LA PAROLA RUBATA
Una lettera aperta all’ ITALIA (e un omaggio agli intellettuali: Gregory Bateson, Paul Watzlawick, Jacques Lacan, Elvio Fachinelli)
di Federico La Sala (www.ildialogo.org/appelli, 24.02.2004)
L’ITALIA GIA’ DA TEMPO IN-TRAPPOLA-TA.................e noi - alla deriva - continuiamo a ’dormire’ , alla grande! "IO STO MENTENDO": UNA LETTERA APERTA SULL’USO E ABUSO ISTITUZIONALE DELL’ "ANTINOMIA DEL MENTITORE".
Cara ITALIA
MI AUGURO CHE LE GIUNGA DA LONTANO IL MIO URLO: ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA, ITALIA! IL NOME ITALIA E’ STATO IN-GABBIA-TO NEL NOME DI UN SOLO PARTITO....E I CITTADINI E LE CITTADINE D’ITALIA ANCHE!!!
NON E’ LECITO CHE UN PARTITO FACCIA PROPRIO IL NOME DELLA CASA DI TUTTI I CITTADINI E DI TUTTE LE CITTADINE! FERMI IL GIOCO! APRA LA DISCUSSIONE SU QUESTO NODO ALLA GOLA DELLA NOSTRA VITA POLITICA E CULTURALE! NE VA DELLA NOSTRA STESSA IDENTITA’ E DIGNITA’ DI UOMINI E DONNE D’ITALIA!
Cosa sta succedendo in Italia? Cosa è successo all’Italia? Niente, non è successo niente?! Semplicemente, il nome Italia è stato ingabbiato dentro il nome di un solo PARTITO e noi, cittadini e cittadine d’ITALIA, siamo diventati tutti e tutte cret... ini e cret..ine. Epimenide il cretese dice: "Tutti i cretesi mentono". E, tutti i cretini e tutte le cretine di ’Creta’, sono caduti e cadute nella trappola del Mentitore.... e, imbambolati e imbambolate come sono, si divertono persino. Di chi la responsabilità maggiore?! Di noi stessi - tutti e tutte!
Le macchine da guerra mediatica funzionano a pieno regime. Altro che follia!: è logica di devastazione e presa del potere. La regola di funzionamento è l’antinomia politico-istituzionale del mentitore ("io mento"). Per posizione oggettiva e formale, non tanto e solo per coscienza personale, chi sta agendo attualmente da Presidente del Consiglio della nostra Repubblica non può non agire che così: dire e contraddire nello stesso tempo, confondere tutte le ’carte’ e ’giocare’ a tutti i livelli contemporaneamente da presidente della repubblica di (Forza) Italia e da presidente del consiglio di (Forza) Italia, sì da confondere tutto e tutti e tutte... e assicurare a se stesso consenso e potere incontrastato. Se è vero - come ha detto qualcuno - che "considerare la politica come un’impresa pubblicitaria [trad.: un’impresa privata che mira a conquistare e occupare tutta l’opinione pubblica, fls] è un problema che riguarda tutto l’Occidente" (U. Eco), noi, in quanto cittadini e cittadine d’Italia, abbiamo il problema del problema, all’ennesima potenza e all’o.d.g.! E, per questo e su questo, sarebbe bene, utile e urgentissimo, che chi ha gli strumenti politici e giuridici (oltre che intellettuali, per togliere l’uso e l’abuso politico-istituzionale dell’antinomia del mentitore) decidesse quanto prima ... e non quando non c’è (o non ci sarà) più nulla da fare. Se abbiamo sbagliato - tutti e tutte, corriamo ai ripari. Prima che sia troppo tardi!!!
ITALIA! La questione del NOME racchiude tutti i problemi: appropriazione indebita, conflitto di interessi, abuso e presa di potere... in crescendo! Sonnambuli, ir-responsabili e conniventi, tutti e tutte (sia come persone sia come Istituzioni), ci siamo fatti rubare la parola-chiave della nostra identità e della nostra casa, e il ladro e il mentitore ora le sta contemporaneamente e allegramente negando e devastando e così, giocati tutti e tutte, ci sta portando dove voleva e vuole ... non solo alla guerra ma anche alla morte culturale, civile, economico-sociale e istituzionale! Il presidente di Forza Italia non è ...Ulisse e noi non siamo ... Troiani. Non si può e non possiamo tollerare che il nome ITALIA sia di un solo partito... è la fine e la morte della stessa ITALIA!
La situazione politica ormai non è più riconducibile all’interno del ’gioco’ democratico e a un vivace e normale confronto fra i due poli, quello della maggioranza e quello della minoranza. Da tempo, purtroppo, siamo già fuori dall’orizzonte democratico! Il gioco è truccato! Cerchiamo di fermare il ’gioco’ e di ristabilire le regole della nostra Costituzione, della nostra Legge e della nostra Giustizia.
Ristabiliamo e rifondiamo le regole della democrazia. E siccome la cosa non riguarda solo l’Italia, ma tutto l’Occidente (e non solo), cerchiamo di non andare al macello e distruggerci a vicenda, ma di andare avanti .... e di venir fuori da questa devastante e catastrofica crisi.
Io, da semplice cittadino di una ’vecchia’ Italia, penso che la logica della democrazia sia incompatibile con quella dei figli di "dio" e "mammasantissima" che si credono nello stesso tempo "dio, papa, e re" (non si sottovaluti la cosa: la questione è epocale e radicale, antropologica, teologica e politica - e riguarda anche le religioni e la stessa Chiesa cattolica) si danno da fare per occupare e devastare le Istituzioni! Non si può tornare indietro e dobbiamo andare avanti.... laici, cattolici, destra, sinistra, cittadini e cittadine - tutti e tutte, uomini e donne di buona volontà.
Allora facciamo che il gioco venga fermato e ... e che si apra il più ampio e diffuso dibattito politico e culturale - si ridia fiducia e coraggio all’ITALIA, e a tutti gli Italiani e a tutte le Italiane. E restituiamo il nome e la dignità all’ITALIA: a noi stessi e a noi stesse - in Italia e nel mondo...... cittadini e cittadine della Repubblica democratica d’Italia.
Un semplice cittadino della nostra bella ITALIA!
Federico La Sala, (Martedì, 24 febbraio 2004)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
ATTENTATO ALLA COSTITUZIONE? GIA’ FATTO!!! Un appello al Presidente Napolitano
EMERGENZA EDUCATIVA: TRADIMENTO DEGLI INTELLETTUALI.
Politica
E adesso tutti dicono «meno male che Silvio c’è»
Strane maggioranze. Tra calcoli immediati e ipotesi per il futuro, Forza Italia torna al centro della scena
di Andrea Colombo (il manifesto, 10.07.2020)
In un Senato deserto il ministro della Giustizia risponde all’interrogazione di uno dei capigruppo della sua maggioranza. Faraone, Idv, chiede cosa il Guardasigilli intenda fare in merito alla registrazione in cui il magistrato Amedeo Franco, nel frattempo deceduto, parlava di «plotone d’esecuzione» per la sentenza contro Berlusconi, di cui lui stesso era stato relatore. Bonafede svicola.
Nella replica il capogruppo renziano apre alla commissione d’inchiesta parlamentare sul caso: «Eravamo contrari ma se il ministero rifiuta di fare chiarezza bisogna considerare l’inchiesta parlamentare». È un segnale, più preciso di come non si può.
Un altro segnale era arrivato 24 ore prima, quando nella commissione Giustizia di palazzo Madama era passata, con il voto della destra e di Iv, l’istituzione della «Giornata della memoria» per le vittime della giustizia. Una mazzata se si tiene conto che in questo modo le vittime della giustizia vengono equiparate a quelle della mafia o del terrorismo.
In mezzo c’era stata la bomba di Romano Prodi: «L’ingresso di Forza Italia in maggioranza non è certo un tabù». E su Berlusconi: «La vecchiaia porta saggezza». Il vecchio saggio ovviamente declina con una nota di Fi: «La disponibilità alla collaborazione istituzionale non ha in alcun modo il significato di un atteggiamento benevolo, oggi o in futuro, verso l’attuale maggioranza . Non vi è alcuna disponibilità a sostenere Conte». Capitolo chiuso? Certo che no. Prodi non è nato ieri e certo non si aspettava risposta diversa. L’importante era lanciare il segnale, come già aveva fatto lo stesso Conte e come ha fatto poi ieri, aggiungendosi al coro, il capogruppo del Pd Marcucci: «Le idee e i valori di una parte di Fi possono essere di grande utilità». E poi: «Prodi invita tutti gli europeisti a stare dalla stessa parte. Sono d’accordo».
Probabilmente, se si cerca un minimo comun denominatore nelle diverse motivazioni che giustificano questo tripudio di apprezzamenti per Berlusconi bisogna guardare alle ultime parole di Marcucci. Certo, a breve prevalgono calcoli di più corto respiro. La speranza di poter contare su una rete di salvataggio al Senato, dove i numeri sono quelli che sono. Il tentativo di allettare alcuni senatori azzurri per spingerli a cambiare campo e rinsaldare la maggioranza.
La necessità per Renzi di giocare nella maggioranza vantando una sponda con l’opposizione e anche la possibilità di conquistare la prossima settimana qualche presidenza di commissione in più grazie a quei rapporti. L’esigenza di Conte di tenersi ogni possibilità aperta incluse quelle più improbabili, come un divorzio tra Berlusconi e il resto della destra, nell’eventualità di un terremoto in autunno.
Però l’obiettivo di fondo è a più lungo raggio. Fino a settembre, salvo sempre possibili incidenti, non succederà niente. Nessuno vuole la crisi, neppure la destra che ha avuto col voto sulle missioni, due giorni fa, un’occasione d’oro per affibbiare una mazzata alla maggioranza dimostrando che senza l’opposizione non esisterebbe e ha evitato di coglierla non convocando in aula tutti i suoi senatori.
I giochi veri, e il conto alla rovescia per il governo, inizieranno dopo l’approvazione della nuova legge elettorale, proporzionale e con sbarramento abbassato quasi certamente al 3%. A quel punto, in un quadro politico tutto diverso, l’eventualità di una forza centrista staccata dalla destra e composta anche da Fi diventerà di massimo interesse per tutti. Soprattutto per chi potrà invocare la comune ispirazione europeista con quel nuovo centro.
Il caso italiano
Rischio autoritarismo: rappresentare non basta più, la democrazia sia più efficace
Rinforzare la democrazia
di Romano Prodi (Il Mulino, 08 gennaio 2018) *
Per molti anni, soprattutto dopo la caduta del muro di Berlino, ci siamo illusi che l’espansione della democrazia fosse irresistibile. Una speranza alimentata da numerosi rapporti di organismi internazionali dedicati a sottolineare come il numero delle nazioni che affidavano il proprio futuro alle sfide elettorali fosse in continuo aumento. La convinzione di un “fatale” progresso della democrazia veniva rafforzata dalla generale condivisione delle dottrine che sono sempre state i pilastri della democrazia stessa, cioè il liberalismo e il socialismo che, alternandosi al potere, avrebbero sempre garantito la sopravvivenza ed il rafforzamento del sistema democratico. Tanto era forte questa convinzione che divenne dottrina condivisa il diritto (o addirittura il dovere) di imporre il sistema democratico con ogni mezzo, incluse le armi.
La guerra in Iraq e in Libia, almeno a parole, si sono entrambe fondate sulla motivazione di abbattere un tiranno per proteggere, in nome della democrazia, i sacrosanti diritti dei cittadini in modo da arrivare, con la maggiore velocità possibile, a libere elezioni.
La realtà ci ha obbligato invece a conclusioni ben diverse. Le guerre “democratiche” hanno mostrato l’ambiguità delle loro motivazioni e si sono trasformate in tragedie senza fine, mentre le elezioni imposte dall’esterno, soprattutto nei Paesi africani, sono state sempre più spesso utilizzate per attribuire al vincitore un potere assoluto, quasi patrimoniale, sul Paese. Colui che è stato eletto democraticamente si trasforma in proprietario dei cittadini e dei loro beni e la tornata elettorale successiva viene trasformata in una lotta impari se non addirittura in una farsa perché il leader democratico si è nel frattempo trasformato in un dittatore. Guardiamoci quindi dal ritenere che il progresso democratico sia fatale e inevitabile perché la democrazia non si esaurisce nel giorno delle elezioni. Essa si regge non sulle sue regole astratte ma sul rispetto di queste regole e, crollata l’influenza delle ideologie che ne stavano alla base, sui comportamenti e sui risultati delle azioni dei governanti.
Non dobbiamo quindi sorprenderci se, a quasi trent’anni dalla caduta del muro di Berlino, ci troviamo invece in un mondo in cui il desiderio e la richiesta di autorità crescono a discapito del progresso della democrazia. Lo vediamo a tutte le latitudini: non solo in molti Paesi africani ma in Russia, in Cina, in Vietnam, nelle Filippine, in Turchia, in Egitto, in India, nei Paesi dell’Est Europeo e perfino in Giappone. Un desiderio di autorità che si estende alle democrazie più mature e che lievita perfino negli Stati Uniti pur essendo, in questo grande Paese democratico, temperato dagli infiniti pesi e contrappesi della società americana.
Tutti questi eventi ci hanno portato ad un punto di svolta: la democrazia sta cessando di essere il modello di riferimento della politica mondiale e non si esporta più.
Possiamo simbolicamente collocare il riconoscimento ufficiale di questa svolta nel XIX Congresso del Partito Comunista Cinese dello scorso ottobre. Il presidente Xi, forte dei suoi successi, ha indicato nel sistema cinese lo strumento più adatto per promuovere lo sviluppo ed il progresso non solo della Cina ma anche a livello globale. La proposta della via della seta intende sostituire nell’immaginazione popolare il piano Marshall come modello di riferimento per la crescita globale e, in particolare, dei Paesi in via di sviluppo.
Un compito facilitato dalle fratture fra i Paesi democratici e dalla moltiplicazione dei partiti politici all’interno di questi Paesi, evoluzioni che rendono sempre più complessa la formazione di governi democratici robusti e capaci di durare nel tempo. Il susseguirsi degli appuntamenti elettorali (locali, nazionali ed europei) e le analisi demoscopiche, che rendono di importanza vitale ogni pur piccolo appello alle urne, abbreviano l’orizzonte dei governi che, invece di affrontare i grandi problemi del futuro, si concentrano solo sulle decisioni idonee a vincere le sempre vicine elezioni.
A rendere più difficile e precaria la vita dei governi democratici si aggiunge la moltiplicazione dei partiti, figlia della maggiore complessità della società moderna e della crisi delle grandi ideologie del passato. Ci sono voluti sette mesi di trattative per formare un governo in Olanda e, dopo oltre tre mesi dalle elezioni, non vi è ancora alcun accordo per un governo tedesco.
Di fronte a tutti questi eventi il favore degli elettori si allontana sempre più da una democrazia che “rappresenta” e si sposta verso una democrazia che “consegna”, che opera cioè in modo efficace.
Se non vogliamo vedere crescere in modo irresistibile anche nei nostri Paesi il desiderio di autoritarismo dobbiamo rendere forte la nostra democrazia: è nostro dovere primario rinnovarla e irrobustirla per metterla in grado di “consegnare”.
Quest’obiettivo può essere raggiunto solo adottando sistemi elettorali sempre meno proporzionali e sempre più maggioritari.
Il sistema elettorale non è fatto per fotografare un Paese ma per renderne possibile il governo.
Di queste necessarie trasformazioni l’Italia se ne sarebbe dovuta rendere conto da gran tempo e invece le ha volute ignorare: speriamo che possa metterle in atto fin dall’inizio della prossima legislatura.
* Questo articolo è uscito su «Il Messaggero» del 7 gennaio 2018.
LA ’NAZIONALIZZAZIONE’ DEL MENTITORE
Il paradosso della Costituzione
Difesa oggi dagli antipartito, 70 anni fa nel mirino degli “apolitici” dell’Uomo Qualunque. Bobbio li definiva il “pantano in cui finirà per impaludarsi il rinnovamento democratico”
di Giovanni De Luna (La Stampa, 09.12.2016)
Il paradosso del referendum del 4 dicembre è questo: la Costituzione del 1948 è stata vittoriosamente difesa dalle forze politiche che ne hanno sempre criticato il carattere «comunista» (Berlusconi e la Lega) o denunciato la fissità «talmudica» (così Grillo, nel 2011 sul suo blog). Il paradosso è anche più evidente se lo si confronta con le polemiche che - tra il 1945 e il 1947 - accompagnarono il varo della Carta Costituzionale.
Allora, il passaggio dalla dittatura alla democrazia fu accolto con sospetto e diffidenza da una larga fetta dell’opinione pubblica, abituata da venti anni di fascismo a considerare la politica una pratica «inconcludente» e incline a guardare agli uomini dei partiti con la diJffidenza dovuta a chi svolgeva «non un’attività disinteressata al servizio della collettività e della nazione, cercando invece di procurare potere, ricchezza, privilegi a sé stesso, alla propria famiglia, fazione, clientela elettorale». Queste frasi - tratte da uno dei tanti rapporti dei carabinieri che allora funzionavano come oggi i sondaggi di opinione - fotografavano un diffuso sentimento «antipartito» che si tradusse negli impetuosi successi elettorali dell’Uomo Qualunque.
La nuova Repubblica
Anche tra le file del Partito d’Azione - al quale oggi viene attribuita la paternità della Costituzione - all’inizio la forma partito era vista con sospetto. La nuova Repubblica che nasceva dalla Resistenza avrebbe dovuto puntare direttamente sugli uomini (con un rinnovamento della classe dirigente) e sulle istituzioni (con un allargamento della partecipazione politica fondata sulle autonomie e sull’autogoverno). Lo scriveva un giovane Norberto Bobbio (non aveva ancora 40 anni): «Una responsabilità pubblica ciascuno può assumerla dentro o fuori dei partiti, secondo le sue capacità e le sue tendenze, e magari meglio fuori che dentro».
Ma proprio i suoi articoli di allora sul quotidiano Giustizia e Libertà ci consentono oggi di capire che intorno alla Costituzione la partita si giocò essenzialmente tra la politica e l’antipolitica, meglio - come si diceva a quel tempo - tra gli «apolitici» e gli uomini dei partiti. Il qualunquismo nascondeva dietro la maschera della «apoliticità» e dell’«indipendenza» una lotta senza quartiere ai partiti del Cln, giudicati come il lascito più significativo e più pericoloso della Resistenza. BJobbio lo diceva esplicitamente: «gli indipendenti [...] non sono né indipendenti, né apolitici. Sono politici, ecco tutto, di una politica che non è quella dei comitati di liberazione o del fronte della Resistenza».
«Vizi tradizionali» italiani
L’«apoliticismo» (per Bobbio «l’indifferenza o addirittura l’irrisione per ogni pubblica attività in nome dell’imperioso dovere di lavorare senza ambizioni né distrazioni per la famiglia, per i figli e soprattutto per sé») si traduceva in una critica alla «politica di partito» che, scriveva, «lusinga e quindi rafforza inveterate abitudini, vizi tradizionali del popolo italiano, incoraggia gli ignavi, fa insuperbire gli ottusi e gli inerti [...], offre infine a tutti gli apolitici un motivo per allearsi, facendo di una folla di isolati una massa organica, se non organizzata, di persone che la pensano allo stesso modo e hanno di fronte lo stesso nemico [...] generando di nuovo quel pantano in cui finirà per impaludarsi lo sforzo di rinnovamento democratico dello Stato italiano».
Per gli uomini della Resistenza il nemico era quindi diventato quella «sorta di alleanza dei senza partito», «scettica di quello scetticismo che è proprio delle classi medie italiane», alimentata «da un dissenso di gusti, un disaccordo di stati d’animo, uno scontro di umori, una gara di orgogli, dai quali null’altro può derivare che invelenimento di passioni, impacci all’azione ricostruttrice».
La Carta strumentalizzata
Sembra che Bobbio parli proprio di quell’estremismo di centro che caratterizza oggi una parte della società italiana e un movimento come quello di Grillo. Allora fu un passaggio decisivo per l’approdo a una sua convinta adesione alla «democrazia dei partiti», frutto di una riflessione approfondita su un «modello», quello inglese, che, partendo dai capisaldi fondamentali delle origini (la divisione dei tre poteri, la monarchia costituzionale e il governo parlamentare), era stato in grado di rinnovarsi, spostando progressivamente verso il basso, verso il corpo elettorale, rappresentato e diretto dai partiti, il baricentro del sistema politico.
Le cifre del referendum del 4 dicembre ci dicono come l’elettorato dei movimenti più tipicamente antipartito (Cinque Stelle e Lega) abbia votato massicciamente per il No (l’80%), affiancato da una ristretta fascia di elettori appartenenti al Pd (23%) o alle varie sigle accampate alla sua sinistra. Essere salvata da quelli che volevano affossarla, adesso come nel 1948: da questo duplice paradosso cronologico la Costituzione esce come schiantata, degradata a puro pretesto, con una torsione innaturale che la espone, in futuro, a ogni tipo di uso strumentale.
Il potere della verità
di Barbara Spinelli (la Repubblica, 22.06.2011)
MAN mano che si moltiplicano crisi e bancarotte degli Stati, crescono in Europa le rivolte degli indignati: in Grecia, Spagna, anche in Italia dove il tracollo è per ora solo temuto. I governi tendono a vedere il lato oscuro delle rivolte: il faticoso riconoscimento della realtà, la rabbia quasi cieca.
Ma la cecità spiega in piccola parte una ribellione che ha come bersaglio non solo i contenuti, ma le forme di comportamento (dunque l’etica) dei governi: l’abitudine a una vista sempre corta, abbarbicata al prossimo voto o sondaggio; la vocazione a nascondere conti squassati. A non dire la verità su immigrazione o deficit, ad accusare i giornali, le Banche centrali, l’Europa: tutti sospettati di spandere brutte notizie.
L’Italia in questo è all’avamposto. Da quando è tornato al governo, Berlusconi ripete lo stesso ritornello: lo squasso è nelle vostre teste disfattiste, noi ce la facciamo meglio di tanti paesi virtuosi. Lunedì ha detto d’un tratto, ai microfoni: «La crisi non è finita». Non ne aveva mai annunciato l’inizio. Come si spiega l’allarme dei mercati sulla nostra economia e sulla paralisi governativa, se le cose andavano nel migliore dei modi? Il governo se lo spiega probabilmente con le gag del ministro Brunetta: se milioni di precari sono «l’Italia peggiore», vuol dire che c’è del marcio in chi soffre la crisi invece di creare ricchezza.
Non dimentichiamo che una delle iniziative più trascinanti degli indignados spagnoli concerne l’informazione. L’ha presa Antòn Losada, professore di Scienze politiche, e s’intitola "Sinpreguntasnocobertura" (senza domande niente copertura). Migliaia di giornalisti hanno aderito. Se una conferenza stampa non ammette quesiti scomodi sarà boicottata, e il potere resterà solo con i suoi barcollanti giuramenti. È segno che nelle rivolte c’è una domanda, possente, di verità e giustizia. Alla crisi non si risponde solo imponendo la cinghia più stretta, e instillando nel popolo paure incongrue. Si risponde con la trasparenza d’informazioni: sulle tasse che non si possono abbassare, sul calo demografico che solo l’immigrazione frenerà, sugli ingredienti della crescita che sono la giustizia, la legalità, il merito, il prezzo che possono pagare i più fortunati e ricchi.
Alle rivolte generate dalla crisi, i governanti italiani reagiscono con tagli che colpiscono tutti indiscriminatamente, e soprattutto con false promesse. Tremonti stesso, oggi considerato uomo del rigore, ha mal tollerato lungo gli anni i moniti della Banca d’Italia, permettendo che nella Lega e nella destra montasse l’irresponsabilità. In un editoriale di mercoledì sul giornale greco Kathimerini, il direttore Nikos Konstandaras parla del «fascino impossibile della solitudine»: è l’illusione che la crisi non scoppierà, se gli Stati chiudono gli occhi all’Europa, al mondo, ai mercati. Certo, i mercati sono strane bestie: possono scatenarsi istericamente - hanno sete di sangue - e in questo non sono molto diversi dai militanti leghisti che reclamano meno tasse e secessione (verso quale paese del balocchi, dove non ti chiedono nulla ed è sempre domenica?). Hanno la vista corta, ma non anticipano del tutto a casaccio le catastrofi: scattano foto istantanee di governi istantanei, e ne traggono conclusioni. Accanto all’urna elettorale, sono un nostro secondo tribunale. Saranno loro, se non lo fanno altri, ad «aprire la crisi»: quella vera, che screditerà Berlusconi, che sfiderà anche l’opposizione, e metterà a nudo la presente non-politica italiana.
Giacché non è politica nascondersi, fingersi Stati sovrani che decidono da soli, ignorare l’esistenza di uno spazio pubblico europeo verso cui siamo responsabili come verso la nazione. Esiste ormai una res publica che oltrepassa i nostri confini, che ha sue regole, e i cui dirigenti non sono emanazioni dei governi ma rispondono a geografie più vaste. Valga come esempio la nomina di Mario Draghi al vertice della Banca centrale europea. Una scelta ineccepibile, ma fatta nella più sgangherata e vecchia delle maniere. In cambio della nomina, Sarkozy ha chiesto che venisse liberato un posto per Parigi nell’esecutivo Bce e Berlusconi gli ha dato la testa di Lorenzo Bini Smaghi, come se quest’ultimo fosse un suo uomo, non un dirigente dell’Unione. Il mandato di Bini Smaghi, prescelto nel 2005 per otto anni, scade il 31-5-2013 e non può esser revocato né da Stati né da accordi tra Stati. Non è uno schiaffo a lui, ma alle istituzioni europee verso cui va la sua lealtà. Il caso crea peraltro un precedente ominoso: ogni governo potrà decidere da ora in poi di sottrarre mandati e regole alla giurisdizione europea.
La reazione di Bini Smaghi è stata rigorosa, da questo punto di vista. In un discorso tenuto in Vaticano su etica e affari, il 16 giugno, ha spiegato la ferita alle istituzioni europee con parole chiare e vere: «Non è un caso che i banchieri centrali abbiano adottato come loro protettore San Tommaso Moro, che con la sua indipendenza di giudizio e la ferma convinzione nella supremazia dell’interesse pubblico riuscì a resistere alle pressioni del Re Enrico VIII, del quale era stato il più stretto consigliere (...) fino ad essere costretto alle dimissioni, incarcerato e condannato a morte». Tommaso Moro volle servire Dio piuttosto che il re cui prima sottostava. L’interesse pubblico cui allude Bini Smaghi è quello, superiore agli Stati, dell’Unione: è solo quest’ultima a poterlo «dimettere». La violazione del Trattato di Maastricht, giustificata con la presunta «regola non scritta tra gli Stati», è palese. Anche Mario Monti, ex commissario europeo, ha mostrato irritazione: il governo, ha detto domenica a Lucia Annunziata, si è comportato in modo «dilettantesco» e «paradossale», disponendo di Bini Smaghi come di una propria pedina («Le decisioni spettano a Bini Smaghi e alla sua coscienza. È sbagliato aspettarsi giuridicamente e moralmente che avrebbe dato le dimissioni, se non si è parlato prima con lui di questo tema»).
Anche qui, sono mancati informazione trasparente e riconoscimento dello spazio pubblico europeo. Così come non c’è trasparenza sulle tasse che non si possono abbassare, sull’immigrazione di cui abbiamo bisogno, economicamente e demograficamente. È stato calcolato che i flussi migratori si eleveranno a 4,4 milioni nel 2011, che supereranno 8 milioni nel 2031 e 10 nel 2051: « Il valore finale - scrive l’economista Nicola Sartor - è inferiore di 8 milioni a quanto necessario, secondo l’Onu, a compensare la flessione della popolazione nazionale in età attiva» (Invecchiamento, immigrazione, economia, Il Mulino 2010).
Gran parte degli equivoci sono imputabili all’Unione: all’inerzia dei suoi dirigenti, succubi degli Stati. Ancora una volta, è il parlar vero che manca: è per un eccesso di false cortesie e per l’assurda deferenza verso i grandi Paesi che l’Europa è giunta alle odierne bancarotte, scrive Monti in un illuminante articolo sul Financial Times di ieri. Sono tante le politiche su cui l’Unione potrebbe far valere la sua parola: a cominciare dalle missioni di guerra, abusivamente dette «di pace». L’articolo 11 della nostra Costituzione, quello che ripudia la guerra, prevede limitazioni volontarie della sovranità nazionale e azioni congiunte con organi internazionali. Le guerre che sta consentendo andrebbero oggi ridiscusse dall’Europa, alla luce di una politica Usa che comincia a trattare unilateralmente con i talebani e a dubitare dell’utilità della Nato.
Una Commissione europea autonoma, conscia della propria autorità, reagirebbe a tutti questi eventi (caso Bini Smaghi, debiti sovrani, guerre) come ai tempi di Walter Hallstein. Il primo capo dell’esecutivo di Bruxelles non esitò a confutare De Gaulle, alla fine degli anni ‘60, in nome della nascente res publica europea. Fu un «perdente designato», scrive lo storico Corrado Malandrino in una bella biografia pubblicata dal Mulino: ma ci sono sconfitte che salvano, se le si vuol salvare, le istituzioni umiliate.
"Non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud" *
"Per ardui che siano gli sforzi da compiere, non c’è alternativa al crescere insieme, di più e meglio insieme, Nord e Sud, essendo storicamente insostenibili e obbiettivamente inimmaginabili nell’Europa e nel mondo d’oggi prospettive separatiste o indipendentiste, e più semplicemente ipotesi di sviluppo autosufficiente di una parte soltanto, fosse anche la più avanzata economicamente, dell’Italia unita. Tutte le tensioni, le spinte divisive, e le sfide nuove con cui è chiamata a fare i conti la nostra unità, vanno riconosciute, non taciute o minimizzate, e vanno affrontate con il necessario coraggio".
* Conferenza del Presidente Napolitano: "Verso il 150° dell’Italia Unita: tra riflessione storica e nuove ragioni di impegno condiviso"
Roma, Accademia dei Lincei, 12/02/2010
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino
Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
Conflitto d’interessi, la mia legge e il mio saluto ai lettori de l’Unità
di Furio Colombo *
Ho appena depositato alla Camera dei Deputati la legge sul conflitto di interessi, la stessa che avevo preparato alla Camera nella XIII Legislatura (1996)e che avevo presentato al Senato non appena eletto nel 2006, secondo e ultimo governo di Romano Prodi.
Lo annuncio su questo giornale come si farebbe in una corsa a staffetta, per lasciare traccia del passaggio e dunque come raccordo e testimonianza di lavoro insieme a conclusione di un pezzo bello e difficile (bello nel giornale, difficile in Italia) passato sotto la testata de l’Unità.
Vado, come molti lettori sanno, in cerca di una nuova avventura, mentre resta intatta l’amicizia e gratitudine per questo giornale, per chi mi ha così straordinariamente sostenuto e aiutato quando lo dirigevo, per chi ha diretto, dopo, con coraggio e bravura.
Affido il testo della mia legge sul conflitto di interessi a l’Unità (sapendo che lo pubblicherà ne l’Unità on line) perché è il cuore di tutti questi anni di opposizione a Berlusconi. So, naturalmente, che Walter Veltroni ha annunciato una sua legge sul conflitto di interessi nel prossimo futuro. Ne sono felice e non vedo l’ora di confrontare i due testi. Non è una gara. È un impegno comune. È l’impegno che avrebbe dovuto identificare subito il Partito Democratico.
È impossibile nominare un solo tratto della persona, della leadership, del ruolo politico, del governare di Berlusconi senza scontrarsi in pieno con il macigno immenso del conflitto di interessi. La prima e più convincente prova è nel senso di «vecchio» e «già detto» o «già usato» che sarà la reazione di molti lettori.
Il colpo di genio è stato questo: liquidare come ridicolo, noioso, inutile, se necessario eversivo ogni tentativo di tornare a parlare di conflitto di interessi. Conta il totale, ferreo controllo mediatico per dirottare un Paese? La prova è ciò che è accaduto ai Radicali (il partito di Pannella e di Bonino). Una serie di manifestazioni anche drammatiche come lo sciopero totale della sete e della fame del leader di quel partito ha infranto, verso la fine della campagna elettorale per le elezioni europee, il totale blocco che ha quasi sempre impedito ai Radicali di essere visti o ascoltati. So che l’esempio è imperfetto perché l’ossessivo embargo a danno dei Radicali non risale a Berlusconi ma a molto prima. E tuttavia serve a dimostrare il punto. Una volta rimosso, sia pure per pochi giorni, il sacro divieto, Pannella, Bonino e il gruppo Radicale alle elezioni Europee sono magicamente balzati dall’uno al tre per cento e in alcune grandi città hanno raggiunto (ricordate, in pochi giorni) il cinque, il sei, il sette per cento.
Chi domina le fonti pubbliche e private delle notizie e mostra di poter creare per i fedeli carriere precoci e grandiose, come è accaduto per Minzolini, e fa sapere di gestire al meglio il destino maschile e femminile di chi si affida al buon cuore di quel potere, è in grado di chiudere porte che dovrebbero essere aperte, di aprire brecce vastissime a illustrazione della sua gloria. È - soprattutto - in grado di scoraggiare quelle stupide domande (tipo "ma chi è Elio Letizia e perché Berlusconi ha dovuto andare a Casoria nel giorno, nell’ora, nel luogo e con le imbarazzanti persone indicate"?) che rovinano una carriera.
È una legge semplice. Risponde a tre domande. Chi è incompatibile con la responsabilità diretta del potere? Chi lo diventa se si violano alcuni limiti e alcune condizioni? Quali incompatibilità non si possono cancellare? Nella vita sociale e professionale vi sono molto rigorose incompatibilità accettate da tutti in base a dati di fatto e regole precise.
Un uomo sposato non può avere una seconda moglie. Un giudice, restando giudice, non può fare l’avvocato.
Un deputato o senatore non può legalmente dirigere una azienda o un giornale ed esserne responsabile. In nessuno di questi casi si dice che l’incompatibilità viola un diritto. La regola, se mai, serve a impedire che un diritto si espanda in uno spazio che gli altri cittadini non hanno. La regola non è una ingiustizia ma la barriera contro il pericolo di una ingiustizia. Semplice? Abbastanza, tanto che queste incompatibilità ci sono nelle democrazie di tutto il mondo. In Italia, da quindici anni, reazioni scomposte fanno subito barriera se appena nominate il conflitto di interessi.
Ecco dunque perché tutto comincia (e molto finirebbe) con una legge seria, prioritaria, severa. È stata la prima cosa che abbiamo fatto ridando vita a questo giornale.
I colleghi coraggiosi e i lettori di allora ricorderanno l’ondata di attacchi personali e di calunnie. Ai colleghi e ai lettori di adesso lascio lo stesso impegno. E lo stesso rischio.
IL TESTO DELLA PROPOSTA DI LEGGE
* l’Unità, 02 agosto 2009
Napolitano: il Capo dello Stato deve essere arbitro imparziale
Il capo di Stato deve essere «un arbitro imparziale» e «non il rappresentante di una parte politica», un garante del rispetto della Costituzione, rappresentando l’unità nazionale e le aspirazioni di tutti i cittadini. Lo dice il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in un’intervista all’agenzia di stampa ItarTass, rilasciata alla vigilia della sua visita di Stato in Russia.
Il potere può avere un gusto «amaro» quando bisogna prendere decisioni che «possono pure non essere comprese», precisa il presidente della Repubblica. Ma, aggiunge Napolitano, il gusto diventa gratificante quando si è convinti di «fare l’interesse generale».
Le forze di polizia e la magistratura possono agire in maniera più efficace in un clima di «generale consenso» e di «comprensione» del loro ruolo, continua Napolitano, sostenendo inoltre l’educazione al «rispetto della legge».
Il capo di Stato italiano raggiungerà Mosca e san Pietroburgo dal 15 al 18 luglio.
* l’Unità, Pubblicato il: 11.07.08, Modificato il: 11.07.08 alle ore 13.44
L’ANALISI
Il morso del Caimano
di CURZIO MALTESE *
È un po’ ingenuo, anzi molto, stupirsi che Berlusconi sia tornato Caimano. Se esiste una persona fedele a se stessa, oltre ogni umana tentazione di dubbio o di noia, questa è il Cavaliere. Era così già molto prima della discesa in politica, con la sua naturale carica eversiva, il paternalismo autoritario, l’amore per la scorciatoia demagogica e il disprezzo irridente per ogni contropotere democratico, a cominciare dalla magistratura e dal giornalismo indipendenti, l’insofferenza per le regole costituzionali, appresa alla scuola della P2.
Il problema non è mai stato quanto e come possa cambiare Berlusconi, che non cambia mai. Piuttosto quanto e come è cambiata l’Italia, che in questi quindici anni è cambiata moltissimo. In parte grazie all’enorme potere mediatico del premier.
Ogni volta che Berlusconi ha conquistato Palazzo Chigi ha provato a forzare l’assetto costituzionale e per prima cosa ha attaccato con violenza la magistratura. Lo ha fatto nel 1994 con il decreto Biondi, primo atto di governo; nel 2001, quando i decreti d’urgenza sulla giustizia furono presentati prima ancora di ricevere la fiducia; e oggi. Con una escalation di violenza nei toni e, ancor di più, nei contenuti dei provvedimenti.
Il pacchetto giustizia di oggi è più eversivo della Cirami e del lodo Schifani, a sua volta più eversivi del "colpo di spugna" del ’94. Ma, alla crescente forza delle torsioni imposte da Berlusconi agli assetti democratici, ha corrisposto una reazione dell’opinione pubblica sempre più debole. Nel ’94 la rivolta contro la "salva-ladri" azzoppò da subito un governo destinato a durare pochi mesi. Nel 2001 i "girotondi" inaugurarono una stagione di movimenti, con milioni di persone nelle piazze, che si tradussero fin dal primo anno in una serie di pesanti sconfitte elettorali per la maggioranza di centrodestra, pure larghissima in Parlamento.
La terza volta, questa, in presenza di un tentativo ancora più clamoroso di far saltare i cardini della magistratura indipendente, la reazione è molto debole. L’opposizione, accantonate le illusioni di dialogo, annuncia una stagione di lotte, ma non ora, in autunno. La cosiddetta società civile sembra scomparsa dalla scena. I magistrati sono gli unici a ribellarsi con veemenza, ma sembrano isolati, almeno nei sondaggi. Quasi difendessero la propria corporazione e non i diritti e la libertà di tutti, così come l’hanno disegnata i padri della Costituzione.
Ecco che la questione non è che cosa sia successo a Berlusconi (nulla), ma che cosa è successo al Paese. Siamo davvero diventati un "paese un po’ bulgaro", come si è lasciato sfuggire il demiurgo pochi giorni fa? La risposta, purtroppo, è sì.
In questo quarto di secolo che non ha cambiato Berlusconi, l’Italia è cambiata molto e in peggio, il tessuto civile e sociale si è logorato, il senso comune è stato modellato su pulsioni autoritarie. Molti discorsi che si sentono negli uffici, nei bar, sulle spiagge oggi, da tutti e su tutto, si tratti di immigrazione o di giustizia, di diritti civili come di religione, di Europa o di sindacati, nell’Italia del ’94 sarebbero stati inimmaginabili.
Il berlusconismo è partito dalla pancia di un Paese dove la democrazia non si è mai compiuta fino in fondo, per mille ragioni (ragioni di destra e di sinistra), ma ora ha invaso tutti gli organi della nazione ed è arrivato al cervello. La mutazione genetica della società italiana è evidente a chi ci guarda da fuori. Perfino negli aspetti superficiali, di pelle: non eravamo mai stati un popolo "antipatico", com’è oggi. Più seriamente, il ritorno di Berlusconi al potere e le sue prime e devastanti uscite hanno evocato i peggiori fantasmi sulla scena internazionale.
Si tratta però di vedere se il "caso Italia" è tale anche per gli italiani. Se nell’opinione pubblica esistano ancora quei reagenti democratici che hanno impedito nel ’94 e nel 2001 la deriva, più o meno morbida, verso un regime. I segnali sono contraddittori, la partita è aperta. Certo, in questi decenni la forza d’urto del populismo berlusconiano è andata crescendo, così come la presa su pezzi sempre più ampi di società. Non si tratta soltanto di potere delle televisioni o dell’editoria, ma di una vera e propria egemonia culturale. E sorprende che nell’opposizione, gli ex allievi di Gramsci, ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non comprendano i meccanismi e la portata della strategia in atto.
Altro che "l’onda lunga" di craxiana memoria. Anche loro, purtroppo, non cambiano mai. Si erano illusi (ancora!) di trasformare Berlusconi in uno statista, offrendogli un tavolo di trattative. S’illudono (ancora!) di poter resistere con la politica del "giù le mani" e con l’arroccarsi nelle regioni rosse, che sono già rosa pallido e rischiano prima o poi di finire grigie o nere. In attesa di tempi migliori.
Non ci saranno tempi migliori per l’opposizione. Bisogna trovare qui e ora il coraggio di proposte forti e alternative al pensiero unico dominante, invenzioni in grado di suscitare dibattito e bucare così la plumbea egemonia "bulgara" dell’agenda governativa. Bisogna farsi venire qualche idea, anzi molte, una al giorno, per svegliare l’opinione pubblica democratica dal torpore ipnotico con cui segue gli scatti in avanti di Berlusconi. Lo stesso torpore ipnotico che coglie la preda davanti alle mosse del caimano. Che alla fine, attacca.
