Senza uguaglianza la democrazia è un regime
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 26.11.2008)
Regime o non-regime? Un confronto su questo dilemma, pur così tanto determinante rispetto al dovere morale che tutti riguarda, ora come sempre, qui come ovunque, di prendere posizione circa la conduzione politica del paese di cui si è cittadini, non è neppure incominciato. La ragione sta, probabilmente, in un’associazione di idee. Se il "regime", inevitabilmente, è quello del ventennio fascista, allora la domanda se in Italia c’è un regime significa se c’è "il" o "un" fascismo; oppure, più in generale, se c’è qualcosa che gli assomigli in autoritarismo, arbitrio, provincialismo, demagogia, manipolazione del consenso, intolleranza, violenza, ecc. Così, una questione seria, anzi cruciale, viene attratta sul terreno, che non si presta all’analisi, della demonizzazione politica, funzionale all’isteria e allo scontro.
Ma "regime" è un termine totalmente neutro, che significa semplicemente modo di reggere le società umane. Parliamo di "Ancien Régime", di regimi repubblicani e democratici, monarchici, parlamentari, presidenziali, liberali, totalitari e, tra gli altri, per l’appunto, di regime fascista. Senza qualificazione, regime non ci dice nulla su cui ci sia da prendere posizione, perché l’essenziale sta nell’aggettivo. Così, assumendo la parola nel suo significato proprio, isolato dalle reminiscenze, la domanda iniziale cambia di senso: da "esiste attualmente un regime" in "il regime attuale è qualcosa di nuovo, rispetto al precedente"?
Che l’Italia viva un’esperienza costituzionale, forse ancora in divenire e dall’esito non scontato, che mira a non lasciarsi confondere con quella che l’ha preceduta: almeno di questo non c’è da dubitare. Lo pensano, e talora lo dicono, tanto i favorevoli, quanto i contrari, cioè lo pensiamo e lo diciamo tutti, con definizioni ora passatiste ora futuriste. Non lo si dice ufficialmente e a cifra tonda, perché il momento è, o sembra, ancora quello dell’incubazione. La covata è a mezzo. L’esito non è scritto. La Costituzione del ’48 non è abolita e, perciò, accredita l’impressione di una certa continuità. Ma è sottoposta a erosioni e svuotamenti di cui nessuno, per ora, può conoscere l’esito. Forze potenti sono all’opera per il suo superamento, ma altre forze possono mobilitarsi per la sua difesa.
La Costituzione è in bilico. Che cosa significa "costituzione in bilico"? Innanzitutto, che non si vive in una legittimità costituzionale generalmente accettata, cioè in una sola concezione della giusta costituzione, ma in (almeno) due che si confrontano. Ogni forma di reggimento politico si basa su un principio essenziale, una molla etica, il ressort di cui parla Montesquieu, trattando delle forme di governo nell’Esprit des lois. Quando questo principio essenziale è in consonanza con l’esprit général di un popolo, allora possiamo dire che la costituzione è legittima e, perciò, solida e accettata. Quando è dissonante, la costituzione è destinata crollare, a essere detronizzata.
Se invece lo spirito pubblico è diviso, e dunque non esiste un esprit che possa dirsi général, questo è il momento dell’incertezza costituzionale, il momento della costituzione in bilico e della bilancia che prima o poi dovrà pendere da una parte. È il momento del conflitto latente, che non viene dichiarato perché i fautori della rottura costituzionale come quelli della continuità non si sentono abbastanza sicuri di sé e preferiscono allontanare il chiarimento. I primi aspettano il tempo più favorevole; i secondi attendono che passi sempre ancora un giorno di più, ingannando se stessi, non volendo vedere ciò che temono. Tutti attendono, ma i primi per prudenza, i secondi per ignavia.
Non voler vedere, significa scambiare per accidentali deviazioni quelli che sono segni di un mutamento di rotta; significa sbagliare, prendendo per lucciole, cioè per piccole alterazioni che saranno presto dimenticate come momentanee illegalità, quelle che sono invece lanterne, cioè segni premonitori e preparazioni di una diversa legittimità. Così, si resta inerti. L’accumulo progressivo di materiali di costruzione del nuovo regime procede senza ostacoli e, prima o poi, farà massa. Allora, non sarà più possibile non voler vedere, ma sarà troppo tardi.
Ciò che davvero qualifica e distingue i regimi politici nella loro natura più profonda e che segna il passaggio dall’uno all’altro, è l’atteggiamento di fronte all’uguaglianza, il valore politico, tra tutti, il più importante e, tra tutti però, oggi il più negletto, perfino talora deriso, a destra e a sinistra. Perché il più importante? Perché dall’uguaglianza dipendono tutti gli altri. Anzi, dipende il rovesciamento nel loro contrario.
Senza uguaglianza, la libertà vale come garanzia di prepotenza dei forti, cioè come oppressione dei deboli. Senza uguaglianza, la società, dividendosi in strati, diventa gerarchia. Senza uguaglianza, i diritti cambiano natura: per coloro che stanno in alto, diventano privilegi e, per quelli che stanno in basso, concessioni o carità. Senza uguaglianza, ciò che è giustizia per i primi è ingiustizia per i secondi. Senza uguaglianza, la solidarietà si trasforma in invidia sociale. Senza uguaglianza, le istituzioni, da luoghi di protezione e integrazione, diventano strumenti di oppressione e divisione. Senza uguaglianza, il merito viene sostituito dal patronaggio; le capacità dal conformismo e dalla sottomissione; la dignità dalla prostituzione.
Nell’essenziale: senza uguaglianza, la democrazia è oligarchia, un regime castale. Quando le oligarchie soppiantano la democrazia, le forme di quest’ultima (il voto, i partiti, l’informazione, la discussione, ecc.) possono anche non scomparire, ma si trasformano, anzi si rovesciano: i diritti di partecipazione politica diventano armi nelle mani di gruppi potere, per regolare conti della cui natura, da fuori, nemmeno si è consapevoli. Questi rovesciamenti avvengono spesso sotto la copertura di parole invariate (libertà, società, diritti, ecc.).
Possiamo constatare allora la verità di questa legge generale: nel mondo della politica, le parole sono esposte a rovesciamenti di significato a seconda che siano pronunciate da sopra o da sotto della scala sociale. Ciò vale a iniziare dalla parola "politica": forza sopraffattrice dal punto di vista dei forti, come nel binomio amico-nemico; oppure, dal punto di vista dei deboli, esperienza di convivenza, come suggerisce l’etimo di politéia. Un uso ambiguo, dunque, che giustifica la domanda a chi parla di politica: da che parte stai, degli inermi o dei potenti? La ricomposizione dei significati e quindi l’integrità della comunicazione politica sono possibili solo nella comune tensione all’uguaglianza.
