platea", dice Saviano. "Sono contento che vengano tutte le volte che parlo in pubblico. I vostri assistiti fateli venire direttamente, o pensate che io abbia paura? Ce lo diciamo sempre io e i miei ragazzi: noi non facciamo paura perché non abbiamo paura. È la letteratura che li terrorizza. Sono i lettori che fanno paura". La gente applaude in piedi, a lungo. Saviano si siede, le mani sul viso.
Il festival si chiude con un bilancio a tinte rosee. Cinquantasettemila biglietti staccati. Ventitremila presenze agli appuntamenti gratuiti. Totale: ottantamila sono le persone che hanno frequentato da mercoledì pomeriggio a ieri i 225 incontri della dodicesima edizione del Festivaletteratura, un dieci per cento in più rispetto alla precedente. Eppure non sono le quantità gli elementi che più soddisfano gli organizzatori.
Mantova consolida la sua formula, in qualche modo la intensifica. Ieri mattina Gillo Dorfles, presentando il suo Horror pleni e parlando del conformismo, ha detto che esiste un conformismo positivo, molto minoritario, e un conformismo negativo, di gran lunga maggioritario. "Il Festivaletteratura è una forma di conformismo positivo", ha detto l’anziano studioso di estetica, architettura e design. È molto simile a sé stesso ogni anno che passa, sempre più orientato a raccogliere pubblici diversi, ad allargare i confini dell’idea di letteratura e correttamente inserito in un contesto urbano che attribuisce molto senso ai racconti, alle riflessioni e ai dibattiti. La sua formula, autori che raccontano e si raccontano, viene ripetuta.
Jonathan Safran Foer, una delle poche star di questa edizione (insieme a Daniel Pennac, Hans Magnus Enzensberger, Carlos Fuentes e Scott Turow), ha animato un incontro molto frizzante con Gad Lerner, che si è chiuso con la lettura, commossa, dell’ultima pagina di Molto forte, incredibilmente vicino da parte di Lella Costa.
Il giovanissimo scrittore americano si è messo all’estremità di una tastiera che poi ha fatto suonare le note di Ezio Raimondi, il quale ha raccontato come la lettura sia il modo migliore per incontrare l’altro; o di Boris Pahor, che ha narrato la storia di un sopravvissuto dalla Necropoli (questo il titolo del suo libro) dei campi di sterminio; passando per Paolo Giordano, Diego De Silva e Valeria Parrella, che ieri hanno messo a confronto le loro idee di Napoli, emerse anche nell’incontro che Marco Rossi-Doria, il maestro di strada, ha avuto con Eraldo Affinati. Letteratura e narrazioni sono state il perno dell’incontro di Alberto Arbasino, autore di L’ingegnere in blu, un ritratto di Carlo Emilio Gadda. Poi la letteratura ha lasciato il posto alla matematica, alla filosofia, all’architettura e alle performances - i comizi, ad esempio, lettura di testi del passato per la voce di scrittori contemporanei.
Il Festival si è radicato nella città e lascia un sedimento che dura tutto l’anno: il libro scelto per una serie di letture di qui alla prossima edizione è Amore e ginnastica di Edmondo De Amicis. Il testimone passa alla tredicesima edizione.
* la Repubblica, 8 settembre 2008
La spazzatura di Napoli e quella del governo
di EUGENIO SCALFARI *
NAPOLI restituita all’Occidente è uno slogan enfatico che Berlusconi ha usato per celebrare lo sgombero dei rifiuti dopo 56 giorni dall’inizio dell’operazione. Un po’ enfatico ma tuttavia adatto alla circostanza. Erano infatti sette od otto anni che il problema dei rifiuti, con alti e bassi, affliggeva la città e la provincia. I responsabili sono molti: il governo di centrodestra 2001-2006, il governo Prodi 2006-2008, il sindaco Russo Jervolino, il presidente della Regione Bassolino, la società Impregilo, alcuni dei commissari che si sono succeduti, Pecoraro Scanio ministro dell’Ambiente. E soprattutto la camorra.