* la Repubblica, 21 giugno 2008.
l "Rapporto sui diritti globali 2008" segnala il pericolo di involuzione del Paese
a causa delle sempre maggiori difficoltà economiche e del crescere della paura
Precariato, povertà e insicurezza
Al tramonto la società solidaristica
L’indebitamento totale delle famiglie ammonta a 490 miliardi, in forte difficoltà 1 su 5
Il lavoro è sempre più precario e rischioso: i morti sul lavoro superiori a quelli delle guerre
di ROSARIA AMATO *
ROMA - Un lavoratore sempre più marginale, con un salario sempre più striminzito e lontano dalle medie europee e dai picchi straordinari raggiunti dai compensi dei manager. Un sistema ingiusto, all’interno del quale le famiglie s’impoveriscono, s’indebitano senza che s’intravveda "un vero disegno riformatore" nelle politiche di welfare. E’ l’Italia che emerge dal "Rapporto sui diritti globali 2008", il rapporto annuale sulla globalizzazione e sui diritti nel mondo redatto dall’associazione SocietàINformazione e promosso da Cgil, Arci, ActionAid, Antigone, CNCA, Forum Ambientalista, Gruppo Abele e Legambiente.
"Cresce sempre di più il senso di insicurezza della popolazione, la precarietà del lavoro, la sfiducia nel futuro e la paura di perdere il benessere e la qualità delle proprie condizioni di vita", osserva nel presentare il rapporto il segretario della Cgil Guglielmo Epifani, denunciando "il rischio di processi involutivi che, oltre a danneggiare il mondo del lavoro in generale, finirebbero per devastare il tessuto connettivo sui cui si è sviluppata la nostra società, impostato su valori solidaristici e universali".
Morti sul lavoro, una guerra a bassa intensità. Quella delle morti sul lavoro, denuncia il curatore del rapporto Sergio Segio, direttore dell’associazione SocietàINformazione ed ex militante di Prima Linea è "una piccola guerra a bassa intensità, nascosta dietro le mura delle fabbriche, tra le impalcature o nei campi". Per quanto riguarda le cifre è però "una grande e infinita guerra, se consideriamo che, nella Seconda guerra mondiale, le perdite militari italiane furono di 135.723 morti e 225.000 feriti, mentre la lunga battaglia nei luoghi di lavoro dal 1951 al 2007 ha prodotto almeno 154.331 morti e ben 66.577.699". Analoghi i risultati di un confronto rispetto alla Guerra in Iraq: dal 2003 al 2007 hanno perso la vita 3.520 militari della coalizione contro 5252 morti sul lavoro in Italia nello stesso periodo.
Le morti sul lavoro non sono un caso, sono piuttosto la conseguenza di "una cultura economica e organizzativa" che non ritiene ragionevole una spesa per la sicurezza volta a evitare anche il minimo rischio di incidenti. Si viaggia, ricorda il rapporto, a un ritmo di ben oltre 1000 morti sul lavoro e più di 900.000 infortuni l’anno. E la nuova legge sulla sicurezza (legge n.123/2007 non pone le condizioni per un vero miglioramento, secondo i curatori dell’analisi, dal momento che, "più che sul sistema sicurezza, è intervenuta suo suoi effetti perversi, non modificandone, quindi, le logiche e le strategie di governo".
La povertà "differita". "La povertà è sostanzialmente stabile, le politiche di welfare sembrano non scalfirla", rileva il rapporto, denunciando però un rischio ancora più grave, quello della "povertà prossima ventura", o della "povertà differita". "Così può infatti essere definito - spiega Segio - il fenomeno massiccio del credito al consumo e dell’indebitamento delle famiglie, spesso premessa di fallimenti individuali, vale a dire l’impossibilità di fare fronte alle rate del mutuo della casa e dei tanti debiti contratti". Dal 2001 al 2006 il credito al consumo in Italia è cresciuto dell’85,6%, arrivando ormai a 94 miliardi di euro, mentre l’indebitamento complessivo delle famiglie ammonta a 490 miliardi. Per precipitare nella povertà, ricorda il rapporto, basta poco: nel 2007 secondo uno studio sarebbero 346.069 le famiglie italiane divenute povere a causa delle spese sanitarie sopportate.
Salari sempre più bassi. La principale causa dell’aumento della povertà in Italia è costituita tuttavia dai salari, sempre più bassi e inadeguati rispetto alla crescita dell’inflazione. Le statistiche Ocse, ricorda il rapporto, ci dicono che tra il 2004 e il 2006 le retribuzioni in Italia sono scivolate dal diciannovesimo al ventitreesimo posto, ma nel frattempo "nel 2007 i primi cinque top manager italiani hanno ricevuto compensi per circa 102 milioni di euro, il salario lordo di 5000 operai, peraltro senza alcun vincolo con i risultati dell’impresa e con l’efficacia e produttività del proprio lavoro". Oltre due milioni e mezzo di famiglie "ufficialmente" povere, sette milioni e mezzo di individui. Mentre con un reddito non superiore al 20% della linea di povertà calcolata dall’Istat cerca di sopravvivere l’8,1% dei nuclei. Vale a dire che le famiglie povere e a rischio povertà sono una su cinque. Anche perché, a fronte di salari praticamente fermi, negli ultimi sei anni ogni famiglia ha perso un potere d’acquisto pari a 7700 euro, secondo alcune associazioni dei consumatori.
La "flexicurity" rimane un miraggio. A contribuire alla povertà c’è anche il lavoro precario. Nel 2006, ricorda il rapporto, le assunzioni a tempo determinato hanno superato per la prima volta quelle a tempo indeterminato. Sommando tutti i lavoratori impegnati con contratti precari, o se si vuole flessibili, si arriva, secondo il centro studi Ires, a una cifra compresa tra 3.200.000 e 3.900.000 persone; poco meno quelle che lavorano nel sommerso. "La flessibilità è corrosiva nei confronti del lavoratore - osservano i curatori del rapporto - perché gli istilla ansie, paure e insicurezza, ma lo è anche nei confronti del lavoro, che finisce per perdere qualità". Anche perché la flessibilità italiana è lontanissima dalla flexsecutiry del modello scandinavo: "Il famoso modello danese, il più studiato e forse il più efficace (anche se poi alla prova dei fatti lascia fuori i più fragili) si basa infatti su una serie di variabili necessarie, oltre la semplice formula: investimenti ingenti di risorse pubbliche, ammortizzatori sociali molto estesi, di tipo universalistico, un sistema efficiente di formazione permanente, un uso del lavoro flessibile non ’al risparmio’ ma mirato a obiettivi di sviluppo".
Una paura che fa paura. In una situazione di sempre maggiore povertà e insicurezza la paura dilaga, ma è "una paura che fa paura", osserva Segio: "I dati ci dicono che le paure legate alla sicurezza sono infondate, il tasso di scippi ma anche di omicidi è il più basso degli ultimi trent’anni, eppure l’88% degli italiani pensa che in Italia vi sia più criminalità rispetto a cinque anni fa". La paura porta alla xenofobia, sentimento che può anche far comodo: "Dietro a ogni campagna securitaria - afferma Segio - ci sono sempre appetiti e progetti immobiliari. Così come la geografia degli sgomberi dei campi rom in molte grandi città, a partire da una incattivita Milano, ricalca esattamente le necessità e le tempistiche dei ’palazzinari’, proprietari di vastissime aree".
* la Repubblica, 9 giugno 2008.
Politica
Veltrorutelli, associazione a delinquere
di Paolo Farinella, prete
Genova 05 maggio 2008. - Domenica 4 maggio ho visto sul rete3 Report della Gabanelli sul sacco a mani basse di Roma e dintorni in nome e per conto della giunta Rutelli/Veltroni. Non ho capito, però, come mai Rutelli alle ultime elezioni abbia perso così “dolcemente” e non sia stato linciato sul posto dai Romani anche in conto capitale per Veltroni. Un senso di angoscia prevale sull’animo e mi domando se siamo ancora in questa valle di lacrime o se non siamo già sprofondati nell’inferno e non ce ne siamo accorti. Costoro si chiedono ancora il “perché” della sconfitta e non si rendono conto che hanno consegnato Roma armi e bagagli ai fascisti che ora completeranno l’opera.
Ancora non si è spento l’eco delle parola di Veltroni che vendeva “il modello Roma” come la svolta millenaria che avrebbe segnato le epoche future. Il piano regolatore usato per farsi i gargarismi in tutte le salse e poi vai a scoprire quello che si è visto e ascoltato e cioè che per 15 anni «i novatori» di sinistra sono stati in combutta con la feccia nera dei peggiori fascisti palazzinari da cui hanno preso anche soldi per la loro recente campagna elettorale. Qualcuno mi sa dire la differenza «etica» anche minima tra Rutelli/Veltroni e Berlusconi/Alemanno? Sì, c’è del marcio in Danimarca!
Forse una differenza c’è: Berlusconi non ha mai avuto il senso del pudore e dice bugie apertamente sfidando anche la logica e l’imbecillità di quelli che lo ascoltano che egli manovra a suo piacimento. Veltrorutelli invece parlano come agnellini innocenti e pudichi fino al punto di non nominare l’avversario per dare una svolta al linguaggio politico pacificatore, ma poi dentro sono lupi che mangiano agro romano, fregano i loro popoli e fanno affari con la feccia più nera dei predatori del più grande patrimonio nazionale storico artistico, che gestiscono come fosse un loro ripostiglio personale.
Il più pulito ha la rogna! Purtroppo non vi è antidoto perché l’etica è come il coraggio di don Abbondio: o uno ce l’ha o uno non ce l’ha. Veltrorutelli non mi sono mai piaciuti, ma ieri sera è caduta la maschera e se il Pd avrà le loro facce... “O bella, ciao, bella ciao, bella ciao,ciao,ciao”! Credo che solo un cataclisma naturale ci potrà ormai salvare dallo scempio che ha stuprato e continua a stuprare il territorio, il bene comune e le coscienze di chi ha creduto e crede che lo Stato è ancora, nonostante tutto, la «casa comune», riparo e protezione specialmente per i piccoli, i deboli, gli indifesi.
Sogno una legge che imponga la responsabilità penale e civile dell’amministratore/politico le cui scelte, se danneggiano gli interessi della comunità, possano essere perseguite economicamente rifacendosi su patrimoni e stipendi personali: il politico/amministratore deve rispondere «di suo» se le sue scelte recano danno agli amministrati.
Prendiamo atto della realtà che supera sempre ogni fantasia e pensiamo che non si può stare a guardare e accettare sempre ad occhi chiusi la minestra che passa il convento. Se il reportage di Report è vero, c’è una sola conclusione provvisoria: Veltroni, Rutelli e tutti quelli coinvolti nel piano regolatore o nel «modello Roma» devono andarsene a casa, previo sequestro degli stipendi/pensioni e previa richiesta di risarcimento danni alla città di Roma, togliendo loro i diritti civili fino a tre giorni dopo la morte. I loro complici palazzinari/speculatori devono essere denunciati per «delitto contro l’umanità».
Mi auguro che di fronte a questa «notitia criminis», qualche procuratore della Repubblica apra un fascicolo «in solido» contro le giunte Veltrorutelli e loro compagni a delinquere.
A tutti un amaro abbraccio
Paolo Farinella, prete Genova
NUOVE IPOTESI SULL’ETIMOLOGIA DEL NOME DEL NOSTRO PAESE
Italia Terra dei tori... o dei bestioni?
La tradizione lega il nostro etnonimo all’antica parola per «toro» («Vitulus», «Italòs») usata da Latini, Umbri e Greci. Ma si affacciano alternative: per alcuni, il significato è tutt’altro (Italia sarebbe la terra «fumante», «l’infuocata»); per altri, la parola vorrebbe sì dire «toro», ma nella lingua degli Etruschi. Che ci chiamavano così per dileggio
di Gian Enrico Manzoni (Avvenire, 13.04.2008)
« L’ Italia non è solo un nome», titolava un editoriale giornalistico dei giorni scorsi, relativo alla presenza del nome dell’Italia nei programmi della campagna elettorale. In effetti, se si tratta solo di un nome che viene evocato di necessità, senza una reale convinzione della ricerca del bene comune, è solo un appello a valori ripetuti e sbandierati, ma non condivisi. Però l’Italia è anche un nome, e il glottologo si interroga sulla sua origine e il suo significato. Diciamo subito che l’origine della parola è avvolta da molti dubbi, e le conclusioni cui i linguisti sono giunti non sono univoche.
Esiste un’etimologia tradizionale, da tempo diffusa, ma accanto a quella vengono avanzate spesso nuove, divergenti (e qualche volta bizzarre) ipotesi. La spiegazione tradizionale connette il nome della nostra penisola al latino vitulus e all’umbro vitlu, che significavano ’vitello’, così come il greco italòs, che voleva dire ’toro’. La lettera viniziale è presto caduta, con un fenomeno che è ben noto anche alla lingua greca, per cui alla fine gli Itali e la loro terra, cioè l’Italia, deriverebbero il nome dai vituli, i vitelli.
In base a tale spiegazione l’Italia è la terra dei vitelli o dei tori, perché secondo gli antichi studiosi come Timeo, Varrone, Gellio e Festo nel nostro territorio questi animali venivano allevati in grande abbondanza. Come si diceva, però, sono state avanzate in epoche diverse nuove spiegazioni, anche del tutto alternative a questa: per esempio Domenico Silvestri una decina di anni or sono ha proposto di collegare il nome dell’Italia alla radice aithalche significava ’fumante, infuocata’. Da Aithal-ia si sarebbe passati gradualmente alla forma Italia, e la spiegazione del nome risiederebbe nelle numerose fornaci di metalli un tempo esistenti nella Magna Grecia; oppure, sosteneva lo studioso, il nome deriverebbe dalla pratica della debbiatura, cioè di bruciare il terreno per poi disboscarlo e predisporlo a una nuova semina. Per l’uno o l’altro dei motivi, o per la somma di entrambi, l’Italia sarebbe la terra fumante, dove si brucia.
In data più recente il linguista Massimo Pittau è ritornato sulla questione, smentendo sia l’ipotesi di Silvestri sia altre nel frattempo avanzate e recuperando la tradizionale etimologia. Ma introducendo nella spiegazione anche un elemento linguistico nuovo, cioè la componente etrusca. L’etrusco è per molti di noi ancora una lingua misteriosa, alternativa a quelle indoeuropee del territorio italico; invece le connessioni lessicali sono frequenti, come è logico che sia accaduto tra parlanti vicini, con frequenti scambi commerciali e sociali tra un territorio e l’altro.
Pensiamo per esempio al nome di Roma, la cui etimologia da tempo viene ricostruita, non certo (come voleva la leggenda) sul nome di Romolo, il mitico fondatore, ma su Rumon, il nome etrusco del Tevere. Pittau ha dei dubbi sull’origine dai vitelli ( vitlu) degli Umbri e dai vituli dei Latini, per via della vocale -u- dei loro nomi, mentre gli Itali e l’Italia hanno la - a-.
Egli valorizza invece la testimonianza dello scrittore greco Apollodoro, che attesta che Pitalòs, il toro, non era parola greca, come sempre si è creduto, ma tirrenica, cioè etrusca. Anche i Sardi primitivi, la cui lingua era forse imparentata con l’etrusco, chiamavano prima dell’arrivo dei Romani bittalu il vitello e il toro: era una parola del tutto collegata con l’italòs degli Etruschi e, con qualche modifica fonetica, anche con il vitlu e il vitulus, che contenevano chiaramente la stessa radice.
Da queste forme, in particolare da quelle etrusche e protosarde, deriverebbero dunque sia l’etnico Itali sia il corònimo (cioè il nome del territorio) Italia. In termini culturali, non deve stupire il fatto che siano stati gli Etruschi a dare il nome di Itali agli antichi abitanti della nostra penisola e di Italia alla loro terra: essi erano a stretto contatto con i popoli della Gallia, del Piceno, dell’Umbria, del Lazio, della Campania, e la loro superiorità economica e culturale favorì l’acculturazione degli Italici vicini.
Se è vera questa ipotesi, che appare certamente convincente, l’Italia era la terra degli italòi, cioè dei tori. Ma vale ancora la giustificazione già data prima, ovvero dell’abbondanza degli allevamenti di bovini? Qui le ipotesi divergono, perché Pittau suggerisce che si potrebbe trattare anche di una forma di dileggio: chiamare tori, come sinonimo di bestioni, i popoli vicini nasceva probabilmente da una volontà di offesa, soprattutto perché espressa da chi si sentiva superiore socialmente e culturalmente. Ma forse non è necessario rincorrere la connotazione negativa ed è meglio attenerci a quanto dicevano gli antichi sulla diffusione di tori e vitelli nei territori dell’antica Italia: che immaginiamo perciò verde di pascoli e ricca di mandrie.
L’esportazione e la consacrazione negli Usa
Il simbolo della pace compie 50 anni
Nato nel 1958 in Gran Bretagna, è composto da una linea verticale e da due linee inclinate verso il basso, inscritte in un cerchio. A ispirare il logo un quadro di Goya e le segnalazioni a vista dei marinai. E la cosa curiosa è che il marchio non è mai stato registrato. Il ministro della Solidarietà sociale, Ferrero: ’’Non è di nessuno e quindi è di tutti’’
Roma, 17 feb. (Adnkronos) - Mezzo secolo e ancora contemporaneo. Compie cinquant’anni il simbolo della pace, composto da una linea verticale e due linee inclinate verso il basso, inscritte in un cerchio. Diventato negli anni uno dei loghi più conosciuti, associato all’America degli anni ‘60 e alla cultura hippie, nasce in realtà in Gran Bretagna nel 1958 come simbolo della Cnd (Campaign for nuclear Disarmement), organizzazione pacifista che aveva tra i suoi promotori il filosofo Bertrand Russell (1872-1970). Il primo utilizzo pubblico del simbolo risale infatti alla marcia di Aldermaston, località sede di una base militare e di una fabbrica di armi nucleari, in Inghilterra, come descritto in un articolo sulla manifestazione dal ‘Manchester Guardian’.
A inventare il simbolo, che è riuscito a imporsi sul suo più diretto concorrente, la colomba della pace di Picasso, è stato Gerald Holtom. Obiettore di coscienza durante la Seconda guerra mondiale, decisione non scontata per quei tempi, Holtom, al termine del conflitto si avvicinò al Cnd diventandone presto attivista. Ai membri dell’organizzazione propose uno strano logo disegnato, qualche tempo prima, in nome della pace.
L’idea nacque dopo aver studiato l’opera di Goya sui popolani madrileni fucilati dalle truppe di Napoleone. In particolare, la sua attenzione cadde su due personaggi: uno morto con le braccia abbassate e un altro vivo con le braccia alzate. Stilizzando tali posizioni e ispirandosi alla gestualità che i marinai utilizzano per comunicare a distanza tramite le bandierine (la lettera ‘N’ di ‘nuclear’, indicata dalla linea verticale, la lettera ‘D’ di ‘disarmament’, corrispondente alle linee inclinate, e il cerchio che rappresenta la parola ‘globale’), realizzò il simbolo della pace che i pacifisti inglesi riprodussero durante le marce da Londra ad Aldermaston.
Proprio nel 1958 vennero realizzati i primi distintivi in ceramica con il simbolo della pace. Oggetti che furono distribuiti con un foglietto ‘di istruzioni’ nel quale si spiegava che in caso di disastro atomico quello sarebbe stato uno dei pochi manufatti umani a restare integro.
Alle marce tra Londra e Aldermaston parteciparono molte persone tra cui un collaboratore di Martin Luther King, Bayard Rustin, che, affascinato dall’idea, ’esportò’ il simbolo negli Stati Uniti dove venne adottato dagli attivisti per i diritti civili. Nella metà degli anni ‘60, comparve nelle dimostrazioni contro la guerra del Vietnam, dipinto sulle bandiere americane, sui vestiti dei contestatori e persino sugli elmetti dei militari impegnati al fronte, oltre che su milioni di spille, magliette, affiancato allo slogan “Fate l’amore non fate la guerra”, mobili e tessuti di arredamento, portaceneri, asciugamani.
Nello stesso periodo, ‘sponsorizzate’ dalle chiese fondamentaliste americane, nacquero leggende circa supposte origini sataniche del simbolo, visto che con molta fantasia lo si può interpretare come una croce spezzata. Ma il successo popolare continua da mezzo secolo, sui muri di Sarajevo e di Timor Est, nelle manifestazioni, sui diari o gli zainetti dei ragazzi. E la cosa curiosa è che nessuno, né Holtom né la Cnd, ha mai registrato il marchio.
Secondo il ministro per la Solidarietà sociale, Paolo Ferrero, nonostante il mezzo secolo di vita, quello della pace “non è affatto un simbolo sorpassato e, anzi, è entrato a pieno titolo nella modernità”. Ferrero spiega all’ADNKRONOS che ’’nella società di oggi i ’valori’ e i simboli hanno più valore di un tempo. La società ha bisogno di identificazioni simboliche’’.
’’Sia come simbolo pacifista che come simbolo antimilitarista” - afferma Ferrero - il simbolo della pace “fa parte del vissuto contemporaneo e non è affatto stato ‘soppiantato’ dalla bandiera con i colori dell’iride. La bandiera - spiega - ha una caratterizzazione più nettamente pacifista o, se si vuole buonista. Mentre il simbolo della pace ha anche una carica antimilitarista, è simbolo dell’obiezione di coscienza. Non solo quindi ricerca della pace, ma rifiuto delle armi, dell’impegno personale contro l’uso delle violenza e per il riconoscimento dei diritti”.
E conclude: ’’E’ un simbolo che ho incontrato dappertutto: in Europa come in America. E’ un simbolo universale, riconosciuto in tutto il mondo. E questo - sottolinea - è fose dovuto proprio al fatto che non è stato mai registrato. Non è di nessuno quindi è di tutti’’.
IL COMMENTO
Tra calcolo e scommessa
di EDMONDO BERSELLI *
È FINITA come ormai si era capito che finiva, nonostante gli sforzi di persuasione morale da parte del Quirinale, con il rammarico del presidente del Senato, la disillusione di Walter Veltroni per l’"occasione mancata", la soddisfazione degli inquilini della ristrutturanda Casa delle libertà e di Silvio Berlusconi. Adesso c’è da aspettare soltanto che si compia l’atto obbligato di indire il referendum e che il presidente Napolitano sciolga le Camere per convocare le elezioni. Ma il tentativo di Franco Marini, per quanto silurato a priori dal niet del centrodestra, non è stato del tutto inutile.
Nello stilare un bilancio della crisi, occorre innanzitutto mettere a fuoco la linearità dell’asse fra i vertici istituzionali: Napolitano e Marini condividevano l’idea che occorresse praticare ogni ragionevole tentativo per evitare di andare alle urne con una formula elettorale già rivelatasi infausta, e insieme hanno tentato di venire a capo del rebus. Il capo dello Stato ha esercitato la sua autorevolezza, nell’auspicio che la razionalità delle preoccupazioni più volte manifestate potesse convincere una parte del centrodestra a impegnarsi nella riforma del sistema elettorale. Il presidente del Senato ha allargato la platea delle consultazioni alle parti sociali, allestendo una specie di "concertazione di scopo" e cercando di fare avvertire alla politica l’opinione praticamente unanime del sindacato e delle imprese.
Non è servito a niente. Ha prevalso il "sacro egoismo" del centrodestra, convinto di poter vincere a mani basse le prossime elezioni, a dispetto delle trappole di cui è disseminato il sistema elettorale del Senato.
Berlusconi e i suoi alleati faranno il possibile per respingere l’etichetta di sfasciacarrozze, cioè di gente che per pura voracità elettorale ha rifiutato la chance di modificare utilmente le regole della politica. Tuttavia è chiaro che il centrodestra ha sabotato il tentativo di Marini praticamente all’unanimità (fatto salvo qualche tenue distinguo di Pier Ferdinando Casini): Berlusconi con qualche generico rilancio sugli accordi costituenti da fare nella prossima legislatura, An con la durezza che Gianfranco Fini rispolvera quando sente odore di interesse personale e di partito, al punto di dimenticarsi di avere sostenuto il referendum Segni-Guzzetta; e la Lega addirittura con una sgrammaticatura volgare, rifiutando il confronto con il presidente del Senato.
Tutto questo per poter condurre una campagna contro "il migliore avversario possibile", Romano Prodi, contando sull’impopolarità del governo, senza avere mai indicato, in venti mesi, una proposta politica che non fosse la famosa "spallata" per mandare a casa il centrosinistra. Il calcolo è elementare, ma che sia esatto è tutto da vedere. Perché sul campo politico si è già vista una realtà nuova: al calcolo di Berlusconi, si contrappone la scommessa di Veltroni. Vale a dire che la decisione del segretario del Partito democratico di correre da solo, e comunque di stringere alleanze soltanto con chi condivide il programma del Pd, rappresenta una novità in grado di scompaginare molte previsioni.
In pratica: fra qualche tempo Berlusconi e il centrodestra potrebbero anche accorgersi di combattere una battaglia immaginaria. Perché la scommessa solitaria di Veltroni e del Pd rappresenta una innovazione politica radicale, con una fortissima assunzione di responsabilità anche personale. È una specie di rupture nella strategia bipolare, discutibile e discussa anche all’interno del partito, rischiosa negli esiti ma anche rigorosamente impegnativa sul piano politico, e quindi presumibilmente di impatto ancora imprevedibile sull’opinione pubblica. E dunque non va sottovalutato che fin da oggi si pone sul tappeto una questione che investe la credibilità delle proposte politiche: perché è probabile che gli elettori dovranno scegliere fra uno schieramento e un partito.
Come conseguenza c’è un’asimmetria vistosa fra quello che sarà lo schieramento di centrodestra, un’alleanza verosimilmente composta da qualsiasi formazione in grado di portare voti, e invece il Partito democratico, orientato a presentarsi nella competizione elettorale con un’identità precisa e a presentare un programma stringente per chi vorrà accettarlo. La novità è così spettacolare che potrebbe avere riflessi importanti nell’elettorato, e potrebbe anche imporre al centrodestra qualche forma di razionalizzazione della propria offerta politica.
Perché con il calcolo si può conquistare il potere; ma una scommessa intelligente può far saltare il banco. E quindi toccherà anche a Berlusconi decidere se vuole vincere una battaglia apparentemente già vinta, ma perciò ovvia, e quindi potenzialmente deludente, e di certo non proprio originale né creativa per i cittadini, oppure se non valga la pena di accettare una sfida, dopo avere rifiutato, per la fretta di vincere, l’ultima occasione di scrivere regole decenti.
* la Repubblica, 5 febbraio 2008.
Marini: "Piccolo margine di successo"
Pressing su Forza Italia: "Ascolti le forze sociali"
Conslusa la seconda giornata di consultazioni. Appello del presidente del Senato: "Forza Italia ascolti quello che chiede la società civile". Udc: "Governo solo se ci stanno tutti". Verdi e Pdci: "Sì alla stessa maggioranza di Prodi". Bertinotti: "Sinistra unita alle urne". E’ sempre muro contro muro. Ma domani sfilano davanti a Marini le associazioni di industria, commercio e sindacati
21:07 Napolitano: "Italia agitata e confusa"
21:04 Il calendario di domani a palazzo Giustiniani
Il primo incontro sarà con i rappresentanti delle imprese.Marini vedrà insieme Confindustria, Confcommercio, Confcooperative, Confagricoltura, Confartigianato, Cna, Confesercenti, Legacoop e Casartigiani. Alle 10,30 toccherà a Cgil, Cisl e Uil. Alle 11,30 ci sarà il colloquio con il Comitato per il Referendum, alle 12,15 quello con l’Ugl e infine, alle 12,30, l’incontro con il Comitato per la legge elettorale.
20:56 Calderoli: "Paradosso consultazioni con parti sociali"
Il vicepresidente leghista del Senato Roberto Calderoli attacca le scelta del presidente Marini: "Siamo arrivati al paradosso massimo. Che le parti sociali vengano consultate per dare vita ad un governo del Paese è veramente incredibile, tanto più che questi al governo ci sono sempre stati". La Lega ha deciso di disertare i colloqui
* Fonte: la Repubblica, 01.02.2008 (parziale).
Fango sulle istituzioni
Come Voleva Gelli
di Tina Anselmi (la Repubblica, 30 gennaio 2008)
Caro direttore,
sono stata una moderata, non certo per la forza della mia passione civile, quanto per i modi in cui ho fatto politica e i luoghi della mia collocazione politica: ho sempre militato nella Dc e di quel partito sono stata a lungo parlamentare.
Mi rivolgo pertanto a quei moderati che hanno a cuore come me le sorti dell’Italia, che rispettano le istituzioni e le regole democratiche e che sovente ho sentito dichiararsi discepoli di Alcide De Gasperi.
Non metto in dubbio la loro buona fede allorché li vedo non solo chiedere a gran voce, con la forza del loro potere di parlamentari, elezioni subito; ma li vedo già scendere in campagna elettorale in un momento tanto delicato, in cui gli stessi presidenti del Senato e della Camera hanno ribadito che questo è il tempo della riflessione, del silenzio, del lavoro del capo dello Stato.
Mi rendo conto - pur con un notevole sforzo di immaginazione e andando contro quello che è il mio modo di intendere la politica e di considerare gli avversari mai nemici e mai indegni di rispetto - che solo il loro desiderio di mettersi al più presto al servizio del Paese, di tornare a governare per "salvare" l’Italia, li abbia portati a brindare in Senato alla fine di un governo, pur sempre eletto democraticamente dalla maggioranza dei cittadini e delle cittadine di cui faccio parte anch’io.
Tuttavia, da moderata e da cattolica - educata negli ideali di Dossetti e di De Gasperi a rispettare, a difendere la laicità dello Stato e a legare strettamente l’onestà dei comportamenti all’operato politico - mi rivolgo ai tanti che ho visto maturare e crescere nelle file del mio partito, e a tutte le donne e agli uomini di buona volontà che vorranno ascoltare le mie parole. E, aggiungo, da partigiana.
Come potrei non fare riferimento a quella mia intensa, dolorosa, forte, esperienza, di giovane staffetta partigiana, in questi giorni del 2008, in cui si celebrano i sessant’anni della nostra Carta Costituzionale? Permettetemi di ricordarvi, quale testimone di quei lontani anni del primo dopoguerra, che rispettare la Costituzione non vuol dire solo rispettarne i contenuti, ma rendere omaggio ai tanti che hanno concorso a elaborarla, a quelle donne e a quegli uomini, quegli italiani, che sacrificarono la loro vita per la democrazia. Vuol dire non dimenticare le tante vittime civili, i tanti giovani e meno giovani morti in una guerra scatenata dalla follia di onnipotenza della Germania di Hitler e delle tante nazioni, tra cui ahimé l’Italia fascista di Mussolini, che combatterono al suo fianco.
Purtroppo ciò che ho visto, ho analizzato, ho capito, durante gli anni del mio lavoro quale presidente della Commissione parlamentare di inchiesta sulla loggia massonica P2 di Licio Gelli, mi spinge a vedere nella attuale crisi politica una grave situazione di emergenza democratica. Mi rendo conto che gli anni di Gelli e dei suoi compagni oggi appaiano lontani, ma quanto lontani?
Ebbene, insisto, e aggiungo che la parte del progetto di Gelli legato al discredito delle istituzioni democratiche, attuato dall’interno delle medesime e dalla loro esasperata conflittualità - che molti ultimi avvenimenti testimoniano - rischia di giungere all’atto conclusivo.
Immaginate quali guasti potrebbe arrecare al tessuto connettivo del nostro Paese una campagna elettorale - e ne abbiamo già visto un anticipo - vissuta all’insegna della selvaggia contrapposizione tra i due poli, della violenza verbale, degli insulti, di altro fango gettato sulle nostre istituzioni.
Anch’io ho vissuto la stagione infelice di tangentopoli, e in quegli anni mi sono battuta a viso scoperto perché non si cadesse nel facile qualunquismo del: così fan tutti. Vorrei pregare le persone per bene di ribellarsi a questo luogo comune scellerato: chi ha le mani pulite, chi ha la coscienza a posto, pretende, ottiene, i distinguo. Concludo con una frase di Jacques Maritain: «Non si può costruire una democrazia se non c’è amicizia».
Napolitano: «prendo una pausa di riflessione. la mia decisione sarà motivata» Berlusconi e Casini: «Subito al voto» Il leader dell’Udc si schiera con il Cavaliere. Veltroni: «Elezioni nel 2009 o dopo la riforma elettorale»
ROMA - «Ora prendo una pausa di riflessione. Dopo aver sentito 19 delegazioni politiche, i presidenti di Camera e Senato, e i tre ex presidenti della Repubblica, la situzione è ovviamenete complessa. Qualunque sarà la mia decisione, la renderò nota con una comunicazione motivata». Queste le parole del capo dello Stato, Giorgio Napolitano, alle 19 di martedì, al termine dell’ultimo giro di consultatzioni.
POSIZIONI - Le posizioni restano inconciliabili. I leader di Forza Italia e Pd salgono al Quirinale e ribadiscono al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, le loro richieste per risolvere la crisi dopo la caduta del governo Prodi. Per Silvio Berlusconi «l’unica strada è quella di ritornare al voto per dare al Paese un governo immediatamente operativo». Affermazioni alle quali, nel tardo pomeriggio, si allinea anche Pier Ferdinando Casini: «No a governicchi, meglio andare alle elezioni». Il segretario del Partito democratico, invece, delinea due scenari: elezioni nel 2009, con un governo che si occupi di legge elettorale, salari e costi della politica; oppure entro pochi mesi, il tempo necessario per cambiare almeno il sistema di voto. «Bisogna trovare una soluzione positiva per corrispondere a un bisogno di stabilità - spiega Walter Veltroni - e per avere governi fondati su una coerenza programmatica. Il voto oggi significa instabilità domani».
BERLUSCONI - Berlusconi non è d’accordo. Secondo il Cavaliere, «la presente legge elettorale ha consentito una piena governabilità alla Camera a una coalizione che aveva vinto di soli 24 mila voti, mentre non l’ha consentita al Senato perché lì la sinistra aveva avuto meno voti del centrodestra». L’ex premier chiarisce poi le sue dichiarazioni sulla possibilità di ricorrere alla piazza qualora il capo dello Stato non decida di indire nuove elezioni: «Le mie affermazioni erano proprio di segno contrario. C’è stata disinformazione piena e totale, una vergogna. Ho detto semplicemente che abbiamo ricevuto molte richieste dalla nostra base per organizzare manifestazioni di piazza ma che noi abbiamo rinunciato a farlo». E il dialogo sulle riforme? «Non abbiamo cambiato idea. Ma non è possibile pensare di attuare riforme importanti in tempi brevi».
VELTRONI - «Le elezioni anticipate sono un’alternativa che non corrisponde ai bisogni del Paese - spiega invece il sindaco di Roma -. Questa ipotesi appare anche contraddittoria a quanto dichiarato da tutti i partiti politici in questi mesi». «L’Italia ha forse bisogno di entrare in una campagna elettorale infuocata? - chiede il segretario del Pd - L’Italia ha bisogno di tornare forse a governi formati da 12-13 partiti? O ha bisogno di usicre di tutto questo?». «Alcuni partiti che chiedono il voto - aggiunge Veltroni - sono gli stessi che hanno raccolto migliaia di firme per cambiare la legge elettorale. Noi abbiamo presentato due ipotesi: fissare la data delle elezioni per la primavera dell’anno prossimo e affrontare una serie di riforme», oppure «fissare la data delle elezioni entro qualche mese, nel primo semestre di quest’anno, e cambiare almeno il sistema di voto». Poi la stoccata al centrodestra: «Perché si ha tanta fretta di votare se si è sicuri di vincere? E non si è invece disposti ad aspettare due mesi e avere una legge elettorale che garantisca stabilità? Eravamo a un passo da un accordo possibile e io credo che possiamo partire dalla prima bozza Bianco e da lì cercare una possibile convergenza per dare al Paese stabilità e ai governi governabilità». Berlusconi ha chiarito che le forze del centrodestra si presenteranno assieme in caso di voto (precisando che «Casini non si sfilerà»): e il Pd? «Se ci saranno elezioni subito - risponde Veltroni - il Partito democratico si presenterà con uno schieramento che avrà al centro un programma di governo e non lo schieramento stesso».
UDC - Per alcune ore, subito dopo le dichiarazioni di Berlusconi e Veltroni, tiene banco la posizione dell’Udc, soprattutto in seguito all’apertura di Mario Baccini a un governo guidato da Franco Marini: «Se, al termine delle consultazioni, il capo dello Stato decidesse di dare l’incarico per formare un nuovo esecutivo a una persona di alto profilo, come il presidente del Senato, per salvare il Paese dal declino, questo appello non resterà inascoltato». Seguono una serie di repliche e precisazioni, con Berlusconi che dice «no ai giochi di palazzo», Gianfranco Rotondi (Dc per le autonomie) che prevede addirittura una «spaccatura» dell’Udc, Roberto Maroni (Lega) che lancia l’ultimatum: «Se si sta con noi si è contro qualsiasi altro governo diverso». Alla fine, tocca a Pier Ferdinando Casini dettare la linea del partito: «Abbiamo cercato di lavorare per un atto di pacificazione fra le due parti. Poiché le disponibilità necessarie non sono maturate, tanto vale non perdere ulteriore tempo e andare verso le elezioni anticipate perché credo a nessuno servano né governicchi né pasticci».
NAPOLITANO - La situazione resta dunque ingarbugliata. Dopo aver incontrato anche i presidenti emeriti della Repubblica (Francesco Cossiga, Oscar Luigi Scalfaro e Carlo Azeglio Ciampi), già mercoledì mattina Napolitano potrebbe tentare di dare una soluzione alla crisi affidando l’incarico a una personalità di rilievo. Lo stesso Cossiga propende per questa ipotesi: «Credo che ci sia l’orientamento di dare un incarico esplorativo. Mi auguro che l’opposizione, di fronte alla formazione di un governo che abbia un programma limitato, non faccia nulla per impedire questo tentativo». Anche perché, stando ad alcune indiscrezioni, il capo dello Stato avrebbe verificato che «sul voto anticipato non c’è attualmente una maggioranza». Indiscrezioni trapelate però prima della netta presa di posizione di Casini.
* Corriere della Sera, 29 gennaio 2008
Il leader azzurro riunisce lo stato maggiore di Fi a palazzo Grazioli
Decisa la road map per la costituzione del partito-network. Processo rigorosamente dal basso
"Fi non si scioglie. Pdl sarà un partito-rete"
Berlusconi traccia il futuro della Cdl
Fini: "Allora non avevamo capito nulla. Da tempo, poi, chiedo una confederazione dei partiti della Cdl"
Sulla legge elettorale Cavaliere e Veltroni più vicini. Ok anche alla modifica dei regolamenti parlamentari
di CLAUDIA FUSANI *
ROMA - Il partito nuovo? Il partito del Popolo delle Libertà o il Popolo della Libertà? No, aspettate, forse siamo andati troppi in fretta. Forse, annuncia Berlusconi allo stato maggiore di Fi riunito a palazzo Grazioli, è bene chiarire che "Fi non si scioglie" e che è meglio "il partito rete" di cui faranno parte i partiti della Cdl, i circoli e poi chi vuole entrare della società civile.
Il proporzionale modello tedesco? Requiem per il maggioritario? Un attimo, anche sul nuovo sistema elettorale siamo andati un po’ troppo in fretta. "Forse - è l’ultimo pensiero del Cavaliere - è meglio lo spagnolo, vedrò venerdì le carte di Veltroni sulla legge elettorale, le nostre condizioni però sono di lavorare a un sistema proporzionale con un’alta soglia di sbarramento che non cancelli il bipolarismo ma lo renda più maturo ed efficiente".
Via via che passano i giorni e il Berlusconi-furioso sul predellino della Mercedes in piazza San Babila lascia il posto al leader della Cdl, si registrano passi indietro e chiarimenti, aggiustamenti vari. Il Cavaliere ha tracciato, riunito con i suoi a Palazzo Grazioli, la road map di Fi e della Cdl.
Di fronte a questo programma incalzante resta perplesso e diffidente il leader di An Gianfranco Fini. "Fi non si scioglie? Bene, vuol dire che nessuno di noi ha capito nulla...". Il pdl il partito network? "Era un anno e mezzo che spingevo sulla costituzione di una casa dei moderati. Ho chiesto per un anno e mezzo l’apertura dell’officina, l’ho sempre trovata chiusa per ferie...".
Il partito-rete - Il percorso comincia oggi ed è tracciato tutto dal basso: iscritti, organismi comunali che eleggono i provinciali che poi eleggono i regionali che poi eleggono i nazionali. Obiettivo: la costituzione del "partito network", il nuovo soggetto politico a cui confluiranno, oltre a Fi, anche gli altri partiti della Cdl, i vari circoli, le liste civiche locali, i movimenti nazionali e territoriali e spezzoni di partito. La speranza del Cavaliere è che "entrino nel nuovo soggetto politico anche An e Udc perchè è quello che volevano e che hanno sempre detto".
I soggetti politici che confluiranno nel nuovo partito dovranno fornire l’elenco aggiornato degli iscritti. Sulla base di questi elenchi si darà vita al "processo costituente". Seguiranno la convocazione dei congressi comunali ai quali avranno diritto di voto gli iscritti ai movimenti che confluiranno nel Pdl, e tutti coloro che si iscrivono per la prima volta. I congressi comunali, invece, eleggeranno i delegati che daranno vita al al coordinamento provinciale; quest’organo eleggererà il coordinatore regionale e contribuirà all’elezione di una "Consulta nazionale" che avrà tre obiettivi: l’approvazione dello Statuto, l’approvazione della Carta dei valori e l’elezione del Gruppo dirigente e del leader del Partito-Rete.
Il partito-network ha un modello, "il Ppe, il partito popolare europeo", una confederazione di partiti e formazioni. Ancora incerti i tempi, anche se saranno sicuramente veloci. "C’è un comitato costituente e tutto sarà fatto nella massima trasparenza e sotto gli occhi di tutti" aggiunge Berlusconi. Intanto, sabato e domenica ancora i gazebo, per le pre-iscrizioni e decidere il nome del partito. In pratica il Cavaliere sta provando a fare in poche settimane quello che il Pd ha impiegato mesi per realizzare. Non è offensivo dire che il Cavaliere sta un po’ copiando.