Ritorniamo alla questione iniziale, se sia in corso, o se si sia già realizzato, un cambiamento di regime, dal punto di vista decisivo dell’uguaglianza. In ogni organizzazione di grandi numeri si insinua un potere oligarchico, cioè il contrario dell’uguaglianza. Anzi, più i numeri sono grandi, più questa è una legge "ferrea". E’ la constatazione di un paradosso, o di una contraddizione della democrazia. Ma è molto diverso se l’uguaglianza è accantonata, tra i ferri vecchi della politica o le pie illusioni, oppure se è (ancora) valore dell’azione politica.
La costituzione - questa costituzione che assume l’uguaglianza come suo principio essenziale - è in bilico proprio su questo punto. Noi non possiamo non vedere che la società è ormai divisa in strati e che questi strati non sono comunicanti. Più in basso di tutti stanno gli invisibili, i senza diritti che noi, con la nostra legge, definiamo "clandestini", quelli per i quali, obbligati a tutto subire, non c’è legge; al vertice, i privilegiati, uniti in famiglie di sangue e d’interesse, per i quali, anche, non c’è legge, ma nel senso opposto, perché è tutto permesso e, se la legge è d’ostacolo, la si cambia, la si piega o non la si applica affatto. In mezzo, una società stratificata e sclerotizzata, tipo Ancien Régime, dove la mobilità è sempre più scarsa e la condizione sociale di nascita sempre più determina il destino.
Se si accetta tutto ciò, il resto viene per conseguenza. Viene per conseguenza che la coercizione dello Stato sia inegualmente distribuita: maggiore quanto più si scende nella scala sociale, minore quanto più si sale; che il diritto penale, di fatto, sia un diritto classista e che, per i potenti, il processo penale non esista più; che nel campo dei diritti sociali la garanzia pubblica sia progressivamente sostituita dall’intervento privato, dove chi più ha, più può.
Né sorprende che quello che la costituzione considera il primo diritto di cittadinanza, il lavoro, si riduca a una merce di cui fare mercato. Analogamente, anche l’organizzazione del potere si sposta e si chiude in alto. L’oligarchia partitica non è che un riflesso della struttura sociale. La vigente legge elettorale, che attribuisce interamente ai loro organi dirigenti la scelta dei rappresentanti, escluso il voto di preferenza, non è che una conseguenza.
Così come è una conseguenza l’allergia nei confronti dei pesi e contrappesi costituzionali e della separazione dei poteri, e nei confronti della complessità e della lunghezza delle procedure democratiche, parlamentari. Decidere bisogna, e dall’alto; il consenso, semmai, salirà poi dal basso. E’ una conseguenza, infine, non la causa, la concentrazione di potere non solo politico ma anche economico-finanziario e cultural-mediatico.
L’indipendenza relativa delle cosiddette tre funzioni sociali, da millenni considerata garanzia di equilibrio, buon governo delle società, è minacciata. Ma il tema delle incompatibilità, cioè del conflitto di interessi, a destra come a sinistra, è stato accantonato. La causa è sempre e solo una: l’appannamento, per non dire di più, dell’uguaglianza e la rete di gerarchie che ne deriva. Qui si gioca la partita decisiva del "regime".
Tutto il resto è conseguenza e pensare di rimettere le cose a posto, nelle tante ingiustizie e nelle tante forzature istituzionali senza affrontare la causa, significa girare a vuoto, anzi farsene complici. Nessun regime politico si riduce a un uomo solo, nemmeno i "dispotismi asiatici", dove tutto sembrava dipendere dall’arbitrio di uno solo, kahn, califfo, satrapo, sultano, o imperatore cinese. Sempre si tratta di potere organizzato in sistemi di relazioni. Alessandro Magno, il più "orientale" dei signori dell’Occidente, perse il suo impero perché (dice Plutarco), mentre trattava i Greci come un capo, cioè come fossero parenti e amici, «si comportava con i barbari come con animali o piante», cioè meri oggetti di dominio, «così riempiendo il suo regno di esìli, destinati a produrre guerre e sedizioni». Sarà pur vero che comportamenti di quest’ultimo genere non mancano, ma non vedere il sistema su cui si innestano e li producono significa trascurarne le cause per restare alla superficie, spesso solo al folklore.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
DIALOGHI SULL’UOMO: L’UNITA’ DELLA DEMOCRAZIA E L’UNITA’ DELL’INDIVIDUO. Zagrebelsky riflette "su quello che rende unico ogni individuo", ma ancora non gli è chiaro il rapporto tra i molti "uno" della società e l’"Uno" della Costituzione. Sul tema, parte della lezione che il giurista terrà domani a Pistoia
(...) Ci sono "gli uomini" e non uno è per natura uguale all’altro (...) la sua plasticità e irriducibilità ad unitatem. Ma è una smentita apparente, perché non ci permette di andare oltre, mentre è propriamente questo "oltre", o questo "altro" ciò che ci importerebbe di definire (...)
Politica e nichilismo. Quel mostro antico e nuovo che uccide la democrazia
di GUSTAVO ZAGREBELSKY (la Repubblica, 26 Settembre 2013)
-***Si inaugura oggi a Piacenza la sesta edizione del Festival del diritto in programma fino a domenica 29. L’intervento di Zagrebelsky sarà svolto oggi, 26 settembre, alle 18 alla Sala dei Teatini con Stefano Rodotà. Tra gli ospiti, Enzo Bianchi, Remo Bodei, Laura Boldrini, Ilvo Diamanti, Carlo Galli, Gad Lerner, Antonio Spadaro, Nadia Urbinati
Un’immagine che può, forse, costituire una sintesi efficace e può fornire qualche suggestione è quella dell’uroboro, immagine mitologica del serpente che mangia la sua coda e ciò ch’essa contiene, nutrendosi di se stesso (dal greco ouròboros,dove ourà staper “coda” e boròs sta per “mordace”, aggettivo riferito al serpente). Quest’immagine, ricca di significati analogici e metaforici, sfruttata dalla filosofia dell’eterno ritorno e dalle visioni esoteriche dell’uno immutabile e autosufficiente, una volta che sia spogliata di questo sovraccarico, può bene definire il rapporto tra denaro e politica, nei termini di uno scambio di ritorno e di reciproco sostentamento. Il potere sostiene e rivitalizza il (procacciamento di) denaro e il denaro sostiene e rivitalizza (l’acquisizione e il mantenimento de) il potere.
