La Spoon River della crisi
di Adriano Sofri (la Repubblica, 30 marzo 2012)
Il lavoro rende davvero liberi, perdere il lavoro vuol dire perdere la libertà. Vi sarete accorti che il rogo fotografato a Bologna l’altro ieri somiglia a quello del giovane tibetano a Nuova Delhi del giorno prima. E i titoli, a poche pagine di distanza:Il trentesimo tibetano che si è dato fuoco nell’ultimo anno”, “Nel Veneto, già trenta suicidi di imprenditori”. Ieri un operaio edile di origine marocchina si è dato fuoco davanti al municipio di Verona, è stato soccorso in tempo, era "senza stipendio da quattro mesi".
L’altro ieri il piccolo imprenditore edile a Bologna, accanto alla sede delle Commissioni tributarie. Si può andare indietro e trovarne uno al giorno, operai disoccupati, artigiani, imprenditori. Sta diventando l’altra faccia dei bollettini delle morti cosiddette bianche. Caduti sul lavoro, caduti per il lavoro.
Una Spoon River della crisi.
Giuseppe C., il bolognese di 58 anni di cui hanno raccontato qui asciuttamente Michele Smargiassi e Luigi Spezia, la sua pagina se l ’è scritta da solo. "Caro amore, sono qui che piango. Stamattina sono uscito un po’ presto, ho avuto paura di svegliarti. Chiedo a tutti perdono". Parole pronte per una bella canzone di Lucio Battisti. L ’ha scritto anche al fisco: "Chiedo perdono anche a voi". Una frase terribile, ora che qualche disgraziato ha messo le sue bombe alle porte di Equitalia, e non si può più dire che "bisognerebbe metterci una bomba".
Imprenditori si impiccano, e curano di farlo nei loro capannoni, nel giorno festivo o fuori dall’orario di lavoro. La classe dirigente, le persone di cui ieri si pubblicano i "maxistipendi", le maxipersone di cui si pubblicano gli stipendi - saranno magari altrettanto commosse dell’umanità minuta per questo stillicidio di immolazioni disperate. Il fatto è che ai nostri giorni i poveri e gli impoveriti e soli che si danno fuoco hanno fatto tremare i potenti del mondo più di un esercito di forconi.
Questo contagio di suicidi è infatti un segno di resa e di solitudine, ma non solo. È una rivendicazione estrema di dignità. Fa ricordare, dopo una lunghissima parentesi, quella onorabilità borghese per la quale ci si vergognava di una rovina, anche la più onesta, e si scriveva una lettera di amore e di perdono alla famiglia. Affare di gente all’antica: con tangentopoli, i suicidi furono pochi e soprattutto "di rango", che li dettasse la protesta o la disperazione, mentre un’intera classe dirigente mostrava una pusillanimità incresciosa, ed è stata quella tempra a farla durare, passata la piena, e continuare come e più di prima, salvo non vergognarsene più e non correre più in presidenza a denunciare il cognato. Quella dignità all’antica sembra ritornata negli operai restati senza lavoro, negli imprenditori che si danno del tu coi propri dipendenti e se ne sentono responsabili, negli stranieri che avevano fatto il loro pezzo di salita e si vedono di colpo riprecipitati in fondo.
È questo, la crisi, per tanti: non sapere più come fare, e non rassegnarsi alla destituzione della propria personalità. Perdere il lavoro vuol dire perdere il proprio posto, fisso o no, nel mondo. E non è vero che lo si ceda al prossimo della fila, quel posto sgombrato. Si sono inventati, non so se prima la parola o il fatto, non so se più offensivo il fatto o la parola, gli esodati. Se non ci fossero sindacati e parti politiche e sollecitatori d’opinione a sostenerli, di quale loro gesto si potrebbe stupirsi? È ora, e non durerà a lungo, il tempo di non lasciarli soli: è già un tempo supplementare.
Lo sciopero del 13 aprile è un intervento di protezione civile, una scelta fra la dignità solidale e la commiserazione. Le persone che si arrendono, fino al gesto estremo, sentono d’essere abbandonate, "da tutti".