Fi non si scioglie - Forza Italia resta dov’è e come è, a partire dagli iscritti per arrivare ai vertici passando per la sua struttura. "Ci sarà un doppio tesseramento - assicura il Cavaliere che dopo la riunione a palazzo Grazioli nel pomeriggio ha continuato a "spiegare" l’evoluzione del pdl facendo due passi nel centro di Roma - chi ha la tessera di Forza Italia potrà anche avere quella della nuova formazione".
Capitolo riforme - Il Cavaliere ribadisce la sua posizione: no alle modifiche costituzionali, che richiedono tempi lunghi con un doppio passaggio alle Camere. Lascia un’apertura, invece, al riordino dei regolamenti parlamentari per impedire la nascita di gruppi parlamentari che non si sono presentati alle elezioni.
Sulla legge elettorale le posizioni di Berlusconi e Veltroni sembrano, oggi, avvicinarsi. Il leader azzurro preferirebbe aumentare il numero dei collegi previsti dal ’Vassallum’, che diventerebbero così più piccoli. Con un centinaio di collegi, infatti, il sistema avrebbe un’impronta più maggioritaria. Berlusconi avrebbe ribadito il suo no a doppi turni, puntando su un sistema proporzionale con sbarramento alto. E, come già assicurato al Carroccio, ha promesso anche di voler evitare di arrivare al referendum.
Fini diffidente - Il presidente di An sta registrando Matrix mentre Berlusconi sviluppa a puntate il suo nuovo pensiero sul futuro del centrodestra. E di fronte alle nuove prospettive del Cavaliere (Fi non si scioglie; Pdl partito network; spero entrino anche An e Udc) resta scettico e diffidente. "Attendo ancora di sapere - dice il presidente di An - se Berlusconi è rimasto fedele all’idea di mani libere o se Berlusconi ammette di aver fatto un errore dicendo di buttare via il bipolarismo". Sul sistema elettorale sarcasticamente Fini suggerisce di aspettare perchè, dopo essere passati dalla Germania alla Spagna "chissà venerdì in quale punto della carta geografica dovremo guardare". Poi va giù durissimo: tutto quello che è successo in questi giorni è stata "una strategia unilaterale" che lascerà da solo "il Cavaliere". E se ora dovesse cadere il governo Prodi "non è detto che Berlusconi sarebbe automaticamente il leader della Cdl". D’altra parte è lui che l’ha sciolta dicendo che era "un ectoplasma".
* la Repubblica, 28 novembre 2007.
Nuovo appello del presidente della Repubblica alle forze politiche
in occasione della consegna delle insegne di Cavaliere del Lavoro
Napolitano: "Servono intese sulle riforme
Lo sviluppo fuori dallo scontro politico"
Invito a favorire un clima più propizio per la soluzione dei problemi
con cui "l’intero mondo delle imprese e del lavoro deve misurarsi" *
ROMA - Intese bipartisan sulle riforme. Il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, rivolge nuovamente un invito alle forze politiche affinché si crei "un clima più propizio per la soluzione dei problemi con cui l’intero mondo delle imprese e del lavoro deve misurarsi". E torna a chiedere serenità ed equilibrio a chi ha in mano le sorti del Paese: "Ci sono tematiche ed esigenze vitali per il nostro Paese che dovrebbero essere tenute fuori dal clima di concitazione che la vita politica e istituzionale sta attraversando".
Parlando ai cavalieri del lavoro appena insigniti dell’onoreficenza, il presidente chiede pertanto un clima "di maggiore concentrazione costruttiva su questioni che è necessario affrontare e tendere a risolvere attraverso le indispensabili intese. E parlo di questioni di riforma del sistema politico-istituzionale". Le riforme, ribadisce, sono necessarie per assicurare in futuro al Paese ’’l’effettiva governabilità’’.
Napolitano replica indirettamente alle istituzioni internazionali che hanno criticato gli ultimi provvedimenti di politica economica varati dal governo: "Considero fisiologiche e legittime tutte le diversità di giudizio che si esprimono anche in sedi neutrali e internazionali, sui risultati raggiunti dall’azione di risanamento dei conti pubblici, sul ritmo con cui tale azione dovrebbe e potrebbe essere portata avanti, nonchè sul rapporto in cui essa va vista con esigenze fondamentali di crescita e di equità ".
E tuttavia chi governa dovrebbe procedere valutando "i fatti, i problemi, gli impegni cercando di dare valutazioni obiettive, senza cedere nè a forme di autosoddisfazione propagandistica nè a sommarie stroncature".
Il presidente ha poi lodato l’impegno delle imprese, che hanno contribuito al risanamento del Paese: "Il ministro Bersani ha messo in luce il contributo delle imprese alla ripresa economica e ha tracciato un quadro delle politiche con cui il governo ha accompagnato il processo di rinnovamento delle imprese".
Al mondo delle imprese, ha però lanciato un appello perché vengano valorizzati "i talenti femminili che vanno emergendo nel mondo dell’impresa, così come l’impegno per valorizzare gli imprenditori del Mezzogiorno che hanno dovuto resistere e reagire alle pressioni e alle minacce della malavita e del crimine organizzato".
* la Repubblica, 24 ottobre 2007.
NAPOLITANO: INDISPENSABILI INTESE PER LE RIFORME *
ROMA - "Non posso che ribadire quello che ho sempre detto: non c’é modo e spazio per collaborare con questa sinistra sulle riforme". Così Silvio Berlusconi ha risposto ai cronisti che gli chiedevano un commento all’appello del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano sulla necessità di un dialogo sulle riforme.
Giorgio Napolitano, consegnando le insegne ai nuovi cavalieri del Lavoro, al Quirinale, ha detto che si sente impegnato a favorire "un clima di maggior concentrazione costruttiva su questioni che è necessario affrontare e tendere a risolvere attraverso le indispensabili intese. E parlo, come bene intendete, di questioni di riforma del sistema politico istituzionale".
Napolitano ritiene "indispensabili" le riforme politico-istituzionali perché solo con le riforme "si potranno meglio assicurate in futuro l’effettiva governabilità, gli equilibrati punti di riferimento e l’effetto negativo di forme esasperate di spettacolarizzazione e contrapposizione politica, per usare l’espressione dell’ingegner Mario Federici, presidente uscente della Federazione dei Cavalieri del Lavoro". Quelle considerazioni, il presidente della Repubblica le ha svolte come egli stesso ha precisato come "un semplice messaggio di riconoscimento e incitamento" al mondo delle imprese e del lavoro che ritiene "doveroso e connaturato alla funzione" di Capo dello Stato di favorire l’affermazione di "un clima più propizio per la soluzione dei problemi".
NO A CONCITAZIONE SU ESIGENZE VITALI DEL PAESE
"Ci sono tematiche ed esigenze vitali per il nostro Paese che dovrebbero essere tenute fuori dal clima di concitazione che la vita politica e istituzionale sta attraversando" ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano incontrando i Cavalieri del Lavoro al Quirinale. Il presidente della Repubblica ha invitato tutti "a valutare i fatti, i problemi, gli impegni cercando di dare valutazioni obiettive, senza cedere né a forme di autosoddisfazione propagandistica né a sommarie stroncature". Partendo naturalmente, ha detto dalle "esigenze vitali" del Paese.
"Considero fisiologiche, ha detto - e legittime tutte le diversità di giudizio che si esprimono anche in sedi neutrali e internazionali, sui risultati raggiunti dall’azione di risanamento dei conti pubblici, sul ritmo con cui tale azione dovrebbe e potrebbe essere portata avanti, nonché sul rapporto in cui essa va vista con esigenze fondamentali di crescita e di equità ". Ma di"altra parte, ha aggiunto Napolitano, "quello attuale è anche un momento di valutazioni incerte e discordi sulle prospettive della crescita italiana e mondiale" per gli effetti sull’economia americana della crisi dei mutui subprime e della lievitazione dei prezzi delle materie prime a cominciare da quello del petrolio. In questo quadro, ha concluso, è da considerare il "già annunciato rallentamento della crescita italiana" che avviene con l’euro forte ("da considerare peraltro nelle sue fondamentali positività ") e con un "rilevante incremento in valore delle esportazioni italiane", che è da consolidare ma è "segno indubbio di una rinnovata competitività di nostre produzioni, specie sul piano della qualità ".
STORACE: NAPOLITANO NON S’IMPICCI, CONVOCHI ELEZIONI
"Napolitano continua a sbagliare o, come direbbe Cossiga, a impicciarsi. Prenda atto che il governo é morto e convochi i comizi. Basta con le prediche". Lo afferma Francesco Storace, segretario de La Destra, a proposito del nuovo appello del capo dello Stato a trovare l’intesa per fare le riforme.
BERTINOTTI: NAPOLITANO HA STRARAGIONE
"Il presidente Napolitano ha straragione, ha ragione da vendere. Sono assolutamente d’accordo". Lo ha detto il presidente della Camera Fausto Bertinotti, a margine dell’Assemblea generale dell’Upi che si è conclusa a Firenze, commentando le dichiarazioni di Napolitano sulla necessità di chiudere il pacchetto riforme. "Io credo che questo invito del presidente della Repubblica - ha aggiunto Bertinotti - non debba essere considerato rituale: é un intervento politico con la P maiuscola totalmente rispondente al ruolo che il presidente deve correttamente interpretare, pensoso delle sorti del quadro istituzionale del Paese".
A proposito di Licio Gelli
di Marco Travaglio *
Caro Antonio, ho letto il tuo bellissimo editoriale di ieri. Tanto più bello in quanto raro, visti gli incredibili attacchi e insulti scagliati contro AnnoZero e contro chi ci lavora dalla stragrande maggioranza dei politici e dei giornali. Ti rispondo per la parte che mi riguarda, cioè per il post scriptum. La lettera di Licio Gelli era, ovviamente, frutto della mia fantasia, ma fino a un certo punto. Nel 1997 ho avuto modo di intervistare il cosiddetto Venerabile a proposito della Bicamerale che allora, sotto la presidenza D’Alema, si adoperava alla riforma costituzionale della giustizia a colpi di bozze Boato. Gelli era entusiasta di quelle bozze, tant’è che mi disse: «Dovrebbero darmi il copyright». Poi, fortunatamente, il suo discepolo Silvio fece saltare il banco perché pretendeva ancora di più (cioè, se possibile, di peggio). Quell’intervista m’è tornata in mente quest’estate quando, con la scusa di scongiurare l’entrata in vigore dell’ordinamento giudiziario Castelli, l’Unione ha approvato in fretta e furia l’ordinamento giudiziario Mastella. Che, pur essendo un po’ meno peggio della Castelli (quisquilie), separa di fatto le carriere tra giudici e pm: per passare dall’una all’altra, ora il magistrato penale dovrà cambiare regione. Così gli scambi dalla requirente a quello giudicante, che l’Europa raccomanda agli stati membri di agevolare in ogni modo, saranno difficilissimi, dunque rarissimi. Ci avevano provato Gelli, Craxi e Berlusconi, a separare le carriere. Invano. L’Unione, con la riforma Mastella, di fatto ci è riuscita. È tanto paradossale immaginare che il venerabile Licio ne sia felice?
Per questo - hai capito bene - l’altra sera parlavo sul serio. Non so te, ma se io avessi saputo che il ministro della Giustizia sarebbe stato Mastella e che costui avrebbe, nell’ordine, sponsorizzato l’indulto, separato di fatto le carriere dei giudici, vietato ai giornalisti di parlare delle indagini giudiziarie e di pubblicarne gli atti, perseguitato i magistrati più coraggiosi ed esposti del Paese, io l’anno scorso non sarei andato a votare per l’Unione, come purtroppo ho fatto. E credo che molti, come me, se ne sarebbero rimasti a casa.
Come hai scritto nel tuo editoriale, AnnoZero ha mostrato una realtà che esiste: un pm isolato e sotto attacco, sia da parte del governo sia da parte della ’ndrangheta; una società civile, quella calabro-lucana, che si è svegliata e fa scudo con migliaia di cittadini, perlopiù giovanissimi, ai suoi (pochi) magistrati veri. Questi sono i fatti che abbiamo mostrato. Un sondaggio condotto da Sky dopo AnnoZero dice che l’85% dei cittadini sta con De Magistris e con la Forleo, contro i politici che li attaccano. Un sondaggio condotto da la Repubblica dice che l’82% dei lettori sta con Santoro e contro chi lo insulta o addirittura lo vorrebbe riepurare. Con chi sta il governo Prodi? Purtroppo, visto il ricatto permanente che Mastella esercita su Prodi, su tutta la maggioranza e sulla Rai, il governo è contro quei magistrati, contro AnnoZero e contro la stragrande maggioranza dei cittadini.
Lo so anch’io che Prodi non è Berlusconi, Padoa-Schioppa non è Tremonti e - aggiungo - Di Pietro non è Lunardi (altrimenti non avrei votato per l’Unione). Che Mastella sia diverso da Castelli, a parte un cambio di vocale e uno di consonante, ho i miei seri dubbi: e comunque lo penserò quando manterrà una sola delle promesse elettorali dell’Unione in materia di giustizia, cancellando tutte le leggi vergogna, anziché mandarle in vigore con qualche ridicolo ritocco (ordinamento giudiziario) o aggiungerne di nuove o perseguitare i magistrati migliori. E comunque i governi non si giudicano solo per le facce che esibiscono: si giudicano soprattutto, per la politica che fanno. Bene, anzi male: in tema di giustizia e di informazione siamo ancora, più che mai, nell’èra Berlusconi. Tu dici: «Certi partiti e certi ministri commettono errori». Eh no, caro Antonio: errare humanum, perseverare diabolicum. Errori potevano essere quelli dell’Ulivo nella legislatura 1996-2001, quando non fu risolto il conflitto d’interessi, non fu varata la legge antitrust sulle tv e furono approvate una dozzina di leggi contro la Giustizia in perfetta sintonia (e con i voti) del centrodestra. Se le stesse persone di allora ricadono nelle stesse vergogne e omissioni di dieci anni fa, vuol dire che quelle non sono (e non erano) “errori”: sono (ed erano) i frutti di un progetto politico ben ponderato, che considera i poteri di controllo - informazione libera e magistratura indipendente - come fastidiosi intrusi da scacciare dal tempio della casta.
Non c’è bisogno di cercare “fili invisibili” o “manovre occulte” per spiegare tutto ciò: come hai scritto, «tutto il bene e tutto il male del governo Prodi lo abbiamo sotto gli occhi». Infatti abbiamo sotto gli occhi il caso di una giudice che chiede il permesso di usare le intercettazioni di alcuni parlamentari forzisti e diessini e viene insultata e attaccata per mesi senza soluzione di continuità (e senza uno straccio di solidarietà dall’Anm); e abbiamo un pm che indaga su Prodi e sui migliori amici di Mastella (da Saladino dell’ex piduista Bisignani) che rischia di essere defenestrato su richiesta di Mastella, cioè del governo Prodi (senza uno straccio di solidarietà dall’Anm). È proprio tutto sotto i nostri occhi che tanti elettori dell’Unione sono inferociti o sconcertati: perché queste cose accadono davvero, non perché AnnoZero ne ha parlato o perché io ho immaginato una letterina del Venerabile.
Il guaio è la luna, non il dito che la indica. L’ha scritto anche Sandra Bonsanti, presidente di Libertà e Giustizia e coordinatrice della lista Veltroni a Firenze: «Il Partito democratico dica esattamente se sta con i ragazzi di Locri o con Mastella». Il Pd dica esattamente se sta con Salvatore Borsellino, con Sonia Alfano, con Rosaria Scopelliti, o se li considera un branco di facinorosi. Risposta: silenzio assordante dai maggiori candidati alla guida del Partito democratico.
Non a te, che hai cortesemente dissentito, ma ai tanti colleghi e politici che mi hanno insultato, vorrei rivolgere questa semplice domanda: che cosa direste oggi se queste cose le facesse (anzi, le rifacesse, perché ha già fatto tutto lui prima di Mastella) Berlusconi? Che i giudici non hanno diritto di parola? Che i giornalisti non hanno diritto di cronaca e di critica? Che il Cavaliere commette qualche “errore” in buona fede? E con quale credibilità potrete criticare Berlusconi se tornerà a manomettere la libertà d’informazione e l’indipendenza della magistratura? Ecco, è questa doppia morale che trovo francamente insopportabile. Perché tende a nascondere e a minimizzare quel che accade e rende impossibile ciò che tutti noi non smettiamo mai di sperare: e cioè che, a furia di frustate, questo governo, proprio perché composto in gran parte da persone perbene, rinsavisca, si dia una regolata, ammetta di avere sbagliato e spenda i prossimi mesi a realizzare ciò che tanti elettori si augurano dal maggio 2006. Anche per questo, a costo di passare per barbaro, esibizionista e disinformatore, intendo seguitare a non nascondere e a non minimizzare nulla sotto il ricatto: «Zitto, se no torna Berlusconi». Anche perché Berlusconi non ha bisogno di tornare: purtroppo, non se n’è mai andato.
Anche io spero che su giustizia e legalità questo governo spenda i prossimi mesi (e i prossimi anni) a realizzare ciò che gli elettori hanno chiesto e che si può leggere nel famoso programma dell’Unione. Mastella a parte, anche tu concordi che il governo Prodi non è il governo Berlusconi. Non dimentichiamolo mai.
Antonio Padellaro
* l’Unità, Pubblicato il: 08.10.07, Modificato il: 08.10.07 alle ore 9.32
La politica è nuda
di Valentino Parlato (il manifesto, 03.10.2007)
Non mi capita spesso, ma questa volta sono totalmente d’accordo con l’editoriale di Giovanni Sartori sul Corsera di ieri, e soprattutto sul suo inizio. «Non vorrei - scrive Sartori - che il grillismo si arenasse in un confuso e inconcludente dibattito sull’antipolitica». Il punto è capire che Grillo (con tutte le sue intemperanze) e prima di lui Stella e Rizzo e - va ricordato - Salvi e Villone (dei quali è in questi giorni in libreria la nuova edizione del libro sui costi della politica) hanno colto e neppure enfatizzato la crisi della politica e i pericoli di un suicidio della democrazia.
Sostenere che Grillo e tutti gli altri, nella forme proprie a ciascuno, sono solo e soltanto un attacco alla democrazia significa solo non vedere lo stato penoso nel quale si è ridotta la politica, non sentire i tanti che si dichiarano astensionisti, che si rifiutano di alimentare la «casta». Significa non vedere che la politica attuale, la democrazia attuale, sono diventate quasi un affare privato. Significa non vedere che c’è la crisi dei partiti e - lo dico da vecchio comunista - che il tanto criticato «centralismo democratico» era un capolavoro di democrazia rispetto allo stato attuale delle cose e dei cosiddetti partiti. Usare la parola democrazia per difendere una democrazia che è in crisi è come sostenere che è in ottima salute una persona data per moribonda dalle sue radiografie. È come difendere l’onore di una storica villa gentilizia che è diventato un bordello o quasi.
E, aggiungo, vi ricordate Guglielmo Giannini (che non era proprio uno stupido) e il grande successo dell’Uomo qualunque? Ebbene sforzatevi di ricordare e di ricordare come allora - c’erano i partiti - in breve tempo il qualunquismo fu battuto. Ma dobbiamo proprio ricordare che allora c’erano la Dc, il Pci, il Psi, cioè i partiti che stavano e agivano nella realtà del sociale e del politico?
Non possiamo replicare a Grillo in nome di un onore della democrazia che è molto logorato. Dovremmo avere tutti, a cominciare dal piccolo manifesto, il coraggio e l’intelligenza di analizzare con impegno e serietà i mali della politica e della società (non c’è una «società civile» buona). Fare, come un buon medico, una diagnosi del nostro stato di salute e, quindi, intraprendere le cure opportune. Ma il timore è che gli attuali medici pensino che sia utile e vantaggioso il proseguimento della malattia. E questo sarebbe un errore funesto anche per i medici stessi. Insomma, o prendiamo sul serio l’antipolitica per risanare la politica, per trasformarla in critica dura e positiva, oppure restiamo impegnati in una battaglia difensiva con armi più che spuntate. Ma quando eravamo ragazzi, perché ci piaceva tanto la favola nella quale il bambino gridava: «il re è nudo»?
Il caro estinto
di Furio Colombo
Che cosa distingue la televisione politica di questi giorni, del dopo Grillo e del dopo Casta, dalle sorprendenti incursioni popolari sia di piazza che di tv, al tempo di «Mani pulite»? Credo di poter dire che, adesso, c’è un’aria funebre.
Sto pensando ad AnnoZero di Santoro di giovedì scorso (su giustizia, ingiustizia e magistrati perseguitati). Ma gli altri talk show politici pur essendo più cauti e conformisti, non sono meno lugubri. Sono processi a un cadavere.
Del resto provo quella sensazione di inopportuna esibizione nel luogo sbagliato quasi ogni giorno al Senato. I nostri avversari cantano e ballano un po’ barbaramente e credono di farlo intorno alla salma o al corpo morente del loro odiato nemico (odiato perché, fino all’ultimo respiro, pretende di far pagare le tasse). Invece partecipano, sia pure in modo sgangherato, a una cerimonia funebre collettiva.
Torno per un istante ad AnnoZero. Il senso cupo, da «day after» del programma di giovedì 7 ottobre, era dato dalle parole estreme dei giudici (Forleo, De Magistris), dalle parole estreme di voci e volti diversi e dolenti dei «testimoni» (storie, esperienze presentate come esemplari), dal grido, che mi pareva senza speranza, dei giovani automobilitati in Calabria, dagli applausi così intensi e rabbiosi proprio perché terminali. Ti diranno che simili trasmissioni sono deliberatamente caotiche, che i pezzi sono fuori posto, che i percorsi sono guidati dai temi da sostenere, che l’enfasi era eccessiva. È possibile.
Ma nessuna «errata corrige» ti potrebbe sottrarre al senso di fine, di capolinea, potrebbe dirti se c’è giustizia dopo questa giustizia, se c’è ceto politico e classe dirigente dopo questi personaggi, se c’è vita (vita pubblica, vita insieme) dopo questa vita bloccata dal muro dei carichi pendenti di un mondo finito che viene prima, e non sgombera.
Ma le sedute quotidiane al Senato sono anche più cupe e più tristi perché il senso di ultimo giorno che ispirano (votare all’improvviso ogni cosa che nega o ne disfa un’altra pur di giocare scherzi, segnare disprezzo, bloccare la piccola, lentissima macchina, accreditarsi un punto al costo di bruciare nel niente ore, giorni, settimane, mesi ormai) quel senso di ultimo giorno e di applauso alla salma avviene non nel tempo libero della televisione ma nelle mattine e nei pomeriggi di lavoro di una camera della Repubblica.
Con un pauroso aumento dei costi si discute a vuoto, per tempi lunghissimi, di riduzione dei costi, che ciascuno attribuisce esclusivamente alla parte avversa, ma mai che ci si fermi a domandarci: i costi di quale politica, per fare che cosa, al servizio di chi?
Con una immensa spesa di energia, tempo, fatica, persino talento, ogni volta che il lavoro parlamentare sta per cominciare, il convoglio viene spinto in una piazzola di sosta, che dura un giorno o una settimana muovendo nel vuoto dibattiti feroci e senza scopo, senza destinatari, senza un qualsiasi punto di possibile conclusione.
Pensano davvero, i senatori della Casa delle Libertà che ci sia un popolo disposto a battersi per il generale Speciale, la cui unica battaglia, tutta privata, riguarda la sua carriera?
Quando giovedì scorso in Senato, il presidente di turno, Calderoli, ha interrotto il confuso dibattito a vuoto per annunciare che era morto il soldato italiano D’Auria, ferito a morte in Afghanistan nel blitz inglese per liberarlo, in quel minuto quel gruppo di uomini e donne che costano molto e si costringono a vicenda a non lavorare (quasi fermi ormai da un anno) hanno sentito nel soffio gelido di morte - e nel minuto di silenzio - che qualcosa di vero, di reale e di tragico li stava sfiorando. Più vero dell’inutile e umiliante dibattito su quel personaggio da opera buffa che è il generale Speciale. Ancora più tragica la missione di quel caduto italiano perché di essa non sappiamo niente, non ci hanno detto niente, non abbiamo voluto sapere niente. Mentre noi siamo qui a ripetere il rito di qualcosa che è proprio finito.
Loro dicono che è finito Prodi. Ma, come in una "funeral home" californiana, esibiscono il loro leader imbellettato, finto, e col sorriso fissato dal truccatore per promettere un’altra vita. Anche l’improvvisato abbraccio fra il ministro Di Pietro e il leader post-fascista Fini, non vi sembra uno di quegli improbabili gesti di conciliazione-disperazione tipico dei funerali?
Solo che in questo funerale, evocato in modo particolarmente suggestivo dalle luci basse, le voci con effetto di rimbombo o di eco (un difetto tecnico ma efficacissimo) e gli applausi disperati della trasmissione "AnnoZero", non c’era neppure la salma. Della cosidetta seconda Repubblica sembra che non sia rimasto niente.
* * *
Ecco perché il profilarsi nel confuso orizzonte del Partito democratico disturba il caro estinto al punto da fargli dichiarare (a lui, mentre ci guarda col sorriso fisso) che "tutto comincia con il 14 ottobre".
Il 14 ottobre è il giorno delle primarie che dovranno eleggere il segretario e leader del nuovo partito, non il salvatore. Soltanto qualcuno vivo e normale, che ha già dato una buona prova di tenere la casa in ordine e che ha come programma di non restare inchiodato in un punto a rivedere per sempre lo stesso blob del passato.
Lo dico per coloro che, per tante buone ragioni, si sono scostati a sinistra, con la stessa persuasione di alcuni grandi americani degli anni Sessanta (Norman Mailer, Leonard Bernstein, Leroy Jones, James Baldwin) che stavano più vicino alle Pantere nere che a Martin Luther King, e non volevano votare per Kennedy (e poi altri di loro per Carter, per Clinton) perché dicevano: sono troppo moderati, sono uguali ai repubblicani. Ma quando si sono trovati di fronte a Nixon, a Reagan, a Bush padre, a Bush figlio, hanno potuto constatare l’immensa diversità di mondi, di visione della vita e del destino degli esseri umani. Lo dico per coloro che si mantengono scettici e separati mentre muore un’intera epoca di vita pubblica, e l’intravedere una nascita sta scuotendo e buttando all’aria tutti i progetti e le certezze acquisite degli officianti della ripetizione infinita dei riti di fine stagione.
Lo dico perché noto la differenza tra lo scompiglio di chi prende male questa nascita perché la prende sul serio, e l’incertezza o freddezza o disincanto di tanti per cui sarebbe più naturale partecipare a un buon lavoro di costruzione.
Si può fare un elenco di errori anche gravi, è vero, nella nascita di questo partito, dal regolamento cervellotico alla esclusione di persone e valori che sarebbero stati un bel contributo (penso a Pannella, penso a Di Pietro, prima dell’incomprensibile abbraccio con Fini). Ma bastano questi errori per disinteressarsi di tutto in un momento estremo?
È il momento in cui il Paese (mentre nel bunker Prodi e Padoa Schioppa cercano di mantenere onorato e credibile ciò che resta della Repubblica) potrebbe voltare per sempre le spalle al caro estinto. L’alternativa è il suo ritorno con frasi registrate del tremendo già detto, il sorriso fisso del truccatore e la officiante Michela Brambilla col reggicalze e tutto.
* l’Unità, Pubblicato il: 07.10.07, Modificato il: 07.10.07 alle ore 19.09
Proteggiamo i partiti da se stessi
di BARBARA SPINELLI (La Stampa,7/10/2007)
Mancano pochi giorni all’elezione della persona che guiderà il nuovo Partito democratico, e molte parole son state spese dai candidati per dire le proprie preferenze programmatiche, il desiderio di suscitare nei cittadini più partecipazione democratica, l’aspirazione a superare la crisi della politica con nuovi modi di pensarla, farla, comunicarla. Si è parlato anche di cose futili, come l’età dei candidati e la loro appartenenza a un sesso o a un altro. È una futilità dimostrata dalla storia: il socialista Jospin sfidò Chirac insultando la sua tarda età, alle presidenziali francesi del 2002, e sparì addirittura dal secondo turno. Ségolène Royal puntò sul proprio esser donna: il successo non le arrise.
Di una cosa tuttavia si è parlato poco nella campagna delle primarie, o comunque non sono state approfondite due domande cruciali: a cosa serva avere un partito organizzato piuttosto che un movimento o una rete fluida di simpatizzanti, e quale debba essere il rapporto che il partito ha con il governo, quando quest’ultimo è del proprio campo.
Eppure è questo il tema essenziale, su cui i candidati sicuramente hanno meditato ma che non hanno spiegato bene ai propri elettori. Si accenna spesso al danno che un partito invasivo arrecherebbe al governo Prodi - o viceversa degli effetti nocivi che l’impopolarità di Prodi avrebbe sul partito - ma così si elude la questione che non è contingente bensì permanente: è la questione se il governo debba tener conto del partito o dei partiti fino a esserne sommerso, oppure se debba avere una sua autonomia e preminenza.
Se debbano esserci regole che assicurino una separazione di poteri, competenze, autonomie. Anche in questo caso la storia serve, essendo la partitocrazia un male non solo italiano. Anche la Germania, per esempio, lo conosce. Helmut Schmidt cancelliere fu ridotto all’impotenza dal proprio partito, su missili Nato e riforme economiche, e prima vide restringersi i margini per manovrare, poi perse l’alleato liberale, infine fu soppiantato nell’82 da un’alleanza fra Kohl e liberali. Eppure i socialdemocratici avevano vinto le elezioni del 1980, dando una possente maggioranza a Schmidt. Il partito ebbe quasi vergogna di quella vittoria e preferì perdere. Lo stesso minaccia di ripetersi oggi: per conquistare le sinistre estreme il leader Spd, Kurt Beck, vorrebbe congedarsi dal riformismo di Schröder (pensioni a 67 anni, durata più breve dell’indennità di disoccupazione per chi ha più di 50 anni e rischia il prepensionamento) e in tal modo non solo sovverte il lavoro dei ministri socialdemocratici - tra cui il vicecancelliere Müntefering - ma distrugge un riformismo che ha dato risultati eccellenti, come riconosciuto dagli stessi democristiani.
In Italia il rischio è assai simile: che il futuro leader del Partito democratico non abbia chiaro in mente quale sia il preciso compito della sua formazione, e quali ne siano i limiti. L’attenzione dei principali candidati sembra concentrarsi più sulla governabilità (con chi governare? con chi mantenere il potere?) che sul programma e sulla difesa di alcuni punti salienti nel caso il governo non riesca ad attuarli tutti. Ad esempio: come difendere i Dico, o l’opportunità di una legge sul conflitto d’interessi, o l’abolizione delle leggi ad personam? Il partito può insistere su questi punti anche se il governo pare rassegnato e l’unanimità dei consensi impossibile.
Il candidato che fin qui ha posto la questione con maggiore scrupolosità è Rosy Bindi. Volutamente, ha sottolineato la propria lealtà al governo Prodi: senza dargli lezioni, senza confondere la corsa alla leadership partitica con la corsa a Palazzo Chigi. La sua formazione cattolica è inoltre all’origine di una sua vigile cura della laicità: e non solo quella che distingue tra politica e religione, ma anche quella che traversa la politica e implica separazione nitida fra programma di partito e azione di governo, funzione profetica del primo e funzione operativa del secondo, tempi dell’uno e dell’altro, cultura e azione. Tale separazione sembra in lei istintiva. I suoi simpatizzanti forse la voteranno anche per questo.
Questo tipo di laicità è fondamentale, nelle democrazie dove l’esecutivo fatica a farsi valere. Attuarla restituendo all’esecutivo la preminenza non diminuisce la forza del partito, né la sua capacità d’interferenza. Non è infatti dall’interferenza in sé che occorre guardarsi, ma dall’interferenza arbitraria che diventa dominio e predominio. Sono questi ultimi che sfibrano non solo i governi amici ma deturpano i partiti stessi, visto che essi non si esauriscono nel governare ma debbono durare oltre i governi, e vivere se necessario periodi di opposizione senza disperdersi in campagne elettorali permanenti che tengono tutti a galla allo stesso modo. Quest’arte di durare e non solo galleggiare, se sarà trovata, servirà non solo alla sinistra: nessuno a destra - neppure Casini - pare possederla.
I partiti sono oggi contestati in Italia, non senza motivi. Essi producono oligarchie interessate alla conservazione del potere più che aristocrazie profetiche, come spiegava negli Anni 10 e 20 del secolo scorso lo studioso tedesco Robert Michels, molto scettico su democrazia e organizzazione partitica: ogni organizzazione produce ineluttabilmente oligarchie conservatrici, diceva. Per questo era preferibile il leader carismatico a quello burocratico, figlio dell’organizzazione. Il disprezzo per i partiti democratici condusse Michels ad ammirare dittatori che vollero abolire i partiti. Da socialdemocratico che era, divenne fascista. Il leader carismatico o demagogico rappresenta la risposta alla «legge ferrea dell’oligarchia», che Michels considerava una spregevole fatalità. Queste oligarchie interessate a mantenere potere e consensi sono più forti e deleterie se il partito soverchia e insidia il governo amico.
La governabilità lo interesserà più del governare, i consensi immediati più delle idee. Ogni convinzione minoritaria gli apparirà sconveniente, fastidiosa. Si affermerà l’idea, non necessariamente giusta, che un partito che si rispetti debba avere, su tutto, idee che piacciano ai più. Così non dovrebbe essere: un partito può avere idee minoritarie anche per un periodo lungo, senza perdere nobiltà. Non metterà in cima alle proprie preferenze, su praticamente qualsiasi tema, quelle che si chiamano oggi «larghe intese» o «idee condivise». Anche questo è rispettare la frontiera laica fra partito e governo, fra interferenza e dominio. I partiti devono avere un ruolo profetico, più penoso per i governi. Devono tenere la rotta se vogliono traversare epoche prospere e carestie, di governo e di opposizione. Trascurare tale compito sfocia facilmente in un pericolo grande: la cooptazione, cui si ricorre per proteggere oligarchie e primati sui governi.
La cooptazione è descritta con tinte nere da Michels, e stupisce l’attualità delle sue parole. Si coopta chi raccoglie consenso nel campo avversario e può prendere il nostro potere, e si agisce così: «I leader dell’opposizione ottengono nel partito alte cariche e onori e così vengono resi innocui, in quanto in tal modo sono loro precluse le cariche più importanti ed essi rimangono nei secondi posti senza influenza notevole e senza poter sperare di diventare un giorno maggioranza; per contro essi condividono ora la responsabilità delle azioni compiute insieme agli avversari di una volta». È una denuncia antipolitica su cui vale la pena meditare, vista la frequenza con cui il fenomeno ricorre nella storia. L’apertura di Sarkozy a uomini di sinistra è di questo tipo. Dello stesso tipo sono le aperture di alcuni candidati del Pd a oppositori come Gianni Letta o Tremonti.
I partiti restano utili, nonostante siano ancora una volta, oggi, percepiti come casta. Ci vuol coraggio a difendere chi vi milita continuativamente, e perfino a chiamarli partiti. È utile anche l’organizzazione che essi tendono a darsi: che non produce fatalmente oligarchie con vocazione prevaricatrice ma permette di fissare limiti, di evitare dismisure, esorbitanze. Veltroni dice con acume che urge «uscire dai recinti»: ma i partiti hanno una loro geografia, e geografia è recinzione di territori. Solo così si smentisce quel che in Michels è tentazione totalitaria, oltre che acido fatalismo. I partiti proteggono la politica non dalla rabbia di Grillo (non è lì il pericolo) ma dalle lobby, dagli interessi particolari, dai demagoghi. Sono preziosi a condizione che diventino una forza grande, e però conscia dei propri limiti: è la sfida delle elezioni del 14 ottobre.
"Rapporto torbido tra politica, magistratura e tv"
ROMA - "La difesa e la valorizzazione delle autonomie è uno dei fondamenti della nostra Repubblica. Battersi per evitare che un qualsiasi politico come un qualsiasi cittadino possa diventare un capro espiatorio è cosa necessaria e buona. Nessuno deve essere messo alla gogna. Ma il diritto alla critica in generale e il diritto di criticare la politica nelle sue manifestazioni in particolare è una prerogativa senza la quale un sistema informativo perde la sua validità". Lo afferma in una nota il presidente della Camera Fausto Bertinotti. Nella lettera l’ex leader del Prc aggiunge: "Si sta facendo torbido in modo preoccupante il rapporto tra la politica e la magistratura e tra la politica e il sistema radio-televisivo". "E’ una condizione - prosegue Bertinotti - che nella crisi della politica il Paese e le Istituzioni non si possono permettere. C’é bisogno di mettere fine a queste pericolose turbolenze per riacquistare una trasparenza di rapporti. La difesa e la valorizzazione delle autonomie è uno dei fondamenti della nostra Repubblica". "Battersi per evitare che un qualsiasi politico - prosegue - come un qualsiasi cittadino possa diventare un capro espiatorio é cosa necessaria e buona. Nessuno deve essere messo alla gogna. Ma il diritto alla critica in generale e il diritto di criticare la politica nelle sue manifestazioni in particolare è una prerogativa senza la quale un sistema informativo perde la sua validità.
Il servizio radio-televisivo è un realtà importante e delicata di questo sistema". "Tra poco - sottolinea Bertinotti - il Parlamento interverrà su di esso attraverso una proposta di legge del Governo, la cosiddetta ’legge Gentiloni’. Sarebbe bene cogliere l’occasione per avviare nel Paese, con il coinvolgimento delle forze della cultura, degli intellettuali, degli operatori dell’informazione, delle forze politiche e sociali, un dibattito sul ruolo del servizio pubblico in questa difficile fase di transizione che il Paese sta vivendo". "Di tutto in ogni caso c’é bisogno - conclude -, tranne che di censure. Discutiamo della missione del servizio pubblico e lasciamo a chi dirige le impegnative trasmissioni di attualità la libertà e la responsabilità di condurle. La politica riacquista autorevolezza dimostrando di saper pensare in grande".
* ANSA» 2007-10-06 14:28
Tra ’Casta’ e ’V-Day’ politici sempre più nel mirino
Politica, Italia sotto elettroshock
Roma, 7 ott. (Adnkronos) - La ’casta’ deve imparare a dare le risposte alle domande che provengono dalla società civile. La politica deve fare a meno dei privilegi e degli sprechi, rigenerando se stessa. Ma la società civile deve comprendere che la politica è il sale della democrazia. Senza politica si rischiano degenerazioni e derive avventuristiche. Queste le indicazioni che emergono da una serie di interviste ad alcuni noti intellettuali italiani condotte dall’ADNKRONOS. Le domande poste a scrittori, storici, filosofi e sociologi partono dalla constatazione che in questi ultimi mesi il corpo politico sta subendo un vero e proprio elettroshock. Chi potrebbero essere domani i nuovi protagonisti della vita politica italiana? Chi può avere interesse a infliggere una cura così drastica? E quale potrebbe esserne lo sbocco?
"Lo sbocco temuto in una tale situazione potrebbe essere quello di una svolta autoritaria, ma io non vedo questo pericolo", assicura il professor Lucio Villari, ordinario di Storia moderna e contemporanea all’università di Roma. "O la classe politica è capace di rigenerarsi, recuperando ideali e ruolo programmatico, oppure la ’casta’ - secondo Villari - rischierà di degradarsi sempre di più. Il rischio, a mio parere, è quello che la politica si riduca semplicemente a spettacolo, a pettegolezzo e critiche personali".
"Le classi politiche - afferma il professor Villari - devono sempre ricordare che sono controllate dagli elettori e accettare le critiche al loro operato. Ma le critiche non devono mai arrivare a un punto in cui si può fare a meno della politica, che è un elemento fondamentale per la vita democratica". Villari non vede protagonisti nuovi all’orizzonte immediato: ’’I politici maturano nel corso degli anni, non ci si improvvisa statisti. Per quanto riguarda il fenomeno Grillo, mi sembra che siamo di fronte ad un cittadino dotato soltanto di una buona forza espositiva".
Il professor Francesco Perfetti, ordinario di storia contemporanea alla Luiss di Roma e direttore della rivista ’Nuova storia contemporanea’, ricorda come il fenomeno dell’antipolitica non è nuovo in Italia, anzi, affonda le sue radici nella fase post-unitaria, arrivando fino ai primi decenni del XX secolo con Giuseppe Prezzolini e poi fino al qualunquismo di Guglielmo Giannini. "Quindi c’è una lunga tradizione di antipolitica - sottolinea Perfetti - che nell’attuale momento ha finito per esplodere in modo automatico. E questo perchè il sistema politico è in una fase di crisi sostanziale: la frattura tra il Paese reale e il Paese legale, cioè tra classe politica e società civile, è andata sempre più rafforzandosi".
La classe politica, di destra e di sinistra che sia, spiega Perfetti, "viene percepita oggi come una ’casta’, per usare un’espressione di moda. Non c’è quindi da meravigliarsi che nascano fenomeni come quello di Beppe Grillo". Il problema, ricorda il direttore del periodico ’Nuova storia contemporanea’, è di come riuscire a canalizzare l’antipolitica verso soluzioni di tipo politico. "Uno dei possibili esiti della fase attuale - azzarda Perfetti - potrebbe essere la grande astensione elettorale. La situazione oggi è tale che il partito dell’astensione potrebbe avere una visibilità piena". Ma Perfetti non esclude la possibilità che i politici facciano tesoro della protesta di questi mesi e "cerchino di nuovo e davvero un contatto con la società civile, accogliendone istanze e richieste".
Quanto ai nuovi leader, per lo storico "paradossalmente si staglia all’orizzonte solo Silvio Berlusconi, il quale è sceso in campo all’insegna dall’antipolitica proprio per dare vita ad una forma nuova di politica".