C’è poi un aspetto proprio del circolo denaro-potere, che deriva dalla circostanza che, nell’economia finanziarizzata, il denaro non è statico, ma aspira all’accrescimento di se stesso: denaro che si produce dal denaro. C’è qui un carattere non del denaro come tale, ma dell’antropologia, per così dire, dell’uomo di denari:«crescit amor nummi quantum ipsa pecunia crevit»(Giovenale,Satire,V, II, 140-1, che aggiunge:«Et minus hanc optat qui non habet»). Il libero mercato dei capitali è l’humus astratto ideale di quest’aspirazione crescente. Per questo, mentre l’uroboro-serpente è sempre uguale a se stesso, l’uroboro- sistema politico finanziario tende di per sé ad assumere proporzioni sempre maggiori e incombenti sull’ambiente in cui si sviluppa, traendone risorse incrementali.
Per rimanere nell’immagine, la tendenza alla crescita significa innanzitutto ch’esso stringe sempre più strettamente le sue spire sulla società, impoverendola delle sue risorse per finalizzarli ai propri scopi di crescita; in secondo luogo, ch’esso modella la società e le sue divisioni alla stregua delle sue esigenze riproduttive, secondo una tripartizione o, meglio, secondo tre cerchi concentrici.
Coloro che stanno nel serpente sono i privilegiati del potere e del denaro, i quali, con funzioni diverse (politiche, ideologiche, tecnico-esecutive, avvocatesche), stanno e lucrano all’interno dello scambio denaro- potere. Attorno a loro, stanno coloro che operano per fornire loro l’humus materiale necessario, in ciò che resta della “economia reale”. In una sorta di servitù volontaria, costoro collaborano a mantenere in piedi un sistema di potere, subendo restrizioni nel loro tenore di vita, nelle condizioni di lavoro, nella disponibilità di servizi, nella sicurezza e nella previdenza sociale: sistema di potere che, pur sfruttandoli a un ritmo crescente, li vede quali vittime colluse perché, e fino a quando, li protegge dal rischio d’essere cacciati nel terzo cerchio.
Nel terzo cerchio stanno gli inutili, i reietti, i disoccupati, abbandonati a se stessi come zavorra che non ha diritto di appesantire le altre parti della società, di frenare o impedire la “crescita”: parola-chiave dell’uroboro.
Il ciclo denaro-potere-denaro è, o mira a diventare, totalmente e assurdamente autoreferenziale. Ciò significa ch’esso trova pienamente in se stesso la ragione del suo essere in azione. È mezzo e fine al tempo stesso. Se noi volessimo cercare una definizione potente e adeguata di nichilismo, diremmo proprio così: non semplicemente la mancanza di scopi, che di per sé significa semplicemente insensatezza,irrazionalità, gusto del bel gesto, cinismo, ma la coincidenza dei mezzi e dello scopo. Così avremmo una definizione dotata di terribile razionalità: la pianificata e consapevole direzione verso l’illimitata dilatazione di sé, nell’ignoranza e nell’indifferenza rispetto a ciò che sta attorno. O, meglio, nell’ignoranza e nell’indifferenza fino al momento in cui ciò che sta attorno, nel suo ribollire, incomincia a rappresentare un pericolo per la propria autoriproduzione.
Abbiamo udito, e forse qualcunosi ricorda, l’affermazioned’un uomo di governo “tecnico”: in autunno, ci aspettano pericolose agitazioni sociali; ergo occorre intervenire con qualche misura di equità. Un governo non nichilistico avrebbe detto: la società è inquieta, tensioni sociali la percorrono; dobbiamo comprenderne le ragioni e dalle ragioni procedere per promuovere la giustizia. Se lo scopo è evitare le perturbazioni, non si esce affatto dall’autoreferenzialità; anzi, la si conferma e se ne rafforzano le cinte. Nella stessa logica, le perturbazioni possono essere attenuate o sconfitte non solo con qualche misura d’equità adottata in stato d’emergenza, ma anche, se del caso, nella stessa logica emergenziale, con la repressione. In ciò si mostra la vena autoritaria d’ogni sistema di governo nichilistico, alias autoreferenziale.
Nel nichilismo e nell’autoreferenzialità, nel cerchio chiuso di potere e denaro, non c’è posto per la politica. C’è posto solo per il cieco dominio che rifiuta d’interrogarsi sul senso del suo esistere. È puro non-senso. C’è da stupirsi, allora, se quella che ancora insistiamo a chiamare politica,sempre meno attragga la maggioranza dei cittadini, coloro che sono fuori del cerchio? Come suonano vuote, retoriche e ipocrite le invocazioni di un nuovo patto tra cittadini e politici, senza che si mettano minimamente in discussione le ragioni di quel divorzio!La democrazia è forma della politica e la politica è la sostanza della democrazia. Ma, se viene a mancare la sostanza, la forma si riduce a vuoto involucro, a simulacro ingannatore. Nel mondo antico, la sostanza della politica era la pòlis, un concetto pieno di contenuto spirituale. Per tutti, la pòlis era la “giusta città”, di cui gli uomini liberi erano fieri, nella quale volevano vivere e per la quale erano pronti a grandi sacrifici. Pericle ne fa l’elogio celeberrimo, nell’epitaffio per i morti del primo anno della guerra peloponnesiaca (Tucidide,La guerra del Peloponneso,II, 35-46). Al di là dell’enfasi, dell’autocelebrazione, dell’interessata edulcorazione o, addirittura,dello stravolgimento della realtà, in quel discorso c’è un dato profondo, una verità perenne: se il potere non si dà un fine che lo trascende, se le sue leggi non s’identificano con la vita buona dei cittadini in generale, quale ch’essa sia, non c’è politica e tantomeno ci può essere democrazia. Lo ribadisce, in un passo altrettanto celebre di Le supplici di Euripide, Teseo, rivolgendosi all’araldo, figura rappresentativa di tutti i dispotismi vuoti di senso, che pretendono dai sudditi l’ubbidienza per l’ubbidienza, indipendentemente dalle buone ragioni che possano invocarsi per esigerla.
