[...] In un editoriale sul Corriere del 30 gennaio, Sergio Romano dice una cosa assai giusta, su Blair, Sarkozy e Schröder. Denuncia la propensione a mescolare pubblico e privato, a edificare carriere «sull’immagine e sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa pubblica», e conclude: «Il giudizio politico non ha bisogno di scranni, parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia (...). La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la fine di una brillante carriera». Se giornalisti prestigiosi come lui dicessero le stesse cose sull’Italia di oggi, e l’avessero detta molti anni fa, forse gli studenti dell’Aquila si sentirebbero meno soli, meno scoraggiati, meno impotenti. Poveri magari, ma non poveracci [...]
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 14/2/2010)
Non credo che gli studenti dell’Aquila chiedano menzogne e illusioni, quando gridano a Bertolaso e alla politica, ai magistrati e ai giornali: «Diteci che non è vero!». In realtà aspirano a quel che nella giustizia è essenziale. Esigono verdetti, ma ricordano che i processi si fanno innanzitutto per tutelare l’innocente. Chi non s’è macchiato di reati vuol sapere che non pagherà per altri in tribunale, che la colpa di alcuni non si farà collettiva. Solo se esistono responsabilità individuali anziché collettive la politica non perde senso, il bene cui si tiene non è cenere interrata. Quel che viene rifiutato è una cosa pubblica ridotta lo dicono gli indagati nell’affare Bertolaso a sistema gelatinoso, a una cosca che non tollera intrusioni, controlli. L’allarme è grande perché quel che vacilla è la ragion d’essere più antica della politica: la protezione dei cittadini inermi dai disastri.
Per questo lo scandalo della Protezione civile, colmo di simboli primordiali, scotta tanto. Per questo urge sapere presto chi ha colpe, chi no. Il potere dello Stato, in fondo, esiste per difendere i cittadini dalla paura, dai pericoli della natura, dalle aggressioni belliche. È chiamato Leviatano perché ha questo potere di vita e di morte, ma se protegge male non è Leviatano. Con le proprie mani porterà la propria testa alla ghigliottina. Quando decapitarono i monarchi Goethe, che non amava le agitazioni rivoluzionarie, scrisse: «Fossero stati veri re, non sarebbero stati spazzati via come con una scopa». Ma soprattutto vogliono sapere, gli studenti, che non è vero quel che gli studiosi dicono da anni e che i giudici per le indagini preliminari a Firenze ripetono quasi testualmente.
Che «viviamo una disarmante esperienza del peggio», scriveva il rapporto del Censis del 2007, aggiungendo che la nostra non era una società «ma una poltiglia cui si potrebbe sostituire il termine di mucillagine»: un «insieme inconcludente di elementi individuali e di ritagli personali tenuti insieme da un sociale di bassa lega».
Nell’ordinanza del gip, il servizio pubblico e la Protezione civile sono descritti dagli stessi indagati con vocaboli simili: un sistema gelatinoso, fatto di gente che «ruba tutto il rubabile», che confonde pubblico e privato, che in nome dell’efficienza cerca soldi e favori per sé. Un indagato dice, accennando ai lavori per il G8 della Maddalena: «C’abbiamo la patente per uccidere, cioè possiamo piglià tutto quello che ci pare». Due imprenditori sprofondano nella sguaiataggine, nei minuti stessi in cui la terra abruzzese trema.
Esordisce al telefono tale Gagliardi: «Qui bisogna partire in quarta subito, non è che c’è un terremoto al giorno». Il collega Piscitelli dice che lo sa. E ride. Al che Gagliardi: «... (lo dico ) così per dire per carità... poveracci». Piscitelli: «Va buò ciao». Gagliardi: «O no?». Piscitelli: «Eh certo... io ridevo stamattina alle tre e mezzo dentro al letto». Gagliardi: «Io pure...». Diteci che non è vero è domanda di verità, è non rassegnazione al salmo 14: «Tutti sono corrotti; più nessuno fa il bene, neppure uno».
Bertolaso e gli uomini del suo dipartimento avranno modo di difendersi, distinguendo tra vero e falso. Comunque sono già ora chiamati a condotte probe: in particolare Bertolaso, perché chi presiede un’istituzione è responsabile dei propri uomini, non può degradarli a mele marce tirandosi fuori. È solo indagato, ma l’opacità estrema della Protezione civile fa tutt’uno con l’opacità del modo berlusconiano di governare. Egli ha il peso, decisivo, che Carl Schmitt attribuisce a chi ha accesso al Leviatano. È il potere dell’anticamera del potente, «del corridoio che conduce alla sua anima. Non esiste nessun potere senza questa anticamera e senza questo corridoio» (Schmitt, Dialogo sul Potere, Il Melangolo 1990).