Creditori che la pubblica amministrazione non paga. Imprenditori cui non mancano le commesse ma la fiducia delle banche. Gli uni e gli altri che finiscono in mano agli strozzini. I più grossi se la cavano meglio: hanno i più piccoli cui negare il dovuto. La vicinanza fra morti sul lavoro e morti per il lavoro non è solo simbolica. La crisi spinge a fare in fretta, a risparmiare sulla sicurezza. Costa 100 euro la macchinetta per misurare l’ossigeno nei siti confinati da ripulire, e però gli operai ci si calano lo stesso, i primi a lavorare, gli altri a soccorrerli, e gli uni e gli altri a soffocarci, dipendenti e padroncini. Si muore sotto vecchi trattori rovesciati senza protezione, nonostante leggi e circolari.
Ieri si dava la cifra di un migliaio di suicidi nell’ultimo anno per ragioni economiche legate alla crisi. E in questa situazione volete ancora parlare di articolo 18? Proprio così. Per dire questo, che non è un argomento tecnico, nemmeno di quella tecnica sindacale che ha un importante valore sociale. È un affare di libertà e di dignità delle persone. Delle persone minuscole, della loro libertà con la minuscola.
Benvenuti gli appelli a liberarsi dagli ideologismi (una volta o l’altra bisognerà richiedersi che cosa intendiamo per ideologia). Benvenute le cifre che spiegano come siano rari i casi in cui si è applicato il reintegro previsto dall’articolo 18 (e allora perché ci tenete tanto?).
Ci saranno pure di qua cuori con un debole per l’ideologia e menti renitenti alle nude cifre, ma le persone che lavorano sentono dire "libertà di licenziare" e pensano che voglia dire libertà di licenziare. Pensano che se i casi sono stati così rari, dev’essere stato anche grazie a quell’articolo 18. E che una volta che lo si sia tolto di mezzo, i casi diventeranno molto meno rari. Che trasferire sulle spalle dell’operaio l’onere di provare che il suo licenziamento "economico" sia pretestuoso, è l ’inversione della prova.
E soprattutto sentono che perdere il lavoro è come vedersi crollare il mondo addosso, a sé e alla propria casa. La rovina: e le 15 mensilità al posto del lavoro non ripagano la rovina, ma le aggiungono l’umiliazione. Sbagliano governi e parlamenti a fare come se questi fossero affari di preti, di pompieri e di assistenti sociali. Il movimento operaio è passato attraverso l’ideologia del lavoro e anche l’ideologia del non-lavoro. Non ci si dà fuoco da soli, chiedendo di lasciare in pace la propria donna, per un’ideologia. Lo si fa per una fede offesa, come i giovani tibetani, o per una destituzione di sé, come un padre di famiglia italiano di 58 anni.
Tanto non lo capiscono
di Giovanni Sarubbi
Uno degli striscioni della manifestazione tenutasi a Milano questa mattina Occupy Piazza Affari. *
Siamo alle torce umane. Lavoratori licenziati o piccoli artigiani falliti e pieni di debiti decidono di farla finita e lo fanno nel modo più spettacolare possibile, bruciandosi davanti agli uffici delle imposte o nelle pubbliche piazze. C’è ben poco da dire su queste tragedie. Più che dire parole inutili, come le tante che ho letto nei giorni scorsi, occorrerebbe fare azioni concrete contro la disoccupazione dilagante e la continua e oramai cronica riduzione del potere di acquisto dei salari che va avanti da trent’anni.
Invece si discute di art. 18, cioè di come dare la possibilità al grande padronato di licenziare più velocemente e a poco prezzo i lavoratori, e di nuovi aumenti, del gas, dell’elettricità, dei carburanti, del cibo, delle tasse regionali e comunali, dei servizi sanitari (diventati oramai proibitivi), dell’IMU, mentre gli evasori sono stati quantificati in 10milioni di persone. E poi si aggiunge la beffa che i padroni fanno dichiarazioni dei redditi minori di quelle dei loro dipendenti. E poi ci sono i dati sull’ammontare dell’economia sommersa stimata in 500miliardi di euro, prodotta da lavoratori che sarebbe più giusto chiamare schiavi visto i salari che percepiscono. E ci dicono pure che per vivere decorosamente una famiglia di 4 persone dovrebbe percepire almeno 2500euro al mese.