Nel tempo nostro, non c’è una pòlis, giusta città per natura e necessità, che a noi tocchi di riconoscere, difendere e accrescere. Tutto è stato distrutto, tutto è rimesso alle nostre mani e alle loro cure; tutto deve essere ricostruito. Quando la vita politica non è più un dato della natura, come l’aria, il suolo e il clima, ma deve essere costruita e rico-struita, il progetto della giusta città è quella cosa che decidiamo insieme che debba essere e che chiamiamo “costituzione”.Si dirà: allora siamo salvi! Una Costituzione, l’abbiamo e, per di più, tutti, o quasi tutti, le prestano ossequio. Si discute - è vero - dell’opportunità di modificare le forme della politica ma, almeno sulla sostanza, cioè sui principi e sui fini del nostro stare insieme - quelli indicati nella prima parte della Costituzione - tutti si dicono concordi. Nessuno (o quasi nessuno) propone modifiche.
Non c’è verità in queste parole. I principi e i fini della Costituzione possono essere lasciati stare, tali e quali sono scritti, per la semplice ragione che li si può ignorare, come se non esistessero. Che ne è del lavoro come diritto; dei doveri di solidarietà sociale; dell’uguale dignità di tutti i cittadini; dell’ambiente come patrimonio comune; della funzione sociale della proprietà; degli obblighi tributari che devono ispirarsi alla progressività; dei diritti sociali come l’istruzione, la salute, la protezione dei più deboli? Sono solo esempi. Le norme che parlano di queste cose tracciano le linee di una “buona città”, quale abbiamo voluto stabilendo una Costituzione. Ma possono essere lasciate tranquille, perché si può far finta che non esistano. Esse, per diventare realtà operante, richiedono politiche adeguate e le politiche si fanno secondo le forme. Le forme sono previste nella seconda parte della Costituzione, e, queste sì, molti vorrebbero cambiarle profondamente.
Chi sono questi “molti”? Se sono coloro che, al più o al meno, stanno nel cerchio più profondo della società, quello del connubio potere-denaro, possiamo pensare che agiscano per darsi gli strumenti per spezzarlo e dare spazio alla politica, oppure è più facile sospettare che l’operazione ch’essi hanno in corso serva a stringerlo ancora di più? Rafforzare il governo e deprimere il parlamento, confidare nella “decisione” e diffidare della “partecipazione”, a che cosa può servire, nel momento del disfacimento e del pericolo che, insieme alla democrazia, minaccia le immobili oligarchie del potere e del denaro, incapaci di uscire dalla loro crisi senza un colpo alla Costituzione?
Il welfare pensiero
Perché le idee sono un bene comune
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 31.08.2012)
In un “festival della mente”, è naturale parlare di idee. Che cosa, infatti, sono le idee, se non ciò che viene dalla mente, che è “prodotto” o “scoperto” dalla mente? Come si dice, ordinariamente, “viene in mente”? Ma, possiamo anche, in certo senso, rovesciare l’affermazione e dire che la mente è ciò che viene dalle idee, che senza idee non c’è mente. Quando usiamo una parola così violenta come de-mente, non intendiamo forse uno per la cui mente non passa alcuna idea? Dunque, possiamo dire che mente e idee sono tutt’uno, che si tengono insieme e, in sintesi, che la mente tende alle idee e in esse trova il suo compimento, la sua realizzazione. In queste prime frasi della mia relazione, desidero tessere un elogio delle idee, considerandole beni che possono dare felicità, talora molta felicità. Gli antichi, con perfetta ragione, dicevano che la felicità è il completamento di ciò che è “per sua natura”, cioè è la realizzazione di ciò cui la nostra natura aspira. Possiamo, allora, dire che nelle idee noi troviamo la felicità, per la parte che riguarda la mente.
Uno dei primi trattati sulla felicità, il dialogo Gerone, il tiranno del poeta lirico Simonide (VI-V secolo a. C.), tratta per l’appunto dei beni che fanno la felicità, quando li si possiede, e l’infelicità, quando mancano. Non esistono beni di questo genere in assoluto: dipende dalla natura degli esseri umani. Le persone sensuali troveranno i loro beni «con gli occhi per ciò che vedono (gli spettacoli), con gli orecchi per ciò che sentono (la musica), col naso per gli odori (i profumi), con la bocca per ciò che ingurgitano (il cibo e il vino) e con ciò che tutti ovviamente conosciamo in ragione del sesso (i corpi degli amati). C’è poi il sonno, che genera felicità per il corpo e per l’anima, anche se è difficile dire come e perché, forse a causa del sonno stesso che rende le sensazioni meno chiare di quanto siano nella veglia».
Ma poi conosciamo persone per natura superbe e arroganti. Costoro trovano la felicità nel concepire grandi progetti, portarli rapidamente a termine, avere il superfluo in abbondanza, possedere cavalli d’ineguagliabile velocità, armi d’incomparabile potenza e bellezza, gioielli squisiti per le proprie amanti, dimore magnifiche, i servi migliori, poter danneggiare i propri nemici più di ciò che a chiunque altro sia consentito, essere ammirati dal maggior numero possibile dei propri simili. Ancora: ci sono le persone spirituali, per le quali i veri beni sono quelli dell’anima, l’amicizia, l’amore, la saggezza, la contemplazione, la filosofia, l’armonia con i propri simili, l’agricoltura, come armonia con la natura.
Ma, nei tanti elenchi che riguardano quelli che consideriamo i beni della nostra vita, non troviamo mai le idee. Invece, possono dare anch’esse felicità, per qualcuno e in qualche momento, anche più di altri beni alle, per così dire, persone di pensiero. Ciò vale per le idee in quanto tali, indipendentemente dal fatto che siano vere o false, giuste o ingiuste, buone o cattive. Non si tratta di giudizi sul contenuto delle idee, ma d’idee in quanto tali. I giudizi vengono dopo.
Permettete un riferimento personale alla mia attività nell’ambito dell’Università. Ho ormai preso l’abitudine, poiché il tempo passa, la memoria diminuisce e l’improvvisazione è sempre più pericolosa, di preparare le lezioni e di scriverne la traccia, per poterla usare quasi come una rete di sicurezza.