Ma il culmine del disastro è avvenuto nel biennio prodiano e il centrosinistra ne porta la responsabilità. Berlusconi da quel grande comunicatore che è l’ha capito al volo, ci ha impostato la campagna elettorale e poi i primi atti del suo governo. Dopo due mesi ha risolto il problema. Non era poi così difficile ma segna la linea di confine tra chi privilegia il fare sul mediare, tra chi ha carisma e chi non ce l’ha.
Dopodiché Berlusconi resta quello che è, un venditore al quale il successo ha dato alla testa, un egocentrico, un populista, un demagogo. Ma se non gli riconosciamo i pochi meriti che ha e soprattutto i demeriti dei suoi avversari su questo specifico tema diventa difficile criticarlo come merita di esserlo e con la durezza che la situazione richiede.
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Quanto a tutto il resto, dare consigli al nostro presidente del Consiglio su come dovrebbe governare è tempo perso: lui, come scrisse Montanelli quando lasciò la direzione del "Giornale", si ritiene un incrocio tra Churchill e De Gaulle. Dare consigli a Tremonti è addirittura patetico: il pro-dittatore della nostra economia pensa e dice che Berlusconi gli è spesso d’impaccio.
Tra i due s’è aperta negli ultimi tempi una gara di megalomania di dimensioni patologiche che dovrebbe seriamente preoccupare i loro collaboratori, i loro alleati e soprattutto i cittadini da loro sgovernati. Personalmente credo che la cosa più utile sia quella di filmare, fotografare, raccontare alcuni passaggi significativi dei due "statisti" con l’intento di risvegliare la pubblica opinione; tentativo che ha già avuto qualche successo se è vero che i più recenti sondaggi registrano un calo di dieci punti nei consensi del capo del governo tra giugno e luglio.
Per quanto riguarda il pro-dittatore dell’economia non si hanno ancora dati ma il mugugno cresce e si diffonde. La polizia di Stato scende in piazza, famiglie e lavoratori sono sempre più incattiviti, tra gli imprenditori grandi e piccoli preoccupazione e malcontento si tagliano a fette, i leghisti scalpitano, Regioni e Comuni sono sul piede di guerra. Non è propriamente un bel clima e molti segnali dicono che peggiorerà.
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La fotografia più tragica di Berlusconi (tragica per il Paese da lui rappresentato) ci è arrivata dal G8 di Tokyo. Terminate le riunioni di quell’ormai inutile convegno di impotenti, il nostro "premier" ha dato pubblicamente le pagelle agli altri sette protagonisti come fanno i giornali sportivi dopo le partite di Coppa e di Campionato. Con i voti e le motivazioni. Il nostro ha dato le pagelle sul serio. Poi, con appena un pizzico di ironia, l’ha data anche a se stesso concludendo che il migliore era lui.
Tre giorni dopo, parlando ai parlamentari del suo partito, ha ricordato che quello di Tokyo era il terzo G8 cui partecipava e saranno quattro l’anno prossimo. "Non merito un applauso?" ha detto ai suoi deputati. Naturalmente l’ha avuto.
Come si fa a giudicare un uomo così, che arriva al punto di tirare in ballo Maria Goretti quando parla della Carfagna? Che ha immobilizzato la politica per sfuggire ad un suo processo? Che per bloccare il prezzo del petrolio propone una riunione dei paesi consumatori per determinarne il livello massimo? Che accusa di disfattismo tutti quelli sono pessimisti sull’andamento dell’economia internazionale e italiana? E il pessimismo di Tremonti allora? Non è il suo superministro dell’economia? Siamo nel più esilarante e tragico farnetico.
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Di Giulio Tremonti, tanto per cominciare, voglio ricordare tre recentissimi passaggi. Il primo riguarda i condoni da lui effettuati durante la legislatura 2001-2006. Qualche giorno fa la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha condannato l’Italia per il condono sull’Iva del 2002 e per il condono "tombale" del 2004. La motivazione è durissima: "Richiedendo il pagamento di un’imposta assai modesto rispetto a quello effettivamente dovuto, la misura in questione ha consentito ai soggetti interessati di sottrarsi agli obblighi ad essi incombenti.