Il corridoio non è di per sé malefico, ma in Italia è oggi colmo di insidie: tanta è la gelatina che regna indisturbata ai vertici. Nel caso specifico, il potere indiretto di chi sta in anticamera diventa speculare a quello diretto, tende a farsi anch’esso assoluto, a non rispondere a autorità superiori, a considerare i magistrati come «dipendenti pubblici» da irreggimentare perché non eletti (l’espressione è del presidente del Consiglio). Chi oggi è in simili corridoi rischia di diventare parte di un preciso disegno: disegno che distrugge la politica, tramutando la cosa pubblica in privata. Che ostentatamente governa a partire dal proprio domicilio, trasformando Palazzo Grazioli in succedaneo di Palazzo Chigi. Che estende i territori italiani sottratti alla legge. Alle regioni ampiamente controllate dalla mafia, s’aggiungono ambiti sempre più vasti, legalmente svincolati dall’imperio della legge. È inevitabile, quando l’emergenza si eternizza e si espande smisuratamente, comprendendo settori per nulla emergenziali. L’immensa Protezione civile si accentra a Palazzo Grazioli ed è messa in condizione (soprattutto se diverrà società per azioni) di eludere la rule of law. Si politicizza e si privatizza al massimo, simultaneamente.
Bertolaso è a un bivio. Avendo dimostrato non comuni capacità di proteggere i cittadini, può prendere le distanze e salvare un’opera. Nei giorni scorsi ha detto, veemente: «Sono pronto a dare la vita per convincere gli italiani che non li ho ingannati». Non gli si chiede tanto. Si spera però che non si lasci contaminare. Proprio perché possiede un’aura di Medico-senza-frontiere, Bertolaso ha molto da perdere, dalla contiguità con la gelatina di cui è fatto Palazzo Grazioli. Se ha errato, il suo errore sarà giudicato immorale, e l’immorale distingue perfettamente il bene dal male. Solo dimettendosi Bertolaso eviterà che il corridoio verso il potente diventi, come nelle parole di Schmitt, una letale «scala di servizio».
Possono essere due, i motivi di una dimissione. O si perde la fiducia dei vertici, o la richiesta nasce nella coscienza. È difficilmente pensabile che Bertolaso non abbia orecchie per questa seconda voce, vedendo la degenerazione dell’opera che dirige da anni. Un aiuto autentico dall’alto non gli verrà, perché Berlusconi non gli somiglia: più che un immorale, lui è un a-morale. Non è Nixon pienamente conscio del male commesso che si confessa, nel 1977, al giornalista David Frost. Il film di Ron Howard lo descrive bene: la colpa lo corrode. Non così Berlusconi, ignaro di corrosioni. Egli non sa cosa sia la morale, e neppure cosa sia l’ideologia. Sventolerà l’una o l’altra, se servirà per deturpare istituzioni e contropoteri. Se non fosse a-morale non avrebbe osannato agli inizi di Mani Pulite, scatenando contro gli indagati il fuoco delle sue televisioni (lo ricordò prima di morire il tesoriere indagato della Dc, Severino Citaristi).
L’argomento che usano sia Berlusconi che Bertolaso è l’efficienza. Dice il primo: «Se un’opera è fatta bene al cento per cento e poi c’è l’1 per cento discutibile, quell’1 va messo da parte». Non è chiaro chi decida le percentuali, tuttavia. E come possa ben operare, alla lunga, una poltiglia dove si mescolano Grandi Eventi e disastri; spasso e dolore; show, morte e risate. La sindrome di impunità che regna nell’anticamera del potere, i costi maggiorati senza controllo, le imprese che si sbrigano male pur di lucrare sulla fretta: questo non è efficienza. Dalla corruzione non scaturisce efficienza.
In un editoriale sul Corriere del 30 gennaio, Sergio Romano dice una cosa assai giusta, su Blair, Sarkozy e Schröder. Denuncia la propensione a mescolare pubblico e privato, a edificare carriere «sull’immagine e sulla comunicazione piuttosto che sulla buona gestione della Cosa pubblica», e conclude: «Il giudizio politico non ha bisogno di scranni, parrucche e banco degli imputati, secondo le liturgie della giustizia (...). La vera punizione, molto più grave di una semplice sentenza, è la fine di una brillante carriera». Se giornalisti prestigiosi come lui dicessero le stesse cose sull’Italia di oggi, e l’avessero detta molti anni fa, forse gli studenti dell’Aquila si sentirebbero meno soli, meno scoraggiati, meno impotenti. Poveri magari, ma non poveracci.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
"PUBBLICITA’ PROGRESSO": L’ITALIA E LA FORZA DI UN MARCHIO REGISTRATO!!!
