Secondo una ricerca di Bankitalia, i professori anziani, demotivati e che cambiano sede troppo spesso, danneggiano gli studenti. Dite la vostra.
FEDERICO LA SALA
Allarme docenti insoddisfatti
"Un danno per gli studenti"
I professori italiani sono più anziani del resto degli occupati. Meno istruiti al Sud *
ROMA - Insegnanti anziani, insoddisfatti della scuola in cui lavorano e troppo spesso desiderosi di fuggire dal proprio istituto. E’ il quadro delineato da alcuni ricercatori di Bankitalia e del ministero della Pubblica istruzione. Un’analisi che mette sotto accusa soprattutto l’eccesso di "turnover" dei professori, che influisce negativamente sugli studenti e sul loro apprendimento, messo a rischio anche dallo "scarso attaccamento" dei docenti alla scuola in cui lavorano.
Troppi spostamenti. L’indagine, inserita tra i temi di discussione di via Nazionale, si concentra sul "turnover" degli insegnanti di ruolo, che rappresentano circa un terzo degli spostamenti complessivi. I ricercatori rilevano che le entrate e le uscite di docenti dal sistema scolastico, così come il "turnover" dei professori con cattedra causano una "mancanza di continuità didattica". In generale, più di un quinto dei docenti cambia scuola da un anno all’altro. E a subirne le conseguenze sono gli studenti.La loro preparazione scolastica risente anche del "mismatch", cioè dello scarso attaccamento dei professori alla scuola in cui operano.
Docenti "vecchi" e meno istruiti. Nell’indagine emerge poi che gli insegnanti in Italia sono in media più vecchi del resto degli occupati e sono in prevalenza donne. Nelle regioni meridionali, in particolare, i docenti sono in genere "più vecchi, meno istruiti e con voti di laurea o di diploma inferiori a quelli dei loro colleghi che operano nel resto del paese". I più anziani possono di solito contare su un voto di diploma o laurea più basso rispetto alla media. Secondo i ricercatori questo potrebbe derivare da "meccanismi di cosiddetta ’selezione avversa’, per cui rimangono nella professione soggetti meno capaci".
Precarietà di inizio carriera. L’indagine segnala poi che, per quanto riguarda l’accesso nel mondo del lavoro, "l’inizio della carriera è caratterizzato da forte precarietà, con contratti a termine di durata inferiore rispetto al resto dell’economia, una più intensa ricerca di un altro lavoro e una più elevata probabilità di svolgere un secondo lavoro".
"Azione determinante per l’apprendimento". L’indagine passa ai raggi X il corpo insegnante italiano non solo perché i docenti assorbono circa i due terzi della spesa corrente per l’istruzione, ma anche perché la loro azione quotidiana rappresenta "la principale determinante, insieme alle caratteristiche innate e al contesto socio-economico, degli apprendimenti degli studenti".
* la Repubblica, 13 luglio 2008.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
GELMINI PREPARA IL NUOVO ANNO SCOLASTICO DEL REGIME...
SCUOLA, IL CALENDARIO SCOLASTICO DEL PROSSIMO ANNO, 2008-2009.
Al via la riforma, interessa 500mila studenti, partirà
dal prossimo anno scolastico. Ecco la mappa di orari e materie
Meno inglese, più italiano
così cambia la scuola superiore
di SALVO INTRAVAIA *
MENO Latino e Filosofia allo scientifico, meno ore di Lingua straniera in quasi tutti gli indirizzi, più italiano negli istituti tecnici e professionali. La riforma degli istituti superiori è ai nastri di partenza. Tra poche settimane (le iscrizioni andranno presentate entro fine febbraio 2010) circa 500 mila ragazzini di terza media si ritroveranno a fare la scelta più importante della loro vita scolastica. E a viale Trastevere fervono i preparativi per la campagna di informazione che nei prossimi giorni raggiungerà genitori e figli ancora all’oscuro di quadri orario e materie su cui dovranno cimentarsi dal prossimo anno scolastico.
Dopo le proteste dei mesi scorsi e i confronti - spesso tumultuosi - con i rappresentanti di categoria, i regolamenti che metteranno ordine nella giungla dell’istruzione superiore italiana sono pronti. Al posto degli oltre 800 indirizzi sperimentali attualmente funzionanti in Italia i ragazzini dovranno districarsi fra 27 opzioni: 10 licei, 11 istituti tecnici e 6 istituti professionali. Ma cosa c’è nel futuro scolastico di coloro che studieranno nella scuola riformata? Meno ore di lezione e meno materie per tutti. Sembra proprio questa la direzione in cui si è diretto il governo. E dopo mille correzioni, limature e aggiustamenti dei 27 istituti superiori gelminiani si conoscono anche i cosiddetti curricula: materie e ore di lezione di tutti gli anni.
Insomma: tutto pronto. Al liceo classico, dove le sperimentazioni coprono l’80 per cento dei corsi, le ore calano drasticamente. È il caso della sperimentazione in lingua straniera (circolare ministeriale 198/092) che lascerà sul campo in media 3 ore settimanali di lezione, tutte di lingua straniera, ovviamente. Stesso discorso per i licei scientifici, dove è diventato difficile trovare un corso tradizionale: il 55 per cento di studenti studia in corsi di Piano nazionale informatica (Pni) e 23 su 100 in corsi bilingue. Anche per loro c’è all’orizzonte un calo delle ore di Latino, Inglese, Matematica e Fisica, con un recupero parziale di lezioni di Scienze. Passando agli istituti tecnici e agli istituti professionali non c’è bisogno di fare troppi conteggi per rendersi conto che i ragazzi staranno tra i banchi parecchie ore in meno. Finora, chi ha frequentato l’istituto tecnico commerciale, anche quello ad indirizzo tradizionale, si è dovuto sobbarcare 36 ore settimanali di lezione. Che arrivano a 38 all’istituto tecnico industriale e a 40 negli istituti professionali.
Per diventare provetti ragionieri, geometri, periti tecnici o cuochi occorreva passare a scuola dalle 6 alle 8 ore al giorno. Ma dal prossimo anno tutto questo sarà un "brutto ricordo": 32 ore settimanali per tutti, dai tecnici ai professionali. Si studierà meno Inglese, Matematica ed Economia aziendale all’istituto tecnico commerciale. E meno Geografia (che scompare) ed Elettrotecnica ed Elettronica all’industriale (ad indirizzo Elettronico ed Elettrotecnico). Ma si recupera con l’italiano che aumenterà leggermente. E soprattutto niente più ragionieri o geometri: dal 2010/2011 i vecchi istituti saranno sostituiti rispettivamente dagli indirizzi di Amministrazione, finanza e marketing e da Costruzioni, ambiente e territorio.
* la Repubblica, 16 ottobre 2009
I numeri ufficializzati dal ministero dell’Istruzione: al Sud spariranno due posti su tre
La più penalizzata è la scuola ex media, che avrà 15.541 docenti in meno pari al 10%
Salteranno 37 mila cattedre
più della metà nel Meridione
di SALVO INTRAVAIA *
Dopo un tam tam durato settimane, il ministero dell’Istruzione rende ufficiali i tagli agli organici del personale docente. Ed è il Sud che, soprattutto nella scuola primaria, viene penalizzato due volte: per la mancanza di servizi e per i posti che perde. Il tutto a prescindere dal calo degli alunni, che pure c’è.
Ma andiamo con ordine. Più di metà degli oltre 37 mila posti che svaniranno dal prossimo settembre verranno tagliati nelle regioni meridionali. Il dato diventa imbarazzante nella scuola elementare, dove due cattedre su tre salteranno proprio al Sud. Da mesi i sindacati parlavano di accanimento verso la scuola nel Sud.
Il taglio all’organico nella scuola primaria, che incide per quasi un terzo del taglio complessivo, colpirà soprattutto il cosiddetto tempo normale: le 24, 27 e 30 ore settimanali. Il tempo pieno di 40 ore viene risparmiato. A pagarne le conseguenze saranno quindi le realtà del Paese dove le lezioni pomeridiane alle elementari sono una specie di miraggio. Gli addetti ai lavori sapevano già che le classi di scuola elementare a tempo pieno al Sud sono soltanto otto su 100 mentre al Nord sono il 36 per cento. Stornare dai tagli le classi a tempo normale sarebbe equivalso a penalizzare le regioni del Sud. Ed è proprio quello che è avvenuto.