Per il professor Franco Ferrarotti, docente emerito di sociologia all’Università di Roma ’La Sapienza’, non deve stupire il rigurgito attuale di antipolitica: "Siamo in una fase di transizione nella quale, necessariamente e naturalmente, emergono i disagi e le aspettative. Quello che non si deve apprezzare è il turpiloquio e l’insulto, che niente hanno a che fare con la politica e nemmeno con la piu’ elementare convivenza civile". Uno sbocco a questa situazione, osserva il noto sociologo, ’’ovviamente ci sarà, perché storicamente nessun problema resta mai in sospeso per lungo tempo. Lo sbocco ci sarà con le elezioni, non so se anticipate o regolari. Le elezioni saranno una catarsi, un rinnovamento, una purificazione delle scorie e dei disagi". Riguardo ai nuovi protagonisti, Franco Ferrarotti ammette di non vederne. Sul fronte del centrodestra "certamente continuerà ad avere un ruolo Berlusconi", mentre nello schieramento di centrosinistra "emergerà il Partito democratico probabilmente con la guida di Walter Veltroni". E proprio nella nascita del Partito democratico, Ferrarotti vede una nota positiva, perché "di fatto contribuirà alla riduzione della segmentazione della vita politica italiana".
Più pessimistico lo sguardo del filosofo Tullio Gregory, autore di uno dei più diffusi manuali di storia della filosofia per i licei e direttore dell’Istituto per il lessico Intelletturale Europeo. "La verifica è essenziale in una democrazia. Eppure oggi in Italia - avverte Gregory - si assiste non tanto al trionfo dell’antipolitica quanto alla carenza nei partiti di idee politiche e programmi, salvo rarissime eccezioni. La sensazione è che il Paese non sia governato, che l’Italia non abbia una prospettiva. Per accorgersene - afferma il filosofo - basta vedere il disastro delle nostre università e dei nostri istituti di ricerca. Di fronte a questa situazione emergono reazioni qualunquistiche che non sono però uno sbocco positivo. E se il dibattito politico è solo quello che si registra negli studi televisivi, allora si capiscono anche certe reazioni dell’opinione pubblica".
Dall’osservatorio del professor Tullio Gregory il panorama è disarmante: "La politica è sempre più intesa come un piccolo cabotaggio, dove si vive giorno per giorno e senza grandi prospettive. Un vuoto quindi che giustifica la nascita di movimenti di protesta. Ciò che mi preoccupa non è l’apparizione di personaggi come Grillo, ma la mancanza di idee dei nostri politici".
Monito dal Quirinale dopo le polemiche e i toni caldi di questi giorni
"Potevo estromettermi del tutto, ma non l’ho fatto
"Un clima pericoloso per il Paese" Antipolitica, l’allarme di Napolitano
di GIORGIO BATTISTINI *
ROMA - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano è preoccupato. Il clima di antipolitica che si respira nel paese non gli piace. "Sì - dice il capo dello Stato ai giornalisti dopo la consegna dei premi di giornalismo Saint-Vincent - la situazione è pericolosa. C’è un clima pesante di qualunquismo. Per me poteva essere più comodo cavalcare tutto o estromettermi del tutto, ma ho scelto di non farlo". E così il capo dello Stato frena Grillo. Non volendo e non potendo bacchettare direttamente l’interessato (che sembra riscuotere soprattutto applausi a sinistra, vecchia e nuova, ma anche dal centro di Di Pietro) il presidente affida a una lezione di giornalismo nel salone dei corazzieri al Quirinale una raccomandazione intensa per ottenere la massima attenzione e la massima prudenza, visto il dilagare del grillismo su tutte le prime pagine nazionali. Quasi una doccia fredda sulla sbornia d’irridente ironia che ha invaso la politica.
Consegnando al Quirinale l’annuale premio Saint Vincent di giornalismo, Napolitano invita la stampa italiana ad "evitare la denuncia indiscriminata e approssimativa, magari sensazionalistica, nella descrizione dei problemi del mondo della politica". Un mondo, aggiunge, che "merita ogni disvelamento e approfondimento anche critico, ma con misure che possano suscitare partecipazione e volontà di riforma. Non negazione e senso d’impotenza", come accade con il qualunquismo. Facendo attenzione, raccomanda ancora, al danno che "possono provocare rappresentazioni unilaterali della volontà del Paese, partendo dall’idea che le buone notizie non sono notizie". Il capo dello Stato ricorda che spesso "i mass media si difendono dicendo che raccontano e riflettono. Ma - conclude Napolitano - bisogna vedere come lo fanno".
Così, dopo i ripetuti richiami alla "schiena dritta" rivolti al mondo dell’informazione negli anni del suo settennato da Carlo Azeglio Ciampi, Giorgio Napolitano è ora alle prese ora con gli effetti dell’inedito fenomeno-Grillo sui media. Col rischio che monti nel Paese un allarmante disagio contro partiti e istituzioni. Il richiamo alla stampa è un indiretto avvertimento agli eccessi qualunquistici, già intravedendo una deriva a danno di quella democrazia dei partiti (e dei suoi privilegi) della quale il capo dello Stato è legittimo rappresentante come massimo esponente delle istituzioni.
Da qui un duro richiamo ai giornalisti. Il diritto-dovere d’informare e comunicare obbliga a essere "sempre coscienti delle ricadute d’ogni denuncia indiscriminata e magari approssimativa". Nessun riferimento diretto, ma il pensiero del capo dello Stato su Grillo e dintorni è trasparente. E infatti subito aggiunge che i giornalisti devono essere "consci e responsabili di quello che comunicano, anche quando si parla del mondo della politica, nel quale sono doverosi approfondimenti e grande responsabilità". A riequilibrare i richiami critici arriva però un riconoscimento ai sacrifici dei giornalisti. Un premio speciale è andato a Giovanni Spampinato (ucciso a Ragusa nel ’72 mentre indagava su un intreccio tra fascisti e mafiosi) e a Giancarlo Siani (ucciso dalla camorra a Napoli). Infine la segnalazione dei guasti del precariato e dell’umiliazione della mancanza di un contratto di lavoro che manca da quasi quattro anni.
* la Repubblica, 19 settembre 2007.
Politica dell’antipolitica, antipolitica della politica
di Ida Dominijanni (il manifesto, 13.09.2007)
«In molti paesi la disillusione e la sfiducia si sono andate sviluppando in un crescendo di frustrazione, di rabbia e, alla fine, di un vero e proprio rigetto della politica. Alla fine, siamo alle prese con una revulsione che potremmo chiamare la politica dell’antipolitica». E’ una diagnosi di Giovanni Sartori, in un suo libro del 1995. Aggiungeva Sartori che questa sindrome si prospetta non più nella forma dell’apatia del passato, che «rendeva la politica fin troppo facile», ma in quella di «un rigetto attivo, partecipante e vendicativo», che «la può rendere troppo difficile». Dal 1995 a oggi sono passati la bellezza di dodici anni, e per «la politica dell’antipolitica» non è tempo di scoperte ma di bilanci: in Italia ne abbiamo avuto infatti un campionario da oscar, per la verità solo in minima parte ascrivibile ai movimenti e alle piazze, e per lo più, viceversa, interno alle trasformazioni del sistema politico, economico, massmediatico, nonché giudiziario. Fanno parte del campionario: la corruzione politica e economica scoperta con Tangentopoli e mai arrestata; l’equazione fra partiti e partitocrazia e fra corruzione e «Prima Repubblica» alimentata dopo il ’92 nel senso comune dal coro pressoché compatto dell’informazione; l’illusione di risolvere i problemi politici per via giudiziaria, anch’essa alimentata all’epoca dallo stesso coro (oggi talvolta pentito); la riduzione - e conseguente neutralizzazione - della politica a questione di regole da fare, disfare e rifare; la riduzione della società civile a audience televisiva passiva dei talk show di seconda serata volentieri frequentati dai politici di professione; da penultimo, il duplice trionfo politico di Silvio Berlusconi, che l’antipolitica l’ha portata al potere; e da ultimo, la duplice delusione inflitta all’elettorato di centrosinistra dai suoi governi, che non si può dire abbiano messo la rilegittimazione della politica al primo posto della loro agenda emozionale e programmatica.
Questo per dire che, prima di prendersela con Beppe Grillo e i grillini e, retrospettivamente, con i girotondi e i girotondini (movimento peraltro molto coccolato anni addietro come grimaldello contro gli allora vertici diessini), sarebbe il caso di riportare le derive antipolitiche alla loro matrice, che è interna alla degenerazione della politica, al suo svuotamento, al suo farsi sempre più autoreferenziale e castale, al suo sempre più opaco impastarsi con l’economia, alla dissoluzione del suo linguaggio nel linguaggio televisivo e via dicendo.
Certo, sarebbe sbagliato, sbagliatissimo fare di ogni erba un fascio: dal ’92 in poi, all’interno del sistema politico c’è chi ha denunciato questo andazzo (Massimo D’Alema primo fra tutti) e chi l’ha cavalcato, vuoi in nome della spallata azzurra alla «Prima Repubblica» vuoi in nome di un nevrotico nuovismo di (centro) sinistra. Ma purtroppo in politica, e nella storia, contano i risultati. E i risultati, per la politica «ufficiale» italiana, sono quelli che sono. Frustrazione, rabbia e rigetto, per riprendere i termini di Sartori, non diminuiscono ma aumentano: evidentemente non basta la fredda e professorale retorica prodian-padoaschioppiana del risanamento dei conti pubblici, né le buone intenzioni moralizzatrici di Rosi Bindi, né gli annunci sulla necessità salvifica del Partito democratico per compensare la percezione di declino, mancanza di futuro, precarietà che deprime giovani e meno giovani generazioni, o la quotidiana frequentazione di territori malamente amministrati da uno stato malamente decentrato, o la continua aggressione di un capitalismo sempre più barbaro (e sempre più sconosciuto, a destra e a manca, perché parlare del capitalismo è sconveniente e fa meno share delle comparsate di Corona). Si può prescindere da questo quadro - desolato, mi rendo conto - per capire «il sintomo» V-Day; e viceversa, basta questo quadro per entusiasmarsi del V-Day?
Eugenio Scalfari, su la Repubblica di ieri, legge la piazza di Bologna (e la piazza tout court), senza se e senza ma, come l’ennesima prova dell’eterno ritorno di un virus di qualunquismo, populismo, anarco-individualismo che corre da sempre in Italia, accentuato oggi dalla massificazone e dalla manipolabilità mediatica della società contemporanea, e portatore sicuro di una malattia, o di una terapia, dittatoriale. E’ un allarme che si può capire, ma sommessamente proporrei di andarci più cauti, e di non scambiare, appunto, il sintomo per il virus. Una manifestazione che ha come slogan un gigantesco vaffanculo, che s’inventa l’ennesimo leader e che per giunta si riduce poi a fare il verso al parlamento con una proposta di legge-manifesto approssimativa, non può entusiasmare nessuno, tantomeno chi, a differenza di Scalfari, giudica che nelle piazze possano talvolta - talvolta - esprimersi discorsi e sentimenti più articolati. Ma in quello slogan converrebbe vedere, più che l’urlo di un’invasione barbarica, il rivelatore del grado zero a cui è arrivato in Italia il linguaggio della politica, cioè la politica, non certo per colpa di Beppe Grillo; e di un imbarbarimento che è tanto della società quanto della sua espressione di palazzo. Come pure nell’uso della Rete da cui la piazza di Bologna nasce converrebbe vedere, più che la continuazione della massificazione passiva via tv di cui siamo stati vittime e complici per alcuni lustri, la possibilità di uno scatto di presa di parola e di coinvolgimento in prima persona, che può fare la piccola differenza, in Italia come altrove, fra la telecrazia e una sia pur minimale interattività.
Non c’è un governo di saggi assediato in piazza dalle invasioni barbariche. C’è nel palazzo e in piazza un’afonia che tocca rompere a chi, in piazza e - se c’è - nel palazzo, sappia trovare e comunicare parole più convincenti di una V per dare voce a una necessità di svolta e a un bisogno di politica.
Secondo un rapporto, gli ordigni si trovano ad Aviano e Ghedi
La loro presenza è vietata dalla legge e da trattati internazionali
Nucleare, rivelazione dagli Usa
"In Italia 90 bombe atomiche"
Lidia Menapace (Prc): "Lo denunciamo da molto tempo" *
ROMA - Lo vieta la legge e in più occasioni in passato lo ha dichiarato anche il governo, ma l’Italia è un paese nucleare. A rivelarlo è uno studio americano, secondo il quale sul territorio italiano ci sono 90 bombe atomiche statunitensi. Una presenza della quale si parla molto poco, ma che ha un peso strategico importante negli equilibri internazionali. Sul tema sono intervenuti alcuni esponenti di Rifondazione, che stanno anche promuovendo una raccolta di firme.
A rigor di legge, la presenza di questi ordigni non sarebbe consentita: la legislazione la vieta espressamente dal 1990. Il nostro Paese ha inoltre sottoscritto i trattati internazionali di non proliferazione nucleare e ha dichiarato di non far parte del club atomico, con tutti gli obblighi internazionali che ne derivano.
Secondo il rapporto "Us nuclear weapons in Europe" dell’analista statunitense Hans Kristensen del Natural Resources Defence Council di Washington, invece, l’Italia ospita 90 delle 481 bombe nucleari americane presenti nel Vecchio continente. Cinquanta sono nella base di Aviano, in Friuli, e altre 40 si trovano a Ghedi, nel Bresciano.
Tra Italia e Stati Uniti esisterebbe anche un accordo segreto per la difesa nucleare, rinnovato dopo il 2001. William Arkin, un esperto dell’associazione degli scienziati nucleari, ne ha rivelato recentemente il nome in codice: "Stone Ax" (Ascia di Pietra). Le bombe atomiche in Italia sono di tre modelli: B 61-3, B 61-4 e B61-10. Il primo ha una potenza massima di 107 kiloton, dieci volte superiore all’atomica di Hiroshima; il secondo modello ha una potenza massima di 45 kiloton e il terzo di 80 kiloton.
Il governo di George Bush ha ribadito molte volte di non escludere l’opzione nucleare per rispondere ad attacchi con armi biologiche o chimiche ed ha avviato la produzione di bombe atomiche tattiche di potenza limitata, non escludendo di servirsene contro i Paesi considerati terroristi. Almeno due di questi, Siria e Iran, si trovano nel raggio dei bombardieri di stanza in Italia.
I risultati dello studio hanno dato forza alle proteste di alcuni esponenti di Rifondazione. "E’ da molto tempo che denunciamo la presenza di bombe atomiche sul territorio italiano", dice la senatrice Lidia Menapace della commissione Difesa. "Quando siamo stati ad Aviano in missione per la commissione abbiamo chiesto al comandante italiano se era a conoscenza della presenza di armi nucleari nella base e lui rispose che non lo sapeva". "Stiamo raccogliendo le firme per una legge di iniziativa popolare per liberare il territorio dalle armi nucleari americane", aggiunge il senatore Francesco Martone, capogruppo Prc in commissione Esteri.
Sinistra con lingua di destra
di GIANNI BAGET BOZZO (La Stampa, 12.09.2007)
La manifestazione bolognese di Beppe Grillo non è uno spettacolo che possa qualificarsi nella categoria dello scherzo, del gioco verbale, della rappresentazione fine a sé stessa. È un fatto politico, i motivi a cui si rifà hanno per oggetto la società occidentale, vista come insieme di strutture che sfruttano il popolo. Nel suo attacco diretto alla democrazia vi è qualcosa che ricorda più l’estrema destra che l’estrema sinistra, il «vaffà» evoca più il linguaggio dell’«aula sorda e grigia» che non quello della sinistra radicale. Vi è alla base quella critica della società borghese da cui può nascere sia l’estrema destra che l’estrema sinistra. Indica che vi è nel nostro popolo una disaffezione alla democrazia, inclusa in un quadro generale che riguarda tutto il sistema sociale. Nella sinistra vi è sempre una mediazione della ragione, anche quando termina con la violenza; qui vi è una protesta che riguarda la democrazia come procedura, l’essenza della politica occidentale. Non è un caso che il movimento preveda a settembre un incontro a Bologna contro Cofferati, in cui i cittadini dovranno indicare nomi alternativi alla candidatura a sindaco. Cofferati è un socialdemocratico e l’attacco alla socialdemocrazia è sempre il primo obiettivo dei movimenti antidemocratici di destra. Ma il movimento di Grillo nasce a sinistra, esprime la differenza tra un popolo e il sistema di potere in cui la sinistra è così insediata.
Ma la coalizione di sinistra ha accolto positivamente le parole della manifestazione, cercando d’includere il suo linguaggio antidemocratico nei temi del pd e dell’Unione. Grillo è stato compreso e legittimato da esponenti della maggioranza come Bertinotti e Rosy Bindi. Nel suo complesso quel linguaggio è stato accettato dalla cultura di sinistra, nonostante fosse diretto contro di essa. La sinistra ha occupato tutto il potere in Italia e moltiplicato i centri in cui collocare personale politico, si è radicata come partito nelle istituzioni. È a sinistra che è stato posto questo problema, con il libro di Cesare Salvi sul costo della democrazia. Ed è inevitabilmente rivolta a sinistra l’indicazione della «casta» nel libro di Rizzo e Stella, fondamento teorico di questo movimento del «vaffà». Ma perché la sinistra è silenziosa o benevola verso un movimento che vuole abolire i partiti e che è rivolto specificamente contro il suo personale politico? Perché è mancata una censura anche da parte diessina verso un così duro attacco al sistema dei partiti e alla democrazia?
La sinistra ha creato una linea di delegittimazione totale di Berlusconi che ha finito per dividere il Paese tra berlusconiani e antiberlusconiani. Le elezioni 2006 dovevano essere la rimozione morale dell’uomo criticato in tutto il mondo come un fatto antidemocratico perché emergeva fuori del sistema dei partiti, creando però una forma di partecipazione democratica che gli ha riunito attorno mezza Italia. Delegittimare Berlusconi ha finito con il delegittimare la parte quasi maggioritaria della società. Il Paese non era mai stato così diviso senza mediazioni. Ciò ha creato un problema alla democrazia: la sinistra deve accogliere in nome dell’antiberlusconi tutti i linguaggi che si pongono come sinistra anche se critici della democrazia. Deve bloccare attorno a sé tutte le posizioni anche le più diverse e costituire il fronte antiberlusconi, essenza della sua politica. Anche Grillo dev’essere incluso nel conto della sinistra anche se parla un linguaggio d’estrema destra. Certo anche il linguaggio di Grillo è un segnale della crisi della democrazia nata dalla delegittimazione di metà del Paese compiuta dall’altra parte.
SPIGOLATURE *
Al mattino, appena alzato, mi piace soddisfare la mia sete di "utopista errante" attingendo da letture di alta meditazione. Poi esco di casa e con l’aria già frizzantina delle montagne abruzzesi incomincio a respirare anche lo smog asfissiante della città. Tuffandomi, poi, nella lettura delle cronache quotidiane, ansimando, m’impantano nei labirinti melmosi di proclami e di eventi che nemmeno l’imbecillità più ottusa è capace di partorire.
Tant’è!
E’ pur vero che fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce... eppurtuttavia, quando le cadute sorpassano le crescite... c’è da preoccuparsi.
Aldo [don Antonelli]
Flavio Briatore
«“Sono i soldi a rappresentare la libertà”, ha detto Flavio Briatore nella prestigiosa sede del circolo romano di Marcello Dell’Utri. Sicuramente Briatore lo ignora, ma la sua visione del mondo è puramente marxista: solo chi è libero dai bisogni materiali può dirsi davvero libero, il resto sono pietose ciance messe in giro dai ricchi per far credere ai poveri di poter essere felici anche con la pancia vuota. (La mia sintesi è un po’ rozza, ma è per farmi capire anche ai box della Renault).
La gongolante boria con la quale i nuovi ricchi esultano in cima alla loro catasta di quattrini è, del resto, un inedito storico: prima un velo di ipocrisia o pietismo (o addirittura di buon gusto) cercava di rendere non troppo offensive le sperequazioni sociali, oggi i Briatore ti sventolano sulla faccia un ventaglio di banconote e ti dicono ridendo “guardo qui che roba, urca quanti quattrini che ho!”. Non è detto che sia un male. Il tanto desiderato disvelamento della cruda realtà dei rapporti umani, vanamente inseguito dai marxisti per quasi due secoli, ora può finalmente dirsi avvenuto grazie a Flavio Briatore. Sentendosi dire da un ricco (finalmente!) che “solo i soldi danno la libertà”, qualche miliardo di poveri potrà finalmente porsi la domanda cruciale: se non possiamo diventare anche noi team-manager di Formula Uno, perché cavolo tenere in piedi una società così di merda?»
(Michele Serra, su La Repubblica del 12 sett. 2007)
Vaffanculo-Day
«Movimenti d’opinione di natura antipolitica, come quello di cui stiamo discutendo, erompono dal seno della società e poi declinano rapidamente. La politica non è un’invenzione di qualche mente corrotta o malata, ma una categoria della vita associata. Il governo della.”polis”, cioè della città, cioè dello Stato. L’antipolitica pretende di abbattere la divisione tra governo e governati instaurando il governo assembleare. L’“agorà”. La piazza. L’equivalente del blog di Internet. Infatti la vera novità del “grillismo” è l’uso della Rete per scopi di appuntamento politico (o antipolitico).
Ma nella Rete si vede più che mai il carattere personalizzato dell’ “agorà”; di ogni “agorà”. Da quella di Cola di Rienzo a quella di Masaniello, da quella di Savonarola a quella di Camillo Desmuolins.....
In realtà il governo assembleare è sempre stato una tappa, l’anticamera delle dittature. La storia ne fornisce una serie infinita di conferme senza eccezione alcuna. Proprio per questo quando vedo prender corpo un movimento del tipo del ‘grillismo” mo viene la pelle d’oca; ci vedo dietro l’ombra del “law & order” nei suoi aspetti più ripugnanti: ci vedo dietro la dittature»
(Eugenio Scalfari, su La Repubblica del 12 sett. 2007)
* Aldo [don Antonelli]
Intervento del leader di Forza Italia alla festa di Azione Giovani
"Hanno le mani su tutto, ora anche la comunicazione è loro"
Berlusconi: "Antipolitica è colpa della sinistra
con loro non ci può essere alcun dialogo" *
ROMA - "L’antipolitica che si sta manifestando nel Paese ad alcuni ricorda lo spirito del ’92-’93, noi allora riuscimmo a dare una risposta con il Polo delle Libertà, una proposta seria ed efficace". Così il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi, ha aperto il suo intervento alla festa nazionale di Azione Giovani, movimento giovanile di An. "Oggi dobbiamo dare la stessa risposta data nel ’94" ha aggiunto Berlusconi. "Allora ci fu uno spirito di antipolitica, oggi c’è ancora, Grillo e la sua gente ne sono la dimostrazione. Credo che noi dobbiamo dare una risposta concreta".
Dopo il caso Rai, nessun dialogo con la sinistra sulle riforme. "Hanno finito per mettere le mani su viale MAzzini" ha continuato il Cavaliere, "così hanno tutte le istituzioni del Paese e adesso hanno anche lo strumento per poter fare la comunicazione che vogliono". E, visto che "pretendono di mantenere la presidenza, con questa sinistra non si può discutere".
"Quando non si riesce a nominare il quindicesimo componente della Corte Costituzionale", ha attaccato ancora il leader di Forza Italia, "dove la sinistra ha già 11 membri ascrivibili alla propria area e vuole anche avere il dodicesimo...quando sulla Rai pretende di mantenere la presidenza che gli abbiamo dato quando eravamo maggioranza...beh, con questa sinistra non si può discutere".
E il Grillo parlante liberò le nevrosi della politica
di Oliviero Beha *
Sarà pure uno «scemo di guerra» come dice qualcuno senza approfondire ma solo per esorcizzare. E per l’ironia e l’astuzia se non della storia almeno della cronaca, Scemo di guerra è il titolo di un film del 1985 di Dino Risi, appunto con Beppe Grillo e Coluche, il comico/politico italofrancese ahimé defunto che per certi versi più gli somiglia. Ma certamente Grillo ha nel suo dna un concentrato di mediaticità fenomenale. È uno strumento naturale di comunicazione.
E anche per questo che lui sottolinea tra i tanti elementi soprattutto l’elemento internet a proposito del successo stratosferico del V-Day di sabato scorso, con numeri che fanno arrossire la politica partitocratrica corrente. La tesi è semplice e palese: se vengo ignorato dai media tradizionali per mesi e anni, mentre dico agli italiani (ma non solo: avete visitato il suo sito in inglese?) le cose che tv, radio e giornali per lo più non dicono oppure dicono quasi soltanto a senso unico, incrociato, dal centro-destra contro il centro-sinistra e viceversa, e raggiungo i numeri del V-Day, di partecipazione e di firme per le petizioni popolari, ebbene ho svoltato.
Posso farne a meno, dei massmedia cioè di «questi» massmedia, mentre loro non possono fare a meno di me, di dare notizie sia pure in modo discutibile su di me e su quello che dico e faccio. Si apre con il mondo di internet un altro paesaggio. Arrivano i giovani a moltitudini, giovani scomparsi dalla scena dell’impegno e invisibili su altri palcoscenici che non fossero quello atroce eppur comprensibile di un programma della celestiale De Filippi. In piazza vedi finalmente le donne, altra categoria avulsa dalla scena socio-politica del paese ed evocata solo per dire che «all’università vanno meglio degli uomini».
Di più: abituati come siamo alla dicotomia degli eserciti di informazione al servizio dei due schieramenti, e del loro intreccio politico-economico-imprenditorial-finanziario e bancario, direi soprattutto bancario, ai non addetti probabilmente sfugge che mentre spessissimo vedere quel telegiornale o comprare quel giornale è un segno di riconoscimento politico/partitico a volte già stantio e ripetitivo, arrivare a Grillo e alle sue manifestazioni attraverso il web obbliga a ridiscutere il criterio.
Nessuno garantisce più che colui che lo segue dal blog in piazza sia «di sinistra», o «di destra». Sembrerebbe d’acchito la perdita di una garanzia per generazioni politicizzate come la mia. Garanzia che peraltro ha portato a l’Italia che abbiamo sotto gli occhi, quindi forse garanzia relativa... E comunque garanzia che evidentemente non regge più, almeno a prendere atto dei segnali del nostro «scemo di guerra» che invece vengono recensiti in maggioranza come aspetti di uno show. Mentre invece Grillo come fenomeno ed epifenomeno costringe alla esiziale domanda: e se essere «di sinistra» (o «di destra») all’italiana o all’amatriciana come accade oggi non fosse più praticamente una garanzia di nulla, almeno in partenza?
Se fosse così, come temo sia, forse bisogna cambiare mentalità e approccio. Forse non è la perdita di una garanzia, quello che sta accadendo con Grillo ma non solo con lui, con movimenti/associazioni/comitati ecc. in una malfamata e già usurata formula (ma allora i partiti?) quale la cosiddetta «società civile», bensì una forma di liberazione, di «reset», di nuovo inizio, così da fare in modo che la garanzia non sia di partenza, ma casomai d’arrivo, come fini e non come rendite di posizione. Non una recita, ma un difficile giorno per giorno. Diventare «di sinistra» forse oggi sarebbe un po’ meglio che battersi per stabilire se la sicurezza è patrimonio di una parte o dell’altra senza mettere a fuoco il contesto della questione.
Grillo in tutto ciò, al di là della formidabile vicenda mediatica di internet, comporta dunque oggi una serie di interrogativi di sostanza che in giro trovo assai poco evidenziati. Perché non conviene evidenziarli? Per «istinto di conservazione» dell’oligarchia dominante? Perché non si hanno risposte credibili e allora meglio non fare domande? Per esempio: Moretti e i girotondi erano la sinistra o chiunque fosse contro Berlusconi, non è vero? Ebbene, oggi chi firma con Grillo si schiera e si autocertifica «semplicemente» contro lo stato (minuscolo, per favore, non fraintendiamo a bella posta come spesso accade con il «comicastro» da parte degli epistemologi) italiano, inteso come un Paese alla rovescia. Non sto qui a ripetere l’elenco di magagne. Dico solo che in discussione c’è la gerenza della ditta al completo. O essa se ne rende conto, e dà segnali di comprendonio e resipiscenza, oppure le cose si metteranno per forza peggio, anche se non è detto che il peggio sia tale per tutti, diciamo certamente peggio per i bersagli delle critiche del V-Day.
Per esempio, nessuno può affermare che D’Alema & co siano colpevoli di qualche cosa. Ma proprio per questo non sarebbe meglio se costringessero loro stessi la Giunta deputata a permettere al giudice di raccogliere le loro testimonianze? Se non andranno dal giudice a testimoniare e immagino a documentare la loro innocenza, una specie di viatico a governare, la prossima volta Grillo e non solo lui pretenderanno pubblicamente di essere definiti caporioni non della «antipolitica» come ancora e ossessivamente si ripete, bensì degli «anticomitati d’affari». E lì rischierebbe davvero di venir giù tutto...
Insomma, il problema non è Grillo, e circoscriverlo come in molti fanno sembra sempre il tragico e stupido giochetto di chi vede il dito che indica la luna e non la luna italiana per di più attualmente così storta. Certo, poi uno come Grillo sa come usare il dito... ma pur essendo parte quasi immediata della stessa storia, per oggi è ancora un’altra storia. Usiamo il dito per la luna, non limitiamoci ai manicure della politica che su di essa hanno costruito il loro annoso potere e (alcuni) le loro fortune per diverse generazioni.
Un esempio chiarirà meglio il mio punto di vista. Mettiamo che tra poco, sabato 6 ottobre, quindi prima delle Primarie del Partito democratico, Beppe Grillo partecipi in qualche modo a Roma, a Piazza Farnese, alla prima manifestazione del Movimento «Repubblica dei cittadini per una Lista Civica Nazionale», teso a rimettere in gioco il rapporto tra la politica come è intesa oggi e appunto i cittadini, rifacendosi all’art.49 della Costituzione e non a Paperino. Mettiamo che Grillo appoggi con le sue energie psicowebbistiche uno degli obiettivi centrali di questo Movimento, le firme per una petizione popolare che conduca a una legge sui partiti del tutto «rivoluzionaria»: e cioè che finalmente, a sessant’anni dalla loro nascita costituzionale, i partiti, tutti i partiti, la smettano di figurare come associazioni private, con statuti che ormai non sanno di niente e niente garantiscono della loro vita interna in termini di efficienza, trasparenza e democrazia, per essere riconfigurati a norma di legge (una piccolissima, banale, infinitesimale leggina ordinaria...) così da rispondere alla legge stessa e portare i libri contabili in tribunale come qualunque altra azienda.
Mettiamo che a Roma il 6 ottobre venga chiesto questo (meglio se con la grancassa di Beppe Grillo per il suo robusto dito medio), e comunque questo è ciò che verrà chiesto alla classe politica, alle istituzioni, al Quirinale: sarebbe un’autentica rivoluzione, per o meglio direi contro i «comitati d’affari» e l’irrisolto problema dei costi/sprechi/privilegi della «casta». E una boccata d’ossigeno e di speranza per tutti i cittadini, di qualunque colore politico. Che si farà in quel caso? Continueremo a giocare con il dito del pur politicissimo (e meritorio) «scemo di guerra»?
www.olivierobeha.it
* l’Unità, Pubblicato il: 12.09.07, Modificato il: 12.09.07 alle ore 13.06
La piattaforma di Rosy Bindi: "Diamo risposte alla protesta
o emergeranno personaggi pericolosi". "Non possiamo fare finta di niente"
"Tagliamo costi e privilegi
o la democrazia è a rischio"
di CLAUDIO TITO *
ROMA - "Il problema non è solo la manifestazione di Bologna. Ma le tante firme, la gente che ha fatto la coda per aderire. E se uniamo il tutto alle copie vendute dal libro "La casta", allora bisogna capire che siamo di fronte ad una ribellione contro la politica che va presa sul serio. Non possiamo far finta di niente". Beppe Grillo, il Vaffa-day, i privilegi della politica, gli stipendi dei parlamentari. Rosy Bindi li mette tutti in fila come anelli di un’unica catena che rischia di stritolare nella culla il nascente partito Democratico.
Per questo "dobbiamo dare una risposta". Non si può tacciare quel che accade come "qualunquista e demagogico". "Quando vado ai dibattiti, alla fine le domande della gente sono sempre le stesse: "perché noi non arriviamo alla fine del mese e voi vi arricchite?". E me lo chiedono anche alle Feste dell’Unità, perché il messaggio di austerità di Berlinguer è ancora vissuto sulla pelle da una parte del popolo della sinistra. E certe cose non vengono digerite". La sua risposta, allora, il ministro della famiglia già ce l’ha: abolizione del Senato, Camera con 450 deputati, dimissioni dei condannati, stop agli aumenti degli stipendi dei parlamentari, rimborsi spese sottoposti al controllo di una agenzia indipendente.
Ma perché la protesta di Grillo va presa così tanto sul serio? E soprattutto perché adesso?
"Perché o diventa una seria occasione di rinnovamento della politica o è chiaro che sarà l’anticamera dell’antipolitica".
Non lo è già?
"Non voglio usare toni apocalittici. Io ho vissuto in prima linea la stagione di tangentopoli. C’era una grande rabbia contro i corrotti, la rabbia ora è nei confronti di tutta la politica. So che nelle parole di Grillo ci sono venature qualunquiste e anche un po’ di volgarità, ma prima di liquidarle come ribellione antipolitica forse è il caso di chiederci se non sia una domanda di buona politica".
Eppure i suoi colleghi dell’Unione tengono a distanza il fenomeno Grillo.
"C’è sempre la tentazione di rimuovere".
E invece?
"E invece credo che il nostro 14 ottobre debba essere una straordinaria occasione per chiamare le persone a firmare per la buona politica e non contro la politica. Altrimenti - dopo aver suscitato attese - l’effetto non potrà che essere devastante".
Se vuole rispondere alla piazza bolognese, dovrà allora recepire le sue istanze.
"Siamo ancora in tempo a non legittimare il passato. Il governo, ad esempio, ha cominciato a ridurre le indennità dei ministri. Ma bisogna imprimere un forte cambiamento".
Nel concreto che vuol dire?
"Ecco le mie proposte: i parlamentari del Partito Democratico si dovranno impegnare a modificare la legge elettorale fino a dichiarare che non si candideranno con quella attuale. Immediata attuazione del nuovo titolo V della costituzione con la soppressione del Senato e l’istituzione di una Camera delle regioni. E così avremo 315 parlamentari in meno".
Ma ci saranno i membri di questa nuova Camera?
"Sì, ma si tratta di un’assemblea di secondo livello. E comunque ci dovremmo impegnare a ridurre del 30% anche i componenti della Camera dei Deputati. Ma non mi fermo qui".
Cioè?
"Dimissioni di chiunque abbia avuto problemi con la giustizia e quindi massima trasparenza per le liste elettorali del futuro. Interruzione immediata dell’indicizzazione delle nostre indennità. Solo noi e i magistrati abbiamo questo privilegio. Separazione netta tra indennità personale e rimborsi spese. Uno stipendio di 5000 euro va bene, i rimborsi vanno affidati ad una agenzia indipendente che valuti le finalità della spesa, verifichi se risponde ad un’attività politica o meno. Stesso discorso per la gratuità dei mezzi pubblici: vale per l’attività politica e non per i viaggi privati. Bisogna anche limitare i mandati e prevedere le primarie per tutti gli incarichi politici".
I suoi "colleghi" non saranno tanto contenti. Anche perché per fare la riforma elettorale serve un consenso che va oltre il Pd.
"Veniamo considerati dei privilegiati e quasi inutili per la comunità. Per questo ci chiedono quanto costa la politica. Dobbiamo spogliarci dei nostri privilegi. Il vitalizio, ad esempio, va dato a 65 anni e deve essere un’assicurazione privata. Va rivista anche la legge sui rimborsi elettorali e sui giornali di partito. Anche la vita "finanziaria" dei partiti andrebbe controllata di una agenzia indipendente. E sa perché faccio queste proposte? Perché ritengo che il finanziamento pubblico della politica sia necessario".
Sembrava il contrario.
"Per difendere il finanziamento pubblico bisogna correggere le distorsioni. Lo difendo perché altrimenti faranno politica solo i ricchi o quanti trovano dei finanziatori che però, prima o poi, presentano il conto".
Sembra quasi che lei voglia dire: attenzione se non sarò io il leader del Pd, tutto questo non accadrà.
"Mi auguro che nel Pd saremo in molti a pensarla così".
E se il Pd non seguirà questa linea?
"Guardi, Grillo può anche essere un provocatore, ma se ottiene questo consenso, seppure con accenti di qualunquismo, non si può pensare che tutto resti come prima. Io farò la mia battaglia su questo, in ogni caso".
Però anche nel Pd potrebbero risponderle che è facile richiamare la gente con il qualunquismo e la demagogia.
"Senza una politica autorevole la vita democratica di un Paese può correre dei rischi. La nostra sfida è quella di restituire dignità alla politica costruendo un partito nuovo. Un grande partito popolare e nazionale che non sia emanazione solo di una persona. Per questo va approvata una legga sulla regolamentazione dei partiti in attuazione dell’articolo 49 della Costituzione".
Lei chiede le dimissioni di chi ha avuto problemi con la giustizia. Ce ne sono anche nel centrosinistra. Vincenzo Visco è stato condannato per abuso edilizio. Dovrebbe dimettersi per questo?
"Io parlavo di corruzione e concussione. Il giustizialismo per me non è un valore, ma nel ’92-’94 quando la politica si rifiutò di autoriformarsi e si affidò alle aule dei tribunali, il risultato fu che arrivò Berlusconi. Come allora sono convinta che debba essere la politica a riformarsi".
Questa dunque dovrebbe essere la piattaforma del PD?
"Io penso che su questo si fonda il nostro futuro".
* la Repubblica, 10 settembre 2007.
Il giorno dopo è polemica sul successo della manifestazione di Grillo
Incertezza sulle frasi ingiuriose al giuslavorista. Mancuso le ha sentite in un clip
V-Day, Casini attacca: "Vergogna su Biagi"
Sott’accusa un video sui lavoratori
Bossi: "Un’esagerazione. Io, ad esempio, condannato per un reato di poca importanza"
Bindi, Violante, Monaco: in quella piazza anche cose giuste. Guai a mettere la testa sotto la sabbia *
di CLAUDIA FUSANI *
ROMA - E il giorno dopo, che succede dei 50 mila di Bologna, dei 300 mila che hanno firmato la proposta di legge, e dei "vaffa" strillati in più di duecento piazze italiane e in una trentina di capitali straniere?
Una faccenda politicamente "ingombrante" questa di Grillo e del suo evento - il V-day - organizzato solo sul web, successo molto poco virtuale e assai fisico. Una faccenda che imbarazza la maggioranza a cui - anche - è destinato il messaggio delle piazze dell’antipolitica. E poi due ministri, Di Pietro e Pecoraro Scanio, hanno aderito mentre gli altri sono stati pubblicamente sbeffeggiati dal comico-blogger. Una faccenda in cui l’opposizione può sguazzare a piacimento. E attaccare.
"Attaccato Marco Biagi" - Il primo è Pier Ferdinando Casini, che definisce il V-day "la più grande delle mistificazioni", una manifestazione "di cui dovremmo tutti vergognarci". Per il presidente dell’Udc, in realtà, il motivo della vergogna non è tanto il rischio del populismo e di una deriva qualunquista quanto un fatto accaduto a Bologna che ha ancora contorni poco chiari e che riguardarebbe il giuslavorista ucciso dalle Br Marco Biagi. "E’ stato attaccato Biagi che invece andrebbe santificato" dice Casini. Che aggiunge: "Dovrebbero vergognarsi i politici che pur di stare sull’onda del consenso popolare hanno mandato messaggi di adesione a Grillo".
Ora, l’assenza di dirette tv e radiofoniche - ad esclusione di Ecotv e Radio Radicale - e probabilmente la portata di un evento che ha superato la copertura di cronaca, ha fatto sì che in realtà non è ben chiaro in che modo e quando sia stato evocato Biagi. E’ certo che l’assessore Libero Mancuso, ex giudice ed ex presidente della Corte d’Assise che ha condannato gli assassini di Biagi, a un certo punto del pomeriggio ha lasciato la piazza Maggiore per colpa di una frase ingiuriosa contro Biagi. Grillo, dal palco, ha invocato l’abolizione delle leggi Treu e Biagi. "La frase è comparsa in un video" ha spiegato Mancuso.
Un video su "Il precariato nell’Italia delle meraviglie" - Il giallo si snebbia intorno all’ora di pranzo quando sul sito di Grillo i simpatizzanti del V-day mettono a disposizione i video con cui è possibile ricostruire la giornata in piazza Maggiore. E’ accertato che Grillo dal palco, a voce, ha fatto solo un riferimento alla legge Biagi e alle nuove forme di precariato. Lo sdegno di Mancuso nascerebbe invece da un video che è stato trasmesso sui maxi schermo della piazza nell’attesa tra un intervento e l’altro. Il video, curato da Grillo, s’intitola: "Il precario nell’Italia delle meraviglie", è accompagnato da una struggente colonna sonora e animato con due piccole scimmiette. Più che di un filmato si tratta di una video-story che racconta come "la legge Biagi ha introdotto in Italia il precariato, moderna peste bubbonica che colpisce i lavoratori soprattutto in giovane età (...) Tutto è diventato progetto per poter applicare la legge Biagi e creare i nuovi schiavi moderni (...). Questo libro è la storia collettiva di una generazione senza niente, neppure la dignità, neppure la speranza, che sta pagando tutti i debiti delle generazioni precedenti, tutti gli errori, tutte le mafie, tutti gli scandali (...)".