E non lo diciamo noi, lo dicono i giornali di questi giorni e di questi mesi, riportando i dati diffusi dall’EURISPES o da varie agenzie di ricerca internazionali. Fonti non sospettabili di essere dirette da pericolosi comunisti nemici della proprietà privata e del neoliberismo globale che domina attualmente il mondo.
Dalle mie parti si dice che “il sazio non crede a chi è digiuno”. Come dire “se non hanno pane mangiassero le brioche”, famosa frase attribuita alla regina di Francia ai tempi della Rivoluzione Francese. Tutti, credo, conoscono il bagno di sangue che ci fu in quel periodo storico e quale tipo di regime venne poi fuori da quella Rivoluzione, quello di Napoleone Bonaparte, piena di guerre e lutti immensi.
E come la Regina di Francia si stanno comportando i ministri del Governo dei Professori. Continuano nella loro marcia incuranti dei morti che la loro politica lascia lungo il suo avanzare. E se oggi i morti si materializzano nelle torce umane, i morti fra i lavoratori non sono mai stati virtuali, sia per i continui e quotidiani omicidi sul lavoro causati dallo sfruttamento selvaggio a cui i lavoratori sono soggetti, sia in tutte le fasi dello scontro sociale quando la classe più forte da un punto di vista economico, perché detentrice della proprietà dei mezzi di produzione e della maggioranza delle risorse finanziarie del mondo, ha voluto imporre i suoi diktat ed il suo predominio economico, sociale, politico.
Oggi si guarda, da parte di qualche opinionista, con stupore o preoccupazione alle torce umane. Sono costretti a parlarne, non ne possono fare a meno perché i casi sono molti ed eclatanti. Si preoccupano per ciò che è successo, per esempio, nei paesi arabi dove i movimenti che hanno abbattuto regimi quarantennali come quello egiziano o tunisino sono iniziati proprio con persone che si sono date alle fiamme.
Ma quanti giornali pubblicano costantemente e con grande evidenza in prima pagina le notizi riguardanti i morti sul lavoro? Ma dov’erano gli opinionisti di oggi quando nel 1979, ai tempi dei primi ventimila licenziamenti del gruppo FIAT, furono centinaia i lavoratori che si suicidarono nel più assoluto silenzio e disinteresse dei mass media? Di cosa si occupano i mass-media quando le famiglie si sfasciano perché i genitori non hanno più lavoro, o ci si aggrappa, almeno qui al sud è così, alle pensioni degli anziani per sopravvivere. Quando un anziano pensionato muore in una famiglia, mi diceva ultimamente un quasi centenario ex sindaco di un paese dell’Alta Irpinia, oramai si dice che quella famiglia “ha perso una pensione”. E i giovani, qui al sud, sono legati alle pensioni dei padri o dei nonni.
E che dire della situazione di chi ha in famiglia persone con handicap più o meno gravi? Sono tantissime le persone che si sono viste revocare anche gli assegni di accompagnamento o che vedono con terrore di essere in procinto di trovarsi nella stessa situazione in cui si è venuto a trovare il parente o l’amico non più in grado di essere autosufficienti. “Per avere l’assegno di accompagnamento - mi diceva un amico che si trova in questa situazione - bisogna essere praticamente quasi morti”. Si è passati da un estremo all’altro estremo, sulla pelle dei poveri cristi.
Ma loro, i professori, non si curano di nulla. Vanno avanti con la cattiveria e la freddezza di chi ritiene di essere non solo nel giusto ma anche di avere una sorta di autorizzazione divina nel disporre della vita e della morte di milioni di persone che nulla possono e debbono fare per opporsi al loro “treno della morte”. E lo fanno con tono messianico, con un sorriso beffardo di chi è convinto di essere superiore, ma sono in realtà solo dei piazzisti della loro classe di appartenenza, quella dei grandi monopolisti e dei grandi banchieri multinazionali, quelli che hanno inventato l’economia finanziaria con tutte le diavolerie ad essa associata e che stanno affamando il mondo.