Ebbene, una mattina, mi sono trovato senza. Non sapevo doveva era sparita, la sera prima. Ho proposto allora agli studenti di fare così: prendere l’ultimo argomento trattato (era la pena di morte, un argomento davvero inesauribile) e di ragionarci su insieme, lasciando per così dire libero il pensiero di svilupparsi da sé, da un’idea all’altra. Abbiamo insieme, per due ore, “prodotto idee” con molta nostra soddisfazione d’esseri pensanti, riconosciuta da tutti (aggiungo: purtroppo con soddisfazione maggiore di quella che davano le lezioni “normali”).
Chi abbia fatto una qualche simile esperienza di scoperta d’idee, che può giungere anche a punte d’esaltazione, non avrà dunque difficoltà nel considerare le idee “beni della vita” e l’elaborazione d’idee qualcosa cui può essere dedicata, in tutta o in parte, la propria esistenza, non meno degnamente di come altri la dedicano all’autorealizzazione in altri aspetti dell’umana natura. Invece, nella comune accezione, le idee non entrano affatto a far parte dei beni della vita. Anzi: sembrano stancare, essere perdita di tempo, divagazioni senza costrutto; nella migliore delle ipotesi, qualcosa di cui la gran parte delle persone può fare facilmente a meno, per essere riservate solo a qualcuno, coloro che chiamiamo, non senza una certa dose di sottinteso disprezzo, gli “intellettuali”.
Da qualche tempo, il tempo in cui tutto, per esistere, sembra dover essere misurabile, quantificato, ci si dà da fare per “calcolare” la felicità degli esseri umani. Perfino i governi si dedicano a questo compito, evidentemente in vista di “politiche per la pubblica felicità”, secondo gli intenti dei “principi illuminati” del ’700. Ora, questa politica si vorrebbe impiantare su basi scientifiche e, a questo scopo, si usano mezzi demoscopici, insomma sondaggi. Il 26-27 marzo 2010 una sessantina di psicologi, politici, filosofi, economisti si sono riuniti a Rennes, in Bretagna, per discutere del tema: Le bonheur: une idée neuve. Per la verità, già Saint Just, sulla fine del ’700, aveva esclamato: «la felicità è un’idea nuova in Europa».
“Felicità” è una delle parole più ricorrenti in tutta la pubblicistica di quel secolo. Ora ritorna d’attualità, sotto specie di “benessere”. Il governo Sarkozy ha commissionato a tre dei maggiori intellettuali del nostro tempo: Stiglitz, Sen e Fitoussi un rapporto, reso pubblico nel settembre 2009, destinato a suggerire criteri per il ricalcolo del benessere collettivo, sottraendolo alle regole puramente produttivistiche del Pil. Si è andati al di là, suggerendo di prendere in considerazione non solo la misura del prodotto e del consumo di beni materiali, ma anche i cosiddetti “beni relazionali” come i rapporti sociali e il tempo libero, la pubblica sicurezza, ecc. Altri, hanno aggiunto la salute pubblica, l’istruzione, la certezza del lavoro, la casa, la vivibilità delle città, il verde pubblico, gli affetti familiari e la loro stabilità, ecc. A nessuno sono venute in mente le idee. Sembra che siano irrilevanti. Capisco che sono difficilmente censibili (forse non diversamente da altre cose che si considerano “beni”) e che, ancor meno, possono essere prodotti di politiche pubbliche (anche se, però, le politiche pubbliche possono favorire il loro fervore).
Eppure, comprendiamo facilmente che una vita senza idee, una società che non libera da sé idee, sono letteralmente “infelici”, cioè infeconde, non creative, destinate non a vivere ma, nelle migliori delle ipotesi, a sopravvivere a se stesse, come colonie. Se confrontassimo le diverse società e le loro diverse epoche dal punto di vista del loro fervore ideale, potremmo, per quanto approssimativamente, stabilire un più e un meno; cioè, in fondo, potremmo stilare classifiche e, per esempio, interrogarci sullo stato della nostra società, nel nostro tempo. Forse, la risposta sarebbe rattristante.
Ma, in generale, che cosa ci dice questo silenzio sul valore delle idee, quanto ai caratteri dello spirito del nostro tempo? Forse che è un tempo edonista, materialista, che ha bisogno di esseri mentalmente programmati per un tipo di società che, a parole, esalta il pluralismo delle idee e, quindi, la libertà della cultura ma, nella realtà ha bisogno che di idee ce ne sia una sola, grande, omogenea, e che di quella libertà non sa che farsi.
Lasciamo stare. Ognuno dia la sua risposta. Cerchiamo invece di entrare nel grande mondo delle idee, non per quel che riguarda la loro origine - se prodotte dalla fisica o dalla metafisica: questione delle neuroscienze o della filosofia - ma attraverso qualche suddivisione concettuale, che ci consenta di gettare un po’ di luce in un fascinoso mondo di realtà impalpabili. Si possono fare distinzioni basate sui più diversi criteri.
Ora, assumeremo un criterio, per così dire, funzionale che corrisponde alla domanda: a che cosa servono le idee? Le idee possono essere collocate come su una scala a tre gradi maggiori, con gradini minori, a seconda che, a partire dal basso verso l’alto, valgano per conoscere, per risolvere e per progettare “cose”. L’immagine della scala non deve suggerire l’idea d’una distribuzione secondo una minore o maggiore dignità delle idee, a seconda del posto che esse vengono a occupare. Nella scala i gradini più in basso sono indispensabili per salire su quelli più alti e quelli più in alto non sarebbero raggiungibili senza quelli più in basso. Come l’immagine della scala anche suggerisce, i gradini non sono separati da divisioni insormontabili. Anzi, servono per passare dall’uno all’altro, in salita e in discesa. Dobbiamo ora passare a vedere come.