Bossi: "Che esagerazione" - Il nome del senatùr è stato scandito sul palco dal comico genovese come uno dei 25 deputati condannati che dovrebbero lasciare il posto in Parlamento perchè sia più "pulito". "E’ un’esagerazione - dice Bossi - io sono stato condannato ma cosa vuol dire?". In fondo il suo era un reato (vilipendio alla bandiera) "non troppo grave e non troppo vicino al cuore della gente". Attenzione, avvisa il fondatore della Lega, "se esageriamo viene avanti l’antipolitica". Severo anche il giudizio di Giulio Tremonti: "Non condivido nè Grillo nè i tanti grilli ben vestiti che sono in giro. Certamente il comico genovese è più simpatico di tanti moralisti" taglia corto il presidente di Forza Italia.
A sinistra cautela e imbarazzo - E dire che una volta, anni fa, Grillo era un figlio della sinistra più illuminata e dissacrante. Il giorno dopo nella maggioranza, pur prendendo le distanze dai modi populisti e qualunquisti, si riflette sul fatto che a quella piazza va data una risposta. E che con quella gente va cercato un dialogo prima di perderla del tutto. Rosy Bindi dice che va "rilanciata la dignità della politica". Il ministro Bersani ammette che "in effetti c’era tanta gente. E però non è che ogni volta che c’è la febbre la colpa è del termometro che è rotto". Il prodiano Monaco mette in guardia i colleghi: "Attenzione, non nascondiamo la testa sotto la sabbia". Guai a liquidare tutto con la storia dell’antipolitica, "a questo malessere va data una risposta". Luciano Violante ammette che nel V-day "ci sono tante componenti e, oltre all’insoddisfazione per la politica, anche cose giuste".
Mentre la politica riflette sul dà farsi, il popolo di Grillo impazza sul web e sul blog del comico. Chiedono "una replica dell’8 settembre". Chiedono di "insistere". Di "continuare la raccolta delle firme". Non ci stanno a passare per qualunquisti o per l’incarnazione dell’antipolitica. E’ solo che vogliono "un’altra politica".
Il ministro degli esteri: "Chi governa non fa i cortei contro il governo ma governa"
Per il leader della Quercia non ci saranno elezioni anticipate: "Solo propaganda"
Ministri in piazza, D’Alema
"Contraddizione insostenibile"
Mastella: "Anche se sfilano segretari di partito si apre un problema politico"
La Bindi: "Evitare ultimatum pretestuosi e fare ogni sforzo per tenere unita la coalizione"
TELESE TERME - I ministri non possono scendere in piazza e se lo fanno mettono in scena una incompatibilità insanabile. Il ministro degli Esteri Massimo D’Alema interviene, alla festa dell’Udeur a Telese Terme, sulla polemica in merito alla partecipazione di esponenti dell’esecutivo alla manifestazione del 20 ottobre contro il protocollo del Welfare promossa dalla sinistra radicale: "Se i ministri manifestano contro il governo questo pone dei problemi al governo. E’ una contraddizione insostenibile". E il ministro della Giustizia Clemente Mastella, sposando la tesi del leghista Calderoli, insiste: "Sarebbe un problema politico anche se i segretari di partiti della maggioranza andassero in piazza".
In particolare D’Alema sottolinea l’incoerenza di un eventuale simile gesto. "Il cittadino che va alla manifestazione chiederebbe a quel punto al ministro che è in piazza con lui: ’Allora ora perché non ti dimetti?’. E’ la loro posizione, della sinistra estrema, che diverrebbe contraddittoria e insostenibile".
La presenza dei ministri in un contesto di protesta, per D’Alema, "sarebbe un segno di debolezza e non di forza. Chi governa non fa i cortei contro il governo ma governa". Quanto alla possibilità di crisi di governo paventata ieri da Mastella, D’Alema ha precisato di non usare "l’espressione ’crisi di governo’ anche per ragioni scaramantiche".
"Elezioni anticipate? Propaganda". Il titolare della Farnesina scansa poi con decisione l’ipotesi di elezioni anticipate. "Non ci sarà nessuna elezione in primavera - ha precisato D’Alema - Ho l’impressione che gli annunci di Berlusconi siano come quelli delle sette religiose che fanno annunci che non si avverano mai. Insomma, è solo propaganda". Per il resto, il ministro precisa invece che "che la legislatura si va stabilizzando".
Mastella insiste. Se anche dunque fossero soltanto i segretari di partito a scendere in piazza "resta il problema politico, cioè l’idea di un partito di lotta e di governo. I partiti attuali possono scegliere la forma di governo, ma quando si è al governo si è al governo: si va in campo assieme per governare. Che i segretari di partito - continua Mastella - invochino la forca politica rispetto a noi o ai loro ministri è ancora peggio. Mi pare una sorta di ipocrisia spaventosa". Il leader dell’Udeur sostiene di comprendere le ragioni per cui i segretari dei partiti della sinistra radicale tentano di eliminare la distanza rispetto ai movimenti, ma - aggiunge - "i movimenti sono minoritari nella vita politica di un Paese. Seguirli non mi pare una cosa politicamente apprezzabile. Il governo della comunità è molto più importante rispetto a elementi minoritari, e a volte anche anarcoidi che esistono in alcune manifestazioni della sinistra cosiddetta antagonista".
Bindi: "Essere uniti ed evitare ultimatum". Per il ministro della Famiglia Rosy Bindi è meglio non utilizzare aut-aut pretestuosi e fare ogni sforzo per tenere unita la coalizione. facendo riferimento alle dichiarazioni di Mastella, Bindi ha detto: "Io penso che questa volta abbia ragione il ministro Ferrero a dire che il pulpito da cui viene la predica non è proprio il più adeguato. Però mi piacciono gli inviti e non le minacce e gli ultimatum, come quello che ho sentito ieri, perchè mi sembrano pretestuosi". Bindi ha quindi invitato i ministri delle sinistra radicale a "non andare in piazza" e a "tenere un comportamento di coalizione e di lealtà. Qui i temi sono due: non solo i ministri che vanno in piazza ma anche quanta voglia c’è in giro di fare del male al governo".
* la Repubblica, 1 settembre 2007.
Quel cuore di tenebra dell’Italia
ALFIO CARUSO (La Stampa,12/8/2007)
Si dilata il cuore di tenebra di un Paese sempre più attratto dal peggio. Cresce l’Italia che tifa per Moggi o per Corona, per le Br o per Cosa Nostra, per i Borboni o per Previti, per chi incendia i boschi o i cassonetti della spazzatura, per chi blocca le autostrade o le stazioni ferroviarie, per il pluriomicida Battisti o per l’ex ergastolano Fioravanti, per gli evasori fiscali o per i profittatori di Stato, per il professore che frega la scuola o per il genitore che insulta la professoressa. Si procede, ormai, per strappi ulteriori. Dilaga il rifiuto di fare i conti con le proprie scelte. Quanti di voi, almeno una volta, non hanno udito, in risposta a una domanda scomoda, la celebre frase: ben altro è il problema? Esempio: se una parte della Chiesa è impestata dai preti pedofili, il suggerimento è di guardare ai pedofili delle altre religioni. Alla disperata, la responsabilità appartiene agli ebrei, ai massoni, ai radicalchic, ai bevitori di anisette, ai cultori della pesca con la mosca, agli autostoppisti.
Ognuno ha il proprio irregolare di riferimento e, benché le uniche regole calpestate siano spesso quelle del Codice penale, a costui affidiamo lo sfizio che c’induce al sovvertimento. Le motivazioni, lo spessore morale del nostro eroe contano quanto il due di spade con la briscola a oro: l’importante è stare contro, l’istinto è di prendersela con chi incarna il concetto di Istituzione. Pretendiamo persino di essere selettivi, di saper valutare fiore da fiore, dando ovviamente per scontato che soltanto il nostro meriti ogni indulgenza. Così, davanti alla magia dei Faraglioni di Polifemo succede di ascoltare l’appassionato comizio del dotto professore universitario: con il sostegno degli immancabili riferimenti in latino passa, lieve e ispirato, dalla strenua difesa delle ragioni storiche della mafia all’invettiva contro la Legge, incapace di sbattere Moggi dentro la cella più buia e di buttare la chiave.
Con micidiale indifferenza leggiamo sia le intercettazioni nelle quali i brigatisti elogiano l’omicidio di un poliziotto da parte dei presunti fascisti di Catania, sia dei cori contro la polizia echeggiati durante un’amichevole del Catania senza che qualcuno s’indigni, intervenga per farli cessare. Purtroppo la cultura dello «spertu e malandrinu» ha fatto proseliti. La famosa linea della palma avanzante, secondo Sciascia, di 500 metri all’anno è arrivata in vista delle Dolomiti. Stare continuamente in contatto con l’impudenza ha dilatato i confini dell’impunità: consideriamo normale che un inquisito sia nominato capo di gabinetto, componente della Corte dei conti, assessore. Della disavventura romana dell’onorevole Mele non stupiscono la cocaina e le ragazze a pagamento, bensì che Casini l’abbia candidato e tanti pugliesi l’abbiano votato, malgrado il suo coinvolgimento in una vicenda di tangenti, sperperate peraltro al casinò.
In difesa dall’accusa di aver favorito Provenzano, il gioviale Cuffaro, governatore della Sicilia, sostiene che incontrava il braccio destro del boss nel retrobottega di un negozio di Bagheria per concordare il nuovo tariffario sanitario. In un Paese normale la toppa sarebbe molto più grave del buco: significherebbe, infatti, che la Regione più spendacciona e con la peggiore sanità nazionale ha i costi delle convenzioni decisi da Provenzano. Tuttavia, chiamati a scegliere fra Cuffaro e la Borsellino, i siciliani non hanno avuto dubbi. Di conseguenza i capi delle famiglie mafiose sono tornati a occupare ruoli pubblici nei partiti come succedeva quando Salvatore Greco, il fratello di Michele, il papa, era segretario della Dc di Ciaculli.
Dall’alto di un’intolleranza accumulata in secoli di servitù abbiamo inventato la presunzione d’innocenza fino all’ultima sentenza, che in un sistema giudiziario dai tempi biblici significa dimenticarsi la colpa e il colpevole. Dentro la pseudoculla del diritto lo stracitato in dubio pro reo dei romani si trasforma nell’assoluzione di tutti i rei. La Storia ci racconta che in occasioni eccezionali un pirata può diventare baronetto, non che tutti i pirati devono diventare baronetti. Solo in Italia s’ignora che il passato ci precede, dunque don Gelmini e i suoi estimatori pensavano che bastasse cancellarlo per esserne esenti. La televisione insegna che siamo i cavalieri del bene o le vittime del sistema. Per male che vada, la si può buttare in politica. A eccezione di Salvatore Giuliano, il giochino finora è riuscito a tutti.
LA PAROLA DI KAVAFIS
di GIULIO VITTORANGELI *
Nel nostro pensare affannoso, consideriamo le parole cosa seria da utilizzare con liberta’ senza inutili sprechi. Le parole sono forme del linguaggio, forme d’espressione; significano, indicano, commuovono, diventano idee, frecce conficcate nella ruvida pelle della realta’. Per tutto questo non dovrebbero mai essere usate per non farsi capire, per non dire niente, o peggio, per stravolgere la realta’ raccontando bugie.
"Durante gli anni del potere berlusconiamo eravamo in tanti a ritenere che il massacro della verita’ fosse una sua prerogativa. Assistevamo a spudorate violazioni del diritto e alla contestuale lamentazione di presunte offese subite. E pensavamo che ’noi’ non avremmo fatto lo stesso: ’noi’, una volta alla guida del paese, non avremmo fatto strame della verita’. Ci sbagliavamo. Stiamo affogando in un mare di bugie. Anche questo fatto costringe a chiederci che cosa sia nato prima, se Berlusconi o lo spirito di questi tempi. Non si tratta soltanto di deformazioni, di omissioni, di travisamenti ed edulcorazioni. Questo sarebbe semplicemente ’ideologia’, gemella della politica. Siamo al rovesciamento delle cose e alla creazione di un’altra realta’" (Alberto Burgio, sul "Manifesto" del 26 luglio 2007).
Anche Annamaria Rivera, alcuni mesi fa, aveva espresso un concetto molto simile, sottolineando la progressiva perversione del linguaggio e della comunicazione che accompagna il governo Prodi, e che lascia allibiti.
Se lo stile berlusconiano era all’insegna della menzogna aperta, trasparente e fanfarona, quello dell’attuale governo e dei suoi partiti ha qualcosa di orwelliano e contorto, al tempo stesso grottesco. Quando le parole sono usate a stravolgere l’esperienza e la realta’ fanno piu’ danni perfino dei contenuti delle politiche. Non solo perche’ ingannano i cittadini, considerandoli incapaci di farsi un’idea della realta’, ma soprattutto perche’ minano profondamente il rapporto fra i cittadini e le istituzioni, e alimentano sfiducia.
Occultare la dura realta’ delle concessioni - obbligate, ci dicono, e forse talvolta in parte e’ vero - ai poteri forti e agli orientamenti "moderati" (un altro termine da abolire) con il ricorso a formule autoconsolatorie ed ingannevoli - quale la litania della "discontinuita’" - e’ una forma di perversione della comunicazione a lungo andare autolesionista.
Salutare con entusiasmo la furbesca relazione del ministro degli esteri sulla politica internazionale come una scelta limpida e avanzata in favore del "multilateralismo" (un’altra parola magica: una guerra puo’ essere multilaterale e nondimeno resta illegittima, ingiusta, sanguinosa) e’ far torto alla propria storia politica e all’intelligenza degli elettori. Risultato: la "bonta’" della guerra; diventata "democratica", "umanitaria", "operazione di polizia", ecc. Cosi’, anche il conflitto fra capitale e il lavoro ha subito uno scivolamento semantico, sparendo il capitale e restando il lavoro come problema di solidarieta’ con i meno fortunati, salariati a vari livelli e, salvo i dirigenti, tutti retribuiti meno d’una volta e sempre piu’ precari.
La verita’ e’ che nel liberismo spinto in cui siamo, con permanenti delocalizzazioni e in preda alla speculazione finanziaria, ne’ l’occupazione ne’ il potere d’acquisto dei salariati possono essere protetti; mentre la pace e’ un disvalore non essendo funzionale allo "sviluppo" ed alla "ripresa economica".
Noi restiamo profondamente convinti che le parole non sono fatte "di carta", ma di vita; della carne viva di uomini e donne. Per questo continuiamo a cercare quelle parole che interpretano e capiscono i fatti e provano a cambiarli; quelle parole che diventano azione e, una volta gettate sulla platea della storia, si traducono in movimento; quelle parole che portano con se un’idea di politica che si oppone alle miserie retoriche e alle menzogne travestite da strategie del bushismo contemporaneo, anche di casa nostra.
"Spesso osservo quanto poco interesse affidano gli uomini alle parole. Mi spiego meglio. Un uomo semplice (e con "semplice" non intendo sciocco) ha un suo modo di vedere, ma sa che la grande maggioranza ragiona in modo antitetico, e tace, credendo che non giovi parlare, credendo che - con le sue parole - non cambiera’ niente. E’ un grande errore. Io agisco diversamente. "Condanno, ad esempio, la pena di morte. Appena mi si presenta l’occasione lo dico apertamente, non perche’ sia convinto che, esprimendo la mia opinione, gli Stati subito, domani, l’aboliranno, ma perche’ credo che dicendo il mio parere possa contribuire al trionfo della mia idea. Il mio discorso non va perduto. Forse qualcuno lo ripetera’ e cosi’ potra’ raggiungere le orecchie di alcuni che lo ascolteranno e lo sosteranno. Puo’ darsi che, tra quelli che adesso non sono d’accordo, qualcuno se ne ricordera’ - in un momento opportuno - nel futuro, e in occasione di altre situazioni, e che sia poi convinto con il supporto di altre circostanze, e che sia scossa la sua precedente convinzione contraria.
"Cosi’ avviene anche in diverse altre questioni sociali, in alcune nelle quali e’ indispensabile l’azione. So di essere codardo e di non poter agire. Per questo soltanto. Ma non credo che le mie parole siano superflue. Agira’ un altro. Ma le mie molte parole - le parole di un vile - serviranno per l’azione. Spianano il terreno". (Costantino Kavafis, 19 ottobre 1902).
* NOTIZIE MINIME DELLA NONVIOLENZA IN CAMMINO Numero 167 del 31 luglio 2007
Il teatro è vuoto
di Valentino Parlato (il manifesto 20.07.2007)
La politica cade sempre più in basso. C’è da preoccuparsi: la bassa politica, prima o poi partorisce mostri.
Ieri, in Senato, il governo Prodi se l’è cavata per un solo voto, contro un emendamento alla legge sul riordino giudiziario proposto da un componente della sua maggioranza (il caso Manzione). Pochi minuti dopo Panorama (proprietà Silvio Berlusconi) annunciava che Romano Prodi sarebbe iscritto sul registro degli indagati della Procura di Catanzaro, per arricchimento illegale sui finanziamenti dell’Unione europea a opera di persone vicine al presidente del consiglio. Il magistrato che dirige l’inchiesta, Luigi De Magistris è persona al di sopra di ogni sospetto, ma - a pensare male si fa peccato, ma talvolta si indovina - l’uso politico-mediatico di un’inchiesta giudiziaria è inquietante. Non è la prima volta che accade, ma accade sempre più spesso.
L’attacco a Prodi investe tutto il governo, il nascituro Partito democratico e anche il candidato leader Walter Veltroni. Il giudiziario avviso di reato è un avviso di guerra. Però tutto questo avviene nella disattenzione generale.
Siamo a un passaggio difficile (verso dove?) che mette a rischio tutta la sinistra (litigiosa e divisa) e mette a repentaglio la stessa democrazia: troppo disordine sollecita e alimenta una risposta di ordine. Ma tutto questo si sviluppa nella disattenzione generale. E’ come se fossimo a teatro, nel quale gli attori rappresentano una tragedia, che di per sé dovrebbe essere avvincente e stimolante. Ma il teatro è vuoto e i pochi spettatori dormicchiano. Il sonno della ragione, diceva qualcuno.... E non aggiungo altro.
L’annuncio dell’iscrizione di Romano Prodi nel registro degli indagati insieme con un gruppetto di suoi collaboratori non è cosa da prendere sottogamba, soprattutto per il fatto che a Romano Prodi possiamo fare (e abbiamo fatto) mille critiche, ma tutte politiche. Il fatto che oggi emerga un’accusa di reato, di complicità in arricchimento illecito, ci dice che il clima è diventato pericoloso, tale da richiedere un’emergenza dell’attenzione democratica e non la scettica disattenzione di questi tempi.
Il miasma di Weimar
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 15/07/2007)
Difficile dire come mai quel che ultimamente vediamo sui telegiornali pubblici e privati non ci impressioni più di tanto. Accade ogni sera, ed è ormai pane quotidiano della politica, dell’informazione.
Il capo dell’opposizione, Silvio Berlusconi, gesticola su un pulpito nel mezzo d’una piazza e dichiara morto il governo definendolo illegittimo, figlio di brogli, erede di criminose ideologie defunte. Fa un comizio dopo l’altro davanti a folle enormi che lo osannano, come se fossimo nel cuore infiammato di una campagna elettorale. Probabilmente l’evento non ci impressiona perché siamo abituati al controsenso eretto a sistema. Perché la cultura dell’instabilità che avevamo riguardo a inflazione e moneta s’è trasferita nella politica. Perché la storia a noi dice poco, e le instabilità nostre non ci ricordano instabilità - come quella di Weimar - che altrove rimangono un’ossessione.
Se fossimo visitatori stranieri, quel che succede ci riempirebbe di stupore, d’incredulità. Infatti non siamo in mezzo a una competizione elettorale, il Parlamento non è sciolto, il governo sta governando a fatica ma governa. Berlusconi è solo, a gesticolare sui podi di Napoli o Lucca. Non ha rivali, come usa nelle campagne elettorali: oggi per i rivali è tempo di governo, non di comizi e conquista del potere. Lo straniero avrebbe non poche ragioni per domandarsi se per caso l’Italia non stia deragliando. Se non stia scostandosi da quel principio essenziale della ragione che è il principio di non contraddizione. Non si può al tempo stesso dire che l’uomo è animale bipede e il contrario: «niente simultaneamente può essere e non essere», insegna Aristotele.
Invece da noi no. C’è chi governa da oltre un anno e c’è chi fa finta che no, e agisce come se al comando non ci fossero che ombre usurpatrici o immaginarie. È menzogna illusionista, ma Berlusconi ha il talento di trasformare le menzogne in verità condivise dai più. Con tale dote suscita poteri opposti a quelli legali sino a farli apparire e renderli reali: poteri delle piazze, dei sondaggi, dei media, di corpi separati dallo Stato appunto come a Weimar. Per capire come fa, bisogna mettersi nelle vesti dell’osservatore straniero - condividere la sua capacità di stupirsi, d’interrogarsi - e cercare di penetrare lo speciale potere di persuasione esercitato dal leader dell’opposizione.
È un potere ben conosciuto da chi ha studiato la potenza delle masse, della pubblicità, della propaganda. Già nel 1895, quando scrisse la Psicologia delle folle, Gustave Le Bon - medico di formazione - indicò i tre ingredienti del fascino sprigionato dal meneur des foules, dal trascinatore di folle: l’affermazione che non tollera confutazioni anche se falsa; la ripetizione ininterrotta dell’affermazione; il contagio. Tutti ingredienti presenti nell’agire di Berlusconi, che per prosperare non possono fare a meno di una permanente campagna elettorale, fondata su un vuoto o un passaggio di poteri ingannevoli. Dice Le Bon: i trascinatori «tendono a rimpiazzare progressivamente i poteri pubblici a misura che questi sono messi in discussione e s’indeboliscono». I poteri pubblici non sono solo indeboliti: Berlusconi li dà per morti.
Ma il controsenso non nasce solo dalla discordanza fra governo e conquista del potere. Anche se fossimo in campagna elettorale, l’osservatore straniero si stupirebbe parecchio. Innanzitutto per la violenza, inaudita, che emana dalle folle aizzate (venerdì, a Napoli, Berlusconi ha incitato ad agire un «esercito delle libertà»). Poi per offese che altrove son tabù. Se la folla urla oscenità contro Prodi, Berlusconi non la frena ma la sprona: «Siete lievemente rozzi ma efficaci». Come in Elias Canetti, la ferocia distruttiva degenera in muta animale, se lusingata.
Le Bon spiega come il trascinatore sia a sua volta un trascinato: può esserlo da un’idea fissa e da dottrine nazionaliste, socialiste, o da entrambi. Nel caso di Berlusconi accade l’inedito: la folla, solitamente non mossa da interesse privato (è il singolo ad avere interessi personali) innalza la rivendicazione particolare a interesse collettivo. Nella Psicologia delle folle questa possibilità è contemplata: il capopopolo può essere motivato da privati interessi.
La piazza che un tempo era cruciale per l’ipnotizzatore delle masse è oggi la televisione, oltre alla stampa. Anche su di loro, dunque, s’esercita la triplice potenza dell’affermazione, della ripetizione, del contagio. Anch’esse scambiano per verità l’immagine incantatoria d’una competizione elettorale incessante, d’un governo inesistente, comportandosi spesso come poteri che dall’esterno indeboliscono l’autorità pubblica. Più di un anno è passato dalle legislative, e i notiziari tv non son cambiati. In teoria c’è differenza tra Rai e reti private, di Berlusconi. In realtà, il leader di mercato è tuttora Mediaset e Mediaset dà lo standard, come se non ci fosse stata alternanza: in televisione come in altri corpi dello Stato il governo è di Prodi ma il potere resta di Berlusconi (non pochi suoi uomini d’altronde sono oggi consiglieri ministeriali). Se il governo passa una legge con il voto di un senatore a vita, la televisione lo presenta come patologia (inutile ricordare che anche Berlusconi s’avvalse dei senatori non eletti: il 18 maggio ’94 il suo governo ottenne la fiducia per un solo voto, grazie ai senatori a vita Agnelli, Cossiga, Leone).
Vorremmo citare il Tg1, e in particolare il notiziario di venerdì sul voto al Senato della riforma della giustizia. La cosiddetta pratica del panino resta immutata: il tg apre con dichiarazioni di Castelli della Lega, di Fini e Matteoli di An, di Schifani di Forza Italia (12,47 minuti). Seguono Finocchiaro, Salvi e Mastella, della maggioranza (38 secondi). Chiude il comizio di Berlusconi a Lucca (1 minuto). È la normalità, non un’eccezione: la Rai si ritiene obbligata a offrire lo stesso prodotto del concorrente. Obbligata da chi? Da un istinto fortemente legato al contagio. Nulla è più contagioso della menzogna e dell’immagine chimerica, conclude Le Bon: «Le folle non hanno mai sete di verità. Deificano l’errore. Chiunque le disillude tende a divenire loro vittima».
Il contagio per definizione trasmette l’infezione a tutti, compresi i sani e la città intera: infetta l’opposizione e i suoi tifosi, ma anche sindacati e esponenti della maggioranza. Esponenti d’estrema sinistra che impediscono al governo di decidere. Esponenti di centro che prospettano - come Rutelli - coalizioni alternative senza dire che qualsiasi alternativa, per necessità numerica, includerà i berlusconiani. È l’imperio del miasma, che nella Grecia antica è una misteriosa esalazione che s’espande a causa d’una colpa o un male banalizzato. Il male è quell’interesse personale trasfigurato in interesse collettivo, unito alla convinzione che il governo legale abbia tradito la nazione con pugnalate alla schiena e di conseguenza non sia legittimo.
Esattamente come a Weimar sono tanti a esserne contaminati, nonostante l’oggi non sia mai identico a ieri. Ma il presente può somigliargli, anche se i colpevoli non sono quelli evocati da Ostellino sul Corriere di ieri. Non furono i socialdemocratici a sovvertire Weimar ma i comunisti e i corpi separati (esercito, Freikorps). Oggi come allora, comunisti e destre rivoluzionarie sono di fatto alleate, prigioniere del medesimo miasma. A Weimar l’alleanza fu evidente. A partire dal ’28 i comunisti seguono Stalin, scelgono i socialdemocratici come nemico primario, e nonostante cronici scontri con milizie hitleriane concordano azioni eversive con i nazional-socialisti: referendum contro il governo socialdemocratico in Prussia (1931); comuni mozioni di censura (1932 contro von Papen); sciopero di trasporti e picchettaggi congiunti (autunno ’32); mozione comunista, appoggiata da Hitler, contro il rilancio economico di von Papen (dicembre ’32); mozione che scioglie il Parlamento nel ’32.
L’abitudine al controsenso minaccia anche il rimedio alla distruttività delle folle, che Le Bon individua nell’esperienza. Ma l’esperienza agisce assai lentamente: «Solo se vien fatta su larga scala e ripetutamente». Non ne basta una, come credeva Montanelli, e sovente l’esperienza d’una generazione non vale per le successive. Non basta sapere che Berlusconi ha esorbitanti conflitti d’interesse ed è stato indagato più volte, se c’è miasma e il privato interesse viene deificato. Se c’è miasma Berlusconi appare come vittima immacolata, anche se assolta con formule dubitative e colpevole di numerosi reati prescritti. Effetto del miasma è che non se ne tiene conto. Che i fatti vengono sottratti alla vista, come scrive Marco Travaglio. L’impunità è quel che consente alla folla di inferocirsi senza rischiar nulla, osserva Le Bon. Mimetizzandosi con essa, Berlusconi molto freddamente ne profitta.
Quei 425 milioni della Fininvest che macchiano anche Berlusconi
di Giuseppe D’Avanzo ( la Repubblica, 14 luglio 2007)
La sentenza che permise a Silvio Berlusconi di sottrarre la Mondadori al Gruppo Espresso-la Repubblica fu comprata con 425 milioni di lire forniti dal conto All Iberian di Fininvest a Cesare Previti e poi, dall’avvocato di fiducia di Silvio Berlusconi, consegnati al giudice Vittorio Metta. La Cassazione condanna definitivamente Cesare Previti, il giudice corrotto e, quel che soprattutto conta, rimuove una patacca che è in pubblica circolazione da due decenni.
L’uomo del fare, Silvio Berlusconi, è l’uomo del sopraffare, del gioco sottobanco, della baratteria illegale. La sentenza dimostra la forma fraudolenta e storta della sua fortuna imprenditoriale. Mortifica la koiné originaria con cui Berlusconi si è presentato al Paese ricavandone fiducia e consenso, entusiasmandolo con la sua energica immagine di imprenditore purissimo capace di rimettere in sesto il Paese - e rimodellarne il futuro - con la stessa sapienza e determinazione con cui egli aveva costruito il suo successo, conquistato aziende e quote di mercato, sbaragliato i competitori.
Berlusconi, se non sapeva delle manovre di Previti (e non si può dire il contrario), è stato un gonzo e, nella sua formidabile ingenuità, ha trascinato il Paese e le sue regole verso la crisi per difendere un mascalzone che soltanto agli occhi del Candido di Arcore appariva un maestro del diritto e un martire della giustizia.
La sentenza della Cassazione scolpisce dunque un’altra biografia di Berlusconi. Ci dice che non è oro quel che riluce nella sua storia imprenditoriale. Sapesse o non sapesse quali erano i metodi criminali del suo avvocato, il profilo di imprenditore dell’uomo di Arcore ne esce irrimediabilmente ammaccato, deformato. La sua Fininvest ha barato. Il suo avvocato giocava con carte truccate.
I fatti sono noti.
Il lodo arbitrale Mondadori risale al 21 giugno 1990. Riguarda il contratto Cir-Formenton. La decisione è assunta dai tre arbitri, Carlo Maria Pratis, Natalino Irti e Pietro Rescigno, incaricati di dirimere la controversia tra Carlo De Benedetti e la famiglia Formenton per la vendita alla Cir da parte dei Formenton di 13 milioni 700 mila azioni Amef (il 25,7% della finanziaria che controlla la Mondadori) contro 6 milioni 350 mila azioni ordinarie Mondadori. Il lodo è favorevole alla Cir e dà a De Benedetti il controllo del 50,3% del capitale ordinario Mondadori e del 79% delle privilegiate. Berlusconi perde la presidenza che va pro tempore al commercialista Giacinto Spizzico, uno dei quattro consiglieri espressi dal Tribunale, gestore delle azioni contestate.
Il 24 gennaio 1991, la Corte d’Appello di Roma presieduta da Arnaldo Valente e composta dai magistrati Vittorio Metta e Giovanni Paolini dichiara che una parte dei patti dell’accordo del 1988 tra i Formenton e la Cir è in contrasto con la disciplina delle società per azioni. Quindi, è da considerarsi nullo l’intero accordo e anche il lodo arbitrale. Berlusconi riconquista la Mondadori.
Vittorio Metta è il giudice corrotto da Cesare Previti, dice ora la Cassazione. Delle due, l’una. Se sapeva, Silvio Berlusconi è un complice che si è salvato soltanto perché, per le sue pubbliche responsabilità politiche, è parso meritevole delle "attenuanti generiche" così accorciando i tempi di prescrizione e uscendo dal processo qualche anno fa. Se non sapeva, l’esito non è che sia più gratificante. Perché bisogna concludere che l’ex-presidente del Consiglio non è poi l’aquila reale che ama dipingersi. Ha accanto un lestofante. Non se ne accorge. Ne è beffato, ingrullito per anni, per decenni, nella sua totale insipienza. Gli affida «un mandato professionale molto ampio per rappresentare la persona fisica come il gruppo Berlusconi». Lo ha raccontato lo stesso Previti: «Io rappresentavo il dominus per le questioni legali, sceglievo gli avvocati, esaminavo nei dettagli tutti gli argomenti che avremmo usato e anche le persone e le operazioni da organizzare nelle varie situazioni».
E’ un ruolo occulto, segretissimo e non se ne comprende la ragione (l’evasione fiscale non può spiegare tutto). Non c’è (né Previti lo ha mostrato in anni di processi) un solo documento processuale che porta la sua firma: un atto di citazione, una comparsa di risposta, una memoria conclusiva, un parere giuridico, un atto di transazione; come non esiste neppure (né è stata mostrata) una fattura, una ricevuta informale, un estratto dei libri contabili di Fininvest, un qualsivoglia documento che attesti la causale dei pagamenti effettuati da Finnvest a favore di Cesare Previti.
Berlusconi poteva non sapere di essersi tenuto in casa per decenni quel mascalzone. Meglio, gettiamo una buona volta ogni sospetto o incredulità e diciamolo chiaro. Silvio Berlusconi non sapeva, non ha mai saputo né immaginato per un attimo che ceffo fosse Previti e quali i suoi metodi di lavoro. L’uomo di Arcore era così accecato dal suo candore, dall’amicizia per il suo fedele sodale, che quando ne ha la possibilità, 1994, propone addirittura quel corruttore di giudici come ministro di Giustizia. Il Paese si salva per l’ostinazione di Oscar Luigi Scalfaro che dirotta il malfattore alla Difesa. E, nonostante il segnale e la documentazione offerta dalla magistratura, nemmeno allora Silvio Berlusconi nella sua assoluta dabbenaggine si scuote. Si può dire che una volta ritornato al governo - per salvare se stesso, è vero, ma anche e soprattutto il suo complice, che è più esposto per le indagini e per le prove raccolte - assegna a se stesso la missione di gettare per aria codici, procedure, tribunali, ordinamenti, accordi internazionali al fine di evitare guai all’avvocato che credeva immacolato. Il Parlamento che Berlusconi governa con una prepotente maggioranza non lascia intoccato nulla. Cambia le prove, se minacciose. Il reato, se provato. Prova a cacciare i giudici, a eliminare lo stesso processo. Non ci riesce per l’opposizione di un’opinione pubblica vigile, per l’intervento della Corte Costituzionale che protegge le regole elementari dello Stato di diritto e il sacrosanto principio della legge uguale per tutti. Meno male, ma il respiro di sollievo non può riguardare Silvio Berlusconi. Per anni ha spaccato il Paese usando come cuneo il processo all’avvocato-barattiere che egli riteneva un "figlio di Maria". Ora qualcosa l’uomo di Arcore dovrà pur dire perché purtroppo qualcosa, questa sentenza, dice di lui. Nella sua credulità, Silvio Berlusconi ha procurato un danno a se stesso, e tant’è, ma nella cieca fiducia che ha avuto per un avvocato fraudolento egli ha arrecato danno alla politica, alle istituzioni. Forse è una buona idea che dica in pubblico che è stato preso in giro e se ne dispiace.
Pollari vorrebbe "chiarire" ma può dire la verità al processo di Milano, alla procura di Roma, al Copaco
I parlamentari della commissione d’inchiesta sarebbero alla mercè delle versioni di comodo
La Grande Spia tenta l’ultimo ricatto
Lo scontro esce dai "sotterranei"
di GIUSEPPE D’AVANZO *
ROMA - Nicolò Pollari, appena ieri lo spione più amato dalla politica italiana, si dice "pronto a raccontare i misteri d’Italia dagli anni Ottanta ad oggi, nonostante l’atmosfera di regime". Non si accontenta delle stanze chiuse della commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). Sono troppo protette, dice, e i commissari vincolati alla riservatezza per quel che ascoltano e accertano. Insomma, da quelle stanze lo spione non può parlare "ai cittadini", come si è messo in testa di fare.
Manco fosse un caudillo e non un funzionario dello Stato che, potentissimo agente segreto, ha lavorato nel "regime" e per "il regime". Curioso per uno spione, la segretezza è oggi un deficit per Pollari. Egli vuole che si sappia che cosa svela e insinua e manipola (è quel che solitamente gli riesce meglio). Attraverso un bizzarro "portavoce" (il senatore Sergio De Gregorio, che fa lo stesso mestiere per il generale Roberto Speciale) chiede allora la platea più visibile e sensibile, una illuminatissima commissione d’inchiesta parlamentare.
Lo spione sa che ogni iniziativa politica, se agitata nello spazio mediale e con la voce dei media, può fare a meno di autenticità e fondatezza (basta ripensare alle commissioni Telekom Srbija e Mitrokhin). Alle prese di venti deputati e venti senatori che, si possono immaginare, inesperti dei metodi e delle strategie di un’intelligence così controversa, e addirittura non consapevoli della cronologia degli avvenimenti, Pollari avrebbe l’opportunità in prima battuta di scrivere a mano libera il copione. Di graduare, secondo necessità, il potere di pressione e di condizionamento che si è assicurato nel tempo intrattenendo rapporti non convenzionali con entrambi gli schieramenti politici.
Che domande potrebbero fargli i quaranta parlamentari? Dovrebbero soltanto ascoltare la "sua" verità (a Pollari non piace avere contraddittori), le sue mezze verità e mezze menzogne e, in attesa di definire la fondatezza del suo racconto, un caos fangoso schiaccerebbe ogni possibilità di fare luce. E’ la condizione che, per il momento, sconsiglia la commissione d’inchiesta, strumento che offre molte opportunità a chi deve spiegare che cosa ha combinato e molte poche a chi deve accertarlo.
Appena l’altro giorno si diceva che il gioco sarebbe stato nelle mani degli spioni e non del Parlamento. E tuttavia chi poteva attendersi che le minacciose intenzioni di Pollari sarebbero venute allo scoperto, con tanta fretta, nell’allusiva forma del ricatto? L’iniziativa dell’amatissimo spione non è altro. E’ un chiassoso ricatto che ha il pregio, per così dire, di rendere chiara e concreta qualche circostanza, anche a chi per convenienza o spensieratezza o arroganza finora l’ha negata.
L’"agglomerato oscuro", legale e clandestino, nato nella connessione abusiva dello spionaggio militare (Sismi) con diverse branche dell’investigazione della Guardia di Finanza (soprattutto l’intelligence business) in raccordo con la Security di grandi aziende come Telecom e il sostegno di agenzie d’investigazione private che lavorano in outsourcing, si è "autonomizzato". Lavora per sé, secondo un proprio autoreferenziale interesse e non più, come nel passato, al servizio di questo o quell’utile politico, di questa o quella consorteria politica. La scandalosa deformità s’era già avvistata.
Si immaginava però che il ritorno sul "mercato della politica" dell’"agglomerato" con la sua massa critica di potenziali ricatti si sarebbe consumato, come di consueto, in quei sotterranei dove le fragili "power élite" italiane si proteggono, si rafforzano, si difendono, si accordano. L’eterogenesi dei fini ha rotto lo schema. Lo scontro Visco/Speciale ha costretto il governo di centro-sinistra a dubitare del patto di non-aggressione tacitamente sottoscritto con il network spionistico.
Il Consiglio superiore della magistratura, con il documento approvato con discrezione dal capo dello Stato, ha spinto il confine ancora più in là mettendo sotto gli occhi della società politica una minaccia per un democrazia ben regolata. Il ceto politico non ha potuto lasciar cadere, come d’abitudine, la questione e - pur nella diversità degli strumenti da usare - è stato costretto a impegnarsi a fare verità e chiarezza. Pollari, come ieri il fido Roberto Speciale, ha cominciato a vedere davanti a sé un tritacarne e la catastrofe.
Se Speciale ha pensato di salvarsi sollevando un’inchiesta giudiziaria e quindi "giudiziarizzando" il conflitto con il governo, Pollari è stato costretto a venire allo scoperto abbandonando il "sotterraneo" dove si trova più a suo agio. Imputato a Milano e indagato a Roma, è stato costretto a "politicizzare" la sua avventura e il suo destino. Sollecita così, per i canali politici che ancora gli restano, la nascita di una commissione d’inchiesta che gli permette o di far saltare il tavolo o di ridurre al silenzio i suoi critici di oggi (e magari amici di ieri).
Ora è evidente che il ricatto dello spione non può essere accettato. Deve essere accettata la sua disponibilità a testimoniare. Nicolò Pollari dica quel che sa, ma non gli sia consentito di farlo a ruota libera, senza alcuna regola, in un rapporto diretto con l’emotività dell’opinione pubblica, lontano da una pratica che sappia accertare fatti e responsabilità prima di giungere a un qualsiasi esito. Ci sono tre sedi in cui Pollari può liberare la sua ansia di verità (si fa per dire). Il Palazzo di Giustizia di Milano, dove è imputato per il sequestro di un cittadino egiziano. La procura di Roma che lo indaga per l’ufficio di disinformazione e dossieraggio di via Nazionale.
Dinanzi all’autorità giudiziaria Pollari (come chiede) può liberarsi del segreto di Stato senza alcuna autorizzazione governativa, perché la Costituzione privilegia il diritto di difesa dell’imputato rispetto al segreto di Stato. Pollari può farlo dunque da subito. Lo faccia. C’è una terza sede, politica, istituzionale. E’ il comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Chieda di essere ascoltato. Non c’è dubbio che lo ascolteranno di buon grado e con i tempi adeguati. In quel contesto, e con le opportune norme di riservatezza, le sue parole possono essere tenute nel giusto conto, analizzate, verificate.
Il Copaco ha strumenti d’indagine limitati? Non ci vuole molto per rafforzarli (se il Parlamento vuole), ma per intanto il comitato ha competenza e la memoria (si vedrà se la voglia) per discernere, nel racconto di Pollari, il grano da loglio anche con il contributo della documentazione che saprà offrire l’ammiraglio Bruno Franciforte, oggi a capo del Sismi. Sempre che Pollari non si sia portato dietro l’archivio. Addirittura dagli anni Ottanta ad oggi.
* la Repubblica, 9 luglio 2007
L’ANALISI
La rete di dossier a uso del Palazzo
di GIUSEPPE D’AVANZO *
LA LINEA di difesa apprestata da Pio Pompa, Nicolò Pollari e, incautamente, sposata da Silvio Berlusconi è fragile. Si dice - lo dice Pollari nel "messaggio alla nazione" ospitato dal Tg5; lo sottoscrive Pio Pompa in una dichiarazione spontanea al pubblico ministero; lo conferma Berlusconi in una nota - le informazioni raccolte nell’ufficio riservato di via Nazionale non sono altro che una collazione di notizie reperibili da chiunque nei giornali e in Internet (Pollari).