I numeri, del resto, dicono tutto. Su 9.967 cattedre di scuola primaria che salteranno 6.141 (pari al 62 per cento) si perderanno nelle otto regioni meridionali: Abruzzo, Basilicata, Calabria, Campania, Molise, Puglia, Sardegna e Sicilia. L’effetto si attenua se si considera il taglio complessivo (su scuola primaria, media e superiore): su 36.854 cattedre tagliate 20.311 salteranno al Sud. Un effetto che la Flc Cgil considera "disastroso".
Il taglio più consistente si abbatterà sulla scuola secondaria di primo grado (l’ex scuola media) che, soprattutto per effetto del calo delle ore di lezione, vedrà svanire di botto 15.541 cattedre: una su dieci. Saranno i docenti di Italiano e Tecnologia i più tartassati. Segue la scuola secondaria di secondo grado che, attraverso la formazione di classi più affollate, perderà 11.346 cattedre.
E per comprendere che, riguardo alla primaria, il calo della popolazione scolastica non c’entra nulla basta citare un paio di numeri. Secondo le previsioni di viale Trastevere sul cosiddetto organico di diritto, il prossimo anno le regioni meridionali perderanno 6.718 alunni (pari allo 0,66 per cento) e i posti tagliati saranno quasi altrettanti. In sostanza, le regioni del Sud perderanno un posto per ogni alunno in meno. Complessivamente, la regione che dovrà subire il taglio maggiore sarà la Campania: 5.628 cattedre in meno. La Lombardia, che per numero di alunni supera tutte le altre regioni, perderà poco meno di 4.000 cattedre (3.998 in tutto).
* la Repubblica, 24 marzo 2009
La mappa della protesta
Università, cortei e occupazioni
Scuola, migliaia di email al Quirinale: non firmi il decreto. Napolitano: decide l’Aula
MILANO - Alle 11, davanti all’università Statale di Milano, gli studenti «contestatori» sono un centinaio. Raggiungono i piani alti dell’ateneo. Per un’ora occupano l’ufficio del rettore, Enrico Decleva. Gli chiedono (senza riuscirci) di firmare contro «la scure della coppia Tremonti-Gelmini», pena lo stop alle lezioni. Anche Roma protesta: «Blocco dell’anno accademico», annunciano i collettivi della Sapienza occupando la presidenza di Scienze. E così fanno Torino, Napoli, Palermo. No ai tagli all’università. Ma anche il mondo della scuola torna (di nuovo) a farsi sentire. Con una valanga di email che da qualche giorno sta intasando il sito del presidente della Repubblica: «No al maestro unico». Una giornata per contestare il crollo dei finanziamenti destinati ad atenei e accademie, la riduzione delle borse di studio, la «precarizzazione» del corpo docente. No alla legge 133/2008. Lo gridano gli studenti, lo ripetono ricercatori, dottorandi, assegnisti, professori. Di tutta Italia.
Tanto da azzardare un paragone: il 2008 come il ’68? Presto per dirlo. Ma le premesse, giurano in molti, ci sono tutte. Le proteste: blocco della didattica a Firenze e Napoli, stop alle cerimonie di apertura dell’anno accademico a Torino, volantinaggi con conseguenti ingorghi del traffico a Parma, consigli straordinari a Pisa, lezioni all’aperto a Palermo, raccolte di firme a Roma. A Cagliari i docenti hanno consegnato le rinunce agli incarichi di presidenza, mentre negli atenei calabresi è stato proclamato lo stato di agitazione. I
l mondo dell’istruzione mobilitato: un tam-tam che passa per le aule, tocca le famiglie, scova professori, raggiunge riunioni di Senato Accademico (oggi a Milano è previsto l’«assalto» da parte dei ragazzi e dei ricercatori). E arriva fino al Quirinale. Via internet. Il ritmo è di una email ogni due-tre minuti (c’è quella inviata dalla scrittrice Dacia Maraini). Il testo: «Presidente Napolitano non firmare la legge Gelmini sul maestro unico». Un appello senza precedenti: migliaia di sms che da qualche giorno rimbalzano sui telefonini di tutto il Paese. Istruzioni: «Vai sul sito www.quirinale.it e scrivi al presidente della Repubblica di non firmare il decreto Gelmini».
Qualcuno altro si è spinto oltre: «Se raggiungeremo quota ventimila mail, il capo dello Stato dovrà tenere conto del nostro appello». Ipotesi remota. Anzi, Napolitano è stato costretto a ricordare, pubblicamente, i suoi compiti. «La riforma della scuola è ancora all’esame del Parlamento. Inoltre, secondo la Costituzione, è proprio del Parlamento la responsabilità delle scelte politiche». E dunque: «Il presidente ha, in ogni caso, l’obbligo di promulgare le leggi, qualora le stesse siano nuovamente approvate, anche nel medesimo testo».
Altra protesta virtuale, altrettanto veloce e numerosa: su Facebook sono più di undicimila gli italiani che hanno aderito all’iniziativa di sostegno all’istruzione pubblica contro la legge 133. Le motivazioni: «Questo governo vuole ridurre i fondi alle università di 500 milioni di euro nei prossimi tre anni, limitare il turnover al 20 per cento dei pensionamenti provocando un’inevitabile fuga di cervelli».
Elementari, medie, accademie. La rivolta cresce. Dagli Stati Generali degli atenei agli scioperi di venerdì 17 e di giovedì 30. Perfino Alessandro Mazzucco, rettore a Verona, osserva: «Se le cose continueranno a seguire questa direzione, nel 2010 tutte e 66 le università statali italiane saranno in emergenza».
Alessandra Arachi
Annachiara Sacchi
* Corriere della Sera, 14 ottobre 2008
Assemblea delle scuole del milanese
DICONO CHE UNA BUONA SCUOLA PER TUTTI E PER TUTTE È UN LUSSO CHE NON CI POSSIAMO PERMETTERE.
E I BAMBINI E LE BAMBINE? BASTA CHE SAPPIANO LEGGERE, SCRIVERE
E FAR DI CONTO.
PER QUESTO HANNO DECISO DI DISTRUGGERE
LA SCUOLA DELLA COSTITUZIONE.
NOI NON CI STIAMO
Spunta a sorpresa l’accorpamento degli istituti con meno di 50 alunni
Colpite le isole e i paesi montani. Mercedes Bresso: "Solo in Piemonte 816 in meno"
Nel decreto sanità i tagli alle scuole
in un anno possono sparirne 4mila
di SALVO INTRAVAIA *
Le scuole nelle piccole isole e nei piccoli comuni montani potrebbero sparire già dal prossimo anno. In poche settimane, infatti, le Regioni dovranno predisporre i Piani di dimensionamento della rete scolastica. Il diktat del ministro dell’Istruzione, Mariastella Gelmini, alle autonomie locali arriva "nascosto" in un provvedimento che apparentemente non ha nulla a che vedere con la scuola: il decreto-legge 154 dal titolo "Disposizioni urgenti per il contenimento della spesa sanitaria e in materia di regolazioni contabili con le autonomie locali" ha l’intero articolo 3 dedicato alla riduzione delle istituzioni scolastiche sottodimensionate. Il tutto in linea con il Piano che detta le regole per tagliare in un triennio 132mila posti.
Per effettuare i poderosi tagli imposti dal collega dell’Economia, Giulio Tremonti, sulla scuola occorre mettere mano alla rete scolastica. Infatti, accorpare due scuole con meno di 500 alunni consente di tagliare almeno un posto di dirigente scolastico e uno di direttore dei servizi amministrativi (l’ex segretario). E anche se l’argomento è di competenza delle autonomie locali il governo non si perde d’animo. Per ridisegnare la mappa delle istituzioni scolastiche (quelle che hanno personalità giuridica) il decreto dà tempo alle Regioni fino al 30 novembre prossimo. Ma non solo. Le amministrazioni che dovessero risultare inadempienti, dopo appena 15 giorni, verranno "sollevate dall’incarico".