Parlano di “modello tedesco” ma ovviamente non dicono che anche li quel sistema si regge sullo sfruttamento selvaggio di alcuni milioni di persone pagate, come in Italia, a 400 euro al mese.
Dicono di avere il consenso del paese, che gli italiani sono dalla loro parte e comprendono e comprenderanno quello che essi stanno facendo. Confondono il “bene del paese”, che dovrebbe significare benessere per tutti, con il “loro bene”, con il loro arricchimento , con la tutela delle loro proprietà e dei loro patrimoni che non sono stati neppure sfiorati dalle tasse che sono invece toccate ai lavoratori e ai pensionati.
E poi ci sono i casi dell’ex tesoriere della Margherita accusato di aver rubato una ventina di milioni di euro, e quello di Emilio Fede, accusato di aver tentato di portare i Svizzera due milioni e mezzo di euro in contanti. Mentre si arrestano i poveri diavoli e li si sbatte in galera per pochi euro, questi sono liberi e impuniti e hanno anche la possibilità di essere assolti o mai processati.
Ed è inutile dire che anche le catene di acciaio hanno un limite di rottura, tanto i professori questo non lo capiscono. Credono di poter controllare tutto attraverso il silenzio stampa, il non parlare delle manifestazioni che si svolgono in giro per l’Italia come quella di oggi di Milano di cui abbiamo riportato una delle foto.
Giovanni Sarubbi
Ora sì che sembrate l’Argentina
di Horacio Verbitsky (il Fatto, 31.03.2012)
Le polemiche italiane sull’articolo 18 hanno per gli argentini uno sgradevole sapore di déjà vu e lo stesso dicasi per le reazioni nei confronti del governo tecnico di Mario Monti. Se la nostra esperienza può servire a qualcosa eccone un breve resoconto. Il presidente Carlos Menem (1989-1999) abolì le leggi a tutela dei lavoratori che garantivano diritti ottenuti dopo decenni di lotte sociali, cosa questa che non aveva osato fare nemmeno la dittatura militare (1976-1983). Il tecnico che preparò la riforma del mercato del lavoro fu Domingo Cavallo, incaricato di porre fine al “populismo peronista”. In Italia settori che si considerano progressisti o comunque facenti parte di una delle anime della sinistra, hanno accolto con sollievo il rappresentante delle banche e di quel mitologico personaggio che va sotto il nome di “Merkozy”. Dicono sia un uomo serio, che gode di notevole prestigio in Europa e che ora non bisogna più vergognarsi di essere italiani.
LA SITUAZIONE ha qualche analogia con l’Argentina di 20 anni fa anche se in Argentina il problema non era il bunga bunga, ma la superinflazione. Stabilendo il rapporto di parità tra dollaro americano e peso argentino, Cavallo fece calare immediatamente l’inflazione e avviò un programma di riforme il cui scopo era quello di migliorare la competitività dell’economia. La brusca stabilizzazione così ottenuta permise a Menem, che somigliava più a Berlusconi che a Mario Monti, di vincere le elezioni successive e di portare avanti un programma di smantellamento delle conquiste sociali, di liberalizzazione finanziaria, di deregulation e di privatizzazioni che causò indebitamento con l’estero per sostenere la finzione secondo cui un peso valeva quanto un dollaro, deindustrializzazione e dismissione delle industrie pubbliche.
La flessibilità del lavoro fu una delle pietre angolari di questo modello. La perdita di stabilità del lavoro e la legalizzazione dei contratti a tempo determinato o a salario ridotto o senza benefici sociali per i nuovi lavoratori ridussero il costo del lavoro e fecero lievitare i profitti delle imprese il cui contributo al sistema pensionistico subì una drastica riduzione. Di conseguenza il sistema pensionistico venne privatizzato e i fondi pensione gestiti dalle grandi banche. Anche Cavallo era un uomo rispettato negli ambienti finanziari internazionali e Menem prometteva che con questa politica l’Argentina sarebbe diventata un Paese del primo mondo, realizzando una vecchia ossessione argentina. Avvenne l’esatto contrario. Invece di registrare aumenti di produttività, il settore industriale entrò in crisi profonda. La chiusura di moltissime attività produttive, che non potevano competere con le importazioni a prezzi molto bassi, fece lievitare la disoccupazione fino a livelli mai toccati in Argentina. Quando Fernando De la Rua successe a Menem (1999-2001), al salvatore tecnico, Domingo Cavallo, fu affidato il ministero dell’Economia. Il modello economico collassò definitivamente nel dicembre 2001.