Null’altro che "materiale elaborato sulla base di notizie tratte da fonti aperte" (Pompa). "Un tipico monitoraggio delle cosiddette "fonti aperte" che non ha in sé all’evidenza, alcunché di illecito" (Berlusconi). Il sentiero è molto sdrucciolevole. È una linea di difesa destinata a sgretolarsi contro i fatti. L’archivio, contrariamente a quanto si vuol far credere, raccoglie informative di "fonti" infiltrate dal Sismi - contro la legge - negli uffici giudiziari, nelle redazioni, nelle burocrazie dello Stato, nelle Forze Armate. Altro che "fonti aperte". Dimostrarlo è alquanto agevole. Come è comodo verificare se i dossier calunniosi raccolti da Pompa e Pollari precedono (e non seguono) le notizie di stampa. Tre magistrati italiani, giudicati "pericolosi" dal governo, vincono un concorso per lavorare nell’organismo europeo antifrode (Olaf). Un dossier raccoglie le loro storie, passa al setaccio famiglie, rete di relazioni, le loro opinioni e scritti. Lo spoglio di queste informazioni diventa materia per una campagna di aggressione giornalistica che consente all’esecutivo di non nominarli nel loro incarico.
È questo il metodo messo a punto da Pollari, deciso a servire il suo leader politico del momento. Tracce di questo programma di discredito - dossier e campagna di stampa di cui l’esecutivo si avvale per proteggere se stesso o eliminare coloro che crede "nemici" - si possono individuare senza affanno nell’archivio di Pompa e Pollari. Qualche "caso" è limpido e clamoroso. Nell’ufficio riservato del Sismi in via Nazionale si raccolgono fin dall’estate del 2001 (Pollari, vicedirettore del Cesis, si prepara a diventare direttore del Sismi) notizie e "appunti" (falsi) su una sorta di "internazionale delle toghe rosse", che si riunisce segretamente e coordina le sue iniziative per delegittimare, inquisire, arrestare Silvio Berlusconi. Ne fanno parte i pubblici ministeri di Milano, un paio di procuratori spagnoli, ex-magistrati diventati parlamentari europei. Questa fanfaluca prende corpo nei media qualche mese dopo, alla fine del 2001. Il momento non è irrilevante. In novembre Cesare Previti ricusa, per la prima volta, i giudici di Milano.
Qualche settimana dopo, Lino Jannuzzi, columnist di Panorama, ripreso con gran risalto dal Giornale, svela che "la settimana scorsa in un albergo di Lugano sono stati visti Elena Paciotti, parlamentare europeo dei Democratici di sinistra; Ilda Boccassini, il pubblico ministero che sostiene l’accusa contro Silvio Berlusconi e Cesare Previti; Carla Del Ponte, la procuratrice europea che sta processando Milosevic, e Carlos Castresana, procuratore anticorruzione di Madrid". "È scontato - riferisce Jannuzzi - che i quattro di Lugano "collaborano" per trovare il modo di arrestare Berlusconi".
È un falso. Quella riunione non c’è mai stata. La Boccassini non ha mai incontrato o conosciuto Castresana; non vede la Paciotti da anni; non incontra la Del Ponte da sette mesi. La Paciotti non va a Lugano da venti anni; ha incontrato soltanto una volta, e anni fa, Carla Del Ponte; non conosce Carlo Castresana. La Del Ponte, in quella settimana, non era a Lugano, Svizzera, ma ad Arusha, Tanzania, sede del Tribunale internazionale. Castresana "non ha mai partecipato a nessuna riunione di questo genere né a Lugano né altrove, né la scorsa settimana né mai".
Tuttavia la "bufala" costruita dal Sismi, veicolata dal settimanale della Mondadori, casa editrice del presidente del Consiglio, con la collaborazione del Giornale, quotidiano del fratello del presidente del Consiglio, con un articolo firmato da Lino Jannuzzi, senatore di Forza Italia, partito del presidente del Consiglio, apre la strada a nuove richieste di ricusazione e mostra la necessità della legge sulle rogatorie che vuole eliminare le fonti di prova raccolte all’estero contro Berlusconi e Previti. Altro che "fonti aperte".
Nel lavoro segreto e illegittimo dell’intelligence militare nascono e si coltivano le muffe che avvelenano poi il dibattito pubblico. Creano il clima "giusto" per iniziative legislative che poi il governo proporrà al Parlamento e la maggioranza approverà. Naturalmente questo non vuol dire che sia stato Berlusconi a ordinare al Sismi quel "lavoro sporco". Perché escludere che fosse in buona fede? Perché escludere che Pollari confezionasse dossier di notizie fasulle in grado di dare concretezza ai fantasmi e alle paure dell’allora capo del governo? Per il momento si può dire soltanto che Berlusconi si avvantaggia del lavoro illegittimo del Sismi.
Si comprende dunque perché oggi negando ogni responsabilità per "schedature e monitoraggi" abusivi, l’ex-presidente del Consiglio difenda la correttezza di Pollari. La sua sortita appare una risposta diretta alla richiesta di una commissione parlamentare d’inchiesta avanzata dal ministro della Giustizia. Clemente Mastella - non lo ha mai negato - è un buon amico di Pollari. I maligni sostengono che, dietro la richiesta del ministro, lo staff di Silvio Berlusconi abbia intravisto un’iniziativa minacciosa di Nicolò Pollari, intenzionato a non finire da solo nel tritacarne che lo attende (l’avvocato di Pollari, che è anche consigliere personale di Mastella, si è detto subito entusiasta della commissione d’inchiesta). E’ un buon motivo per prendere la parola; rassicurare il "capo delle spie" nei guai; escludere ogni personale responsabilità; chiarire addirittura che non c’è "alcunché di illecito" di cui sentirsi responsabili.
Quali che siano le ragioni che abbiano convinto Berlusconi a farsi avanti, e nonostante il via libera di molti (da D’Alema a Di Pietro), la commissione d’inchiesta appare oggi più un’arma brandita contro il sistema politico (o meglio contro quei segmenti di sistema politico che hanno intrattenuto rapporti non convenzionali con il Sismi di Pollari), che non lo strumento necessario per accertare fatti e responsabilità. Le commissioni parlamentari d’inchiesta, da Telekom Serbjia a Mitrokhin, sono state l’occasione per seppellire la verità, inquinare le storie, lanciarsi in operazioni di discredito degli avversari politici. Con l’inevitabile protagonismo che avrebbero nei lavori della nuova commissione gli uomini e gli archivi di un Nicolò Pollari con l’acqua alla gola (imputato a Milano e indagato a Roma, rischia condanne per una decina di anni), un mare di fango, di dossier fasulli, di "appunti" indecenti sommergerebbe il Parlamento allontanandolo da ogni possibilità di fare luce.
Le "carte" (vere, false) le distribuirebbero gli spioni e la politica sarebbe soltanto prigioniera del gioco. Più lineare, coerente e protetto appare oggi uno schema di lavoro che affidi l’accertamento delle responsabilità penali alla magistratura e la verifica delle responsabilità istituzionali e politiche alla commissione di controllo sui servizi segreti (Copaco). L’una e l’altra si potrebbero avvantaggiare della collaborazione del Sismi di Bruno Franciforte che, convocato dal ministro della Difesa, è stato invitato a "mettere a sua disposizione tutti gli elementi in possesso del Sismi". È questa la strada maestra per venire a capo dei giochi storti. Magistratura. Un ristretto comitato di controllo parlamentare regolato da norme di riservatezza. La collaborazione del governo e di un Sismi rinnovato che vuole cambiare finalmente aria alle stanze.
* la Repubblica, 7 luglio 2007
L’ex-premier sulla vicenda dei dossier illegali: «Reagirò a illazioni»
Sismi, Berlusconi: mai ordinato schedature
«Né io, né il governo da me presieduto, ha mai dato indicazioni di operare controlli o quant’altro nei confronti dei soggetti indicati» *
ROMA - Con i dossier Sismi non c’entro nulla: parola di Silvio Berlusconi. «Né io, né tantomeno il governo da me presieduto né direttamente né indirettamente ha mai dato indicazioni a chicchessia di operare schedature, monitoraggi, controlli o quant’altro nei confronti dei soggetti indicati nella documentazione sequestrata al dr. Pompa», precisa il Cavaliere in una nota, «Il Sismi e il generale Pollari, a cui non posso che rinnovare la totale ed incondizionata stima e fiducia, hanno sempre agito con assoluta correttezza e lealtà nel rispetto della legge e dei principi costituzionali».
«REAGIRÒ A ILLAZIONI» - «Fermo restando che nessuno deve essere oggetto di attività di controllo immotivato e che qualsiasi intromissione nella privacy e nella libera esplicazione delle proprie lecite attività è un grave vulnus per la vita democratica- precisa l’ex premier - si deve osservare che, da quanto è dato comprendere dalle notizie giornalistiche apparse in questi ultimi giorni, il materiale sequestrato si sostanzierebbe in ricerche effettuate su internet e sui vari giornali, con conseguente commento del ricercatore».
«MAI A CONOSCENZA» - «Quella evidenziata in questa vicenda - continua il Cavaliere - «è la tipica attività di monitoraggio delle cosiddette "fonti aperte" che non ha in sè, all’evidenza, alcunché di illecito» prosegue l’ex-premier. «Ove questa attività fosse stata prodromica ad atti od azioni conseguenti è altrettanto evidente che configurerebbe un illecito, ma per quanto è dato sapere nulla di tutto ciò è avvenuto. L’unica cosa certa è che la presidenza del Consiglio mai è stata posta a conoscenza di tale attività. Di talché qualsiasi illazione o contraria indicazione sul punto non potrà che trovare una ferma risposta con conseguenti azioni giudiziarie in tutte le sedi competenti».
FINI: «CONFERMO» - Gianfranco Fini conferma la versione di Berlusconi: «Come ex vicepremier posso confermare quanto detto da Berlusconi. A Palazzo Chigi nessuno era a conoscenza delle attività del dottor Pompa, che prima di essere definite illecite dovranno essere meglio valutate e comprese».
COMMISSIONE INCHIESTA - Intanto si profila sempre più l’ipotesi di una commissione d’inchiesta sulla faccenda. A lanciare l’idea il ministro della giustizia Clemente Mastella, che spiega: «è l’unico modo di ridare serenità al paese acclarando quello che è effettivamente successo». D’accordo con lui Antonio Di Pietro, con il quale il leader dell’Udeur di rado riesce di questi tempi a concordare su una qualsiasi cosa. D’accordo sulla commissione d’inchiesta anche il ministro D’Alema, che ha definito «inquietante» la vicenda dei dossier illegali. Il centrodestra lascia invece intendere di essere perplesso. Però il ministro della difesa, Arturo Parisi, ha già avviato la propria ricognizione: ha convocato nel suo ufficio il direttore del Sismi, Ammiraglio Bruno Branciforte, e gli ha chiesto di mettere a disposizione tuto il materiale in suo possesso.
Il plenum del Consiglio superiore della magistratura interviene sull’attività di spionaggio sui giudici
"Il Sismi ha svolto un’attività estranea ai compiti dei servizi fatta per intimidire e far perdere credibilità"
Toghe spiate, Csm contro il Sismi
"Fu il servizio e non settori deviati" *
ROMA - E’ stato il Sismi e non i "settori deviati" del servizio a svolgere l’attività di spionaggio nei confronti magistrati che è venuta alla luce con la scoperta dell’archivio di via Nazionale a Roma. A dirlo è una risoluzione approvata all’unanimità dal Plenum del Csm.
Secondo il Consiglio superiore della magistratura il Sismi ha svolto un’attività "estranea" ai suoi compiti con lo scopo "intimidire" e far "perdere credibilità " ai magistrati.
Il vicepresidente del Csm Nicola Mancino, prima dell’approvazione da parte del plenum di Palazzo dei marescialli aveva dichiarato che "c’è stato uno sviamento di poteri da parte del Sismi. L’attività del servizio è andata al di là delle proprie attribuzioni e competenze".
La risoluzione del Csm arriva dopo le dichiarazioni dell’ex funzionario Pio Pompa che aveva voluto sminuire l’importanza dell’archivio. "La quasi totalità del materiale sequestrato nei miei pc personali - aveva scritto nella dichiarazione spontanea consegnata ieri pomeriggio al pm Pietro Saviotti - proviene da fonti aperte (internet, organi di informazioni, etc.). Le informazioni contenute nei files attinenti a magistrati sono tutte, ribadisco tutte, di fonte pubblica, giornalistica o informatica".
* LA REPUBBLICA, 4 luglio 2007
FORZA ITALIA, o "FORZA ITALIA" ....... ?!!! (fls)
Il discorso di Veltroni confrontato da un esperto con quelli "omologhi" di Berlusconi e Prodi
La lunghezza del testo alleggerita da citazioni. Due soli "peccati": flat tax e housing sociale
La media di parole per periodo è stata di 21, ancora meno delle 28 del leader forzista
Frasi brevi e pochi "io" ecco i jolly del Lingotto
di TULLIO DE MAURO (la Repubblica, 29 GIUGNO 2007)
La vita politica ha bisogno delle parole. Lo sappiamo da tempi remoti. Meno noto è che la parola fiorisce dove più intensa è la vita democratica. Tale era la tesi, ben argomentata, del poco noto antico Anonimo autore del "Sublime". Guardare alle parole usate in momenti decisivi della nostra vicenda politica può non essere solo un esercizio di analisi linguistica fine a se stessa. All’indomani del discorso di Walter Veltroni, è opportuno metterlo a confronto con i discorsi fatti in occasioni analoghe da chi lo ha preceduto sulla strada della leadership.
«Ho scelto di scendere in campo»: così il 26 gennaio 1994 Silvio Berlusconi annunziò il suo ingresso nella vita politica e la formazione di un "Polo delle libertà" e del movimento di Forza Italia. Fu un discorso breve, circa 1300 parole, nemmeno tre cartelle. Non vi si trovano citazioni di nomi propri, di persone precise, con l’eccezione del richiamo al padre e al suo insegnamento. Pochissime le parole che possano risultare mal comprensibili a una parte della popolazione, forse "retaggio" e "cartello delle sinistre", forse "liberaldemocratico" e la distinzione tra "liberale" e "liberista". I 45 periodi sono generalmente assai brevi, la media è di 28 parole per periodo, poco oltre le soglia di 25 parole, considerata ottima per la comprensibilità. Proprio nei periodi più lunghi si concentra l’espressione del "sogno" politico dell’autore. Su 45 periodi 20 contengono un autoriferimento, esibiscono la prima persona (talvolta plurale, "di maestà"). Parole più di altre frequenti sono "famiglia", "libertà" e "libero", "ragionevole" e "comunismo".
Tra i discorsi di Romano Prodi, specialmente significativo è quello pronunziato a Napoli il 17 giugno 1995, durante il "viaggio delle cento città". Si citano alcuni nomi in positivo (De Gasperi, Adenauer, Schuman) e in negativo si cita Berlusconi. Il testo è più lungo del precedente: 170 periodi. Sono numerosi i periodi brevi, brevissimi: "La politica è scelta", "Bisogna voltare pagina", "La civiltà televisiva vive alla giornata", "In Italia siamo oppressi dallo Stato", "Lo possiamo fare". La prima persona è meno frequente che nel testo di Berlusconi: si trova tuttavia in circa un sesto dei periodi. Prevalgono parole di base e comuni, ma c’è qualche vocabolo più specifico della politica: "localismo", "parodia del thatcherismo". Domanda irriverente: quest’ultima, questa "parodia del thatcherismo", che sarà stata per i due terzi di popolazione che non leggono giornali? Parrebbe una cosa brutta, secondo l’autore, perché la "offre la destra". Ma più esattamente?
Il discorso pronunciato da Walter Veltroni mercoledì a Torino è dei tre il più lungo: 11400 parole circa e 534 periodi. Nonostante non manchino periodi ampi, la media di parole per periodo è assai bassa: circa 21, dunque molto sotto la soglia di 25 parole per periodo. Come gli altri due oratori, anche Veltroni cerca di dare incisività al suo discorso e, stando ai numeri, pare riuscirci di più. Sono numerosi i riferimenti positivi a persone e guide politiche. Due autorevoli commentatori su La7 hanno detto a caldo che Veltroni aveva lasciato da parte il ricordo di nomi propri. Non sembra esatto. Le persone rammentate in positivo con nome e cognome sono, se ho ben contato, diciotto, e alcune ricorrono più volte (Prodi, Napolitano, Draghi). Vanno aggiunti alcuni riferimenti non nominativi, ma precisi: alla nostra Costituzione, al Partito democratico Usa, al Partito del Congresso indiano, ai sindacati confederali. Mancano riferimenti nominativi in negativo, scelta non casuale, ma ragionata. Le citazioni portanti sono diverse, da Vittorio Foa a Gustavo Zagrebelsky, alla bella lettera della giovane romana, la generosa "nuova italiana". C’è anche qualche citazione nascosta: "farsi carico" tra virgolette è senza dubbio una corretta evocazione dell’"I care" dei giovani nordamericani riportato su un muro dell’aula di don Milani a Barbiana.
Veltroni non si sottrae all’onere di usare la prima persona, spesso, però, per sottolineare un dubbio. Ma gli autoriferimenti, se ho ben contato, si trovano in meno di un decimo dei periodi. Assai meno, dunque, che negli altri due testi. Veltroni è portato a parlare delle cose e di altre persone e di sé dice meno degli altri due oratori. Parlando di cose in modo circostanziato, anche di cose controverse e spinose, come Veltroni fa, è inevitabile usare parole tecniche, assai specifiche. In generale queste vengono sì introdotte, ma subito spiegate, per esempio nei paragrafi sull’ambiente o in quelli sul fisco. C’è qualche eccezione negativa. Qualcuno, anche nel popolo ulivista, si chiederà che cosa siano la "flat tax" (che a Veltroni non piace) e lo "housing sociale" (che Veltroni auspica). I vocabolari per ora non aiutano. Altre parole tecniche, invece, nel contesto sono ben chiarite, da "soggettività femminile" o "mobilità sociale" a "delocalizzazione". Ci sono parole che ricorrono con rilievo: "pari opportunità", "equità", "eguaglianza", "sobrio" e "sobrietà", "ascolto", "scelta", "decisione". Sono parole che tutti capiscono e cui il discorso affida il suo senso.
Istituzioni in difficoltà, il premier sposa l’appello del presidente della Repubblica
E sulle pensioni dice: "Dipende dalla serietà con cui lavora"
Prodi: "Napolitano ha ragione
Serie le sue preoccupazioni" *
BRUXELLES - "Le preoccupazioni del Presidente Napolitano sono preoccupazioni serie. Mi impegno e mi impegnerò il più possibile per ammorbidire la situazione e creare la possibilità di scambi e di cooperazione che sono sempre necessari per la gestione di un Paese democratico". Romano Prodi, risponde così alle domande dei giornalisti sull’allarme istituzionale sul funzionamento delle istituzioni lanciato ieri dal presidente.
Pensioni e Montezemolo. "Dipende dalla serietà con cui si lavora". Prodi liquida così la spinosa questione della trattativa sulle pensioni: "L’ho cominciata, aiutata e costruita e spero proprio che la possiamo portare a termine’’. Silenzio invece sulle parole del presidente di Confindustria Luca Cordero di Montezemolo sul governo "che crea solo problemi". "Non rispondo" taglia corto il premier.
Trattato Ue. Mentre sta per partite la seconda giornata del summit europeo sul Trattato di riforma istituzionale, il premier ostenta ottimismo: "Ho grande fiducia sulla possibilità di arrivare ad un compromesso".
* la Repubblica, 22 giugno 2007
Il nodo
di Furio Colombo *
Ci deve essere un gran vuoto, uno spossante senso di attesa e di solitudine se le citazioni del giorno, riportate con enfasi da tutti i giornali (e prima ancora da una folla di telegiornali) sono di Sangalli, Montezemolo e Scajola, ciascuno nel modo sbagliato e dal luogo sbagliato.
Non so niente di Sangalli, presidente della Confcommercio, una delle due associazioni dei commercianti italiani (l’altra è la Confesercenti, ritenuti più di sinistra, quella che ha subissato Prodi di urla e di fischi). Ma non credevo che un astuto commerciante (deve esserlo, se no perché lo hanno eletto?) subentrato al non illustre e plurindagato Billè, fosse così ingenuo da spingere la sua immensa platea di iscritti a rafforzare il sospetto - giusto o ingiusto - che anima molti italiani a reddito fisso (e molte Guardie di Finanza, vedi i loro rapporti). Il sospetto, cioè, che molti commercianti siano evasori. Trasformare il grande evento sociale della categoria in un comizio alla Fidel Castro contro le tasse, alla presenza del grande predicatore dell’evasione Silvio Berlusconi, bene in vista, in posizione telecamera, un comizio che ha incluso anche la trovata retorica di rimpiangere la assenza di Prodi (cui è stata comunque dedicata la dovuta bordata di fischi) è stata una operazione perfetta di rivolta contro le tasse da parte di un tipo di imprenditori sospettato da sempre di infedeltà fiscale. Se il sospetto è ingiusto, come credo, il danno arrecato ai suoi iscritti da Sangalli è certo grande. Ha scatenato un antagonismo fiscale che manterrà a lungo tensione e diffidenza, chiunque governi (a meno che si torni a un regime di evasioni e condoni).
È vero, prima di lui lo aveva fatto, con inattesa alacrità, Venturi, il presidente della Confesercenti. Per giunta, si è prestato, con tutta la sua organizzazione «di sinistra» a una trappola un po’ volgare di fischi e di urla, non proprio la reazione tipica di chi cerca fiducia per la propria credibilità fiscale.
Possiamo dire che - insieme - Sangalli e Venturi, «destra» e «sinistra»dei commercianti italiani, hanno occupato uno spazio che raramente grandi organizzazioni vogliono pubblicamente occupare: invece della dichiarazione dei redditi, la dichiarazione di guerra al fisco.
Possibile che Sangalli e Venturi non abbiano mai fatto un viaggio in America, sperimentato qualche acquisto a Manhattan? Si sarebbero accorti che, dal più piccolo negozietto al più grande department store, il venditore compila una "lista di vendita" oltre allo scontrino e alla ricevuta della carta di credito. E applica ad ogni acquirente tre tasse diverse: federale, statale e cittadina (con la possibilità per il cliente di evitare due delle tre tasse se dimostra con un documento di abitare fuori della città e fuori dello stato). Si sarebbero accorti che i commercianti americani, almeno nella storia del dopoguerra e dopo depressione, non hanno mai organizzato proteste di categoria contro le tasse. E - allo stesso modo - non si ricorda alcuna campagna elettorale americana, federale, statale o cittadina, in cui, sia stata agitata la iniqua tassazione dei commercianti (che, tipicamente, passano gli oneri giusti o ingiusti al compratore). Mentre, ovviamente, sono normali e frequenti sia le promesse sia le richieste di tagli di tasse, con la tipica contrapposizione fra destra e sinistra. La destra taglia le tasse ai ricchi, la sinistra al reddito fisso.
Avrebbero anche notato che, in una isola di prosperità come Manhattan, dominano ormai, in tutti i settori, i grandi centri di vendita, che in un decennio hanno spazzato via la operosa, produttiva, utilissima classe media dei commercianti di negozi individuali e di famiglia. Hanno eliminato, anche socialmente, una intera parte di società libera: il negoziante.
Nell’Italia, in cui il fenomeno dei grandi centri di vendita è appena cominciato e sopravvivono ancora con tenacia e bravura centinaia di migliaia di quel tipo di botteghe e negozi che negli Stati Uniti sono scomparsi, non avresti detto che la prima preoccupazione di Sangalli e Venturi sarebbe stata di salvare dai mega-business quelle botteghe o negozi? Chi saranno state quelle migliaia di persone stipate nei due auditori? Tutti proprietari di mega centri commerciali e di shopping malls? Certo lo sfogo di uno schiamazzo, come ai bei tempi della scuola, non se lo nega nessuno se invitato a una piazzata. Però dicano francamente Sangalli e Venturi: c’è un solo economista pronto a dimostrare che i piccoli e medi negozi italiani (con il turismo in crescita e la domanda in aumento) chiudono per tasse, e non piuttosto perché scacciati dai mega-store? Hanno fatto felice Berlusconi, i due capi rivolta fiscale, ma forse non tanti iscritti. Quelli di loro che viaggiano e conoscono il mondo, sono felici che in Italia non ci sia l’inesorabile inquisizione fiscale americana, inglese, svedese, australiana, canadese dove l’arrivo di un ispettore è la peggiore sventura che può capitare a un negoziante. Eppure non ci sono rivolte di categoria perché tutti sanno che una condizione essenziale per il capitalismo, in un paese democratico, è l’assoluta certezza fiscale.
* * *
Di Luca di Montezemolo so abbastanza per stimarlo. E sono tra quelli che non hanno dimenticato che, prima di lui, la Confindustria, presieduta in passato da Guido Carli e Giovanni Agnelli, solo pochi anni fa aveva avuto l’imbarazzante presidenza di Antonio D’Amato.
Montezemolo non solo conosce gli Stati Uniti e la vita pubblica di quel Paese, ma ha anche una laurea americana. Per questo, però, la meraviglia si fa più grande quando l’attuale Presidente della Confindustria assume toni di visione e giudizio generale della cosa pubblica, come se rappresentasse una istituzione e non una categoria. E si attribuisce, dunque, una squilibrante autorità di fatto che - lui sa benissimo - non potrebbe mai avere o attribuirsi nel Paese che gli è caro e in cui ha imparato molte cose di cui, professionalmente, ha dimostrato di valersi bene.
Chi direbbe, da capo degli imprenditori, in una comunità democratica in cui di politica si occupano Governo e Parlamento, e di monitoraggio della politica si occupano i media, frasi arrischiate e destabilizzanti come «non ci sono piaciuti i tempi e i modi in cui si è affrontata la sostituzione dei vertici delle forze dell’ordine?». Ci sono precedenti, certo, di intromissione diretta nella politica degli industriali come categoria. Montezemolo sa bene che non sono buoni esempi. E che quell’elenco (triste, spesso finito male) non comprende nessuno dei paesi che, suppongo, sono il naturale modello di un Presidente di Confindustria di formazione liberale e democratica.
Il riferimento americano mi serve anche per domandarmi - e domandare all’interessato - se ricorda qualche dichiarazione di un Presidente della "American Manufacturers Association" o di fondazione o di "Think Tank" di ambito industriale, una dichiarazione, dicevo, che attacca e scredita i sindacati («statali», «pensionati», «fannulloni») piuttosto che discutere specifiche questioni, affrontare in modo chiaro e diretto contrasti, disaccordi, argomenti di scontro. Che senso può avere, da parte del personaggio di vertice di una parte importante della società italiana, aumentare il disordine, in un momento evidentemente difficile, in cui il contributo al disorientamento e al tumulto tipo Confcommercio non potrà essere ricordato come un merito?
E ancora una osservazione, nello spirito di un trascorso lavoro comune: c’è davvero una inaccettabile cultura anti-industriale nell’Italia di Maranello, in cui il parroco sa suonare le campane quando vince la Ferrari? Parlare di cultura anti-industriale in un Paese in cui tutti hanno ricominciato a comprare Fiat al primo segno di ripresa di quella azienda? Ce lo immaginiamo Robert McNamara, ai tempi in cui era a capo della General Motors, condannare un compito in classe di High School o una tesina di college perché «anti-industriale»?
E conosciamo un solo economista, Milton Friedman incluso, in grado di sostenere che «la ripresa si deve unicamente alle imprese»? Come non notare che l’affermazione è tecnicamente impossibile?
* * *
Entra in scena Claudio Scajola, rimasto nella memoria degli italiani per due ragioni: era il ministro degli Interni ai tempi del G8 di Genova. Chiunque, dopo quel "pestaggio cileno" di ragazzini inermi (definizione di questo giornale, in tempo reale, molto prima che il questore Fournier lo confessasse ai giudici) l’uccisione del giovane Carlo Giuliani e la mano libera lasciata ai misteriosi black bloc, avrebbe dovuto dimettersi. Scajola si è dimesso più tardi, quando ha definito «grande rompiballe» il prof. Marco Biagi, assassinato dalle Brigate Rosse mentre era privo di scorta.
Bene. Claudio Scajola ritorna. E in spregio alla funzione affidatagli di Presidente della Commissione parlamentare di controllo sui servizi segreti, dichiara che «il Governo ha agito in modo dilettantesco e irresponsabile» quando ha annunciato la fine del mandato del capo della Polizia De Gennaro.
La gravità, questa sì, irresponsabile, della frase sta nella delicatezza estrema della carica che Scajola ricopre.
Qui non siamo di fronte alla critica politica ma all’abuso di credibilità e autorità da parte di chi - Dio sa perché, con quel passato - è stato investito di quella carica.
È un modo in più, molto allarmante, per spiegare l’appello del Presidente Napolitano a rispettare le Istituzioni, a porre fine al sabotaggio distruttivo che impedisce al Parlamento di funzionare.
Purtroppo, non servirà. Ma almeno è stato detto con chiarezza dove, come si è creato il pericoloso nodo che sta minacciando la vita della Repubblica.
* l’Unità, Pubblicato il: 24.06.07, Modificato il: 24.06.07 alle ore 8.15
I leader della Cdl arrivati al Colle*
ROMA - Sono arrivati al Quirinale i leader della Cdl - Silvio Berlusconi (Fi), Gianfranco Fini (An), Umberto Bossi (Lega) e Gianfranco Rotondi (Dca) - per incontrare il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano. Gli esponenti della Casa della libertà hanno lasciato Palazzo Grazioli, dove hanno partecipato ad un vertice per definire cosa dire al Capo dello Stato, e si sono recati direttamente al Colle.
Non c’è l’Udc. Non a caso il segretario Lorenzo Cesa, non nasconde le perplessità: "Non spetta a Napolitano indire nuove elezioni se la maggioranza non cade. Non può fare un golpe, basta capire un pò di diritto costituzionale".
* la Repubblica, 20-06-2007.
La democrazia è che i generali vanno a casa
di Raniero La Valle
Riceviamo da Enrico Peyretti questo articolo di Raniero La Valle della rubrica “Resistenza e pace” che uscirà su Rocca (rocca@cittadella.org ) del 15.06.07 *
Resistenza e pace
Si può salvare la Repubblica? Le istituzioni tengono, ma lo spirito è debole. Ciò che è accaduto con la vicenda Visco-Speciale e con la fallita “spallata” al governo Prodi, ha fatto accendere un segnale di allarme rosso. Altre volte la Repubblica è stata in pericolo, per Servizi deviati, generali golpisti, stragi di Stato, oscuri giochi delle parti tra Brigate Rosse e ceti politici antimorotei; abbiamo avuto perfino un capo dei contrabbandieri al comando della Guardia di Finanza e un vertice della magistratura ridotto a un porto delle nebbie; ma il gioco politico che si svolgeva alla luce del sole era formalmente corretto, la cultura democratica era fuori discussione, l’opposizione rispettava le regole e la coscienza pubblica era sana. È grazie a ciò che delle grandi emergenze democratiche sono state superate con relativa facilità, e di alcune si è perso perfino il ricordo.
Ma ora è la politica stessa, nelle sue espressioni quotidiane e pubbliche, che si è trasformata in un gioco al massacro; le rappresentazioni serali del confronto politico traboccano di odio, sete di vendetta, disprezzo per l’avversario; un distinto signore come l’ex democristiano D’Onofrio tratta beffardamente il ministro Padoa Schioppa in Senato come un minorato psichico, come un ignorante della Costituzione e come un intruso al palazzo. La percezione che lo schieramento battuto alle elezioni ha del governo legittimo del Paese, è che si tratti di una banda di usurpatori; il loro imperdonabile delitto, ogni momento additato alla esecrazione degli “Italiani”, è che, approfittando di un attimo di distrazione di Berlusconi o di qualcuno dei suoi elettori ed alleati, essi abbiano rubato il potere all’unica parte politica sana del Paese, designata a governarlo per diritto divino; e poiché per meglio gestire il potere destra e sinistra hanno creato un sistema in cui il conflitto politico non si può più dirimere attraverso le procedure parlamentari e il Parlamento non è più il luogo dove si formano e cadono i governi, l’unico assillo dell’opposizione, l’unico suo discorso politico, l’unico suo contributo al dibattito pubblico è del come si possa abbattere il governo a spallate, come lanciargli contro veleni e dossiers, come mobilitare la piazza e inventarsi scioperi fiscali e insomma come ristabilire, con le buone o con le cattive, la normalità di un governo della destra.
In quest’ultima occasione, l’uso di una testa d’ariete come il comandante della Guardia di Finanza contro l’esecutivo e in particolare contro il titolare della lotta all’evasione fiscale, è stato francamente eversivo. Se il ministro Padoa Schioppa non avesse finalmente rivelato quale era il punto politico della contesa, il governo non avrebbe meritato di sopravvivere, per questa sua incapacità di motivare e far capire perfino le cose buone che fa. E il punto politico era che la separazione dei poteri riguarda solo l’esecutivo, il legislativo e il giudiziario, e che non esistono altri poteri o corpi separati che possano rivendicare una loro autonomia, e tanto meno le Forze Armate che sono tenute per legge a conformarsi ai principi democratici della Repubblica; e che se esiste un conflitto tra un generale e il governo, o va via il generale o va via il governo; ma se va via il governo non siamo più in Italia e in Europa, bensì in una “repubblica delle banane”.
Ora il vero problema è come mettere in sicurezza la Repubblica, come evitare che attentati e rischi di questo genere possano ripetersi. È inutile fare appello a un ammorbidimento del clima politico, al senso dello Stato dei protagonisti e almeno all’educazione degli eletti (si fa per dire) ai seggi parlamentari.
La salvezza delle istituzioni non può dipendere dal ravvedimento dei singoli. Occorre reintrodurre delle garanzie oggettive: una governabilità che non significhi l’inamovibilità dell’esecutivo per l’intera legislatura, un Parlamento che riacquisti il suo ruolo come fonte e limite del potere di governo, un’opposizione che sia vincolata all’obbedienza alle leggi della democrazia e al rispetto delle persone (la immunità dei parlamentari riguardo alle opinioni espresse nell’esercizio del mandato non può estendersi alla licenza di insulto e di annientamento simbolico dell’avversario), una legge elettorale che produca una vera rappresentanza e che non trasformi una minoranza in maggioranza schiacciante, una regola del gioco che non costringa i partiti ad alleanze innaturali con forze dall’opposto sentire politico, una ripresa di autorità e dignità della politica che faccia venir meno quel vuoto che oggi è riempito dalla supplenza caricaturale dei media che mettono in scena la politica come spettacolo nell’arena di un set televisivo.
Soprattutto è necessario che il gregarismo di masse cui è stata tolta ogni seria informazione e cultura politica non venga elevato a rango costituzionale mediante l’instaurazione di un presidenzialismo irresponsabile e l’istituzionalizzazione del culto della personalità; e che lo stesso “criterio” del politico cessi di essere la contrapposizione col nemico, e torni ad essere il bene comune e l’interesse generale.
Raniero La Valle
* Il Dialogo, Mercoledì, 13 giugno 2007
America e Italia
di Furio Colombo *
Quello che sto per scrivere è la registrazione di alcuni fatti avvenuti nelle stesse ore e negli stessi giorni (mercoledì, giovedì, venerdì) a Washington e a Roma.
La conoscenza attenta e accurata di questi due gruppi di fatti dice con chiarezza, anche a coloro che si sono sentiti in dovere di dimostrare contro l’America, che il pericolo che stiamo correndo è qui, è adesso, è in Italia e occorre una certa cecità selettiva per non vedere che un dramma pericoloso si sta svolgendo intorno a noi. Mi riferisco all’estremo rischio per una repubblica democratica: spingere le Forze armate allo scontro con le istituzioni elette, puntare sulla rivolta dei generali, che la stampa berlusconiana, infatti, chiama a raccolta con un linguaggio grave e irresponsabile.
Tutto ciò non ha a che fare con la rigorosa lealtà dei militari italiani che restano fermamente legati al giuramento costituzionale. Ma è la peggior prova che una classe politica (in questo caso tutta l’opposizione inclusi i presunti moderati di Casini) possa dare di sé. Credo di poter riassumere così, per condividere con i lettori il senso di allarme.
* * *
Primo. Per una giornata intera (mercoledì 6 giugno) quasi tutti i senatori italiani che fanno riferimento a Berlusconi (in questo non si nota alcuna differenza importante fra uomini di azienda, affiliati e presunti indipendenti) hanno spiegato a lungo che i politici eletti sono esseri inferiori ai generali e che il vice-ministro Visco è una spregevole creatura indegna anche solo di porsi accanto al generale Speciale, figuriamoci di dare su di lui un giudizio negativo e una decisione di congedo.
A lungo i senatori eletti dell’opposizione si sono impegnati a superarsi l’un l’altro nella denigrazione e nel ridicolo della politica a confronto con l’onore dei generali. «Un generale non può mentire», è stato declamato. E anche: «come può un vice-ministro osare di contrapporsi a un soldato?». Tutto ciò prima che il ministro Padoa-Schioppa, titolare della Economia e a cui risponde il corpo di polizia (tecnicamente non militare) della Guardia di Finanza, prendesse la parola per dare le sue spiegazioni, assumersi la responsabilità della destituzione di un comandante di quel corpo (che non viene dai ranghi di quel corpo e dunque, nel bene o nel male, rappresenta prima di tutto, se stesso e la sua storia) e offrire motivate ragioni.
Vorrei chiarire al lettore. Non sto tentando di discutere o di sostenere quelle ragioni. Non è questo che è avvenuto in Senato, che avrebbe avuto tutto il diritto di rivedere i particolari e le svolte decisionali della vicenda.
No. Quello che è accaduto è stata una pioggia di insulti infamanti lanciati al colmo della voce (alcuni erano afoni, quando è scesa la notte) non da tutti ma purtroppo da moltissimi membri del Senato che (fanno fede i verbali) sono incorsi anche in sgrammaticature tremende pur di superare ad ogni intervento, gli insulti di chi li aveva preceduti.
Secondo. L’intento non era - e tutt’ora non è - in questa importante e delicata vicenda, la discussione parlamentare. L’intento, fin troppo vistosamente proclamato e francamente vergognoso da parte di membri autorevoli di un Parlamento, è di tentare lo scontro, montando la scena macabra dell’offesa alle Forze armate e, dunque, di un presumibile diritto di risposta.
Se mi riferisco alla esperienza giornalistica posso dire che soltanto nel Parlamento di Atene, nel maggio del 1967, mentre ero nella tribuna stampa insieme ad Alberto Ronchey, Bernardo Valli, Luciana Castellina, ho assistito allo stesso spettacolo di denigrazione violenta di un governo e della politica. Ma eravamo a poche ore da un colpo di Stato.
Se mi riferisco a quella incredibile profezia che è stato a volte il cinema italiano, ricorderò la scena finale di «Cadaveri eccellenti», di Francesco Rosi, le urla dei dimostranti, il rombo minaccioso di motori militari.
Spesso la realtà è più squallida del cinema (almeno di quel cinema, che prefigurava tragedie civili con impressionante bellezza). Ma alcune cose, se non da cinema certo da tragico avanspettacolo, erano state previste, come le gigantografie di Visco sventolate in Aula per mostrare alle telecamere il volto ignobile di un pericolo che deve essere eliminato. Come l’idea non riuscita (c’è stata anche una protesta formale per gli intoppi burocratici che casualmente l’hanno impedita) di riempire di militari della Guardia di Finanza le gallerie del Senato, e di organizzare di fronte al Senato una manifestazione di giovani con striscioni inneggianti al generale, giovani che (avrebbero voluto farci credere) erano militari in abiti civili “decisi a difendere il loro onore”.
Terzo. La giornata del dibattito, che sarebbe stata comunque tesa e difficile anche fra parlamentari disposti, e anzi decisi, a discutere una situazione comunque complessa, comunque bisognosa di chiarimenti, è stata preceduta da una opportuna serata della Tv di Stato, nel talk show «Porta a porta». In esso il conduttore, in preda a particolare concitazione, si è assunto il compito di accusatore dei due parlamentari dell’Unione, Violante e Russo Spena presenti in studio, sopravanzando spesso in precisazioni ostili, difese dei generali e confutazioni delle affermazioni di Violante e Russo Spena, i pur abili e implacabili senatori Schifani e Castelli, portando così a tre, nel programma, il numero di militanti fermamente schierati nella stessa parte politica.
Esagero? La Rai può fugare ogni dubbio in proposito facendo pervenire (anche a spese del ricevente) un Dvd di «Porta a porta» di martedì 5 giugno. Nessuno dirà una parola perché la rappresaglia, come è noto, è non essere più invitati nel prestigioso talk show. Ma almeno potremo mettere quel Dvd nell’archivio del Senato per sapere con quale cura, la sera di martedì 5 giugno, è stata preparata la tensione che si sarebbe dovuta scatenare il giorno dopo, mercoledì 6 giugno, nell’Aula del Senato in luogo della normale discussione parlamentare.
* * *
Ma adesso vediamo il confronto con corrispondenti eventi della vita politica americana. Se i giornali e le Tv italiane ne parlassero in luogo delle avventure carcerarie di Paris Hilton, alcune marce contro l’imperialismo Usa, munite anche di autorevoli presenze politiche, diventerebbero eventi in difesa della democrazia e delle istituzioni adesso, qui, in Italia.
Ecco, siamo nel Senato degli Stati Uniti. Parla il senatore Carl Levin: «Generale, ma le sembra possibile che proprio lei riuscirà a portare un minimo di coerenza a una politica militare del tutto incoerente, una politica incerta e vacillante dopo quattro anni di morti e di guerra?».
Senatore Jack Reed: «Generale, se lei va avanti ha un compito impossibile. Se lei fa un passo indietro dimostrerà in modo devastante che l’apparato politico e di sicurezza nazionale della Casa Bianca non esiste».