Ad occuparsene sarà lo stesso esecutivo. "Il presidente del Consiglio dei ministri - recita il provvedimento - diffida le regioni e gli enti locali inadempienti ad adottare, entro quindici giorni, tutti gli atti amministrativi, organizzativi e gestionali idonei a garantire il conseguimento degli obiettivi di ridimensionamento della rete scolastica". Se la diffida non sortisce effetti scattano le maniere forti. "Ove le regioni e gli enti locali competenti - prosegue il provvedimento - non adempiano alla predetta diffida, il Consiglio dei ministri nomina un commissario ad acta". Scaricando gli eventuali oneri derivanti da tale nomina alle regioni e degli enti locali.
E sono già partite le polemiche. Il presidente della regione Piemonte, Mercedes Bresso e l’assessore all’istruzione, Gianna Pentenero denunciano: "Così il governo ha deciso di tagliare 816 scuole solo in Piemonte". Gli fa eco l’assessore all’istruzione della regione Umbria Maria Prodi, preoccupata che così "la scuola sarà agonizzante, senza risorse, penalizzata da tagli imposti senza alcuna ragionevolezza".
In tutto il territorio nazionale sono 4.200 i plessi con meno di 50 alunni. Rischiano di ritrovarsi senza scuola i bambini di tanti piccoli centri di montagna e delle piccole isole: Capri, Favignana e dell’arcipelago delle Eolie.
Per chiarire meglio la questione è opportuno citare qualche dato. Il servizio scolastico statale, in Italia, è erogato da 10.760 istituzioni scolastiche che si articolano sul territorio in 41.862 scuola (plessi, sedi centrali e distaccate, succursali). Per ridurre la dotazione di dirigenti scolastici, dei segretari e del personale Ata basta smembrare e accorpare ad altri istituti le istituzioni scolastiche che, ai sensi di una norma del 1998, risultano sottodimensionate: con meno di 500 alunni. In tutta la Penisola, secondo i conti fatti da viale Trastevere, ce ne sarebbero quasi 2.600: il 24 per cento.
La stessa norma consente ai soli istituti comprensivi (di scuola dell’infanzia, primaria e media) ubicati in piccole isole e zone di montagna di scendere fino a 300 alunni, ma non oltre. Attualmente, da Nord a Sud, ci sono sparse nei centri più arroccati o nelle isole più piccole del Paese oltre 600 istituzioni scolastiche con meno di 300 alunni, che le regioni dovrebbero cancellare. Per la verità, la stessa norma stabilisce che gli istituti con oltre 900 alunni andrebbero suddivisi in due (o in tre) per evitare situazioni di estrema complessità. Ma nel Piano della Gelmini degli oltre 2.600 istituti "over size" non si parla.
* la Repubblica, 11 ottobre 2008.
Una scuola a pezzi Quei ragazzi che non hanno futuro
Un mondo in cui ciascuno ha rinunciato a offrire e a prendere alcunché Studenti somari e razzisti. Professori presi da incombenze burocratiche
di Michele Serra (la Repubblica 25.09.2008)
Se il discorso sulla scuola ha assunto, in Italia, toni aspri e quasi vocianti, è perché parlando di scuola si parla dei giovani e dunque si evoca il futuro, che è il più disturbante dei concetti in tempi di declino sociale come questo. E poi perché la parola scuola chiama in causa un "pacchetto di crisi" fin troppo denso: la crisi dell’autorità, quella della cultura come cardine della persona, quella degli adulti incerti depositari di ancora più incerte "regole". In Francia ha avuto grande successo il romanzo di un giovane insegnante, François Bégaudeau, che ha ispirato il film vincitore della Palma d’oro a Cannes. Il titolo originale del libro era Entre les murs, dentro i muri, perfettamente indicativo dell’atmosfera claustrofobica che lo pervade. Il titolo italiano, meno severo, è La classe (Einaudi Stile libero, pagg. 228, euro 16), e sembra quasi voler riportare questo desolato best-seller in una letteratura "di genere", sulla scia fortunata del primo Starnone e dell’ultimo Pennac. Con eventuale ammicco a un sottogenere pop, quello del computo allegro degli svarioni studenteschi, tipo Io speriamo che me la cavo o il vecchio classico per ragazzi francese La fiera delle castronerie. Ma attenzione: i circa vent’anni che separano la generazione di Starnone e Pennac (diciamo, per comodità, quella "sessantottina") da quella di Bégaudau sono un vero e proprio baratro.
La scuola raccontata da Starnone e Pennac è ancora un lascito, seppure residuo, dell’umanesimo. L’ironia amara, lo sguardo smagato su ragazzi e adulti lascia ancora intatta l’illusione di un passaggio di consegne, di un apprendistato, più ancora che alla cultura, alla civiltà e forse alla vita. Leggendo Bégaudeau, la sua stagnante, ossessionata trascrizione di un dialogo impossibile, ci si ritrova piuttosto immersi in una post-scuola, una scuola svuotata di sé nella quale ciascuno ha rinunciato a offrire o prendere alcunché, e insegnanti frustrati oppure inaciditi, e alunni maneschi e rincoglioniti dal consumismo, trascorrono un intero anno rimanendo fermi al punto di partenza, senza procedere di un passo verso quel percorso scolastico che, burocrazia a parte, è pur sempre la ragione di un anno di lavoro e di vita. Un anno: per un adolescente un’enormità, un tempo immenso di crescita e di occasioni, che nella scuola di Bégaudeau diventa però un tempo puntiforme, una spirale viziosa che lascia ciascuna delle due parti, ragazzi e professori, nella propria inerte impotenza.
La staticità del libro è prima di tutto stilistica. La povertà verbale è il frutto evidente di un accurato lavoro letterario, imitativo della supposta povertà della realtà scolastica e soprattutto del linguaggio dei liceali. Il battito delle frasi è quello di un rap, concetti mozzi e ripetuti, sguardi veloci sui marchi delle felpe come principale identità degli studenti, niente che sembri portare a qualcosa o allontanarsi da qualcos’altro. Il tutto contrappuntato dalle conversazioni vaghe e strascicate della sala professori, perse tra qualche incombenza burocratica e rivendicazioni "sindacali" striminzite sull’efficienza della macchinetta del caffè. Oppure ? in un rigurgito di "autorità" che è anche il massimo exploit dell’impotenza ? dalle delibere di espulsione che, a raffica, colpiscono gli studenti più insopportabili. Il genere della Classe, dunque, non è tanto il "romanzo scolastico", quanto il no-future. La mancanza di movimento. La perdita di direzione. La sensazione di ultima spiaggia.
Appesantita, per giunta, dall’onnipresenza (anche lei ossessiva) di una multiculturalità descritta come un ingovernabile equivoco, un ginepraio di pregiudizi e diffidenze che l’io narrante, il giovane prof Bégaudeau, affronta con una stizza inconsolabile (forse la stizza dei "politicamente corretti" sconfitti dall’evidenza), masticando come un fiele il nodo di una diversità babelica, inconciliabile, sorda ai richiami della tolleranza e della comprensione. Tanto che la pagina più potente e liberatoria del romanzo è un secco sfogo nel quale il professore dà del pezzo di merda, in massa, all’intero corpo studentesco, affogando dentro la sua rabbia anche le deboli tracce di umanità che è riuscito a scorgere nei singoli studenti, infine rinnegati anche dal docente, perfino dal docente, che li caccia volentieri nel girone infernale della Massa Amorfa, più interessata alle felpe e ai telefonini che alla propria decenza mentale.
Insomma: un libro terribilmente doloroso, di accurato pessimismo, con la patina di "divertente", evocata in copertina nell’edizione italiana, che si lacera dopo poche pagine. Resta da riflettere sul grande successo, in Francia, di un romanzo così implacabile, che non lascia spiragli, non concede alibi né agli adulti né ai ragazzi, i primi visti come neghittosi sorveglianti del nulla, i secondi come insorvegliabili somari, razzisti, ottusi, consumisti bulimici, potenziali violenti che stazionano "dentro i muri" come cavie in una gabbia, e senza neanche la discutibile soddisfazione di essere cavie di un esperimento. Perché un esperimento non c’è.
Se questa è davvero la scuola, in Francia e qui da noi, ovunque nell’Occidente spento di energie e debole di identità, viene da dire che hanno ragione i restauratori politici che, a furor di popolo, vogliono tornare ai vecchi metodi: al posto del ministro Gelmini, sorvolerei sulla natura letteraria del lavoro di Bégaudeau e inserirei il suo romanzo in ogni dossier ministeriale che voglia liquidare tutte le esperienze pedagogiche dell’ultimo mezzo secolo e riportare Legge e Ordine tra i banchi.