Ciò rimette in discussone la responsabilità che grava su ogni Stato membro di garantire l’esatta riscossione dell’imposta. Per questa ragione la Corte dichiara che la Repubblica italiana è venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi degli articoli..." eccetera eccetera. Stupefacente il commento di Tremonti con una nota ufficiale del suo ministero: "Messaggio ricevuto. Per il futuro c’è un esplicito impegno del governo ad evitare nuovi condoni".
Bene. I lettori ricorderanno che in tutto quel quinquennio la politica economica di Tremonti fece dei condoni lo strumento principale insieme ad altri trucchi della cosiddetta finanza creativa. La ragione di questa bizzarra e bislacca strategia fu quella di invogliare i contribuenti disonesti a patteggiare su una base minimale che procurasse tuttavia entrate capaci di far cassa fino al mutamento congiunturale che Tremonti dava per imminente.
Ma poiché quel mutamento tardava, l’evasione aumentava e il debito pubblico anche, il risultato fu che nel 2006 Tremonti consegnò a Padoa-Schioppa un’economia a crescita zero, un deficit del 4,6 del Pil, l’Italia sotto inchiesta europea per infrazione degli accordi di stabilità e l’avanzo primario tra spese e entrate annullato. Spettò a Padoa-Schioppa e a Visco di raddrizzare quella catastrofe, cosa che riuscirono a fare in meno di un biennio senza imporre alcuna nuova tassa né aumentare alcuna aliquota ed anzi abbassando di 5 punti le imposte sulle imprese e sul lavoro. Messaggio ricevuto, dice oggi Tremonti. Il quale ovviamente sapeva di violare con i suoi condoni le regole della Comunità europea e di fare contemporaneamente un enorme favore agli evasori.
Secondo passaggio. Tremonti ha presentato lo sgravio dell’Ici indicando una copertura di 2.600 miliardi. Successive analisi della Commissione bilancio e del servizio studi del Senato hanno accertato che il costo di quella misura era di un miliardo e mezzo in più. Un ministro-statista del calibro di Tremonti non dovrebbe presentare provvedimenti scoperti per oltre un terzo. Adesso comunque la copertura è saltata fuori. Da dove non è chiaro. Perciò domando: da dove? Mi si dice: nelle pieghe del bilancio c’è sempre qualche riserva. Qualche tesoretto? O che cosa?
Terzo passaggio. Polizia e Carabinieri stanno facendo il diavolo a quattro per i tagli al ministero dell’Interno e della Difesa. Hanno ragione. Anche Berlusconi, anche Maroni, anche La Russa stanno strepitando. Ed ecco la brillante idea: ci sono caserme e immobili del demanio da vendere. Vendiamole e col ricavato diamo un po’ di soldi alla Polizia e ai Carabinieri. In realtà quando si vende un bene del demanio, cioè del patrimonio dello Stato, il ricavato dovrebbe andare a diminuzione del debito pubblico.
Non è così, onorevole ministro? Non a spese correnti, tanto più che i ricavi di una vendita sono "una tantum" e allora? Tre passaggi, tre fotogrammi, un personaggio. Un po’ bugiardino. Con poca coerenza e molta "volagerie" negli atti e nelle opinioni. A lui sono affidati i nostri destini economici, mi viene la pelle d’oca al solo pensiero.
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Tralascerei il capitolo che i giornali hanno intitolato: "Brunetta e i fannulloni". Se non per dire che gran parte delle regole sulle visite fiscali e le sanzioni contro gli assenteisti risalgono al 1998. Non furono applicate perché per effettuare seriamente i controlli previsti ci voleva (e ci vorrà) un apparato organizzativo più costoso dei vantaggi di efficienza da conseguire.