Senatore Carl Levin: «Ma generale, non si è accorto che Baghdad brucia? Non vede che la stanno mettendo in una situazione impossibile, di inevitabile fallimento?».
Racconta il «New York Times» (8 giugno): «Il generale Lute (definito “zar della guerra” per i compiti di completa revisione della strategia americana che gli sono stati affidati) ha risposto con candore: «Siamo in un vero rischio. Non sono certo contento di come vanno le cose. Temo anch’io che il governo iracheno non sia in grado di rispondere. Le soluzioni di rigido antiterrorismo in Afghanistan non sono la risposta giusta. Dobbiamo tentare altre strade».
* * *
Ho citato una buona pagina di civiltà democratica. Prima di assumere un incarico cruciale in due guerre in atto, il generale Lute, che ha fama di intellettuale perché, oltre a West Point, ha anche una laurea ad Harvard, si presenta ai senatori, che sono il potere politico eletto del suo Paese, per essere interrogato, valutato discusso, invitato a rispondere a domande imbarazzanti, richiesto di esporre piani e idee, di confrontarsi con il netto e diverso parere di alcuni senatori, per ore, per giorni, fino a quando la commissione Difesa del Senato non si sarà persuasa che il Presidente ha scelto l’uomo giusto per “il compito impossibile” di cui parla il senatore Levin, uno dei legislatori più risolutamente contrari alla guerra. S’intende che i senatori sanno in ogni momento di essere anch’essi sotto esame sia perché i giornali danno di queste audizioni resoconti precisi, non folkloristici, non piegati a tifoserie occasionali. Sia perché - attraverso la buona informazione che in modo assoluto evita il filtraggio di “talk show” di partito - l’opinione pubblica, in caso di errore, non fa sconti né ai senatori né ai generali. Non tollera ombre e pretende il meglio da entrambe le parti. Ma sa che tocca ai politici eletti dire l’ultima parola per poi risponderne col voto. È la condizione assoluta, ma anche la definizione, della democrazia.
È esattamente ciò che le scomposte urla in Senato, il lancio di manifesti e gigantografie insultanti, il progetto di riempire di militari - che per fortuna non sono venuti - le gallerie del Senato, hanno tentato in tutti i modi di danneggiare. È un peccato che - fra coloro che volevano dimostrare contro il “pericolo americano” - nessuno, neppure parlamentari che ormai vivono questa esperienza ogni giorno, abbia visto in tempo che il pericolo è italiano, è qui, è adesso. E non sappiamo neppure se è un pericolo scampato.
furiocolombo@unita.it
* l’Unità, Pubblicato il: 10.06.07, Modificato il: 10.06.07 alle ore 14.14
QUALE FESTA PER LA REPUBBLICA? *
di Rosangela Pesenti *
La stanchezza mi tiene a letto più del solito e mi vedo tutta la parata militare per la festa della Repubblica.
Che tristezza!
Se la rappresentazione simbolica della Stato resta ferma all’esaltazione dell’esercito, come nell’Ancien Régime, le istituzioni democratiche non possono che uscirne mortificate e la società di conseguenza non può che arretrare sul piano della convivenza civile.
A scuola insegno che il sistema fiscale, l’amministrazione della giustizia e l’organizzazione dell’esercito fondano lo Stato formato dai sudditi, mentre la scuola, la sanità, la pubblica amministrazione sono le istituzioni che consentono di avviare il processo di passaggio alla cittadinanza. Lo Stato non come luogo difeso ai confini, ma come territorio sul quale abitiamo governato da un patto solidale fondato sull’esercizio dei diritti e tra questi il lavoro, l’istruzione e la salute sono quelli che caratterizzano meglio la vita della democrazia. Per ricordare e festeggiare la nascita della nostra Repubblica, fondata sul lavoro, uscita faticosamente dalla diffusa resistenza alla barbarie della guerra, scelta democraticamente senza decapitare nessun re, nata anche grazie alla capacità della maggioranza del nostro esercito di non agire militarmente ma secondo coscienza, come nel caso di tutti i nostri Internati militari in Germania, vorrei una vera festa in tutto il Paese.
Per un passaggio graduale, e dato che una buona tradizione non si crea dall’oggi al domani, vorrei che intanto insieme all’esercito partecipassero alla manifestazione (non potrebbe più essere solo “parata”) gli addetti alla scuola e alla sanità, insegnanti e bidelli, medici e infermieri, per rappresentare simbolicamente l’inalienabile diritto alla salute e all’istruzione e riconoscere valore sociale a chi se ne occupa; e poi, perché no, sindacati e confindustria perché il valore del lavoro è davvero condiviso se le parti sociali si riconoscono tra loro secondo le buone regole del conflitto, e poi pensionati e disoccupati e magari l’associazionismo e tutte quelle istanze democratiche in cui cresce la vita civile.
A godere lo spettacolo del corteo inviterei giovani e bambini, classi sorteggiate in tutta Italia per guardare come gli adulti che rappresentano l’essere collettività, per imparare da un evento i famosi valori di giustizia e legalità dei quali gli stessi adulti amano riempirsi la bocca (magari senza praticarli come da tradizionale ipocrisia).
Insomma, butto lì qualche idea perché io come cittadina vorrei esserci, non fisicamente, ma riconoscendomi nelle persone che incarnano anche la parte di società a cui appartengo. Non so quanto questa Repubblica debba all’esercito, ma so che deve molto agli insegnanti, perfino a quell’infima minoranza, di cui ci si riempie la bocca per giustificare l’atteggiamento ormai persecutorio dell’opinione pubblica, che pur svolgendo il proprio lavoro al minimo assolve comunque ad una indispensabile funzione di babysitteraggio sociale e che resta comunque malpagata per l’utilità del lavoro che svolge.
Pensate a come sarebbe visivamente creativo introdurre tra un reparto dei carabinieri e uno della marina le insegnanti di scuola dell’infanzia con i palloncini colorati e dietro i granatieri i licei con trolley di libri e insieme ai Generali i Rettori dell’università.
Perché la patria repubblicana e democratica si impara a difenderla cominciando a dire No ad ogni dittatura, imposta con la violenza o con la corruzione e la manipolazione, dalla dabbenaggine di un re o dagli ammiccamenti di un illusionista, e se non si comincia a difendere la libertà e la democrazia a scuola e nelle istituzioni pubbliche non c’è esercito che ci possa salvare, e la storia l’ha ampiamente dimostrato.
Rosangela Pesenti
* IL DIALOGO, Domenica, 03 giugno 2007
2 giugno Festa della Repubblica: mettere in sicurezza la Costituzione *
di COORDINAMENTO REGIONALE TOSCANO
DEI COMITATI PER LA DIFESA DELLA COSTITUZIONE
Comunicato stampa
Il 2 giugno 1946 gli Italiani e, per la prima volta, le italiane elessero il loro Parlamento, che, chiudendo definitivamente la drammatica parentesi fascista, assunse il compito di scrivere la Costituzione della nascente Repubblica. Il testo, approvato a larghissima maggioranza da una assemblea pur composta da rappresentanti di forze politiche ormai appartenenti a fronti opposti degli schieramenti internazionali, entrò in vigore il 1 gennaio 1948.
Il 25 e 26 giugno 2006, a 60 anni di distanza, una larga maggioranza popolare, che ha superato gli schieramenti politici ed è composta da uomini e donne di generazioni successive, respingendo con il referendum costituzionale il tentativo di stravolgerne i contenuti, ha riconfermato di ritenere quella Costituzione il contratto fondamentale della nostra convivenza civile.
In questi anni le nostre società sono cambiate anche in modo allora imprevedibile per i Costituenti, ed è lecito pensare ad adeguamenti del testo originario che, rispettando l’impianto complessivo di un sistema parlamentare rappresentativo e nell’intento di proseguire nella realizzazione degli obiettivi incompiuti, tengano conto delle nuove esigenze. Non è però accettabile ignorare l’inequivocabile espressione di volontà uscita dal verdetto referendario dello scorso anno proponendo, in nome di una presunta migliore governabilità, formule che contraddicono o si allontanano dalla natura parlamentare della nostra democrazia.
Appare inoltre inquietante la disinformazione che circonda la proposta di referendum Guzzetta-Segni sulla legge elettorale, che ci riporterebbe alla mussoliniana legge Acerbo del 1925. La scorciatoia referendaria in questo caso, mentre sembra voler dare risposta alla ’crisi della politica’, fonde in realtà l’antipolitica e la tentazione di mortificare il ruolo del Parlamento per arrivare a modifiche alla forma di governo dello stesso tenore di quelle scongiurate con il risultato referendario dello scorso anno
A fronte del riaffiorare di proposte di riforma in senso presidenzialistico ed accentratore, i Comitati toscani per la Difesa della Costituzione, componenti del Comitato Nazionale ’Salviamo la Costituzione’ presieduto del Presidente Emerito della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro, ritengono assolutamente indispensabile che il Parlamento proceda senza ulteriori indugi all’aggiornamento dell’articolo 138 della Costituzione, innalzando la maggioranza necessaria alle modifiche costituzionali e garantendo sempre la possibilità del ricorso al referendum, come peraltro previsto al primo punto del programma elettorale dell’attuale maggioranza di governo.
Solo così otterremo per tutti la garanzia che le ’regole del gioco’ democratico non possano essere modificate in base ad interessi contingenti da parte di maggioranze che possono non essere rappresentative della reale volontà popolare.
I Comitati invitano tutti, e in particolare i rappresentanti eletti dai cittadini nelle sedi istituzionali, a festeggiare quest’anno, unitamente alla Repubblica, la sua Carta fondamentale, frutto del lavoro e dell’impegno morale di uomini e donne che seppero mettere l’interesse del Paese al di sopra di quello delle singole parti, trovando un mirabile equilibrio fra libertà e doveri, principi ideali e strumenti giuridici.
Firenze, 1 giugno2007
(per il Coordinamento: Francesco Baicchi 348 3828748, del Comitato di Pistoia)
Articolo tratto da:
FORUM (57) Koinonia
http://utenti.lycos.it/periodicokoinonia/
* IL DIALOGO, Sabato, 02 giugno 2007
C o m u n i c a t o *
L’Ufficio Stampa della Presidenza della Repubblica rende noto il testo del messaggio del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della Festa Nazionale della Repubblica:
Vi ho un anno fa rivolto i miei primi auguri per la Festa della Repubblica. Ve li rinnovo oggi con sentimenti di sincera vicinanza personale.
E’ una ricorrenza da celebrare in spirito di unità : cittadini, istituzioni, Forze Armate, italiani all’estero.
Ed è l’occasione per gettare un breve, sereno sguardo sul cammino compiuto nell’ultimo anno e sul futuro che ci sta davanti.
Non spetta a me, sia chiaro, dare giudizi sull’azione di governo : non interferisco nel dibattito tra gli opposti schieramenti politici.
Ma posso e sento di dover dire grazie a quanti di voi - imprenditori, lavoratori, contribuenti sensibili al dovere civico - hanno reso possibile la ripresa dell’economia, che è tornata a crescere, e il miglioramento dei conti pubblici.
Un miglioramento, una ripresa che non sono sufficienti, che debbono andare al di là dei risultati già raggiunti.
E ciò richiede ulteriori sforzi. Avendo di mira la creazione di ancora maggiori possibilità di lavoro, soprattutto in alcune parti del paese. E guardando alla sfida dell’innovazione, della partecipazione all’Europa, della competizione globale : perché è di qui che passa lo sviluppo, e il ruolo, dell’Italia nel prossimo avvenire.
E’ una sfida che ci impegna tutti, dalle imprese allo Stato. Faccia ciascuno la sua parte, fino in fondo, con coerenza.
Di certo, la macchina istituzionale e burocratica resta pesante e costosa. E’ indispensabile alleggerirla, renderla più razionale ed efficace, diminuirne i costi.
Si impone perciò sobrietà e rigore nei bilanci pubblici, nei comportamenti pubblici.
Il sistema politico e le istituzioni rappresentative, a cominciare dal Parlamento, possono riguadagnare credibilità e prestigio tra i cittadini solo affrontando i cambiamenti necessari.
Non si può continuare a parlarne senza giungere a conclusioni concrete.
Da una parte bisogna avere il senso del limite e della responsabilità nel denunciare quel che non va ; se si fa di tutte le erbe un fascio, si semina ulteriore sfiducia, non si aiuta la definizione di obiettivi precisi di rinnovamento. E dall’altra parte si deve sapere che per rinnovare la politica e le sue regole, i meccanismi elettorali e le istituzioni, non c’è altra strada che quella di confronti e accordi tra le forze presenti in Parlamento e in altre Assemblee elettive.
Importanti sono le sollecitazioni che possono venire dall’opinione pubblica, dalle forze sociali e culturali, e da una maggiore partecipazione dei cittadini : ma nulla può sostituire la ricerca di intese, la scelta di soluzioni largamente condivise in Parlamento, specie per riforme di ampio respiro che ormai si impongono nell’interesse generale.
E dunque mi chiedo : si può trovare ora, nonostante le difficoltà, questo terreno comune tra forze di maggioranza e di opposizione, senza confondere i ruoli, senza attenuare la gara per il governo del paese? Continuo a credere che sia possibile, e a ripetere il mio appello in questo senso. E’ in giuoco il nostro comune futuro.
Roma, 1° giugno 2007
Il premier a Radio 24 difende il viceministro e le scelte fatte dal Cdm
Berlusconi attacca: "Non sappiamo a chi rivolgerci per ottenere legalità"
Prodi: "Su Visco fatta la cosa giusta
Ora il dibattito al Senato non serve più"
ROMA - "Contento di com’è finita? Ero più contento se questa vicenda non cominciava". Il premier Romano Prodi ha tracciato un bilancio dai microfoni di Radio 24 del caso Visco-Gdf. Il premier ha sottolineato che il viceministro ha dimostrato "senso dello Stato" e che "si è comportato come sempre, da gentiluomo". Ma Berlusconi vede la situazione in maniera diametralmente diversa ed è tornato a parlare di "emergenza democratica".
"Il Consiglio dei ministri ha preso la decisione che doveva prendere", ha detto il presidente del Consiglio, ospite di ’Una poltrona per due’, in merito alle decisioni assunte ieri dal Cdm sul caso Visco-Gdf. Prodi non vuole sentir parlare di soluzione all’italiana. "Se soluzione all’italiana vuol dire che il Consiglio dei ministri prende le soluzioni che devono essere prese allora è una soluzione all’italiana".
"Ero più contento se non cominciava, però essendosi creata questa tensione si è imposta l’autorità del governo, si è imposta una chiarezza e Visco ha dato prova di senso dello Stato perché la tensione era arrivata a un punto tale da non permettere gestione serena della Guardia di Finanza e Visco si è tirato indietro", ha detto Prodi. E sul trasferimento del generale Speciale alla Corte dei Conti, il premier ha sottolineato: "La Corte dei conti non è un potere identico o equivalente alla Guardia di Finanza, ma è l’offerta di un ruolo di servizio che può ancora ricoprire".
Secondo Prodi ora "la maggioranza è certamente più forte. Tutti hanno approvato quello che abbiamo fatto". Il premier ha sottolineato quindi che c’è stata la revoca temporanea delle deleghe a Visco e che quindi "in teoria non c’è ragione di svolgere il dibattito in Senato" la prossima settimana."Non so se si svolgerà", ha detto il premier, in merito al dibattito in calendario a palazzo Madama con le mozioni dell’opposizione e quella dell’Idv che, dopo le decisioni di ieri assunte dal Cdm, è stata invece ritirata.
"Il viceministro all’Economia ha dato prova di senso dello Stato", ha concluso Prodi. "Mi ha detto - racconta il premier -, ’credo di avere ragione ma preferisco rinunciare a queste deleghe in attesa che si faccia chiarezza’".
"E’ molto grave ciò a cui stiamo assistendo - ha detto Berlusconi -. Cosa sarebbe successo - ha proseguito - se il nostro governo avesse invitato in modo arrogante e prepotente il capo della Guardia di Finanza ad allontanare non uno ma quattro alti funzionari che stavano compiendo un’indagine su Fininvest? Credo - si è risposto il leader di Forza Italia - che avremo avuto la gente in piazza e ci avrebbero cacciato a furor di popolo".
Mastella soddisfatto. Con il suo "passo indietro", il viceministro dell’Economia Vincenzo Visco, "Ha consentito alla coalizione di ritrovare un minimo di unità". Lo ha sottolineato il ministro della Giustizia Clemente Mastella, anche lui alla sfilata militare ai Fori Imperiali. "Ognuno - ha rilevato Mastella riferendosi all’ipotesi di dimissioni di Visco - difende le sue ragioni personalmente. Anche il gesto di farsi da un lato darebbe l’idea ad alcuni di ritenere che abbia commesso qualcosa". Quanto alla sostituzione del generale Roberto Speciale al vertice della Guardia di finanza con il generale Cosimo D’Arrigo, "personalmente forse l’avrei effettuata successivamente".
* la Repubblica, 2 giugno 2007
Apprendisti stregoni della governabilità
di Alberto Burgio (il manifesto, 1 giugno 2007)
Il primo atto ha visto la collisione tra il presidente del Consiglio Romano Prodi e il presidente della Camera Fausto Bertinotti, un botta e risposta di inusitata asprezza. «Il parlamento è improduttivo». « È un giudizio che rivela scarsa dimestichezza con le aule parlamentari». Il secondo atto ha avuto luogo sulle pagine del Corriere della sera, con una pesante, pesantissima intervista al vicepresidente del Consiglio e ministro degli Esteri Massimo D’Alema. Tema: la «crisi di credibilità della politica» che rischia di «travolgere il Paese» come già accadde all’inizio degli anni Novanta. Svolgimento: critiche sferzanti al sindacato e invocazione di drastici mutamenti istituzionali e costituzionali, a cominciare da una riforma elettorale che riduca il «potere di ricatto delle forze minori» e accresca il potere dell’esecutivo imprimendo al sistema una decisa svolta presidenzialistica.
Così nelle scorse settimane è andata in scena la formale messa all’ordine del giorno della questione delle questioni. Ormai è ufficiale: la «politica» è in crisi, il paese reale non si riconosce più nel paese legale. Sebbene nessuno lo dica a chiare lettere, molti sembrano paventarlo: sullo sfondo torna ad agitarsi lo spettro della repubblica di Weimar. Non è cosa da poco, comunque la si pensi. Quello della crisi istituzionale è un argomento pericoloso, soprattutto quando approda alle pagine dei grandi quotidiani. Allora, indipendentemente dalla fondatezza degli allarmi e delle interpretazioni, diviene un problema serio, specie in un paese nel quale le istituzioni democratiche non vantano una storia secolare e non godono di indiscusso prestigio. Ma l’allarme di per sé non basta. Se non si accompagna a un’analisi corretta delle cause, può persino portare al peggio. Risposte sbagliate potrebbero generare effetti controproducenti e aggravare il male che si vorrebbe guarire.
Razza padrona
La «politica» è sotto un attacco concentrico nel quale si mescolano due differenti imputazioni. Le si rinfacciano privilegi e costi spropositati. E le si imputa di non sapere risolvere i problemi della società.
Sui costi e i privilegi c’è poco da dire, se non che è un problema vero, come hanno ben documentato Cesare Salvi e Massimo Villone. La loro denuncia è stata accantonata con fastidio dagli addetti ai lavori, che ora probabilmente se ne dolgono, spaventati dalla collera popolare. Non è decisivo se sia collera spontanea o il frutto di campagne orchestrate. Conta che, agli occhi di quanti incontrano ogni sorta di ostacoli nel far valere i propri diritti, l’ansia, le difficoltà, le frustrazioni hanno una causa molto semplice: l’incapacità della «politica». Dietro la quale si intravede subito dell’altro: il privilegio, tanto più odioso; la corruzione; l’indifferenza di chi dovrebbe rispondere a una società dolente e sembra invece badare soltanto a rendite e poteri.
Com’è stato scritto, se non vuole essere travolta la classe politica deve fare un bagno di umiltà. Recuperare la dimensione del servizio e, se questo non riesce proprio a tutti, quantomeno rinunciare a vantaggi e comportamenti da «razza padrona». Per ragioni etiche o anche solo per egoismo razionale. Si guardi dunque al parlamento. E si guardi con pari severità - per limitarci al pubblico - al governo e al sottogoverno; alla miriade di organi rappresentativi privi di effettive funzioni; agli enti locali e alle pubbliche amministrazioni; alle authorities e alla pletora degli enti inutili; all’esercito dei consulenti e agli strapagati vertici delle aziende pubbliche e partecipate. Si colpiscano sinecure, si riducano costi esorbitanti, si eliminino sprechi e privilegi.
È un tema per la sinistra, poiché il discredito delle istituzioni democratiche è una manna per la reazione populista o tecnocratica. Occorre agire subito, con mano decisa e senza indulgenza. Ma è necessario anche aver presente il contesto nel quale ci si muove e il risultato che si intende conseguire. Questo ci porta dritti all’altra questione - l’inadeguatezza e inoperosità della politica - che rivela altri e ben più gravi presupposti.. Inadeguatezza e inoperosità: a ben guardare, questi addebiti non coinvolgono la sfera politica nel suo insieme, ma il parlamento. È la sua presunta inerzia ad apparire - ad essere indicata come - impedimento alle decisioni del governo. Avallando una rappresentazione classica, Prodi ha contrapposto la rigogliosa produttività dell’esecutivo alla sterilità delle Camere. Da un lato - ha dichiarato - la bellezza di 124 disegni di legge; dall’altro, appena dieci provvedimenti varati. È forte qui l’eco delle recriminazioni che nel primo dopoguerra accompagnarono l’inabissarsi dello Stato liberale. Una classe politica attardata in discussioni esasperanti mentre l’incalzare degli eventi avrebbe richiesto decisioni rapide: l’insistita riproposizione di questo quadro propiziò allora l’avvento dell’«Uomo della Provvidenza». È un quadro che si attaglia all’oggi?
Teologia politica
Cominciamo col rilevare un’omissione. Nella legislatura in corso le Camere sono in sofferenza perché il governo non ha una maggioranza stabile al Senato. La consapevolezza di questo fatto influisce gravemente sui lavori della Camera bassa, condizionando calendari, ritmi di lavoro, e ovviamente la produttività del parlamento. Ma solo nel senso che essa ne viene frustrata e impedita.
E come risponde il fecondo governo a questa impasse che con mirabile equanimità il presidente del Consiglio rinfaccia al parlamento? Molto semplicemente, cercando di sostituirglisi nell’esercizio della funzione legislativa. O formalmente, sfornando e reiterando decreti-legge (al punto di costringere il capo dello Stato a richiamare i principi costituzionali di «necessità e urgenza») e pretendendo deleghe (perdipiù general-generiche, con buona pace dei vincoli temporali e materiali stabiliti in Costituzione). O informalmente, arrogandosi la potestà decisionale in materie di competenza parlamentare (come la ratifica dei trattati internazionali) o ponendo la fiducia sui propri disegni di legge, e così blindandoli.
Di questo stato di cose bisognerebbe parlare, piuttosto che strizzare l’occhio all’onda limacciosa dell’antipolitica che si finge di voler contrastare. Su questa profonda mutazione dell’architettura istituzionale e sui suoi presupposti occorrerebbe interrogarsi, invece di mimare rituali omaggi al simulacro della «centralità del parlamento». Senonché, ove lo si riconoscesse, come si potrebbe ricominciare con la litania della «governabilità»? E come sarebbe possibile ritornare alla carica - derubricando il referendum costituzionale dello scorso giugno a irrilevante equivoco - con la richiesta di nuove riforme e nuove Costituenti che cancellino i partiti minori e conferiscano al governo più ampi poteri?
E siamo così al dunque. Un bilancio onesto di questo stato di cose imporrebbe di sfidare i dogmi cardinali della teologia politica che ci affligge da vent’anni a questa parte: da quando una stirpe di politologi provinciali e saccenti ha dato impulso a una stagione di riforme che - colpendo a morte i partiti con basi di massa e imbragando il sistema della rappresentanza in un bipolarismo che fa violenza alla reale composizione politica del Paese - hanno devastato la macchina istituzionale e decretato la sostanziale messa in mora della Costituzione repubblicana.
«Riforme» per un’oligarchia
Il disastro di un parlamento spaccato in due e della contrapposizione tra fazioni quantitativamente equivalenti e quindi capaci di interdirsi a vicenda discende dalle sciagurate riforme dei primi anni Novanta. Che oggi forzature sino a ieri ritenute a ragione illegittime - dallo sbarramento al premio di maggioranza, all’elezione diretta di un premier munito di maggiori poteri - appaiano farmaci miracolosi è solo il segno di una regressione che tuttavia trova ancora rarissimi e troppo timidi oppositori.
Leggendo la recente intervista del Corriere a Massimo D’Alema si rimane allibiti. Gli anni Novanta vi figurano solo come inquietante precedente della crisi odierna. Ma quegli anni furono anche il tempo di riforme che lo stesso D’Alema propugnò e in gran parte promosse, e il cui senso nemmeno una folgorante amnesia potrebbe cancellare.
L’introduzione del maggioritario e del presidenzialismo negli enti locali ha accentuato la frammentazione della rappresentanza e scatenato la crisi delle assemblee elettive. Di qui, a cascata, si è prodotta la stravolgimento dell’ordine costituzionale (la supplenza legislativa del governo e la negazione di fatto dell’autonomia del parlamento; la proliferazione di poteri tecnocratici «indipendenti»; il cortocircuito tra governi tecnici e leaderismo plebiscitario che ha regalato al Paese le avventure del ’94 e del 2001) con la quale siamo ancora costretti a fare i conti.
Un nuovo americanismo
È l’ora di dire con chiarezza che gli anni Novanta in Italia sono stati il tempo di una gigantesca rivoluzione passiva che ha prodotto un drastico restringimento degli spazi di partecipazione democratica, la riduzione del ventaglio degli interessi sociali rappresentati (quella che Angelo Panebianco chiama graziosamente «costituzionalizzazione delle estreme») e la traduzione decisionistica della politica in gestione amministrativa. Questa è stata ed è la ratio oligarchica di una «normalità» che gran parte della classe dirigente italiana ha pervicacemente perseguito nell’ultimo quindicennio.
Ma il problema non è esclusivamente italiano e non riguarda soltanto gli ultimi quindici anni. Come mostrano la repubblica monarchica di Bush jr. e l’intera vicenda dell’Unione europea, la deriva oligarchico-tecnocratica è una malattia di tutto l’Occidente, radicata in processi strutturali. Per capire di che cosa stiamo parlando, dovremmo riconsiderare la risposta del capitale al protagonismo di massa - le lotte operaie, i movimenti contro la guerra, il femminismo, le rivolte studentesche - che nel lontano 1975 la Trilateral bollò come «crisi della democrazia», inaugurando la stagione della «governabilità» e delle «compatibilità». Fu questa risposta l’anima della «rivoluzione conservatrice» reaganiano-thatcheriana che si abbatté sull’Europa a partire dalla seconda metà degli anni Ottanta.
Siamo ancora dentro fino al collo in quella storia, che chiamiamo «neoliberismo» spesso dimenticandoci che essa non ha inciso solo sulla produzione e sulla vita delle persone delocalizzando, precarizzando, privatizzando e finanziarizzando. Ha investito pesantemente anche la sfera pubblica e il politico, determinando una possente regressione a forme premoderne. Come suggeriscono diverse analisi (Giorgio Agamben, Luciano Canfora, Danilo Zolo), la privatizzazione delle istituzioni e della sovranità è il nocciolo duro dell’americanizzazione delle nostre società.
Quando diciamo che i mercati votano, dovremmo sapere che non impieghiamo una metafora. Descriviamo fedelmente un processo in atto, che configura lo spossessamento delle prerogative democratiche delle collettività travolgendo vite, identità, sistemi istituzionali. E alimentando una insostenibile carica di violenza. Prevedere dove tutto ciò condurrà è impossibile, ma certo non si può escludere che generi contraccolpi formidabili, simili a quella «grande trasformazione» che si verificò tra gli anni Trenta e Quaranta del secolo scorso: allorché la devastazione sociale prodotta dal liberismo provocò il ritorno del politico in forme autoritarie e contribuì alla nascita di regimi reazionari sostenuti da un vasto consenso popolare.
La biscia e il ciarlatano
Questo scenario ribolle sotto la superficie della discussione sulla crisi della «politica». È questa la vera partita quando si parla della transizione italiana deprecandone l’incompiutezza. Non coglierlo - cavalcando il connotato antipolitico della crisi - sarebbe l’ultimo e il più devastante degli errori.
Pretendere interventi di bonifica è indispensabile ma è tutt’altra cosa dal delegittimare. E invece proprio questo sembra il senso di un attacco sferrato contro tutto ciò che è pubblico e in particolare contro le istituzioni della rappresentanza e della partecipazione. A questo proposito è in atto una divisione del lavoro che non può non colpire. Da un lato, poteri imprenditoriali diretti da una indiscutibile razionalità allo scopo. Dall’altro, settori del mondo politico mossi da malintese smanie «modernizzatrici» e da una inesausta ansia di legittimazione.
Tutti, certo, cooperano nella stessa impresa. Ma i primi - come ha ben chiarito Montezemolo all’Assemblea della Confindustria - sanno bene quel che vogliono: una società disciplinata, incardinata in salde gerarchie, comandata da pochi e forti centri di potere «indipendenti». I secondi si illudono di saperlo. Lavorano in realtà per conto terzi. Promuovono trasformazioni che negheranno ogni loro residua autonomia. E rischiano, a danno di noi tutti, di fare la fine di quel ciarlatano di cui Gramsci dice nei Quaderni, raccontando di come venne morso dalla biscia che aveva incautamente stuzzicato.
Il capo dello Stato interviene sul dibattito in corso esortando la classe dirigente
"Pensare in grande, contro le manovre opportunistiche"
Napolitano: moralità e rigore
per superare la crisi della politica *
AVELLINO - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, in visita ad Avellino, ha aspettato che si completasse lo spoglio delle elezioni amministrative per entrare nel merito della crisi della politica. Con parole semplici e chiare, il capo dello Stato rifiuta la "denuncia della crisi fine a se stessa" e chiede impegno, da parte di tutti: forze politiche e forze sociali.
Intervenendo ad Avellino alle celebrazioni per i 60 anni dalla scomparsa del meridionalista Guido Dorso, Napolitano sottolinea l’opportunità di "trasmettere la lezione di moralità e di rigore di Dorso", lezione che definisce "ancora sferzante e stimolante, da cui possono trarre ispirazioni le giovani generazioni, nell’avvicinarsi alla politica per rinnovarla".
Per Napolitano si tratta di "un tema scottante, su cui avrò modo di tornare in questi giorni. Un tema che dovrebbe sollecitare una riflessione costruttiva non solo di tutte le componenti dello schieramento politico ma di tutte le componenti della società italiana".
Per il presidente della Repubblica, infatti, "la soluzione ai problemi, sia delle riforme istituzionali sia del rinnovamento della politica, può venire soltanto attraverso un impegno conseguente delle forze sociali, culturali e politiche, in particolare, di quelle rappresentate in Parlamento, siano esse di maggioranza o di opposizione".
Avverte a tal proposito Napolitano: "Al di fuori di tutto ciò, c’è solo la denuncia che, perdendo il senso della misura, può anche diventare controproducente e pericolosa". Il capo dello Stato fa suo quello che definisce "l’insegnamento che resta di Dorso, al di là delle speranze e della realizzazioni" ovvero "pensare idealmente e in grande la politica, contro la piccola politica delle manovre opportunistiche".
* la Repubblica, 29 maggio 2007
I “veri” laici minoranza da battaglia
Devono riconoscere la loro condizione d’inferiorità nel Paese. Da qui dovranno battersi per un’estensione dei diritti di cittadinanza (senza abusare di Dio)
di GIAN ENRICO RUSCONI (La Stampa, 29.05.2007)
Parlano tutti, nel nostro Paese, salvo il Parlamento che dovrebbe essere il luogo della discussione ponderata e della decisione. Chi ha più voce, chi ha maggiore copertura mediatica, ritiene d’avere più ragione. «Piazza San Giovanni» è evocata come evento politico inappellabile. Una volta la piazza era rossa, adesso è bianca. La dinamica sembra la stessa, ma senza l’enorme copertura mediatica e la ricattabilità morale di moltissimi politici, non saremmo arrivati alla situazione attuale. Siamo approdati ad una democrazia post-parlamentare. È un paradosso che soltanto il nostro Paese poteva inventare.
Ai tempi del governo Berlusconi si denunciava con enfasi (anche da una parte cattolica) la deriva verso una democrazia populista e mediatica. Se adesso dicessimo che sta avvenendo qualcosa di simile per la mobilitazione cattolica - sia pure ad un livello più alto - saremmo subissati da critiche irritate. Eppure da settimane stiamo assistendo a una massiccia campagna di contro-informazione che assicura che i Dico sono politicamente liquidati. La piazza extra-parlamentare canta vittoria e alza la posta. Il punto è che con questa maggioranza parlamentare insicura e litigiosa tutto è possibile.
Ma che cosa significa la «non negoziabilità» di valori presuntivamente assoluti se non la virtuale paralisi del sistema parlamentare? Si parla di valori presuntivamente condivisi dalla stragrande maggioranza degli italiani. Ma si dimentica che questa presunzione contraddice il principio della pluralità dei valori (legittimamente condivisi dalle minoranze) e del loro riconoscimento pubblico. Altrimenti non ha senso parlare di democrazia laica.
Al di là dei contenuti su cui si discute (politiche più o meno strumentali per la famiglia, qualità dei diritti delle coppie di fatto e omosessuali ecc.) ciò che colpisce è lo stile della comunicazione pubblica. In realtà non si dialoga affatto, si proclama. Nel giro di pochi mesi dagli enfatici appelli dei vescovi a non «escludere Dio dal discorso pubblico» si è arrivati all’uso sistematico del discorso-in-pubblico (nelle piazze, nei macroconvegni, nelle zelanti corrispondenze mediatiche dal Vaticano) che mira a orientare, spesso con toni intimidatori, i parlamentari. E ci sta riuscendo.
Nelle cosiddette questioni eticamente sensibili il governo è paralizzato. È un governo-travicello che galleggia grazie al gioco delle correnti della politica. Ma non ha una direzione propria. Senza reagire, si lascia dire dalla Cei che cosa sia la «vera laicità» dello Stato. Temo che il «cattolico adulto» Romano Prodi non sia in grado di andare oltre l’appello tradizionale alle «questioni di coscienza». Non si rende conto che la posta in gioco non è più la coscienza individuale, ma l’etica pubblica, che è cosa completamente diversa.
Non ripeteremo qui ancora una volta le ragioni della laicità in democrazia o le linee di una ragionevole politica per la famiglia e per le unioni di fatto e omosessuali. Questo giornale lo ha fatto decine volte, con più voci. Non serve più ripeterlo, perché quelli della «piazza San Giovanni» non ascoltano (ammesso che l’abbiano fatto qualche volta nel passato). Anzi sono gli altri che sono pressati ad ascoltarli, o meglio a seguire le loro indicazioni.
Invece di finire queste considerazioni con toni di sconforto, invito i laici (quelli che non aspettano l’autorizzazione ecclesiastica per ritenersi «veri» laici) a riconoscersi e a considerarsi minoranza nel Paese. È a partire da questa condizione di minoranza che dovranno essere riprese le battaglie per una matura estensione dei diritti di cittadinanza. Nell’interesse generale e senza abusare di Dio.
Il partito unico
di Furio Colombo *
Alzi lo sguardo e noti con disagio, come in una sequenza stroboscobica (la luce abbaglia e si spegne), che ci sono soprassalti e incongruenze tra una scena e l’altra.
In una inquadratura vedi Berlusconi (Berlusconi) festeggiato ai congressi Ds e Margherita. Mormora, in ognuna delle due occasioni: «Per il 95 per cento sono d’accordo». Applausi.
In un’altra inquadratura (negli stessi giorni) Berlusconi grida al colpo di Stato e al regicidio per una legge sul conflitto di interessi che lo stesso primo ministro Prodi ha giustamente definito “blanda” (e infatti due proposte di legge sullo stesso argomento, una della sinistra detta “radicale” alla Camera, una a mia firma al Senato, sono molto più “americane”, dunque molto più esigenti). E c’è chi manifesta stupore sia per la legge («Ma proprio adesso che stavamo andando verso valori condivisi?») sia per la scenata di Berlusconi («Una così brava persona»).
Però è inutile fare i polemici. Ha ragione Pierluigi Battista (Corriere della Sera, 5 maggio) quando dice che «l’anomalia italiana è una anomalia doppia». Un giorno si punta l’indice e il giorno dopo tutto è perdonato.
Ma se la memoria si aggiunge alla cronaca dei fatti, le dissonanze sono degne di un concerto di John Cage. All’improvviso vedi il tuo Primo ministro che si reca da Bossi come da uno statista, il Bossi di Borghezio, di Gentilini, della schiena da raddrizzare al magistrato disabile, dei proiettili che costano poco, del tricolore al cesso. Rende omaggio alla sua saggezza. Dove siamo finiti noi elettori?
Noi non abbiamo, né avremmo mai potuto avere valori condivisi con chi suggeriva di aprire la stagione della caccia usando gli immigrati come lepri. Certo, governare è un mestiere difficile, ma c’e un filo che non si deve mai rompere, quello con chi ti ha eletto, che continua ad avere fiducia, che guarda volentieri alle cose nuove. Ma chiede di capire. E chiede che il suo voto, quel voto per un’Italia che non assomigli in niente a Berlusconi e a Bossi, continui ad avere un senso e un peso. Vediamo.
I due congressi, Ds e Margherita, sono andati bene, con nobili discorsi, commozione, ricordi, celebrazione e - fra i Ds - separazioni sofferte che fanno pensare ad amicizie più grandi degli eventi e a eventi che chiedono, come accade nella storia, sacrifici personali e decisioni non facili. Strade diverse ma non lontane, lo stesso impegno di non voltarsi a rimpiangere, anche se il percorso e il punto sognato (progettato) di arrivo viene descritto in modo diverso da diverse colonne in marcia da sinistra.
Una è la “Sinistra democratica per il socialismo europeo” riunita in affollata assemblea al Palazzo dei Congressi dell’Eur ieri, sabato 5 maggio. Altre si organizzeranno.
Il Pd che sta per nascere dai due capolinea Ds e Margherita sarà il partito di Prodi. Questa affermazione risponde alle due domande di tanti: perché un’operazione così dolorosa (almeno per i Ds)? e chi sarà il leader?
Romano Prodi a cui si deve questa Italia affaticata e difficile però senza Berlusconi, non poteva essere il capo di un governo e di una coalizione senza un partito. Dunque il capo del governo sarà, anche in linea con chi lo ha votato sia alle primarie del 2005 che alle elezioni politiche del 2006, il leader del nuovo partito. Uno dei due grandi partiti italiani.
Tutto chiaro, tutto bene. Perché allora il senso di vuoto e di disorientamento (Chi sono, adesso? Cosa vogliono da me? Lealtà a che cosa? Dove sto andando?) e anche di solitudine che constati fra deputati, senatori, quadri, e nelle storiche sezioni Ds? Perché hai l’impressione - proprio mentre ferve tanta attività politica - che la distanza dai cittadini sia diventata immensa?
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Provo a confrontarmi con tre spunti (a cui non sono sicuro di sapere dare risposta) che mi giungono da tante mail, da tanti incontri e conversazioni ansiose.
La prima è la questione del Pse, ovvero della collocazione del nuovo nato in Europa. Non è una questione di forma. L’Europa è divisa in due grandi schieramenti popolari, e non concepisce ambivalenze e sospensioni. L’Europa è divisa in due parti, come dimostrano in modo efficace le elezioni francesi: il Pse, con tutto ciò che resta (non poco) del socialismo europeo; e il partito popolare, che è l’altro volto. Comprende Angela Merkel, ma anche Silvio Berlusconi. Rappresenta grandi frenate conservatrici ma anche modi nuovi e diversi di immaginare il futuro. Sono due schieramenti vasti e importanti. Ma non compatibili. Poi ci sono diversi altri interessanti raggruppamenti, ma nessuno può ospitare l’una o l’altra delle anime italiane del nascendo Pd.
La seconda domanda è più pressante, anche se si può affrontare meglio caso per caso che in modo astratto e generale. La domanda è questa: il centro, che è l’area più contigua a una sinistra che voglia essere cauta e moderata, è già saldamente occupato, è tutto un cantiere di lavori in corso, un incrociarsi di gru e di scavi che fanno prevedere fitte costruzioni, dunque un muro limitrofo, una barriera di contenimento.
Ma poiché la direzione di marcia non prevede rivisitazioni a sinistra (o almeno nell’area di progetti, attese e speranze, tradizionalmente definita tale), ecco una terza domanda (o riflessione): quanto moderati si può essere? E dov’è la linea di confine che distinguerà i militanti del Pd dagli altri “moderati”?
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Per rispondere a queste domande (o per approfondire la riflessione sul nascituro Pd) mi sembra utile riferirmi a una espressione che ricorre sempre più spesso. L’espressione è «valori condivisi». Questa affermazione viene di volta in volta enunciata come segno di buona volontà (dunque di tendenza, di sforzo a cercare)o come prova di vera democrazia.
Chiedo attenzione su questo punto: buona volontà (o ricerca ostinata di possibili accordi), sì. Prova di vera democrazia, no. Infatti non c’è limite al volenteroso tentare di andare d’accordo. Ma la democrazia è esattamente la buona gestione del non accordo. È il set di regole per affrontare situazioni complesse, gravi, urgenti, in cui due o più parti hanno visioni, speranze, attese, obiettivi profondamente diversi.
È possibile che mediazioni intelligenti e pazienti portino a soluzioni ravvicinate. Ma se in luogo di un esito condiviso si giunge a una decisione A che nega e respinge la decisione B , la prova della democrazia è nel rispetto delle regole per far prevalere l’una o l’altra decisione, non nello sciogliere una visione nell’altra.