La giustizia ferita e l’attualità di Platone
Anticipiamo un brano del saggio di "La legge e la sua giustizia" (il Mulino, pagg. 419, euro 30)
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 15 gennaio 2009)
La giustizia costituzionale è un’acquisizione recente del diritto costituzionale. Eppure l’esigenza e i tentativi di difesa della Costituzione sono antichi come la riflessione sui problemi dell’umana convivenza politica. Possiamo assumere come archetipo le considerazioni di Platone sui custodi delle leggi fondamentali, i nómoi della città, ch’egli considerava non come strumenti del potere dei più forti (come facevano i sofisti), ma come scienza e filosofia applicate alla società bene ordinata. Nello Stato perfetto, nel quale sorgesse «un re quale s’ingenera negli alveari, uno che di corpo subito appaia superiore e d’anima», a questo re occorrerebbe affidarsi, alla sua scienza e saggezza, e non a rigide leggi, che non sanno adattarsi all’irriducibile varietà della vita:
«Sotto un certo riguardo senza dubbio è chiaro che la legislazione è parte dell’arte regia; meglio di tutto però non è che abbiano vigore le leggi, ma che lo abbia l’uomo il quale per la sua intelligenza sia regio. E sai perché? Perché la legge non può mai, abbracciando ciò che è ottimo e giustissimo, prescrivere nello stesso tempo con precisione ciò che è il meglio per tutti. Giacché le disuguaglianze degli uomini e delle azioni e il non rimanere giammai, per così dire, in quiete nessuna delle cose umane, non permettono che alcun’arte possa per alcuna cosa indicar nulla di semplice che serva a tutti i casi e in tutti i tempi (...) Ora, la legge, noi vediamo che suppergiù tende proprio a questo, come un uomo prepotente e ignorante e che a nessuno non lascia far nulla senza il suo ordine, anzi non permette nemmeno che altri lo interroghi, nemmeno se a qualcuno venga in mente un partito nuovo, migliore e differente dalla disposizione che egli aveva imposta».
Poiché, però, accade che un simile re-filosofo, dotato di virtù politiche, non sempre, anzi quasi mai, esiste, «è pur necessario che i cittadini adunatisi scrivano delle leggi, seguendo le tracce della forma di governo più vera tra tutte». Da qui, dall’imperfezione dei governanti, deriva la necessità delle leggi e, per conseguenza, la necessità che le leggi siano rispettate: le forme di governo - monarchia, aristocrazia e democrazia - saranno tanto migliori quanto più sarà garantito questo rispetto.
Proprio al termine e quasi a coronamento delle Leggi, leggiamo:
«Nel nostro Stato ci deve essere un Consiglio formato di dieci custodi delle leggi, sempre i più anziani, coi quali devono adunarsi tutti quelli che hanno ottenuto il premio di virtù; v’interverranno inoltre coloro che sono andati all’estero allo scopo di apprendere qualche cosa che possa essere utile all’opera di vigilanza esercitata sulle leggi, e che, ritornati salvi in patria, saranno ritenuti degni di partecipare al Consiglio, in seguito ad esame a cui saranno sottoposti dagli altri membri; abbiamo aggiunto che ciascuno deve prendere con sé un giovane, d’età non inferiore ai trenta anni, e proporlo agli altri, dopo che egli stesso avrà giudicato che il giovane è meritevole, per indole e per educazione, d’essere ammesso; e se anche agli altri parrà tale, lo ammetteranno; in caso contrario, il giudizio dato deve rimanere celato così agli altri come, e soprattutto, a colui che è stato respinto; che infine le riunioni devono tenersi di buon mattino, quando ognuno è maggiormente libero dagli altri affari, sia privati che pubblici (...) Se facciamo di questo Consiglio come l’ancora di tutto lo Stato, questa ancora, fornita di tutto ciò che si conviene, ci conserverà tutto quello che noi vogliamo».
Chi, a qualunque titolo, ha a che fare con la giustizia costituzionale deve conoscerne le antichissime e profonde radici di storia spirituale, delle quali il passo appena citato, ricco di dettagli e sfumature, è una testimonianza.
Continuiamo ancora un poco con le Leggi di Platone:
«Se la costituzione del nostro paese deve essere compiuta e perfetta, bisogna che tra i suoi istituti ve ne sia qualcuno che sia in grado di conoscere, in primo luogo, questo scopo, di cui parliamo, quale sia, cioè il fine politico che noi ci proponiamo; in secondo luogo, in qual modo questo scopo si debba raggiungere, e quali siano innanzitutto le leggi e poi le persone che potranno a tal fine riuscire utili o no. Se uno stato manca di questo, nessuna meraviglia se, essendo privo di intelligenza e di sensi (riferimento a un passo precedente in cui si parla di intelligenza e sensi come elementi di conservazione degli esseri viventi), procederà ogni volta a caso in tutte le sue azioni (...) Bisogna che questo Consiglio, come il presente nostro discorso sta a dimostrare, possieda tutte le virtù, delle quali principale è quella di non andar vagando, prendendo di mira molte cose, ma di guardare a una sola, rivolgendo sempre, per così dire, tutti i dardi verso di essa».
Questa virtù politica somma è la sintesi di «fortezza, temperanza, giustizia, prudenza», tutte attitudini a garanzia di «ciò che vogliamo conservare». Le garanzie della Costituzione che nel corso dei secoli sono state immaginate esprimono in tutti i contesti la radicata aspirazione a stabilizzare le regole fondamentali della convivenza politica (l’ancora dello Stato) e a difenderle dalla minaccia che viene dalla decisione abnorme imprevista. Per apprestare questa difesa, occorrono uomini dotati di fortezza, temperanza, giustizia e prudenza.
Queste proposizioni indicano la vocazione della giustizia costituzionale: la conservazione dell’essenziale. La sua prima realizzazione pratica sembra essere stata quella della nomothesía, un’istituzione dell’Atene del IV secolo a. C., che si fa risalire, però, a Solone, di cui v’è menzione in Demostene, Eschine e Andocide. La critica storica è incerta su numerosi aspetti di questa istituzione, in particolare circa il suo rapporto con l’assemblea popolare legislativa, ma c’è concordia nel ritenere che i nomoteti, nominati ad hoc con deliberazione dell’assemblea, avessero un potere di controllo sulle proposte di leggi innovative (psephísmata), per la difesa delle leggi antiche (nómoi). Il loro potere di controllo si esercitava quando si trattava di modificare o di abrogare una legge esistente, o di introdurne di nuove, e consisteva nel valutarne la compatibilità con il diritto precedente.
Era dunque una funzione di freno e stabilizzazione, una funzione che appartiene all’essenza della garanzia costituzionale. Del resto, una funzione di questo genere si svolgeva anche nell’assemblea legislativa, espletata da un comitato di cinque sinègoroi (avvocati pubblici, difensori della legalità), eletti allo scopo di preservare il diritto tradizionale. Nel procedimento legislativo, dunque, trovava un suo posto definito il dibattito circa il rapporto fra antico e nuovo, al fine di difendere il primo contro gli attacchi scriteriati del secondo. In questa dialettica, il nómos prevaleva non tanto in quanto «superiore», ma in quanto «anteriore»: oppure, se così si vuol dire, la sua stessa durata lo rendeva venerabile agli occhi dei contemporanei e, perciò, in questo senso, superiore.