A me, piuttosto, è venuta voglia, come antidoto, di rileggere Starnone e Pennac, oppure gli interventi di Marco Lodoli su questo giornale, nei quali la percezione del disastro sociale e scolastico non è certo attenuata, ma lo sguardo di chi lo osserva è ? non so come dirlo altrimenti ? umanamente partecipe. Dev’essere una questione di generazione, Régaudeau e il suo rap disperato sono probabilmente più sintonici con i tempi, e magari i ragazzi di oggi possono davvero leggere "divertendosi" un libro che li raffigura come ectoplasmi nevrastenici, come nullità ringhiose, e però lo fa con il ritmo giusto, riconoscibile, se posso dire: alla moda.
Ma se non si riesce più a trovare, o almeno a cercare il bandolo di un significato, di un destino, di un rapporto di emulazione e sfida tra adulti e ragazzi, allora hanno ragione i vecchi reazionari quando dicono "ci vorrebbe una bella guerra ogni tanto", a raddrizzare la gioventù, a selezionarla meglio di un sette in condotta o di una bocciatura. Ecco, "La classe" è un libro post-scolastico e pre-bellico: arrivato in fondo al viaggio, anzi al non-viaggio, un lettore disposto al paradosso pensa che l’anno prossimo quelle truppe di giovani felpate e smidollate, per ritrovare nerbo e disciplina, e magari dotarsi di un concetto di Patria che rimedi alle vaghezze del multiculturalismo, non dovrebbero più rientrare a scuola, ma in caserma. Dev’essere per questo che giovani ministri (poco più anziani di Bégaudeau) tendono a confondere scuola e caserma.
La scure sulla «scuola in pigiama» per i bimbi malati di cancro
di Giuseppe Vittori *
Taglieranno la scuola ai bambini malati di tumore nel Policlinico di Bari. L’allarme l’ha dato l’edizione locale di Repubblica: in settembre la classe di scuola media attiva da anni nel reparto di Pediatria non riaprirà i battenti. I tagli del ministero per la Pubblica istruzione si sono abbattuti sugli ultimi indifesi. Eppure la scuola per bambini lungodegenti - che siano malati di cancro e leucemia, che siano costretti a lunghi ricoveri per altre patologie non meno complesse - è una sperimentazione avanzata in Italia, mentre in Svezia o in Inghilterra è esperienza consolidata.
Nata una ventina di anni fa a Genova, la «scuola in pigiama» prevede insegnanti e aule, compiti e esami; non le classi. Come nelle scuole dei paesini di montagna, si lavora tutti insieme, sotto la guida di insegnanti distaccate. E sono proprio le insegnanti che verranno a mancare al Policlinico di Bari. Quando la direttrice della media Tommaso Fiore, da cui dipende la sezione «in pigiama», ne ha chiesto il rinnovo, dal Provveditorato è arrivato il no. «Ci sono stati assegnati 4000 insegnanti in meno, abbiamo dovuto tagliare. Decine sono gli istituti che ci chiedono altri professori, alla fine siamo stati costretti a scegliere».
Miracoli dell’efficienza tremontiana. È vero, le scuole negli ospedali sono economicamente svantaggiose, costano di più rispetto a quelle «normali» - un professore per ogni materia e un numero di bambini variabile, purtroppo molto variabile - e nel magico mondo del liberismo saranno le prime ad essere tagliate. Ma anche quei bambini hanno diritto allo studio, tanto più se precocemente segnati da un destino di dolore, persino se sono a un passo dalla morte. Avere la scuola li aiuta almeno a gestire il tempo, a concentrarsi nell’imparare e nel crescere, a comunicare con altri bambini. A sentirsi un po’ meno «malati».
Chissà se da Bari si scatenerà un’epidemia di tagli anche negli altri ospedali. Le scuole-ospedale sono più di 150 in tutt’Italia, tra elementari, medie e licei. E coinvolgono seicento insegnanti almeno. Se la coperta è corta, quella dei bimbi ospedalizzati rischia di essere la più corta di tutte. Lasciando soli anche i genitori, a cui pure la scuola dava per quanto possibile conforto e speranza. «In questi casi la calcolatrice non dovrebbe contare - sostiene la direttrice della media Fiore di Bari - non è da questi poveri ragazzi che lo Stato dovrebbe cercare di risparmiare». Quanto a lei, la direttrice spera di riaprire quella sezione: «Se non possiamo avere nuovi docenti chiederò ai professori che ci sono già di fare gli straordinari per garantire la continuità del servizio».
Negli anni scorsi c’era una scuola elementare all’ospedale infantile Regina Margherita di Torino, 5 insegnanti a tempo pieno, tre a tempo parziale. A Padova in Oncoematologia c’è sia l’elementare (due insegnanti) che la media (aperta nel ‘96, ha sei cattedre). Dal ‘95 la pluriclasse di Ematologia all’ospedale san Salvatore di Pesaro utilizza l’informatica per consentire di seguire anche i ragazzi che stanno in isolamento. All’ospedale Santo Spirito di Pescara, a Ematologia clinica ci sono insegnanti elementari e dell’infanzia, che lavorano in collaborazione con i docenti delle classi di provenienza dei bambini. A Roma c’è la scuola del Policlinico Umberto I, a Ematologia, che ha anche una sezione di scuola superiore legata allo scientifico Levi Civita, 8 docenti in organico. Teledidattica si è sperimentata al Pediatrico Salesi di Ancona insieme ai docenti e ai ragazzi dell’elementare De Amicis.
Ancora. Un progetto del Cnr di Genova oggi usa anche il computer e mette in rete il Gaslini di Genova, il Cannizzaro di Catania, il Bambin Gesù di Roma, il Silvestrini di Perugia consentendo ai bimbi ospedalizzati di comunicare tra loro.
L’elenco potrebbe continuare, sono piccole gocce di civiltà in un mondo di dolore davvero ingiusto. Ma l’esperienza delle scuole in pantofole e pigiama continuerà davvero o cadrà sotto la scure - efficientissima, questa sì - dei tagli?
* l’Unità, Pubblicato il: 22.08.08, Modificato il: 22.08.08 alle ore 10.21
di Fabio Mussi (l’Unità, 24.07.2008)
La sorte dell’università italiana è segnata, allo stato dei fatti. Segnata da un decreto «finanziario», il 112 del 25 giugno, presentato da Tremonti e approvato in nove minuti dal Consiglio dei ministri, che mina una parte essenziale delle conquiste sociali e culturali di età repubblicana. Tre o quatto norme, quasi distrattamente gettate qua e là nel testo, bastano a cambiare radicalmente, in una direzione che sembrerebbe - sembrerebbe... - priva di senso, l’università e la ricerca scientifica. Fatto questo, non c’è più bisogno di portare in Parlamento alcunché. La cosa di cui mi pare ci sia ancora poca consapevolezza, nel campo di quello che fu il centrosinistra, è che patto costituzionale e patto sociale stanno, sotto la potente e debolmente contrastata spinta della destra, rovinando insieme.
Il decreto prevede innanzitutto un costante definanziamento per i prossimi cinque anni. Cinque. Sono gli anni in cui l’Italia dovrebbe onorare gli impegni presi a Lisbona: costruire lo «spazio europeo dell’università e della ricerca», portare gli investimenti al 4.5% del pil. Parlo naturalmente non di spesa, ma di investimenti.
Anche a prescindere dal valore assoluto, fuori da una logica di merce, della conoscenza, è noto che il principale fattore di produttività economica si chiama istruzione, formazione superiore, ricerca. Ci sono stime internazionali: ogni dollaro, o euro, che metti nella ricerca, ne produce tre. Gli obiettivi di Lisbona, che altri Paesi europei hanno già raggiunto, o fortemente avvicinato, sono per il nostro irraggiungibili: ci vorrebbero nei prossimi anni incrementi fino a 40 miliardi di euro l’anno. Scendere, assomiglia al suicidio di una nazione. Formazione superiore e ricerca sono assolutamente sottofinanziati: 0.8% sul pil l’Università, 1.1% la ricerca scientifica (era 1.4%anni fa). Lisbona no, ma almeno le medie europee, almeno le medie di area OCSE! Si tratta per l’Italia di una cifra intorno ai 10 miliardi di euro aggiuntivi. Non dimenticando che negli ultimi venti anni c’è stata nel mondo una impressionante crescita degli investimenti, di cui sono stati protagonisti Stati Uniti, Cina e India, a seguire l’Europa, ma una moltitudine ancora di Paesi di tutti i continenti. Spesa pubblica e privata: in Italia lo Stato ci mette un po’ meno degli altri Stati della Ue, le imprese italiane, mediamente, clamorosamente meno delle loro sorelle europee.