Brunetta però ha ragione: lo sconcio dell’assenteismo e ancor più del doppio lavoro dovrebbe esser represso. Ma la faccia feroce serve a poco. Ci vuole un approccio appropriato. Per esempio la responsabilità dei dirigenti. Basterebbe controllarli da vicino e stabilire per loro premi o sanzioni sulla base dei risultati. Quanto all’idea di azzerare i premi esistenti incorporati negli stipendi, tutto si può fare salvo schierare un ministro contro al categoria da lui amministrata. Si finisce con lo sbatterci il muso e farsi male.
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Scusatemi se torno su Tremonti ma il personaggio merita attenzione. Dice che quella che stiamo attraversando è la crisi internazionale più grave dal 1929 e forse peggio di allora. Dice che fu il solo ad averlo capito fin dal giugno 2007. Veramente in quegli stessi giorni lo scrisse anche Stiglitz, premio Nobel per l’economia, lo scrisse anche Nouriel Roubini, docente alla New York University e, assai più modestamente, anche il sottoscritto.
Comunque Tremonti capì e me ne rallegrai a suo tempo con lui. Ma visto che aveva capito, sapeva fin da allora che soldi da buttar via non ci sarebbero stati. Perciò avrebbe dovuto fermare la mano di Berlusconi quando promise in campagna elettorale l’abolizione dell’Ici e l’effettuò nel suo primo Consiglio dei ministri. Avrebbe risparmiato 4 miliardi di euro, un vero tesoretto da destinare alla detassazione dei salari. Invece non l’ha fatto.
Quattro miliardi buttati al vento. Non va bene, onorevole Tremonti. So che lei ha in mente di utilizzare la Cassa depositi e prestiti, il risparmio postale e le Fondazioni bancarie per finanziare le infrastrutture. E’ un progetto ardito, soprattutto ardito usare il risparmio postale.
Comunque, di quali infrastrutture si parla? Quelle disegnate col gesso da Berlusconi nel 2001 sulla lavagna di Vespa e rimaste al palo? Vorremmo un elenco, le priorità, il rendimento e l’ammontare delle risorse. Si tratta comunque di progetti ad almeno tre anni. Nel frattempo dovranno intervenire le banche. Sempre le banche. Per Alitalia, per le infrastrutture, per gli "swap", per i mutui immobiliari. Intanto i tassi salgono, gli oneri per il Tesoro aumentano, la pressione fiscale non diminuirà. La sua Finanziaria è piena di buchi e dove non ci sono buchi ci sono errori di strategia. Lei ha gratificato D’Alema con l’appellativo di statista.
D’Alema se lo merita immagino l’avrà ringraziata. Ma non s’illuda con questo di averne fatto un suo "supporter". D’Alema è amabile ma molto mobile, cambia spesso scenario. E poi, se lei ha bisogno dell’opposizione per discutere di federalismo fiscale, non le basterà D’Alema. Ci vorrà tutto il Partito democratico, ci vorranno le Regioni e Comuni, ci vorranno le parti sociali. Non credo che il vostro federalismo diventerà legge in nove minuti e mezzo.
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Giorni fa ho rivisto dopo cinquant’anni sulla tv "La7" il film "Accattone" di Pier Paolo Pasolini che fu presentato a Venezia suscitando allora vivaci discussioni. E’ un film di un’attualità sorprendente e sconcertante. Racconta di un "magnaccia" che ne fa di tutti i colori fino al punto di rubare la catenina d’oro dal collo di suo figlio, un bambinetto di quattro anni, per sedurre una ragazza e poi avviarla sulla strada della prostituzione.
Il tutto sullo sfondo delle baraccopoli della Roma degli anni Cinquanta, una desolazione e un degrado senza limiti tornato oggi di tremenda attualità, campi nomadi e povertà straniera e nostrana.
Il ministro Maroni dovrebbe vederlo quel film, ne trarrebbe grande profitto. Fa bene a preoccuparsi dei bambini "rom", che rappresentano tuttavia una goccia nel mare delle violenze contro bambini e donne all’interno delle famiglie. Delle famiglie italiane, quelle degradate ma anche quelle apparentemente non degradate.