Se si parla di «funzione conservatrice» di queste procedure, si deve però precisare che questa non deve essere intesa nel senso politico odierno, come nella contrapposizione corrente conservatori-riformatori. La «conservazione» del nómos, di per sé, non significa nulla, a questo riguardo: la conservazione che difende un contenuto innovativo è innovazione dal punto di vista politico, mentre la sua eliminazione può significare un’involuzione conservatrice.
Conservazione del nómos significa, dal punto di vista costituzionale, la difesa di quella continuità che è un aspetto della Costituzione stessa, in quanto norma di durata, e che consente di guardare a ogni desiderata condizione futura, che la legge volesse perseguire, con la garanzia e la tranquillità che ciò che è essenziale sarà mantenuto e su questo non si apriranno controversie distruttive. Conservatore e riformatore, applicati alla funzione di garanzia costituzionale oppure alla legislazione, non hanno dunque lo stesso significato.
Zagrebelsky: "Correnti e autonomia mal gestita, errori dei giudici"
"Spero ci si renda conto che sono in gioco le garanzie fondamentali"
"La Carta non è strumento di potere
così Berlusconi torna a Cromwell"
di GIUSEPPE D’AVANZO *
A Gustavo Zagrebelsky, costituzionalista e presidente emerito della Corte costituzionale, Repubblica chiede di riflettere ad alta voce sul significato e il valore dell’annuncio di Silvio Berlusconi: il premier vuole riformare, con la sua sola maggioranza, il Consiglio superiore della magistratura; separare in due diversi ordini la magistratura giudicante dalla requirente (i pubblici ministeri); un referendum popolare dovrebbe poi confermare entro tre mesi il disegno.
"Prima di discutere il merito - dice Zagrebelsky - qualcosa va detto sulle riforme mancate, sulle colpe, le responsabilità dei riformatori finora mancati. Mi definisco un conservatore costituzionale. Penso che il lavoro compiuto all’inizio di un ciclo politico sia sempre più apprezzabile, migliore, di un’attività in corso d’opera. E tuttavia non è che non veda come un grave deficit non aver adeguato i meccanismi di garanzia della Costituzione alle trasformazioni del sistema politico. Ne è un esempio proprio l’articolo 138...".
L’art. 138 della Costituzione regola le leggi di revisione della Costituzione.
"Appunto, l’art. 138 prevede che le riforme costituzionali debbano essere approvate con un ampio consenso raccogliendo il voto della maggioranza e di una parte dell’opposizione".
Qual era il significato di questo consenso qualificato?
"Che la Costituzione, la sua manutenzione, le sue modifiche non dovessero essere appannaggio della pura maggioranza. Poi però le leggi elettorali hanno cambiato il sistema politico, polarizzandolo su due sponde e ora chi ha il sopravvento nella competizione elettorale e conquista la maggioranza si fa da sé le riforme costituzionali".
Salvo poi sottoporle a referendum popolare, come ha ricordato Berlusconi.
"Berlusconi ha fatto un discorso piano. Prende atto della disciplina costituzionale, si fa votare la sua riforma con la maggioranza che il sistema elettorale attuale gli ha dato, chiede al referendum l’approvazione definitiva. Anche se ineccepibile, però, questo metodo cambia profondamente l’essenza stessa della Costituzione".
Perché, se quel metodo è previsto dalla stessa Costituzione?
"Perché ci sono due nozioni di Costituzione. La prima considera la Costituzione come strumento di chi governa. Per Cromwell, la Costituzione, è appunto Instrument of Government. Siamo qui alla presenza di Platone, Aristotele, Hobbes, Schmitt. Per venire al presente o al passato prossimo, non c’è in Sud America vincitore di elezioni, capo-popolo o colonnello, che non abbia e annunci un suo progetto costituzionale: è lo strumento di cui intende servirsi per esercitare il potere".
Qual è la seconda nozione?
"E’ la nostra. Qui il riferimento è John Locke. La Costituzione è inclusiva. Non è scritta da chi vince contro gli sconfitti. La Costituzione non si occupa di chi sia il vincitore. Scrive principi per tutti, garantisce i diritti di tutti. Noi siamo figli di questo costituzionalismo. La nostra Carta fondamentale è nata con la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo delle Nazioni Unite del 1948, con la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà del 1950. La Costituzione italiana si colloca in questa tradizione. E’ nata per essere inclusiva, per valere per tutti. Non è uno strumento di potere ma di garanzia contro gli abusi del potere. Berlusconi invece vuole fare il Cromwell. Può essere ancora più chiaro se ritorniamo al 138. Quell’articolo prevede che anche un accordo politico ampio possa essere bocciato da una minoranza del corpo elettorale. Come si sa, il referendum costituzionale non ha il quorum e, se vanno a votare il 20 per cento degli italiani, l’11 per cento può bocciare la nuova legge. Il progetto di Berlusconi capovolge questa logica. Non riconosce al referendum un potere distruttivo, ma pretende che sia confermativo della riforma votata soltanto dalla coalizione di governo. Diciamo che la manovra, di tipo demagogico, manomette la Costituzione, annullando lo spirito di convivenza che la sostiene, e la trasforma in strumento di governo, in strumento di potere".
Si può dire che la riforma annunciata non fa che accentuare quella "china costituzionale" di cui lei spesso ha scritto: indifferenza per l’universalità dei diritti, per la separazione dei poteri, per la dialettica parlamentare, per la legalità.
"Sì. Un regime liberale-democratico adotta come principio ciò che dice l’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: "Ogni società in cui la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri determinata, non ha costituzione". Una Costituzione che diventa strumento di potere contraddice la separazione dei poteri. E’ quel che sta accadendo. Abbiamo già un Parlamento impotente dinanzi a un governo che impone le sue scelte con il voto di fiducia. Ora è il turno della magistratura".
Lei condivide la previsione che la separazione del pubblico ministero dal giudice anticipa la sottomissione della magistratura requirente all’esecutivo?
"Ci sono molti aspetti discutibili nella divisione del Consiglio superiore della magistratura in due, ma uno è chiaro fin d’ora. Se un pubblico ministero non è un magistrato a pieno titolo, che cos’è se non un funzionario dell’esecutivo? E evidente allora che, secondo logica, quel funzionario dovrà dipendere da un’autorità di governo, così pregiudicando l’indipendenza della funzione giudiziaria e cancellando la separazione dei poteri. Mi chiedo: che bisogno c’è?".