Nei venti mesi del governo Prodi questa è stata una questione molto combattuta. Lo dico per personale esperienza. Quando si decise, con il primo provvedimento finanziario del 2006, con il mio dissenso di ministro, il taglio dei consumi intermedi -che poteva valere intorno ai 100 milioni di euro, norma in extremis poi revocata, si accese un torrido dibattito pubblico, paginate di giornali. Ora Tremonti- Gelmini prevedono un taglio di circa 1.5 miliardi euro nel quinquennio, e si sono letti qua e là degli articoli (per esempio sull’Unità), rari Nantes nel mare magno di una informazione sempre più conformistica e d’intrattenimento, ma nessuna discussione pubblica all’altezza del problema che si apre. Il governo di centrosinistra, nelle sue due finanziarie, aveva stabilizzato la spesa, anzi l’aveva un po’ incrementata, accompagnandola con misure di serietà. Insufficienti? Insufficienti. Con la destra si scende d’un colpo sotto il livello di sopravvivenza. Si apre semplicemente una lotta darwiniana tra istituzioni universitarie e centri di ricerca. Di dove cominceranno i tagli? Certamente riguarderanno tanto la didattica quanto la ricerca, e saranno colpiti i più giovani. Vedo che ci sono gà atenei che dichiarano di non poter rispettare la norma dell’aumento delle borse di dottorato, che era garantito dal Fondo di finanziamento 2008. Lo stesso passaggio dalla biennalità alla triennalità degli scatti di carriera (che non ha nulla a che fare con la premialità del merito e dell’impegno) colpirà soprattutto i docenti e i ricercatori più giovani, all’inizio della carriera. Una cosa è sicura: aumenteranno fortemente le tasse. E così, per un certo numero di nonni che potranno comprare qualche pacco di pasta al supermercato con la social card , ci saranno milioni di nipoti le cui famiglie dovranno versare molto molto di più. Però, com’è noto, la destra non mette le mani in tasca dei cittadini, mai e per definizione...
Ma la trappola mortale per giovani, nel decreto del governo Berlusconi, è la norma che limita il turn over al 20% delle uscite. Abbiamo il corpo docente universitario più vecchio del mondo, organizzato in una struttura di ordinari, associati e ricercatori, bizzarra e altrove sconosciuta. In pochi anni, almeno la metà dei docenti in attività andrà in pensione. Una occasione importante di riequilibrio e di rinnovamento. Se ne entra solo uno ogni cinque che escono, si brucerà una generazione intera di giovani di talento, quelli stessi che già oggi a migliaia emigrano, senza essere compensati da loro coetanei che arrivano da altri Paesi. Si ridurrà drasticamente il corpo docente, senza ridurne significativamente l’età media. Nella legge che proibisce ai giornali di pubblicare certe notizie giudiziarie in loro possesso, sarebbe opportuno allora fare un emendamento: "Di qui in avanti è proibito, per decenza, scrivere e stampare la frase: fuga dei cervelli".
È evidente che tutta questa roba non ha niente a che fare con una strategia della qualità e di innalzamento degli standard del sistema universitario. E che le nuove norme creeranno un groviglio inestricabile di problemi. Sono sicuro che lo sa bene Giulio Tremonti, visore globale e autore della geniale irresistibile gag nella quale appaiono quali responsabili del mercatismo liberista l’Illuminismo, la Rivoluzione francese e il comunismo. Lo vede talmente bene che una soluzione l’ha trovata: le università possono trasformarsi in fondazioni di diritto privato. A parte il fatto che il trasferimento diretto dallo Stato è in Italia due punti sotto la media europea (documentazione presentata al Meeting di Londra sul "Processo di Bologna" nel giugno 2007), e già molte università , oltre al gettito tutt’altro che trascurabile delle tasse degli studenti, già attingono a rilevanti risorse autoprocurate. A parte il fatto che in Italia non ci sono né i Rockfeller che mettono soldi nelle Foundations, né i Guggenheim che li mettono nell’arte, né mecenati che elargiscono con liberalità alla scienza e alla cultura (anche lì. negli Usa, non sempre disinteressatamente, magari per comprarsi l’accesso a prestigiose ed esclusive università per i figli bighelloni).
Si capisce l’idea del governo di destra: privatizzare. E magari si muoverà di certo qualche privato (e magari qualche privato che prende molti soldi dallo Stato, magari un qualche otto per mille).
Il punto è che, con tutti gli innegabili guai dei grandi sistemi pubblici, l’eccellenza è pubblica: nella sanità, nella scuola, nell’università, nella ricerca. Che qualità, merito ed efficienza siano una esclusiva del privato, non è un fatto, ma, come diceva Norman Mailer, un "fattoide", cioè una balla: Una balla di successo, ma una balla. Tutti i nostri sistemi sono misti, c’è il pubblico e c’è il privato. Quando relazioni sono pulite, questo è un valore.
Ma se si smantella il pubblico -in quei territori che hanno a che fare per esempio con la salute, il patrimonio culturale e la conoscenza - non è il moderno che arriva, è il passato che torna. Come è tornato il passato remoto con il "Lodo Alfano", un pezzo di diritto medievale scagliato nel presente. Bisogna muoversi, ora.
Toni preoccupati nel Bollettino economico di via Nazionale
"Famiglie in difficoltà, consumi in calo, investimenti fermi"
Bankitalia lancia l’allarme
"Il Paese è in stallo e non cresce"
Veltroni: "Situazione drammatica, ma il governo la sottovaluta"
ROMA - E’ un quadro a tinte fosche quello dipinto da Bankitalia nel suo Bollettino economico. Un quadro che raffigura un Paese in stallo, dove manca la produttività, dove la crescita del Pil non supererà lo 0,4% nel 2008 e nel 2009. Dove i consumi stagnano, gli investimenti sono fermi, il potere d’acquisto delle famiglie è eroso dalla corsa del costo della vita, con la produzione industriale in calo dell’1% nel secondo trimestre dell’anno. E se ci sono rischi, avverte Palazzo Koch, sono verso un ulteriore peggioramento del quadro se il prezzo del petrolio dovesse continuare a salire.
Pil. Crescita poco sopra allo zero. Il prodotto interno lordo crescerà di appena lo 0,4% sia quest’anno che il prossimo, con un taglio pari rispettivamente allo 0,6% e allo 0,7% rispetto alle stime di gennaio scorso.
Consumi. L’incremento dei consumi privati non andrà oltre lo 0,2% nel 2008 e lo 0,3% nel 2009, appesantito dalla modesta crescita del reddito disponibile reale del settore privato, "compresso"compresso dagli effetti della maggiore inflazione. In forte difficoltà la spesa per beni durevoli (-2%), soprattutto per effetto del deciso calo delle immatricolazioni di autovetture (-10,4%). Rallenta anche la spesa alimentare, frenata dai rincari.
Potere d’acquisto. Prosegue la flessione del potere d’acquisto dei consumatori italiani. Dal Bollettino emerge che "alla fine del biennio 2008-2009, il potere d’acquisto sarebbe ancora inferiore a quello medio del 2007", alla luce del peggioramento del reddito disponibile reale del settore privato che "verrebbe compresso dagli effetti della maggiore inflazione, sia per via diretta sia indirettamente". Per questo motivo, "anche in presenza di una sensibile contrazione del saggio di risparmio, i consumi privati risulterebbero poco più che stagnanti sia quest’anno sia il prossimo".
Inflazione. L’inflazione si manterrà sopra il 3% per tutto il 2008 e si attesterà al 3,8% nella media dell’intero anno per poi scendere al 2,8% nel 2009 su base armonizzata Ue. Ma la Banca d’Italia avverte: il ritorno del costo della vita verso tassi vicini al 2% si potrà realizzare nel 2009 solo "nell’ipotesi che il suo rialzo corrente non si ripercuota sul processo di determinazione di salari e prezzi e resti moderata la dinamica dei costi interni".