Comunque, prendere impronte a bambini è violenza. Magari a fin di bene ma sempre violenza. Uno stupro dell’innocenza. Maroni l’ha promesso ai suoi elettori ma questo non lo assolve perché uno stupro è pur sempre uno stupro. Stuprare l’innocenza d’un bambino è un fatto gravissimo. Questo sì, è un tema che vale una piazza, cento piazze, mille piazze.
* la Repubblica, 20 luglio 2008
Il silenzio della società civile
di Giuseppe Galasso *
Nel western americano c’è sempre il momento della verità in cui l’eroe buono (lo sceriffo o altri) risolve il problema, per lo più assicurando i cattivi alla giustizia e agli stessi cattivi un processo giusto. Quasi sempre, però, l’eroe buono ha intorno a sé la "società civile", che si mobilita spontaneamente, ingaggiando l’eroe per quella lotta, o è mobilitata da lui stesso, che così vince. Sono in molti a rilevare, a Napoli e altrove, che nella incredibile vicenda dei rifiuti nel capoluogo e in Campania questa mobilitazione dei buoni non si è vista.
È verissimo che buona parte della società civile locale è stata saldamente legata al carro del sistema di governo e di potere qui dominante da anni; ma la questione dei rifiuti è di quelle più idonee a rompere qualsiasi malfondata aggregazione politicosociale.
E allora? La società civile non è una nozione astratta. È ciò che nel linguaggio politico corrente si intende, senza scomodare Hegel, Marx o altri, per la "gente" in opposizione al " palazzo", pensando in particolare ai ceti che più operano nel vivo della vita sociale, dentro e fuori delle istituzioni, con le proprie professionalità, culture, capacità gestionali e innovative, nel proprio interesse, come è naturale, ma comprendendo e facendosi un problema anche degli interessi generali. Il legame tra questa società civile e il potere può, tuttavia, far sì che gli interessi generali siano l’ultima delle preoccupazioni, e, quando questo accade, non si abbassa solo il polso della vita morale, poichéne deriva una danno materiale e immediato a tutta la vita sociale, a cominciare dalle sue più immediate e concrete esigenze (e tra l’altrosi rompe pure il legame tra società civile e società comune che è una delle ragioni di maggiore forza della società civile quando è forte).
Accade questo in Campania? Le cose stanno andando in modo da confermare una tale impressione. Eppure, una certa reazione della società civile c’è stata e c’è in varie sedi politiche e non (lo si è visto pure nelle vicende del nascente partito democratico; nella costituzione di parte civile da parte numerosi sindaci nel processo per gli appalti del servizio di eliminazione dei rifiuti per il quale si attende la sentenza del Gip; in varii commenti giornalistici e non). Tratto significativo: la società civile che appariva preziosa e fu decisiva per i trionfi politici degli ultimi anni, adesso, se si muove in senso contrario, non è più buona, agisce inconsultamente,non capisce (nessuno capisce) che i problemi sono " complicati".
Non è questa l’ultima prova dell’arroganza e insensibilità politica dei responsabili (di ogni parte politica) di questo dramma dei rifiuti: non un gesto eloquente, non un’ammissione clamorosa di propria colpa almeno di omissione. Ma proprio per questo ci si attenderebbe un diverso moto di opinione di quella società civile da cui abbiamo preso le mosse. Ci saranno certo, a loro tempo, le elezioni.
Ma intanto Sagunto cade, anzi brucia. E si è a tanto da dover dare ragione e solidarietà anchea chi brucia le montagne dei rifiuti. Può la borghesia di ogni qualificazione, possono le classi medie, spina dorsale della società anche in Campania, limitarsi a cullare in seno le future vendette elettorali? Non lo crediamo, e qualcosa dev’essere fatto o tentato.Fra tante incertezze questo è sicuro.
* ILSOLE24ORE, 03.01.2008