La questione si complica quando si aggiunge l’esortazione, anzi il proposito, di raggiungere, come viene spesso detto, una "sintesi" fra posizioni contrapposte.
Ovvio che questa affermazione indica mitezza e buona volontà che, in sé, sono buone virtù democratiche. Ma nessuna situazione di confronto umano si risolve in una sintesi. Non un processo. Non un dibattito. Non una gara. Non una equazione aperta o una partita a scacchi. E certo non una competizione elettorale.
Naturalmente ogni democrazia è fondata su valori comuni. Ma quando anche su di essi scoppia il contrasto (è stato il caso delle profonde e selvagge modifiche tentate ai tempi di Berlusconi contro la Costituzione italiana), la risposta non è una sintesi tra vandalismo costituzionale e difesa della Costituzione. La risposta è il voto. Nel caso delle tentate alterazioni alla nostra Costituzione, gli elettori italiani hanno detto no, punto e basta. Ecco perché è un errore, un vistoso e curioso errore, affermare, da parte di Prodi, che la legge proposta dal governo sul conflitto di interessi è blanda e mite, come se tali qualità avvicinassero la controparte (Berlusconi, titolare di uno dei più grandi conflitti di interessi del mondo) e rendessero più facile individuare un “valore condiviso”. Infatti - incoraggiato dall’atteggiamento mite del presidente del Consiglio - il capo dell’opposizione ha reagito con furore. Ha definito la “legge blanda” di Prodi un atto di killeraggio (ovvero di assassinio) presentando una tesi unica nel mondo democratico ed enunciata con estrema chiarezza: «I ricchi devono governare perché hanno una marcia in più. Hanno creato ricchezza per sé dimostrando di essere più bravi, più dotati di talento degli altri». E ha reagito - unico nel mondo democratico, ma ben sostenuto dai suoi avvocati, inclusi quelli poi diventati giudizi costituzionali dimissionari, e dal suo partito di proprietà - con sincera repulsione verso l’idea di separare il potere privato da quello pubblico.
* * *
La vicenda esemplare del Family Day è un’altra buona occasione per esplorare il territorio infido dei “valori condivisi”. Viva la faccia di Pezzotta, l’ex sindacalista diventato predicatore, che annuncia: «Venga chi vuole. Ma sia chiaro che questa è una manifestazione contro i Dico». Che vuol dire: siamo contro ogni tentativo, anche mite, anche blando, di dare una mano alle coppie di fatto.
Ma è ancora più clamorosa la vicenda del presidente della Cei, monsignor Bagnasco, se posta a confronto con quella del giovane presentatore del concerto del Primo maggio Andrea Rivera.
«Non lasceremo solo l’arcivescovo Bagnasco», è stato detto dopo le scritte insultanti a lui dedicate. È stata una formulazione un po’ curiosa. È difficile che un uomo di punta della Chiesa più grande del mondo possa essere lasciato solo. Ma è apparsa giusta come simbolo di solidarietà contro il pericolo. Giusto anche ignorare del tutto le affermazioni pesanti e gravi dedicate da monsignor Bagnasco a chi non condivide i suoi “valori condivisi” parlando persino (prima delle scritte) di terrorismo. Il vescovo non parlava del terrorismo dei terroristi, ma di quello di coloro che, sulla libera scelta delle donne e sui modi di amarsi e di vivere insieme, non condividono i valori della Chiesa cattolica.
Tutta l’Italia dunque ha fatto finta di niente e ha dato - giustamente - tutta la sua solidarietà al prelato. Non uno, neppure un sindacalista, ha detto, sul momento, una sola parola in difesa di Andrea Rivera. Che cosa aveva fatto Rivera, chiamato poi terrorista (è una mania) dall’Osservatore Romano?
Aveva ricordato che Pinochet, Franco e una celebrità della banda della Magliana avevano avuto il funerale e sepoltura in chiesa, mentre il povero corpo di Welby era stato lasciato fuori. Che bello se Rivera avesse mentito e fosse stato sgridato per avere detto una bugia.
Ma ciò che ha detto Andrea Rivera è la narrazione di uno dei fatti più tristi della vita italiana: il corpo di Piergiorgio Welby è stato effettivamente lasciato in strada, fuori dalla chiesa, per essere morto di troppa, insopportabile sofferenza. Ecco dunque il punto finale di questa riflessione. Per esistere, per vivere, per generare senso e calore e dunque attrazione, il Pd deve tracciare una linea di confine, segnare i propri punti fermi e irrinunciabili, dire di che cosa è alternativa, novità, cambiamento. Non vi sembra che le centinaia di migliaia di ragazzi del Primo maggio, mentre cantavano ancora e ancora «Bella ciao» con allegria e con passione, proprio questo stessero aspettando, la riposta alla domanda «adesso chi siamo»?
Sono giovani, avventurosi e poco inclini a ritornare verso il passato. Però guardandoli si capiva che ai loro occhi (ma questo vale anche per chi scrive) non tutti i valori sono valori, non tutti i valori sono “condivisi”. E non vorrebbero (non vorremmo) - tutti quei ragazzi del Primo maggio italiano - essere folla di un partito unico. Cercano (cerchiamo), netta e chiara, come in ogni democrazia, la linea di confine.
* l’Unità, Pubblicato il: 06.05.07, Modificato il: 06.05.07 alle ore 16.42
Il suicidio della politica
di Barbara Spinelli (La Stampa, 27/5/2007)
Invece di farsi mille domande molto sospettose sulle vere intenzioni di Luca di Montezemolo, converrebbe ascoltare quel che egli ha detto sulla politica italiana: una politica «debole», «litigiosa» sempre tesa a «galleggiare in attesa della consultazione elettorale successiva». Chiunque rilegga il discorso che il presidente della Confindustria ha pronunciato il 24 maggio sa che questi mali non sono immaginari ma molto reali e comunque percepiti diffusamente come reali. Sa che la politica in Italia non riesce a decidere, bloccata com’è da veti sempre più fitti e da quelle che Ilvo Diamanti chiama minoranze dominanti. Nel loro libro su La Casta (Rizzoli) Gian Antonio Stella e Sergio Rizzo si soffermano sullo Stato disastrato e parlano di caste grandi, piccole e piccolissime: tutte intoccabili.
Persino il singolo parlamentare tende di questi tempi a divenire casta: il veto d’un singolo può paralizzare ogni cosa. Chiudersi a questo monito e considerarlo addirittura un’usurpazione non riscatta la politica ma conferma, semplicemente, le accuse che le vengono rivolte. Se è veramente forte, il politico non s’indigna se criticato. Se ha ambizione e anche attitudine a guidare con autorità il proprio campo e il proprio paese accoglie tutti i consigli che possano irrobustire quest’autorevolezza. Se si chiude vuol dire che ha paura, che non si ritiene all’altezza.
Che è animato da una sorta di xenofobia, che diffida d’ogni voce straniera che minaccia la sua identità e il suo territorio. Il politico debole non ha torto a prendersela con le élite che vedono i difetti altrui e non i propri,madebole resta pur sempre se si fa sommergere da simili fobie. Alla fine avrà paura del voto stesso, come nei giorni che hanno preceduto le elezioni di questa domenica. Un’elezione non indifferente ma neppure decisiva, perché i governi solidi sopravvivono ai voti locali. Tremare davanti alle amministrative è come tremare davanti a Montezemolo o a un articolo di Mario Monti o alle interferenze della Chiesa, della magistratura, delle minoranze dominanti. Vuol dire che i poteri forti son divenuti talmente numerosi che un vero potere al centro non c’è più.
Ogni voto e giudizio contrario è ritenuto destabilizzante, ed è vissuto come un’usurpazione e un’indebita incursione. Naturalmente queste incursioni corrono il rischio di sottovalutare le servitù della politica. Chi critica è di enorme aiuto quando fa sentire la propria voce (quella di Montezemolo è d’altronde severissima con il «cinismo dell’antipolitica » e con la tentazione del Paese a «far da sé nella convinzione che lo Stato assente sia preferibile allo Stato considerato invadente») ma è di aiuto davvero pratico se scorge le differenze fra il proprio statuto e quello del politico, se riconosce i limiti propri oltre a quelli altrui: lui, il critico non impegnato nell’azione, non è stato messo alla prova, non si è misurato con le difficoltà della politica, del consenso, del tribunale elettorale che un giorno ti premia e il giorno dopo può licenziarti.
I rappresentanti delle élite che ammoniscono dall’esterno hanno un privilegio che il politico non possiede: godono di immunità, sono immortali mentre il politico è, per definizione, mortale. Berlusconi non ha torto quando ricorda che il difficile è ottenere il 51 per cento. Così Prodi, quando rammenta che entrare in politica non è una discesamauna salita fatta di «fatica, sudore, mediazioni, consenso, voti per raggiungere risultati». Non ha torto neppure il sindacalista Bonanni, quando sospetta Confindustria di scaricare sui governanti incapacità che son di industriali e sindacati. Ma questo non permette di liquidare il monito di Montezemolo, soprattutto quando questi fa lo sforzo, esplicito, di «parlare prima come cittadino e poi come imprenditore». Se c’è oggi una forza che difende il particolare più dell’interesse generale, che scarica sulla politica incapacità che son proprie, che adotta il comportamento denunciato da Bonanni («Lui sembra che scenda dal pero», dice di Montezemolo), questi è piuttosto il sindacato.
Domandarsi quali siano le carriere che questi critici vogliono intraprendere interessa forse gli esperti in retroscene ma vuol dire rinunciare a correggere e migliorare la politica. Vuol dire rimanere nella melma in cui essa s’è impantanata dai tempi di Tangentopoli, e cercare una scusa per non agire. Vuol dire non chiedersi quel che spinge queste persone critiche e quel che le rende popolari. Se fanno tanta impressione, se ogni giorno si parla di governi e leader alternativi, vuol dire che c’è, in giro, un’immensa sete di guide, capaci di decidere presto e imperiosamente. Negli anni di Weimar, dunque di una democrazia debole e litigiosa, il filosofo Max Scheler si soffermò su questo punto, considerandolo il male più grande. Vide che s’era creato un tragico distacco fra spirito e potere, e parlò di una «nostalgia straordinaria di guida, a tutti i livelli» (beispiellose Sehnsucht nach Führerschaft allüberall).
I Führer sarebbero alla fine venuti, sotto forma di anti-politica e anti-democrazia, perché la politica dei partiti non seppe dissetare quegli assetati di leadership. Scheler scriveva su élite e leadership poco dopo un saggio fondamentale della sociologia, il Suicidio scritto nel 1897 da Emile Durkheim, in cui son descritte le società che perdono le regole, vedono frantumarsi i legami sociali, precipitano nell’assenza di leggi che è l’anomia. Il suicidio anòmico, che si diffonde in simili epoche, è favorito dallo slabbrarsi dell’autorità, delle istituzioni come Stato o famiglia, Chiesa o sindacato. Il suicidio può essere l’atto d’un individuo o di una società, una civiltà, uno Stato. Può suicidarsi anche la politica, come rischia di succedere in Italia.
Chi è tentato dal suicidio anòmico ha la tendenza a considerarsi perdente, e vive come se nessun legame sociale potesse più tenere insieme gli interessi dei singoli partiti (quella che Monti chiama tecnica della sopravvivenza è in realtà autodistruttiva). A spingerlo verso questo tipo di harakiri non è tanto la crisi economica ma sono le trasformazioni impetuose che spezzano equilibri e regole preesistenti. Secondo Durkheim è soprattutto nei periodi di prosperità che i legami sociali s’allentano e il senso di sconfitta mette radici, creando quell’infelicità così ben spiegata, il 24 maggio su La Stampa, da Arrigo Levi: un malumore dilagante che non nasce da mali autentici ma è piuttosto una nevrosi, una collettiva illusione pessimista, enigmatica e inquietante: assai simile alla sete che secondo Scheler minava Weimar. Quando vengono meno regole e leggi i desideri diventano illimitati nel nostro caso i desideri dei partiticasta che difendono i loro elettorati e altrettanto illimitata è l’insaziabilità, la brama che non si sfama.
Il «male dell’infinito» sommerge tutti. Tanto più gravi sono le delusioni, quando vien fuori che i mezzi e le risorse realmente a disposizione finanziarie e non non bastano ai propri fini. Le forze che oggi governano sembrano afflitte da questa insaziabilità, che invece d’ordinare il mondo lo sbriciola (lo specchio rotto di cui parla Eugenio Scalfari): «una sete inestinguibile » cattura i partiti, e nessuno sa regolare le proprie passioni e capire il vantaggio d’avere un limite. In Durkheim è questo il suicidio anòmico, nella società priva di autorità rispettate e temute. A questo bivio è la politica. Le tante critiche che le vengono rivolte non sono sempre giuste, abbiamo visto. La crisi della politica non cade dal cielo e al caos contribuiscono in tanti: imprenditori, sindacati, caste varie comprese quella dell’informazione. I cittadini non hanno sfiducia solo nel Parlamento, nel governo, nell’opposizione. Diffidano anche delle imprese, della Chiesa che sequestra la politica, perfino di se stessi. I politici usano difendersi nascondendosi dietro la complessità del proprio compito, delle proprie pene.
Ma la complessità è una via di fuga.Èuna terribile tentazione di cui urge liberarsi. Chi dice che «tutto è molto più complicato» già s’è arreso. La semplicità è la via, e tutto ruota attorno a una cosa semplice: in una comunità organizzata ci vuole la dignità dell’esercizio del governare, del reggere il timone. L’Italia è un Paese che dal 1992 ha distrutto la politica e che non ne può più d’averla distrutta. Tutti invocano il suo ritorno: sotto forma di capacità rinnovata di guida, sotto forma di un rapporto meno nevrotico col tempo (è un altro punto sollevato da Montezemolo: «Fare oggi scelte coraggiose, i cui risultati si vedranno fra otto o dieci anni, significa avere senso dello Stato»). Sotto forma di misure forti, che ristabiliscano la maestà della legge e l’idea stessa della maestà (ci deve pur essere un modo per rimediare d’imperio al disastro dei rifiuti in Campania).
La politica deve fare il primo passo, dice l’ex Presidente Scalfaro in un’intervista a Repubblica: «Ma non a partire dalle prossime elezioni: a partire da domani». Anzi, da oggi.
Dietro l’affare Visco-Speciale c’è il prepotente riemergere di un ramificato potere occulto
L’errore del viceministro: non rendere pubbliche le ragioni dei cambi voluti a Milano
Una nuova P2 ricatta la politica debole
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Non è una buona cosa maneggiare l’affare Visco/Speciale come una baruffa tra due caratteri autoritari e spicciativi, e non come un conflitto tra istituzioni che annuncia un ben altro sismo, più violento e dagli esiti imprevedibili. Un’analisi senza profondità, tempo e memoria di questo "pasticciaccio" impedisce di scorgere l’autentico focus della crisi che sta incubando: il ritorno sul "mercato della politica" degli interessi di quell’"agglomerato oscuro" che si è andato costituendo all’ombra del governo Berlusconi e nella spensierata indifferenza o sottovalutazione dei leader del centro-sinistra, Prodi, D’Alema, Rutelli in testa.
Si può dire che quel che fa capolino con l’offensiva del generale è una varietà modernizzata della loggia P2. La si può definire così, una P2, soltanto per semplificazione evocativa anche se il segno caratteristico di questa consorteria non è l’affiliazione alla massoneria (anche se massoni vi abitano), ma la pervasività - sotterranea, irresponsabile, incontrollata, trasversale - del suo potere di pressione, di condizionamento, di ricatto.
E’ necessario cominciare da Visco. I passi stortissimi del comandante generale della Guardia di Finanza non possono lasciare in ombra gli errori del viceministro, che sono gravi. Non è in discussione la limpidezza morale di Vincenzo Visco, ma l’efficacia delle sue mosse e soprattutto la coerenza delle sue iniziative con la strategia del governo di cui è parte. Il primo errore del viceministro è di non rendere trasparenti le ragioni dell’urgenza di cambiare aria nelle stanze del comando della Guardia di Finanza in Lombardia, di non farne una questione pubblica.
Visco cede alla tentazione di avviare, come si legge in una lucida analisi del Sole-24 Ore, "un rozzo spoils system nei confronti di personale militare ritenuto troppo vicino alla gestione politica precedente". Che in Lombardia, la Guardia di Finanza sia stata molto prossima e a volte subalterna alle volontà del ministro dell’Economia uscente, Giulio Tremonti - e che ancora oggi possa esserlo - è fatto noto dentro la Guardia di Finanza e nella magistratura, ma Visco tira per la sua strada in silenzio e al coperto, con un altro passo falso. "Anziché stare alla larga da diatribe annose e poco misurabili", pensa "di utilizzare un gruppo contro un altro, senza calcolare modi, conseguenze e nemmeno la forza di chi gli sarebbe potuto rivoltare contro" (ancora il Sole-24 Ore).
Tatticamente difettosa, l’iniziativa di Visco ha un altro deficit. Non è politicamente omogenea alle scelte del governo che ha deciso di stringere, contrariamente a quel che crede Visco, un patto di compromissione, un’intesa, un patto di non-aggressione, chiamatelo come volete, proprio con quel network di potere, di cui il generale Roberto Speciale è soltanto uno degli attori, e nemmeno il maggiore.
Di quel network di potere occulto e trasversale, ormai si sa o si dovrebbe sapere. E’ un "apparato" legale/clandestino deforme, scandaloso, ma del tutto "visibile". Nasce con la connessione abusiva dello spionaggio militare con diverse branche dell’investigazione, soprattutto l’intelligence business, della Guardia di Finanza; con agenzie di investigazione che lavorano in outsourcing; con la Security privata di grandi aziende come Telecom, dove esiste una "control room" e una "struttura S2OC" "capace di fare qualsiasi cosa, anche intercettazioni vocali: può entrare in tutti i sistemi, gestirli, eventualmente dirottare le conversazioni su utenze in uso, con la possibilità di cancellarne la traccia senza essere specificatamente autorizzato".
Quel che combina questo "mostro", che dovrebbe preoccupare chi ha a cuore la qualità della democrazia italiana, si sa. Qualche esempio. Dopo la vittoria elettorale di Silvio Berlusconi, pianifica operazioni - "anche cruente" - contro i presunti "nemici" del neopresidente del Consiglio. Durante la legislatura 2001/2006 raccoglie, "con cadenza semestrale", informazioni in Europa su presunti finanziamenti dei Democratici di Sinistra. E’ il "dossier Oak" (Quercia), alto una spanna, denso di conti correnti, bonifici, addirittura con i nomi e i cognomi di presunti "riciclatori" e "teste di legno" dei finanziamenti occulti dei Ds che fanno capo ai leader del partito. Prima della campagna elettorale del 2006, l’apparato legale/clandestino programma e realizza una campagna di discredito contro Romano Prodi.
Sarebbe un errore, però, considerare il network "al servizio" del centrodestra. Quell’apparato legale/clandestino, a cavallo tra due legislature, si è "autonomizzato", si è "privatizzato", è autoreferenziale. Raccoglie e gestisce informazioni in proprio. Vere, false non importa: sono qualifiche fluide - il vero e il falso - nella "mediatizzazione della politica dove ogni azione politica si svolge all’interno dello spazio mediale e dipende in larga misura dalla voce dei media". A questa variante moderna di P2 è sufficiente amministrare, saggiamente, la cecità e le nevrosi delle power élite, angosciate dalle mosse degli alleati; spaventate dai complotti possibili, probabili, prossimi.
Con accorta disciplina, il network spionistico sa essere il virus e il terapeuta della malattia del sistema politico italiano che impedisce, all’uno come all’altro schieramento, di riconoscersi la legittimità (morale prima che politica) di governare. Alimenta così la sindrome di Berlusconi consegnandogli dossier sul complotto mediatico-giudiziario. La cura con una pianificazione di annientamento dei presunti complottardi. Eccita il "complesso berlusconiano" della sinistra e lenisce quello stato psicoemotivo, prima che politico, con informazioni sulle mosse vere o presunte del temuto spauracchio.
Quanto più il conflitto pubblico precipita oscurandosi in un sottosuolo, dove poteri frantumati, deboli, nevrotici tentano di rafforzarsi o difendersi; tanto più il network è in grado di essere il custode dell’opaca natura del potere italiano o il giocatore in più che può favorire la vittoria nella contesa.
La minaccia di questa presenza abusiva e minacciosa nel "mercato della politica", alla vigilia delle elezioni del 2006, sembra chiara al centrosinistra. C’è chi esplicitamente, con grande scandalo e dopo anni di distratto silenzio, avverte che "sono tornati i tempi della P2" e chi, più lucidamente, ragiona sul quel che è accaduto e sul da farsi. Preoccupato da una realtà che ha consentito di "sviluppare un agglomerato oscuro fatto di agenzie di investigazione e polizie private in combutta con infedeli servitori dello Stato che si muove in una logica di ricatto", trova "lo spettacolo spaventoso" e promette che "il nuovo governo solleciterà il Parlamento a indagare, accertare, comprendere cosa è accaduto". (Marco Minniti, oggi viceministro agli Interni).
In realtà, il governo Prodi appena insediato muove in tutt’altra direzione. Preferisce guardare altrove, incapace di prendere atto dell’infezione, in apparenza impotente a comprenderne il pericolo, addirittura impedito a programmare il necessario lavoro di bonifica. Quel che appare al vertice del network, il direttore del Sismi Nicolò Pollari, incappa nelle indagini della procura di Milano per il sequestro di un cittadino egiziano.
L’inchiesta mostra le connessioni del network e dimostra la sua attività di dossieraggio illegale. Incrociata con i risultati dell’istruttoria Telecom, offre una scena così inquietante per la qualità della nostra democrazia che dovrebbe convincere il governo a darsi da fare in fretta, a rimuovere, rinnovare, risanare; a chiedere al Parlamento - appunto - di "accertare e comprendere". Accade il contrario. Il sequestro del cittadino egiziano è protetto da un segreto di Stato che nemmeno Berlusconi e Gianni Letta hanno mai proposto alla magistratura milanese. Di più, per dare un minimo di credibilità alla sorprendente iniziativa, l’esecutivo non esita ad accusare dinanzi alla Corte Costituzionale di illegalismo la procura di Milano. Un altro segreto di Stato va a coprire gli avvenimenti che hanno accompagnato la missione in Iraq di Nicola Calipari, salvo poi chiedere a Washington "verità e giustizia".
Che si voglia tutelare, anche nella nuova stagione politica, il passato, i traffici e la fortuna dei protagonisti di quel network è ancora più chiaro quando si procede alla sostituzione dei vertici dell’intelligence. L’ammiraglio Bruno Branciforte va al Sismi senza alcuna delega in bianco o margini operativi e decisionali. Viene consegnato a un imbarazzante stato di impotenza. In sei mesi, per vincoli politici, non ha avuto la possibilità di rimuovere nemmeno un dirigente. Lo staff, i direttori centrali e periferici, il potentissimo capo del personale sono gli stessi dell’éra Pollari.
Ad alcuni degli uomini più fidati del generale uscente è stato consigliato di fare un accorto passo laterale diventando gli uomini forti e ascoltati del ministero della Difesa. Al Sisde il nuovo capo, Franco Gabrielli, ammette addirittura davanti al Parlamento che "così com’è, il servizio interno non può svolgere appieno un efficace compito di prevenzione". E tuttavia non riesce a incuriosire il ministro dell’Interno che, in sei mesi, non ha ancora trovato il tempo e il modo di riceverlo.
Se i "nuovi" hanno difficoltà a fare il loro lavoro, i "vecchi" possono ampliare - al contrario - il loro margine di manovra e i "punti di appoggio". Pollari è oggi consulente di Palazzo Chigi; il suo fidatissimo braccio destro, che con spavalderia minacciosa si è detto dinanzi al Parlamento "di sinistra" e prodiano, è addirittura al "Personale" della Difesa mentre il generale Emilio Spaziante, l’operativo di Pollari nella Guardia di Finanza di Roberto Speciale, è il numero due al Cesis, la struttura che fa da link tra la presidenza del Consiglio e l’intelligence militare e civile, una poltrona che, nel 2001, già fu di buon auspicio per Nicolò Pollari che da lì partì alla conquista della direzione del Sismi.
Il governo di centro-sinistra ha preferito chiudere un accordo di non-aggressione con quel network che, soltanto alla vigilia delle elezioni, appariva all’opposizione di ieri "spaventoso", "oscuro". Un’intesa cinica, realista che avrebbe anche potuto resistere se la parabola dell’esecutivo avesse dimostrato di poter durare a lungo; se la forza del governo avesse dimostrato, in questo suo primo anno, di essere adeguatamente salda e autosufficiente per poter affrontare l’intero ciclo quinquennale della legislatura.
Ai primi scricchiolii di popolarità e consenso, ai primi segnali di debolezza politica interna, il network è ritornato a muoversi con tutta la sua pericolosità. Le minacce del generale Roberto Speciale ne sono una eloquente testimonianza. "So io che fare", ha detto ieri al Corriere della Sera. La congiuntura politica, la debolezza e le divisioni della maggioranza, qualche appuntamento di carattere giudiziario non inducono all’ottimismo e lasciano pensare che il peggio debba ancora venire, altro che il match Visco/Speciale.
Dunque. Ancora poche settimane e nel frullatore politico-mediatico entreranno le migliaia di intercettazioni telefoniche raccolte nell’inchiesta Antoveneta/Bnl. Un breve saggio di quanto possano essere esplosive lo si è già avuto nel 2006 con la pubblicazione della conversazione tra Gianni Consorte (Unipol) e il segretario dei Ds, Piero Fassino. Ma in quelle intercettazioni si sa, per dirne una, che si ascolta la voce dei maggiori leader del centro-sinistra, a cominciare da Massimo D’Alema e del suo collaboratore più affidabile, il senatore Nicola Latorre.
A incupire la scena, la preoccupazione che le intercettazioni legali possano incrociarsi con gli ascolti abusivi e le indagini illegali della Security Telecom. Per quel che se ne sa, è stato trovato soltanto un dvd con migliaia di dossier, nella disponibilità di un investigatore privato che lavorava per la società di telecomunicazioni (o per lo meno per gli uomini della sua sicurezza). Nessuno è in grado di escludere, a Milano come a Roma, che quel dvd sia soltanto una parte dell’archivio segreto. Mentre non c’è dubbio che anche la più irrilevante briciola di quelle informazioni, raccolte illegalmente, sia oggi nella disponibilità dell’"agglomerato oscuro". Che avrà il modo e l’occasione di giocare una nuova partita e qualche asso.
I tempi sono favorevoli. Le anomalie, i vizi, gli sprechi della politica italiana hanno scavato un solco tra il Paese e il Palazzo mettendo in moto, per dirla con le parole di Massimo D’Alema, "una crisi di credibilità della politica che tornerà a stravolgere l’Italia con sentimenti come quelli che, negli anni novanta, segnarono la fine della Prima Repubblica". La storia ci insegna che una democrazia fragile e largamente screditata può sopravvivere anche molto a lungo, grazie ai sui meccanismi di autotutela, soltanto però "in assenza di eventi traumatici "esterni" che la facciano crollare".
Ora tutta la questione è in questa eventualità. Non c’è dubbio che il network oscuro sia in grado di creare, anche artificialmente, un evento "traumatico" esterno. I dossier - veri o falsi, non importa - raccolti negli anni del governo Berlusconi dall’apparato legale/clandestino di spionaggio possono di certo esserlo. Se si guarda a come si è mosso, contro Vincenzo Visco, il generale Roberto Speciale, sembra di poter dire che in giro ci sia anche la volontà di farlo, la determinazione senza tentennamenti.
Il comandante della Guardia di Finanza ha tentato, infatti, di "giudiziarizzare" il braccio di ferro con il viceministro, di alimentare con la sua testimonianza (aggiustata per l’occasione) un’indagine penale e, sotto l’ombrello dell’inchiesta, mettere in circolo veleni, notizie mezze vere e mezze false o del tutto manipolate, capaci di "travolgere il Paese con i sentimenti degli anni novanta". Può essere stato soltanto un piccolo accenno di quanto accadrà di qui a dieci giorni. Sapremo presto quali iniziative intende muovere, quest’altra P2 - simile, ma non uguale a quella che abbiamo conosciuta - e quale forza di dissuasione o di compromesso è in grado di opporre il sistema politico.
* la Repubblica, 4 giugno 2007
Prodi sulla gazzarra leghista: "Tensione che non giova
L’Italia ha bisogno di tranquillità, comprensione e dialogo"
Il governo contro Berlusconi
"Smentisca la frase sul regicidio"
Il sottosegretario Letta: "Parole gravi e inaccettabili. Abbassare i toni"
La replica di Bonaiuti: "Preoccupante se Prodi si sente un re" *
ROMA - Grave la gazzarra leghista alla Camera, grave la frase di Berlusconi sul "regicidio" come strada per tornare a Palazzo Chigi. La prima viene stigmatizzata dal presidente del Consiglio Romano Prodi, la seconda da tutto il governo. "Il Consiglio dei ministri ha ritenuto molto grave che il leader dell’opposizione abbia usato un termine come quello di regicidio che è un termine dal significato inequivoco. Il Consiglio dei ministri, nel ritenere inaccettabile questo linguaggio da parte del leader dell’opposizione, ha chiesto e chiede a lui di smentire questa frase che riteniamo essere una farse grave", ha affermato il sottosegretario Letta al termine della riunione del governo. Quindi l’invito alla moderazione: " Il nostro è un dibattito politico teso, ha bisogno di discussione sui contenuti e di toni da abbassare e riteniamo che quanto avvenuto ieri sia estremamente grave. C’è un invito generalizzato da parte di tutti e anche da parte nostra in un clima politico così teso ad abbassare i toni e a cercare di mettere la maggiore serenità possibile nel dibattito politico".
Ironica la replica di Bonaiuti: "Se Prodi si allarma davvero per la risposta sorridente e scherzosa ad una signora sul ’regicidio’, significa che si sente realmente un re. E questo, caro Enrico Letta, mi sembra davvero curioso e grave". "Mi risparmio di ricordare - aggiunge Bonaiuti in una nota - tutte le volte in cui alcuni protagonisti di questo governo e di questa maggioranza hanno utilizzato nei confronti del mio Presidente, ahimè non per scherzo, un linguaggio davvero volgare ed inaccettabile".
La gazzarra leghista. Prodi ha anche parlato della rissa di ieri alla Camera: "E’ diventato uno sport molto diffuso quello del creare manifestazioni anche non consone con i comportamenti di stile di un Paese, con le regole democratiche". Il giorno dopo la gazzarra leghista, il presidente del Consiglio è preoccupato per un clima di tensione e scontro.
"L’occupazione dei banchi del governo, manifestazioni improvvise: tutto questo denota una situazione di tensione che non giova all’Italia che ha bisogno di tranquillità, di comprensione e di dialogo, di dialogo, di dialogo", spiega ai microfoni del Gr1 Rai.
Anche su un altro tema al centro di polemiche, la destinazione del tesoretto, il premier abbassa i toni dopo lo sfogo del Ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa che ha parlato di "richieste inquietanti" sul suo utilizzo. E chiarisce la posizione del governo: "Abbiamo delle priorità molto chiare per il Dpef".
L’obiettivo degli interventi in ambito finanziario deve essere quello di "cercare di dare un pò delle poche risorse che abbiamo innanzitutto a sollievo delle pensioni più basse, poi a favore delle infrastrutture, della ricerca, dell’innovazione e della sicurezza. Questi sono i capitoli su cui dobbiamo investire le risorse che abbiamo".
Seguendo questa strada, continua il presidente del Consiglio, è possibile costruire una ripresa: "Andando avanti con serietà e adagio adagio - dice Prodi -, dopo il risanamento dei conti pubblici, ora può cominciare un periodo di risalita".
* la Repubblica, 15 giugno 2007
Il nuovo partito di B&B
di LUCA RICOLFI (La Stampa, 26/8/2007)
La nascita del Partito della libertà mi ricorda quella della dea greca Pallade Atena, da noi popolo italico provincialmente ribattezzata Minerva, la dea della guerra. Atena, secondo il mito, nacque da un feroce mal di capo di Zeus (detto Giove, sempre qui da noi...), balzando fuori all’improvviso dalla sua testa, già armata di tutto punto. Così Michela Vittoria Brambilla, armata dei suoi Circoli della libertà, pare irrompere sulla scena politica italica da un mal di testa del Cavaliere, giustamente annoiato dai rituali degli alleati e dal grigiore della nomenklatura di Forza Italia (da lui stesso messa in sella, peraltro).
La spettacolarità e la subitaneità del parto non devono trarre in inganno, però: Berlusconi e Brambilla hanno fatto la cosa giusta, dal loro punto di vista. Secondo i sondaggi degli ultimi mesi, se si andasse a elezioni anticipate la destra le vincerebbe quasi sicuramente. Creare il Partito della Libertà significa togliere di mezzo quel «quasi», e lasciare in pista solo il «sicuramente». Vediamo perché.
Oggi in Italia il centro-destra ha 10-15 punti di vantaggio sul centro-sinistra. Gli elettori di sinistra sono delusi, alcuni sono passati definitivamente alla destra, molti dichiarano che la prossima volta non andranno a votare. Lo raccontano ai sondaggisti, ma lo faranno davvero? Qui sta il punto. La risposta dipende da chi guiderà i due schieramenti, ma soprattutto da chi guiderà il centro-destra. Se il centro-destra fosse guidato da un Sarkozy italiano, non ci sarebbe partita: la destra sfonderebbe, conquistando fra il 55 e il 60% dei consensi. Ma se la destra fosse guidata, ancora una volta, da Berlusconi?
Allora comincerebbero i tentennamenti. L’elettore medio di sinistra è gregario (o razionale, se preferite), come lo era l’elettore medio democristiano: non ha troppi problemi a votare «turandosi il naso», perché per l’elettore razionale votare significa scegliere il male minore, e di fronte a Satana anche il peccatore più incallito sembra un bravo ragazzo. Dunque voterà qualsiasi cosa il convento di sinistra gli offra: l’importante, si sentirà dire, è «non riconsegnare il paese a questa destra». Insomma rivedremo il solito film: chi non voterà a sinistra sarà considerato un traditore, un nemico della democrazia, un irresponsabile. E poiché nessuno, al momento, può sapere quanti di noi si piegheranno a questo ricatto morale, la vittoria del centro destra è solo quasi sicura.
Naturalmente è possibile che abbia ragione Edmondo Berselli, secondo cui - dopo lo spettacolo offerto dall’Unione - Berlusconi vincerebbe comunque, qualsiasi cosa faccia la sinistra. Ma un piccolo margine di rischio esiste sempre: e se i delusi dalla politica disertassero in massa le urne? E se Montezemolo facesse un suo partito? E se nascesse «la cosa bianca» (nuova Dc) e si alleasse con il centro-sinistra, pur di scongiurare il ritorno del Cavaliere? E se Veltroni ipnotizzasse il paese parlando di cinema e di Africa? In ciascuno di questi scenari il centro-destra rischia qualcosina. Non molto, ma un piccolo rischio c’è. Ebbene, a mio parere il Partito della Libertà - per il momento in cui nasce e per gli umori che potrebbe incanalare - è una formidabile polizza contro questi rischi.
Oggi c’è in Italia, specie al Nord, un pezzo di elettorato che detesta i partiti, è esasperato dal fisco, ha paura della criminalità comune, e non si fida di questa sinistra ma neppure del tipo di destra che ha governato l’Italia dal 2001 al 2006. Questo tipo di elettorato medita più o meno seriamente di non scegliere alcun partito, ed è catturabile solo da una formazione politica del tutto nuova, con forti caratteri decisionisti, antipolitici, anticentralisti. Un pezzo di questo segmento elettorale confluirà sicuramente nella Lega. Un altro avrebbe potuto essere catturato dal Partito democratico del Nord, se qualcuno avesse avuto il fegato di crearlo. Un altro ancora avrebbe visto con entusiasmo la nascita di un partito liberal-radicale, guidato da Montezemolo, da Capezzone o da altri. Ma dato che nessuna di queste eventualità si è verificata, ecco che lo spazio politico lasciato libero da tutti gli altri potrebbe essere occupato dal partito di BB (Berlusconi & Brambilla), il che permetterebbe a Berlusconi di ricandidarsi alla guida del paese senza alcun vero rischio. Come ha notato subito Lucia Annunziata, il Partito della Libertà è il partito della rinascita di Berlusconi, che gli consente di rimandare sine die la ricerca di un successore, di un erede politico. Dunque B & B, dal loro punto di vista, hanno fatto benissimo. Ma dal nostro?
Qui le cose cambiano drasticamente. Nulla, al momento, autorizza a pensare che il nuovo partito nasca da un ripensamento (auto)critico sul quinquennio berlusconiano. Che non è certo stato quel che la sinistra suppone, ma nemmeno quel che la destra pretende. Contrariamente a quel che molti credono, l’Italia del 2006, che Berlusconi ha consegnato a Prodi, aveva più tasse e più criminalità dell’Italia che Berlusconi stesso, nel 2001, aveva ereditato dal centro-sinistra. Quanto alle grandi riforme modernizzatrici, ne abbiamo viste in funzione pochine: niente ammortizzatori sociali, niente liberalizzazioni, niente federalismo, nessun intervento effettivo sulle pensioni. E domani?
Domani si vedrà. Ma il rischio più grave è quello che, nei giorni scorsi, paventava Galli della Loggia sul Corriere della Sera: che il Partito della Libertà sia solo un espediente organizzativo per mascherare un vuoto politico, ossia l’endemica mancanza di discussione, di idee, di analisi del centro-destra italiano. Soprattutto l’incapacità dei leader della Casa delle Libertà di rispondere alla domanda delle domande: perché, nonostante una maggioranza parlamentare schiacciante, in cinque anni avete modernizzato così poco il Paese? Finché a questa domanda non verrà data alcuna risposta, è inutile illudersi che Berlusconi possa riuscire dove Prodi sta fallendo: il Partito della Libertà potrà anche ridare il governo a Berlusconi, ma difficilmente potrà dare un governo agli italiani.
L’Italia di Berlusconi
Autore: Cassano, Franco *
Se si dovesse ridurre ad un nucleo essenziale la filosofia politica del governo Berlusconi, potremmo trovare una sintesi accettabile nella formula « dismissione dei beni pubblici». Precisando però subito dopo che tale espressione, che a prima vista sembrerebbe collocare il governo nel quadro del liberismo internazionale, va intesa ed interpretata con una serie di connotazioni molto particolari e molto italiane.
Infatti, più che ad una liberalizzazione selvaggia ci troviamo di fronte ad un più generale processo di riduzione di tutti i controlli pubblici, alla progressiva, ma continua erosione dell’autorità di ogni soggetto capace di rappresentare gli interessi collettivi e quindi di dettare le regole comuni a tutti. L’erosione dei beni pubblici non è solo una dimensione economico-patrimoniale: essa significa il declino della classe dirigente di un paese, la perdita della sua capacità d’immaginazione politica e di pensare una nozione d’interesse generale e di lungo periodo. Un’idea d’interesse generale vuol dire progettare il futuro, spingere la politica verso una dimensione in cui essa non è semplice riflesso e mediazione degli interessi, ma qualcosa di più, costruzione delle condizioni del progresso dell’intera collettività. Un’idea d’interesse generale del paese vuol dire per esempio non svenderne l’autonomia della politica estera, evitare vassallaggi che si rischia di pagare a caro prezzo.
Quando la politica non è più lo strumento attraverso il quale si dirige un paese in base ad un’idea forte delle sue prospettive future, ma un navigare sulle sue debolezze, lusingandole e cercando di volgerle a proprio vantaggio, rispecchiandole ed accentuandole, un paese va incontro al suo declino. Il governo Berlusconi, in modo talvolta furbo e talvolta arrogante, non solo rispecchia tutte le debolezze del paese, ma pensa di usarle a proprio favore, offrendo a drammatici problemi strutturali risposte e rimedi parziali e di breve periodo. Da un certo punto di vista la coalizione che lo rappresenta, pur eterogenea e qualitativamente non di alto profilo, rappresenta in qualche modo il paese. Ma questo rispecchiare il paese (cercheremo di portare qualche esempio) è un rappresentarlo in modo perverso e coincide con la rinuncia a qualsiasi capacità di migliorarlo, con una sorta di resa di fronte ai vizi nazionali e l’abbandono di qualsiasi capacità progettuale.
L’effetto di questo tipo di «governo» è quindi tale da spingere il paese verso un declino forte e drammatico, specialmente se si pensa che, a livello internazionale, il vuoto lasciato da tali debolezze viene riempito dall’iniziativa altrui. 1 momenti migliori dell’era democristiana sono stati quelli in cui quel partito riuscì ad esprimere un’idea d’interesse generale, anche entrando in urto con i settori più chiusi ed arretrati delle classi dirigenti. Ovviamente anche allora questa progettualità spesso finiva per esaurirsi, trasformandosi nella semplice mediazione degli interessi. Ma oggi siamo di fronte ad un dato nuovo, perché si tratta di ben di più che di debolezza dell’azione politica rispetto agli interessi particolari: siamo di fronte ad un’inversione della gerarchia tra essi. Al posto di una politica alta, capace di indicare una strada, gli interessi parziali hanno preso il sopravvento, facendo della dimensione pubblica un luogo che ospita e tutela la loro parzialità.
Il conflitto d’interessi di cui è portatore il presidente del Consiglio non è quindi un incidente, ma una gigantesca metafora della politica del suo governo. Non dallo Stato al mercato, ma dallo Stato al privato, e soprattutto ad un privato ben poco competitivo, molto protetto e spesso clientelare. [...]
* Ecco chi ci governa, più forte di prima, in un lucido ritratto di quattro anni fa. Da Homo civicus, Edizioni Dedalo, Roma 2004 (www.eddyburg.it, 15.04.2008)