Investimenti. Gli investimenti fissi lordi restano sui livelli del 2007, facendo segnare un incremento complessivo nell’arco del biennio pari a circa mezzo punto percentuale. L’accumulazione di capitale produttivo si contrae dello 0,7% nella media del 2008 e resta ferma nel 2009.
Competitività in calo. L’Italia continua a perdere colpi. La competitività delle nostre merci risente negativamente di una crescita della produttività che rimane inferiore a quella delle altre principali economie dell’area dell’Euro, oltre che dell’effetto dell’apprezzamento della moneta europea. Il divario di competitività risulta assai superiore se misurato con l’indice basato sul Clup (il costo del lavoro per unità di prodotto). Nella seconda parte del 2007 e nei primi mesi del 2008 le retribuzioni hanno registrato una "repentina accelerazione per effetto dei rinnovi contrattuali e di erogazioni una tantum". Ne è risultato un aumento nel ritmo di crescita del Clup salito - tra l’inizio dello scorso anno e il primo trimestre del 2008 - dall’1,7 a oltre il 5 per cento nell’industria e dallo 0,3 al 4,5 per cento nell’intera economia.
Cala la produzione industriale. Dopo un balzo a gennaio la produzione industriale continua a perdere colpi. Secondo Bankitalia si registra una contrazione di circa un punto percentuale, "in un quadro di progressivo peggioramento degli indicatori di fiducia delle imprese e di flessione degli ordini interni ed esteri".
I commenti. Quello che emerge dall’ultimo Bollettino della Banca d’Italia è "un quadro preoccupante ma ampiamente previsto", secondo i leader di Cgil, Cisl e Uil, Guglielmo Epifani, Raffaele Bonanni e Luigi Angeletti. Secondo il segretario del Pd Walter Veltroni i dati "Confermano in modo evidente la drammaticità di una situazione che sta diventando una vera emergenza". Nonostante questo, "da parte del governo c’è totale sottovalutazione", accusa Veltroni.
Si moltiplicano le critiche alle misure inserite nel dl che anticipa la Finanziaria
Chieste modifiche immediate, mentre c’è chi minaccia drastiche contestazioni
Università, la protesta dilaga
"Via i tagli o stop alle lezioni"
di ANDREA BETTINI *
ROMA - Contestazioni, minacce di bloccare lezioni, esami e sessioni di laurea, allusioni nemmeno troppo velate allo stop del prossimo anno accademico. Chi si attendeva un’estate di transizione ed un eventuale autunno di proteste, a quanto pare, era troppo ottimista. In molte università italiane è già iniziata la mobilitazione contro i tagli decisi dal governo il 25 giugno con il decreto che anticipa la manovra Finanziaria. Una protesta che sta dilagando e che, con toni e modalità diverse, coinvolge rettori, docenti, ricercatori e personale amministrativo.
Le spiegazioni e le rassicurazioni del ministro dell’Istruzione Mariastella Gelmini, che di fronte alle prime polemiche ha parlato di "scelte dolorose ma indispensabili" e di "tagli sulla base di indicatori di merito", sembrano non essere riuscite a fermare le critiche. Mentre si moltiplicano le assemblee e gli allarmi per il futuro dell’università, la richiesta dei contestatori è sostanzialmente unanime: stralciare dal decreto alcune delle principali novità oppure modificarle durante l’iter parlamentare per la conversione in legge. Una posizione che sarà probabilmente ribadita il 22 luglio a Roma, quando alla Sapienza si svolgerà un’assemblea nazionale dei rappresentanti di tutte le componenti universitarie.
I punti contestati. A preoccupare il mondo accademico sono diversi provvedimenti. Il più criticato è la graduale riduzione, collegata ad una forte stretta sulle assunzioni, del Fondo di finanziamento ordinario, con risparmi di circa 1,5 miliardi di euro fino al 2013. Contestate anche le misure sugli stipendi, con scatti di anzianità dei docenti che da biennali diventeranno triennali ed una riduzione del Fondo di contrattazione integrativa del personale amministrativo. Molta perplessità, infine, anche sulla possibilità per gli atenei di trasformarsi in Fondazioni di diritto privato.
"Interventi inaccettabili". Dopo la bocciatura unanime da parte della Conferenza dei rettori, secondo la quale i tagli porteranno inevitabilmente il sistema al dissesto, dai vertici delle università continuano a piovere critiche nei confronti del decreto legge. Una mozione approvata ieri dai Senati accademici degli atenei toscani definisce interventi gravi e "inaccettabili" la riduzione dei trasferimenti statali e la limitazione "improvvisa, indiscriminata e pesante" del turnover dei dipendenti e chiede lo stralcio dal decreto delle norme che si riferiscono all’università. Venerdì scorso, invece, i quattro rettori delle università dell’Emilia-Romagna hanno denunciato che la "riduzione drastica delle risorse finanziarie e umane, oltre a mortificare l’intero insieme di professionalità e competenze all’università, mette a serio rischio la funzione didattica e nel contempo la sostenibilità delle attività di ricerca" e hanno convocato per il 21 luglio una riunione straordinaria congiunta dei quattro Senati accademici e dei consigli di amministrazione.
La mobilitazione. In molte università si stanno già mettendo a punto forme concrete di lotta. Ieri un’assemblea generale dei lavoratori e degli studenti degli atenei napoletani, indetta da Flc Cgil, Cisl Università e Uil Pa-Ur, ha deciso, tra l’altro, l’astensione "a tempo indeterminato dei docenti e ricercatori dalla partecipazione a organi collegiali" ed il ritiro della "disponibilità a ricoprire incarichi didattici per il prossimo anno accademico". Il 9 luglio, invece, l’assemblea del personale delle università "Cà Foscari" e Iuav di Venezia ha ipotizzato "il rifiuto di svolgere carichi didattici superiori alle richieste di legge, il blocco degli esami, delle sessioni di laurea e delle lezioni". Lo stesso giorno, all’università di Sassari, l’assemblea dei docenti ha invece dichiarato lo stato di agitazione dell’ateneo e non ha escluso "per quanto con doverose riserve ed a fronte di un ulteriore irrigidimento della controparte, il ricorso ad azioni più eclatanti quali la possibilità del blocco degli esami di profitto e di laurea".
"A rischio il prossimo anno accademico". Una delle prese di posizione più nette nei confronti delle decisioni del governo è quella del Senato accademico dell’università "La Sapienza" di Roma. Martedì 8 luglio, prospettando un "danno grave per l’avvenire dei giovani e per lo sviluppo del Paese", ha chiesto lo stralcio della parte del decreto relativa all’università e ha indetto una giornata nazionale di protesta dicendosi consapevole "che in queste condizioni non sarà possibile dare inizio al prossimo anno accademico".
La petizione online. Il Coordinamento Giovani Accademici, intanto, ha pubblicato sul proprio sito internet una petizione in cui denuncia tra l’altro che la stretta sugli stipendi ridurrebbe i compensi annui lordi a fine carriera di 16mila euro per i professori ordinari, di 11mila euro per gli associati e di 7mila per i ricercatori. Il documento, che chiede un nuovo approccio nei confronti dell’università italiana, è già stato sottoscritto da più di 3.100 tra docenti, ricercatori e studenti preoccupati per il proprio futuro e per quello degli atenei.
* la Repubblica, 15 luglio 2008.
Sull’arresto di Del Turco dice: "Spesso teoremi accusatori sono infondati"
L’Anm: "Il premier discredita la magistratura senza conoscere i fatti"
Berlusconi: "Serve riforma
radicale della giustizia"
PARIGI - Non basta. Non basta lo scudo penale per le quattro più alte cariche dello stato. Non basta la norma "blocca processi" diventata "slitta processi". Per il premier "c’è la necessita ab imis di una riforma del sistema giudiziario italiano". Berlusconi parla con i cronisti a Parigi al termine del vertice Euromed. Anche con la separazione delle carriere? "Io credo - risponde il premier - che si debba fare di più". Quanto di più? "Molto di più..." aggiunge il premier.