E’ inutile nascondersi che è lo spettacolo offerto dalla magistratura, con il conflitto tra due procure, ad aprire spazi a questi progetti di riforma.
"Lo spettacolo è sgradevole e la situazione in cui versa la magistratura italiana è certamente insoddisfacente. Ma mi chiedo: le proposte che si avanzano eliminano le difficoltà e i difetti o li aggravano?".
Qual è la sua opinione?
"Per quel che ho letto, dalle inchieste di Catanzaro sono emersi collegamenti della magistratura con ambienti politici, finanziari, malavitosi. La soluzione che propone il governo - l’attrazione del pubblico ministero nell’area della politica governativa - rafforza quei legami e non elimina quindi le cause delle disfunzioni, mentre bisognerebbe lavorare per rendere effettiva l’autonomia della magistratura dai poteri economici, amministrativi, politici e, naturalmente, criminali. Il disegno di riforma, codificando una dipendenza, avrà un solo effetto: eliminerà la notizia di quei legami, non la loro esistenza. Continueranno a esserci, ma non si vedranno".
Quali sono le responsabilità della magistratura in questa crisi?
"Il sistema costituzionale assegna alla magistratura il massimo dell’indipendenza e non sempre questa posizione è stata usata con la responsabilità necessaria. Se le cose funzionano, il merito è della magistratura. Se non funzionano, bisogna dirlo, è della magistratura il demerito".
Quali sono le ragioni o le prassi o le convinzioni che inceppano l’autogoverno della magistratura?
"Non c’è dubbio che la formazione di correnti, che all’inizio è stata favorita da un confronto culturale (culturale era il dibattito su come si dovesse interpretare la Costituzione), ha finito per diventare strumento di promozione e di carriera. E’ una degenerazione. Se non hai una corrente alla spalle non assurgi a un incarico direttivo. Solo una corrente può proteggerti quando verrai giudicato per i tuoi errori. Mi sembra che l’autonomia non sia stata gestita nel senso per il quale è stata prevista".
Forse anche per questo è largo il consenso per una riforma.
"Ci sono le istituzioni e gli uomini. La migliore Costituzione può essere corrotta da uomini mediocri. Una mediocre Costituzione può funzionare bene con uomini capaci. Credo che la magistratura debba fare un severo esame su se stessa. Se il sistema non funziona, non ne porta anch’essa la responsabilità?".
Lei crede che questa riforma costituzionale alla fine si farà davvero?
"Si può sperare che nella maggioranza ci sia qualcuno che si renda conto della delicatezza delle questioni. Sono in gioco le garanzie, i diritti, i principi e l’eguaglianza del cittadino di fronte alle legge. Perché se la giustizia è controllata dalla politica, la funzione giudiziaria diventa strumento di lotta politica. Mi appare incredibile che si vada avanti su una strada così pericolosa e non ci siano voci responsabili che denuncino il pericolo, anche all’interno della maggioranza".
Se il governo, come dice Berlusconi, tirasse diritto...
"Siamo in una situazione tristissima. Penso che occorra far breccia nelle convinzioni collettive, spiegare all’opinione pubblica che non si buttano via da un giorno all’altro secoli di storia e di valori civili".
* la Repubblica, 12 dicembre 2008
QUARANTA POVERI EURO
di Galapagos (il manifesto, 27.11.2008)
Centinaia di miliardi stanno cadendo a pioggia sul sistema finanziario (a difesa dei risparmiatori, è l’alibi) e per cercare di sostenere i consumi. Il tutto in base a un principio semplice che altre volte ha funzionato: se decine di milioni di cittadini spendono un po’ di più, sicuramente la ripresa poi decollerà. Riproponendo il solito modello di crescita, che non modifica di una virgola i rapporti sociali e la distribuzione del reddito. Si può fare diversamente? Guido Bertolaso alla Camera ha fatto sapere che «per la messa in sicurezza delle scuole servo 13 miliardi». Una cifra enorme. In gioco però non c’è solo la sicurezza dei ragazzi, ma un modello di sviluppo e di intervento nell’economia diverso. Immaginare che impulso anti-recessivo potrebbe arrivare da 13 miliardi impiegati nell’edilizia scolastica. E quanto lavoro si potrebbe creare con questo «investimento in civiltà». Ma la civiltà a questo governo non interessa. Le scuole private invece sì.
In Italia una delle cause primarie che ostacolano la crescita demografica e la partecipazione al lavoro delle donne è l’assenza di servizi e politiche sociali. Mancano migliaia di asili nido. La loro costruzione e la successiva gestione potrebbero creare decine di migliaia di posti di lavoro. Meglio gli asili nido o un bonus-bebé una-tantum e un aumento ridicolo degli assegni familiari? Detta in altra forma: meglio un maggiore welfare o un modello che monetizza (neanche tanto) la schiavitù domestica? A parte pochi euro destinati agli ammortizzatori sociali, il decreto anti-crisi del governo non punta al sostegno dei redditi - in particolare per i precari che perdono il lavoro - e a creare con interventi diretti nell’economia, nuovi posti di lavoro.
Il modello di Tremonti è quello spettacolare a miserabile della social card: 40 euro al mese possono far comodo a chi vive nella miseria, ma non ne cambiano la condizione miserabile di vita. Sono altri i servizi da fornire alle famiglie disagiate e agli anziani. Stesso discorso per la sanità. Si seguitano a tollerare gli abusi delle strutture private in convenzione, ma non si fa nulla per riportare in tempi civili le liste d’attesa per gli esami diagnostici. Per i quali servono mesi nelle strutture pubbliche e poche ore se si opta per l’intra moenia a pagamento che sfrutta la struttura pubblica.
Ogni anno, normalmente in primavera e in autunno, l’Italia frana con danni idrogeologici enormi ai quali ex post si mette qualche toppa. Quanta occupazione si potrebbe creare in questo settore? E quanta occupazione si potrebbe creare con il risanamento della rete idrica che priva di acqua milioni di famiglie e fa guadagnare miliardi alle organizzazioni mafiose? E quanta occupazione si potrebbe creare con lo sviluppo delle energie rinnovabili? Obama punta a milioni di nuovi posti; Berlusconi non punta a niente: solo alle grandi opere. Ma Brunetta fa di peggio: dopo la campagna antifannulloni, fa ricchi 3000 dipendenti politicamente scelti. E la sinistra tace: solo parlare di allargare gli spazi del welfare appare un’eresia. Meglio brindare a Luxuria.