IL TASSO di disoccupazione toccò il 25%, le banche confiscarono i depositi dei correntisti, i prestiti del Fmi furono utilizzati per finanziare il salvataggio dei grandi capitalisti che riuscirono a far uscire dal Paese migliaia di milioni di dollari prima che il sistema bancario presentasse il conto ai comuni cittadini. Quando venivano licenziati, i lavoratori smettevano di versare i contributi al loro fondo pensione e i loro conti correnti andavano in rosso anche per le esose commissioni delle banche.
LE BANCHE, disponendo di una elevata liquidità, cominciarono a prestare denaro a tassi molto alti allo Stato che si era svenato trasferendo risorse al sistema pensionistico.
Circa tre milioni di lavoratori che avevano raggiunto l’età della pensione rimasero senza lavoro e senza pensione. Nestor Kirchner disse molte volte che era stato eletto presidente con un numero di voti (alle elezioni del 2003 ottenne il 22% al primo turno e Menem si ritirò prima del secondo turno prevedendo una clamorosa sconfitta) inferiore al numero di disoccupati. Il programma suo e della sua vedova Cristina Fernandez de Kirchner che governerà dal 2007 e verrà rieletta nel 2011 con il 54% dei voti, consisteva nell’abolire poco alla volta tutte le riforme introdotte dal governo tecnico di Cavallo: i diritti dei lavoratori furono ripristinati, le pensioni, che erano state congelate nel decennio precedente, furono incrementate due volte l’anno in misura superiore all’inflazione, il sistema pensionistico divenne nuovamente pubblico e vennero reintegrati i lavoratori che erano stati esclusi dal mondo del lavoro.
Mentre nel decennio precedente solo il 50% dei lavoratori che arrivavano all’età della pensione riuscivano a ottenere un assegno pensionistico, oggi tale percentuale è superiore al 90%. I salari dei lavoratori sono i più alti dell’America Latina e il costo del lavoro per unità di prodotto è inferiore rispetto al 2001 in quanto sono aumentati la produttività e i profitti delle imprese. Questa sorprendente realtà coincide con quella tedesca: sono gli alti salari a stimolare gli investimenti e la produttività.
*scrittore e giornalista, dirige il Centro Studi Giuridici e Sociali di Buenos Aires
Traduzione di Carlo Antonio Biscotto
Irisbus
Per un nuovo sole e un sereno destino.
di I lavoratori della Irisbus - Resistenza Operaia *
La Vicenda Irisbus Iveco ha vissuto negli ultimi mesi un periodo di stallo. Sembra che tutto sia stato dimenticato: la lotta dei 117 giorni già è storia che appartiene ad un passato remoto, il destino dei 700 lavoratori, delle famiglie e dell’intera Valle Ufita è in balìa di assordanti silenzi e colpevoli assenze.
I lavoratori tutti hanno vissuto drammaticamente l’abbandono a se stessi, ma hanno deciso di recuperare terreno e di riaprire la lotta per far sentire altisonante e decisa la voce della giustizia sociale e della riappropriazione del diritto al lavoro. Se altri hanno deciso di dimenticare noi invece abbiamo giurato di non dismettere, di continuare a sperare e soprattutto di continuare a resistere.
È per questi motivi che mercoledì 28 marzo alle ore 9.00 in Valle Ufita verrà montata la nuova “Tenda della Resistenza” intesa come luogo di informazione e di direzione, una tenda di proposte, di iniziative, di lotta, ed idee che guardano al futuro cercando di riaccendere le luci sulla vicenda Irisbus per trovare la via d’uscita da questo nero tunnel nella certezza di scoprire un nuovo sole e un sereno destino.
... e la Lotta Continua!