I teoremi "infondati" delle procure. L’occasione questa volta non sono i "suoi" processi e le inchieste che lo vedono coinvolto. Bensì l’arresto del presidente della regione Abruzzo Ottaviano del Turco (Pd) al centro, secondo le accuse, con la sua giunta di centrosinistra di un comitato di affari che lucrava sul sistema sanitario regionale. "Spesso i teoremi accusatori sono infondati" dice Berlusconi molto colpito dall’inchiesta della Guardia di finanza. "Mi sembra molto strana - aggiunge - una decapitazione completa, quasi una retata, di un intero governo di una regione". Il premier poi fa notare come per lui "non ha alcuna che venga colpita una parte politica o l’altra". Il fatto è che "molto spesso i teoremi accusatori non vengono confermati".
"Serve riforma totale". Da questa constatazione, muove la necessità di una riforma ab imis, cioè totale e in tutte le sue parti del sistema giudiziario italiano. Qualcosa che vada ben oltre la già temuta e più volta respinta dalle toghe separazione delle carriere. "Serve di più - insiste il premier- molto di più". E anche se le ultime riforme - lodo Alfano e slitta processi - vanno "nei binari e nella direzione auspicati", Berlusconi annuncia di voler andare avanti.
La reazione dell’Anm. "Ancora una volta il premier discredita la magistratura" attacca l’Anm. Il sindacato delle toghe che ha appena avuto il tempo di compiacersi per la norma slitta processi, la modifica sostanziale dell’emendamento al decreto sicurezza che riconsegna ai Presidenti dei tribunali la facoltà di far slittare i procedimenti per crimini avvenuti prima del 2 maggio 2006 e puniti con una pena inferiore ai quattro anni di carcere. E subito deve rimettersi in guardia per le ulteriori modifiche annunciate dal premier. Per il segretario Giuseppe Cascini la generica accusa alla magistratura inquirente di procedere per teoremi non corrisponde ad un metodo di critica "informata e fondata sulla conoscenza degli atti" e "finisce per gettare discredito all’istituzione giudiziaria nel suo complesso". Il "giusto diritto di critica" - osserva il segretario del sindacato delle toghe - dovrebbe essere sempre basato "sulla conoscenza dei fatti e delle carte, soprattutto da parte di chi ricopre incarichi istituzionali".
* la Repubblica, 14 luglio 2008.
I rettori denunciano. Tagli ai fondi e un tentativo di privatizzazione
Tremonti e il decreto «affossa università»
di Pietro Greco (l’Unità, 14.07.2008)
Tagli al Fondo di finanziamento ordinario delle università di 1 miliardo e 443 milioni da qui al 2013. Sostanziale blocco del turn-over: per ogni 10 docenti in uscita solo 2 potranno essere sostituiti. Possibilità per gli atenei di trasformarsi in fondazioni di diritto privato. Per la CRUI, la Conferenza dei rettori delle università italiane, non c’è dubbio: «La prospettiva che emerge chiaramente dalla manovra è quella di un sostanziale, progressivo e irreversibile disimpegno dello Stato dalle sue storiche responsabilità di finanziatore del sistema universitario nazionale».
La manovra che si accinge a realizzare la più radicale riforma dell’università mai effettuata nel nostro Paese e a rivoltare come un calzino il sistema italiano dell’alta educazione è il decreto-legge n. 112 elaborato dal Ministro dell’economia Giulio Tremonti e approvato il 25 giugno 2008 nel famoso Consiglio dei Ministri durato 9 minuti.
Il decreto di Tremonti potrebbe essere ribattezzato «affossa università pubblica» per almeno tre diverse considerazioni. La prima riguarda, appunto, il taglio al Fondo di finanziamento ordinario con cui lo Stato trasferisce i soldi alle università. Questo Fondo ammonta a circa 7 miliardi di euro. Esso serve, per oltre l’88%, a coprire le spese di personale. Il decreto prevede tagli progressivi a questo Fondo di: 63,582 milioni nel 2009; 190,727 nel 2010; 316,622 nel 2011; 417,077 nel 2012; 455,240 nel 2013. Per un totale di 1,443 miliardi in cinque anni.
Il combinato disposto dei tagli e degli aumenti automatici delle spese per gli stipendi del personale (scatti di anzianità previsti dalla legge) farà sì che già nel 2009 oltre il 90% del Fondo di finanziamento ordinario sarà assorbito dalle spese per il personale e che, nel 2013, si andrà oltre il 100%. In altri termini le università non avranno garantiti i soldi per pagare la bolletta della luce e del riscaldamento o per comprare la carta delle fotocopie. Sarà il collasso. Evitabile in un’unica maniera: acquisire fondi privati. O, in maniera improbabile, dalle imprese: che come si sa non hanno in Italia alcuna vocazione alla ricerca e alla formazione. O, come è più probabile, aumentando la retta di iscrizione degli studenti e accelerando l’espulsione dalle università dei giovani appartenenti a famiglie più povere.
Il secondo elemento è il sostanziale blocco del turn-over. Per ogni 10 docenti che andranno in pensione da qui al 2011 (e saranno tanti, vista la loro età media molto elevata), solo 2 potranno essere sostituiti. A partire dal 2012, le sostituzioni possibili saliranno al 50%: uno su due. La piccola università di Udine ha fatto una simulazione. Da qui al 2013, andranno in pensione in quell’ateneo 57 unità di personale. Potranno essere sostituite solo da 13 persone. Meno docenti con minori dotazioni: la qualità dell’offerta didattica nelle università pubbliche italiane è destinata, dunque, a peggiorare. Non è una bella notizia. Anche perché gli investimenti che il nostro paese riserva all’alta educazione già oggi non superano lo 0,88% del Pil: e sono, dunque, un terzo in meno rispetto alla media europea, due terzi in meno rispetto al sistema universitario americano. In questo momento anche la Germania e la Francia stanno rivedendo la loro politica universitaria. Le riforme sono diverse. Ma entrambi aumentano i fondi.
Ma il decreto di Tremonti contiene un ulteriore passaggio. Si dice che le università italiane - se vogliono - potranno trasformarsi in fondazioni di diritto privato. L’idea è chiara. Lo Stato si ritira progressivamente dal settore dell’alta educazione e lascia le università italiane libere di attingere sul mercato i fondi di cui hanno bisogno. Insomma, come rileva il rettore di Udine, il decreto-legge è un frettoloso tentativo di privatizzare il sistema universitario italiano. Il completo ribaltamento di un modello - quello dell’università pubblica - che da almeno un paio di secoli caratterizza l’alta educazione in Italia e in Europa. Sorprendono tre cose, in questa frettolosa operazione.
Primo: che la riforma universitaria avvenga per volontà del Ministro dell’Economia e senza una parola da parte del Ministro dell’Istruzione.
Secondo: che avvenga in maniera nascosta, senza un’ampia e approfondita discussione in Parlamento.
Terzo: che l’opinione pubblica non se ne curi affatto. Solo i rettori si sono mobilitati. E solo il Presidente Giorgio Napolitano nei giorni scorsi ha espresso il suo «vivo interesse per le questioni e per le idee» che gli sono state illustrate da una delegazione di scienziati dell’Osservatorio della Ricerca.
Il resto d’Italia è ignaro o si comporta come se lo fosse. Segno che il nostro paese non ha ancora acquisito piena consapevolezza né del proprio declino né, tanto meno, della cause che lo hanno scatenato.
1938, fuga dei cervelli, dono del Duce agli Usa
di Pietro Greco (l’Unità 14.07.2008)
Dalle leggi razziali al Cern. Due anniversari ci ricordano la dissoluzione della comunità scientifica europea e la fine della sua egemonia. Ma un terzo ne rievoca la rinascita nel dopoguerra, grazie all’impegno di Edoardo Amaldi
Il 14 luglio 1938, settant’anni fa, il Ministro degli Esteri del governo Mussolini, Galeazzo Ciano, annota sul suo diario: «Il Duce mi annuncia la pubblicazione da parte del Giornale d’Italia di uno statement sulle questioni della razza. Figura scritto da un gruppo di studiosi, sotto l’egida del Ministero della Cultura Popolare. Mi dice che in realtà l’ha quasi completamente redatto lui».