Mirabella Eclano, lì 24 Marzo 2012
I lavoratori della Irisbus - Resistenza Operaia
Camusso: il Parlamento ha il dovere morale di ascoltare i lavoratori
di Giuseppe Vespo (l’Unità, 30.03.2012)
La controriforma del mercato del lavoro non passerà. Susanna Camusso lancia la sfida al governo Monti dal palco della Camera del Lavoro di Milano, per l’occasione talmente affollata da costringere la segreteria milanese della Cgil a montare degli amplificatori fuori dall’edificio.
La sindacalista è alle prese con un tour per l’Italia per spiegare le ragioni della mobilitazione: pensioni, esodati che sono i temi al centro della manifestazione unitaria del 13 aprile ma soprattutto difesa dell’articolo 18 e dei diritti dei lavoratori. «La gente ha capito di cosa stiamo parlando dice Camusso dal palco milanese e se il Paese lo vorrà, la controriforma del lavoro non passerà». Ma per riuscire nell’impresa c’è bisogno di tutti, anche di «Confindustria e delle associazioni», che hanno chiesto delle modifiche alla norma.
Il sindacato ha organizzato la sua campagna suddividendo le 16 ore di sciopero indetto in due blocchi: le prime otto ore sono destinate agli scioperi, alle assemblee e alle diverse iniziative nei vari luoghi di lavoro; le altre otto ore saranno spese in blocco nello sciopero generale che arriverà quando il disegno di legge sul Lavoro approderà alle fasi finali della discussione parlamentare. «Continueremo il 25 aprile e il Primo maggio e in tutti gli appuntamenti che abbiamo davanti e continueremo quando il dibattito sarà in Parlamento». La data dello sciopero generale sarà decisa «quando capiremo che è il momento in cui bisogna dare la risposta generale».
Perché la guerra sul lavoro si vince sul terreno del consenso: sull’articolo 18 «il governo ha deciso uno strappo, ha immaginato che il consenso fosse tale da consentire questa operazione, ma non ha funzionato». Un concetto che la sindacalista ribadisce anche su twitter, sicura com’è che «sui licenziamenti facili» Monti «non ha convinto nessuno», perché «la riforma cambia brutalmente diritti in essere». La strategia di Corso d’Italia è chiara: conquistare lavoratori e società civile per puntare alle Camere, che hanno «il dovere morale, non il dovere tecnico, di guardare a cosa pensa il Paese e a cosa pensano i lavoratori». Concetti che mettono in allarme il Pdl, che vuole portare a casa il pacchetto del governo così com’è, escludendo qualsiasi passo indietro.
È presto per dire come andrà a finire ma la Cgil sente di avere «il passo di chi resiste e continua a farlo e non quello di chi ha preoccupazioni o qualche paura. Non siamo sicuri di vincere, ma siamo sicuri della nostra battaglia. Noi non basiamo le nostre ragioni sui sondaggi che sono mutevoli ma sulla conoscenza della realtà e dei suoi problemi».
Parole che la segretaria di Corso Italia ripeterà nei prossimi giorni alle riunioni con i delegati di Bologna, Parma, Cremona e Pavia. Intanto da Milano rilancia la lotta su pensionati e esodati, entrambi pesantemente colpiti dal pacchetto governativo «Salva Italia». In particolare i secondi, oggi si trovano senza pensione e senza stipendio: per Camusso è «scandaloso» che neanche l’Inps «sia in grado di quantificare il problema», ovvero il numero di queste persone.
I vescovi: l’uomo non è una merce
Soluzioni condivise
di Roberto Monteforte (l’Unità, 23 marzo 2012)
Non è lo scontro che serve al Paese. Soprattutto in questa fase. Chi può essere così sicuro che con la riforma dell’articolo 18 si risolva il problema della precarietà? Non ci si rende conto di quanto sia grave lo strappo con la Cgil, il maggiore sindacato italiano? E poi il lavoratore «non è una merce da eliminare per questioni di bilancio», ma una persona e come tale da rispettare.
Sono critiche di fondo quelle che monsignor Giancarlo Bregantini, arcivescovo di Campobasso- Bojano, presidente della commissione lavoro alla Cei e con un passato in fabbrica, muove al governo Monti. In un’intervista a Famiglia Cristiana esprime con chiarezza tutte le sue preoccupazioni per gli effetti concreti della riforma Monti-Fornero e soprattutto per la scarsa attenzione data alla dignità dell’uomo. «Con questa riforma la precarietà sarà vinta? O addirittura aumenterà?», si domanda. Parla a titolo personale il responsabile Cei per il lavoro e le questioni sociali, a pochi giorni dall’apertura del Consiglio Permanente dei vescovi.
Ma dopo che le agenzie hanno lanciato la sua intervista, anche la Cei prende ufficialmente posizione con il suo portavoce, monsignor Domenico Pompili. «La situazione del mondo del lavoro - afferma Pompili - costituisce un assillo costante dei vescovi. La dignità della persona passa per il lavoro riconosciuto nella sua valenza sociale». «La Conferenza episcopale italiana - conclude - segue con attenzione le trattative in corso, confidando nel contributo responsabile di tutte le parti in campo, al fine di raggiungere una soluzione, la più ampiamente condivisa». Così la posizione di Bregantini trova copertura.
Le sue sono le preoccupazioni della Chiesa che è in prima linea nel fronteggiare la crisi economica e sociale. «I licenziamenti economici - afferma il vescovo - rischiano di generare un clima di paura in tutto il Paese». Teme che nelle aziende e nelle famiglie monti «un’ondata di terrore» per paura di vedersi licenziati per motivazioni economiche o organizzative. E aggiunge: «Una siepe protettiva sui licenziamenti economici bisognava metterla». Da qui il suo appello rivolto soprattutto ai politici perché «si possa creare una rete di diritti e di protezioni più solida».
Invoca coesione. Lasciare fuori la Cgil per questo lo giudica «un grave errore», come pure considerare questo una cosa «data quasi per scontata», come se non fosse «una cosa preziosa» per la riforma del lavoro avere il consenso del primo sindacato italiano. Va tenuto conto, infatti, che «dietro questa fetta di sindacato vi è tutto un mondo importante, cruciale da coinvolgere per camminare verso il futuro». L’altra critica è ai tempi stretti imposti per una riforma di questa portata e quel perentorio «la partita è chiusa» del premier Monti, mentre sarebbe stato necessario aprire il dialogo in Parlamento, nei luoghi di lavoro e nel Paese.
Ma è un tema etico di fondo quello che Bregantini pone di fronte ai licenziamenti «chiamati elegantemente, “flessibilità in uscita”». «Il lavoratore è persona o merce?». «Non lo si può trattare - scandisce - come un prodotto da dismettere, da eliminare per motivi di bilancio, perché resta invenduto». Poi osserva come in politica l’aspetto tecnico stia diventando prevalente su quello etico. Come sia eccessiva la «sintonia» tra profitto e aspetto tecnico.
Un promemoria della Chiesa per il premier Monti e il ministro Fornero e per tutti i cattolici impegnati in politica. Lo rilanciano in molti, da Rosy Bindi a Leonluca Orlando, che chiedono al governo di ascoltare la Cei.
L’articolo 18 e la Costituzione
di Gianluigi Pellegrino (la Repubblica, 28.03.2012)
Caro direttore,
un mio diritto ed il potere del giudice a riconoscerlo possono dipendere dalla mera volontà del mio avversario in causa? Sicuramente no per fondamentali principi costituzionali. È allora in poche righe del documento approvato dal Governo il 23 marzo la sostanziale confessione dell’incostituzionalità (che sembra davvero manifesta) della previsione che si vorrebbe inserire nel nuovo testo dell’art. 18, là dove a pag. 10 si legge che ad assumere importanza decisiva ai fini dell’intensità della tutela cui il lavoratore avrà diritto è "la motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro".
Questo infatti vuol dire, come esplicitato nello stesso capitolo del testo governativo, che a parte l’ipotesi del licenziamento discriminatorio o disciplinare camuffato, in tutti gli altri casi di licenziamento pure manifestamente illegittimo perché arbitrario (non essendovi né ragioni disciplinari né ragioni economiche per disporlo), il diritto del lavoratore al possibile reintegro viene assurdamente condizionato al tipo di "bugia" che l’imprenditore ha ritenuto di inserire nella lettera di licenziamento (appunto la decisiva "motivazione attribuita al licenziamento dal datore di lavoro").