L’indomani il Giornale d’Italia sotto il titolo «Il Fascismo e i problemi della razza», pubblica la prima versione del «Manifesto della Razza» firmato da dieci scienziati italiani - tra cui primeggiano l’onorevole Sabato Visco, fisiologo, e il senatore Nicola Pende, endocrinologo - il cui incipit è destinato a diventare tristemente famoso: «Le razze umane esistono». Il manifesto sostiene - senza alcuna base scientifica - che l’umanità, appunto, si divide in razze; che queste razze sono diverse per capacità intellettuali dei propri membri; che esiste anche una «razza italiana» che, naturalmente, è più capace di altre e che bisogna tutelarla da pericolose contaminazioni genetiche. In particolare va tutelata dalle contaminazioni di sangue con una razza palesemente inferiore, quella degli ebrei.
L’ignominia intellettuale del manifesto - che il Duce si vanta di aver contribuito a redigere in prima persona - si traduce ben presto in pratica discriminazione. Già nel mese di settembre il governo di Benito Mussolini vara una serie di leggi che portano all’espulsione degli ebrei dalle scuole e dagli incarichi pubblici. Fu una scelta sciagurata, che ebbe conseguenze tragiche per gli ebrei (e i rom), per l’intero paese e, anche, per la scienza italiana. In poche settimane, per esempio, viene dissolta la fisica di punta. Lasciano l’Italia, infatti, Bruno Rossi ed Enrico Fermi: due giovani che hanno portata rispettivamente la fisica dei raggi cosmici e la fisica nucleare a punte di assoluto valore mondiale. Le loro brillanti scuole, a Padova e a Roma, si dissolvono.
Non è difficile calcolare gli effetti negativi sulla scienza e sulla società italiane di quella successione di eventi. Ci aiutano, fra l’altro, altri due anniversari che ricordiamo questo medesimo anno. Il settantacinquesimo anniversario delle leggi razziali di Hitler, che avevano già prodotto conseguenze nefaste in Germania, e il centesimo anniversario della nascita di Edoardo Amaldi, che si assumerà gran parte dell’onere di ricostruire la scienza italiana ed europea dopo la guerra che devasterà l’Europa di lì a pochi mesi.
Cosa era successo, dunque, in Germania esattamente cinque anni prima? La successione è nota. Il 30 gennaio Hitler viene nominato cancelliere del Reich. Il 27 febbraio fa incendiare il Parlamento (Reichstag). Il 28 gennaio vara il «decreto dell’incendio del Reichstag» e, in nome della sicurezza nazionale, abolisce molti diritti civili. Il 7 aprile con il «paragrafo ariano» della «legge sul ripristino dell’impiego nel pubblico servizio» obbliga tutti coloro che non sono di razza ariana a lasciare ogni incarico pubblico. In breve l’obbligo viene esteso anche agli avvocati e ai medici «non ariani», che non possono più lavorare nei tribunali e negli ospedali. L’idea nazista è che la società tedesca deve essere divisa in due categorie: quella dei Volksgenossen (camerati della nazione), che appartengono alla comunità popolare, e quella dei Gemeinschaftsfremde (stranieri della comunità) che, invece, non appartengono alla storia e alla cultura della Germania. Agli stranieri della comunità appartengono: ebrei, zingari, portatori di handicap, asociali.
Il 14 luglio 1933, 75 anni fa, Hitler vara due nuove norme: una riguarda la revoca della naturalizzazione degli ebrei dell’Europa orientale che hanno avuto la cittadinanza tedesca dopo il 9 novembre 1918. L’altra è la sterilizzazione - «anche contro la volontà del soggetto» - dei portatori di presunte malattie ereditarie.
Negli anni successivi, fino al 1938, c’è uno stillicidio di leggi che accentuano sempre più le discriminazioni razziali. Ma già nel 1933 gli effetti di queste leggi sono evidenti. In primo luogo per la cultura tedesca, fino ad allora leader in Europa. Nei giorni successivi al provvedimento di aprile, infatti, ben 1.200 professori universitari (il 14% dell’intero corpo docente) deve lasciare l’insegnamento. La gran parte emigra all’estero, riparando soprattutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
A soffrirne è in primo luogo la scienza. Da Einstein (già andato via) a Max Born, da James Franck a Fritz Haber lascia infatti la Germania, perché di origine ebrea, una moltitudine di cervelli, quantificata nel 20% degli scienziati e nel 25% dei Nobel scientifici. Non è solo una diaspora, è un vero e proprio ribaltamento polare. L’asse della scienza mondiale - da tre secoli saldamente centrato sull’Europa - si sposta per la prima volta nel Nord America. Giustamente gli storici americani Jean Medawar e David Pyke hanno parlato di «Hitler’s gift», del regalo di Hitler agli Stati Uniti.
Nel 1938, quando l’Italia di Mussolini si accinge a copiare la Germania di Hitler, tutto questo è già sostanzialmente evidente. La cultura di una parte decisiva dell’Europa è già stata distrutta. Mussolini vuole dare il suo ulteriore contributo a quel disastro. E, infatti, in poche settimane - come abbiamo detto - dissolve le due scuole scientifiche più brillanti del paese, quella di Enrico Fermi a Roma e quella di Bruno Rossi a Padova.
Ma dicevamo di un terzo anniversario che ricorre quest’anno. Che è legato ai primi due e che è di segno opposto. Di segno positivo. Nel 2008 ricorre infatti la nascita di Edoardo Amaldi, uno dei «ragazzi di via Panisperna», che ha lavorato con Fermi. L’unico che resta in Italia. E che, sopravvissuto alla guerra, inizierà - a partire già dal 1943 - l’opera della ricostruzione. In Italia e in Europa.
Dalle macerie, che non sono solo metaforiche, Amaldi si muoverà con lucido impegno lungo una serie di linee molto articolate, riconducibili a due grandi obiettivi: fare di necessità virtù e con poche risorse finanziare riportare l’Italia all’avanguardia della fisica mondiale; fare della scienza una leva per la pace in Europa e per la riconquista della leadership scientifica al nostro continente, nell’ambito di una sana competizione solidale col resto del mondo. Due obiettivi che, pur nel mutare delle situazioni, restano più che mai attuali.
Amaldi adotta una lucida strategia per il rilancio italiano. Il paese deve puntare tutte le sue risorse (che sono soprattutto umane) su pochi obiettivi di assoluto prestigio. Ma in cui acquisire una forte indipendenza. Gli obiettivi che Amaldi fissa sono: la fisica dei raggi cosmici nel campo della fisica di base; l’acquisizione di un know how di tutta la filiera del nucleare civile - dalla scienza di base alle applicazioni tecnologiche più spinte - nel campo della fisica applicata per conferire al paese una totale indipendenza in uno dei settori strategici dell’energia; fare più in generale della scienza la leva per portare l’Italia nel novero delle economie più sviluppate. A oltre sessant’anni dall’elaborazione di questa strategia, possiamo dire che Amaldi raggiunge solo il primo degli obiettivi che si prefigge: la fisica italiana ritorna presto tra le migliori al mondo. Gli altri due obiettivi: l’indipendenza energetica fondata su un know how autonomo e un’economia fondata sulla conoscenza, non verranno centrati. E non certo per colpa di Amaldi.
Il quale, invece, ha grande successo lungo l’altro percorso individuato: il ruolo della scienza in Europa. Egli infatti si fa promotore di un grande centro europeo di ricerca, che da un lato possa competere alla pari con Stati Uniti e Unione Sovietica. E dall’altro favorisca finalmente la pace tra i popoli di un continente devastato dai conflitti. In questo riesce, vincendo le resistenze di suoi illustri colleghi, del calibro per intenderci dell’americano Isidor Rabi e del danese Niels Bohr.
Quando, negli anni ‘50 dello scorso secolo, nasce a Ginevra, il Cern, il Centro di ricerca in fisica nucleare voluto da Amaldi, è la prima istituzione comune realizzata dai paesi europei usciti dalla guerra - il primo nucleo di condensazione dell’Unione europea - e il fisico italiano è il suo primo direttore generale.
Oggi il Cern di Ginevra è il più grande laboratorio di fisica al mondo e svolge le ricerche più avanzate nel suo settore. Un piccolo, grande monumento alla nuova Europa che ha saputo superare con progetti di pace e di integrazione culturale la sua pagina più buia: quella della discriminazione razziale.