Se il datore di lavoro avrà arbitrariamente allegato inesistenti cause disciplinari allora il lavoratore ha diritto al reintegro; se invece l’imprenditore avrà allegato, altrettanto arbitrariamente, inesistenti ragioni economiche, solo per questo il reintegro è escluso!
L’incostituzionalità è quindi intrinseca a questo progetto di riscrittura dell’art. 18 e riguarda i cittadini in quanto tali prima ancora che come lavoratori. Principi fondamentali della nostra Costituzione impediscono che l’ambito di tutela di ciascuno di noi dipenda dalla volontà della nostra controparte (art. 24). Ed è sempre la Costituzione che impedisce che situazioni identiche vengano trattate in modo diverso (art. 3). E non c’è dubbio che un licenziamento privo dei requisiti di legge, lo è allo stesso modo a prescindere da quale sia la falsa allegazione che lo supporta.
Il progetto del Governo invece consegnerebbe la seguente assurda situazione. Se un imprenditore vuole semplicemente licenziare (non per discriminazione ma) per semplice voglia di farlo senza che ve ne siano le sole ragioni che l’ordinamento prevede per giustificarlo, ebbene l’ambito di tutela del lavoratore dipenderà incredibilmente da quale falsa ragione il datore di lavoro deciderà di allegare nell’illegittimo ben servito. Se scriverà che è per ragioni disciplinari, il giudice che ne accerta l’inesistenza potrà reintegrare il lavoratore. Ma se invece il capo azienda scriverà che è per ragioni economiche, il diritto al reintegro del lavoratore svanirà di incanto, e il giudice che pure accerti l’inesistenza anche di quel motivo, viene per legge costretto a poter accordare solo l’indennizzo. E ciò solo in ragione di ciò che il datore di lavoro ha (falsamente) dichiarato.
L’incostituzionalità è quindi intrinseca nel progetto del Governo per una sua clamorosa contraddittorietà interna. Perché da un lato afferma il giusto principio generale in base al quale in caso di licenziamento illegittimo può esservi anche il diritto al reintegro (a seconda dei casi che verranno accertati dal giudice); però poi d’improvviso crea una fessura dove questo diritto svanisce di incanto e per sola volontà della parte che ha interesse a farlo svanire. Una fessura che all’evidenza rischia di diventare voragine contraddicendo lo stesso impianto che il Governo ha stabilito di seguire.
A ciò si aggiunga che la salvaguardia infine inserita dal Ministro Fornero per i casi in cui il lavoratore riesca a dimostrare che si sia camuffato un licenziamento discriminatorio o disciplinare, non solo non risolve la questione ma rende l’ingiustizia ancora più clamorosa. Ed infatti arriviamo al paradosso che dinanzi a un licenziamento non discriminatorio ma arbitrario che allega inesistenti ragioni economiche, ha maggiore tutela il lavoratore che possa dire di essersi macchiato di qualche colpa disciplinare rispetto a quello che invece nessuna colpa possa attribuirsi!
Il punto è che Costituzione alla mano, a parte le ipotesi di nullità del licenziamento per discriminazione, tutti gli altri casi di licenziamento illegittimo devono avere lo stesso ambito di tutela, quale esso sia. È senz’altro legittima l’opzione del Governo di passare da un sistema che prevede sempre il reintegro ad un sistema più flessibile dove l’intensità della tutela è affidata al giudice del caso concreto. Ma così deve essere sempre, in tutti i casi di licenziamento illegittimo. Non può certo una delle parti in causa determinare quali siano i diritti della controparte e quali siano i poteri del giudice, pena la frontale violazione dell’art. 24 della Costituzione che garantisce ad ogni cittadino (lavoratore o meno che sia) la quantità e l’intensità delle tutele apprestate dall’ordinamento, non certo dalla volontà del suo avversario in causa.
È davvero sorprendente che si stia creando tutto questo sconquasso su una ipotesi normativa che per come progettata non supererebbe il più elementare degli esami di costituzionalità.