L’Aquila, la rabbia per le risate del prefetto.
"Venga a chiedere perdono in ginocchio"
Amarezza e sconcerto per la nuova intercettazione in cui Giovanna Iurato scherza sulle lacrime versate davanti alla Casa dello studente.
Il sindaco: "Emerge tutta la solitudine della comunità".
Pezzopane: "Ci hanno trattato come un macabro teatrino".
Il comitato vittime: "Uomini di Stato? Hanno fame di potere".
Sindacato prefetti: "Ministro dell’Interno agisca".
Il ministro Barca: "Ricostruzione inizierà il 21 marzo" *
ROMA - "È una cosa molto triste, ma non esprimo giudizi, perché le cose vorrei conoscerle nella loro interezza e nel contesto in cui si sono sviluppate". Il ministro degli Interni, Anna Maria Cancellieri, risponde così ai cronisti che le chiedono un commento sulla intercettazione del prefetto Giovanna Iurato nella quale la funzionaria dello stato scherza con l’ex capo dello Sco, Franco Gratteri, sulle lacrime versate nella sua prima visita all’Aquila dopo il terremoto.
La telefonata, a pochi giorni dall’insediamento nella carica di prefetto nel capoluogo abruzzese sconvolto dal sisma del 2009, è stata duramente commentata dai pm di Napoli, i quali hanno scritto che Giovanna Iurato "scoppiava a ridere ricordando come si era falsamente commossa davanti alle macerie e ai bimbi rimasti orfani".
Massimo Cialente, sindaco dell’Aquila, si dice sorpreso e attonito, non solo in quanto primo cittadino, ma come uomo: "Ci sto malissimo. La verità è una: mi sto accorgendo, a mano a mano che escono retroscena della vicenda aquilana, che abbiamo avuto tanta gente a lavorare con noi, ma nessuno è entrato fino in fondo in questo dramma - dice Cialente - . Anche alla luce di altre intercettazioni, da Piscicelli a Bertolaso, ciò che emerge è la solitudine di questa comunità. La cosa di quell’intercettazione che più mi colpisce è l’interlocutore della Iurato (il prefetto Francesco Gratteri, ndr) che questo racconto lo vive come fosse una cosa esterna".
Il sindaco dell’Aquila ricorda bene la commozione di Giovanna Iurato (VIDEO), la stessa che dalle intercettazioni pare rivelarsi una recita, perché conobbe il prefetto proprio quel giorno del maggio 2010, quando Iurato appena nominata posò una corona di fiori davanti alla Casa dello Studente, in memoria degli otto ragazzi morti nel crollo dell’edificio. "La Iurato mi colpì - dice Cialente - e l’ho sempre vista molto partecipe. La cosa che mi sorprende ora, ripeto, sono le sottolineature dell’interlocutore: questo fa capire come il dramma aquilano, che stiamo ancora vivendo al cento per cento, da molti non sia stato compreso".
Pezzopane: "Un macabro teatrino". Più dura la reazione dell’assessore comunale Stefania Pezzopane, all’epoca del terremoto presidente della Provincia dell’Aquila: "La lettura delle intercettazioni dell’ex prefetto Iurato mi ha colpito al punto da provocarmi un forte e doloroso senso di nausea - afferma Pezzopane - . Ancora una volta si dimostra che L’Aquila e il terremoto sono stati trattati da troppi come macabro teatrino dove fingere dolore e improvvisare lacrime, strumentalizzando bambini e vittime. Noi, che invece abbiamo pianto davvero, proviamo ribrezzo, oltre che rabbia, per quanto ci tocca ancora sopportare".
"Non bastavano gli imprenditori Piscicelli e co. a ridere di noi - prosegue Pezzopane -. Non bastavano Letta e Berlusconi preoccupati, alla vigilia dei funerali di Stato, che Bertolaso li sistemasse in posizione utile da far vedere al mondo la loro sentita commozione. Ci mancava una donna, prefetto, inviata dal governo Berlusconi, a far lacrime finte e a riderci sopra. Un orrore. Un prefetto appena insediato - aggiunge Stefania Pezzopane - che deride gli aquilani e si gratifica che i giornalisti presenti abbiano titolato le sue lacrime, lusingata di aver ingannato i giornalisti e la città intera. E l’interlocutore, altro uomo dello Stato che si diverte insieme a lei sulla nostra tragedia. Un’indecenza. Persone così non possono svolgere compiti pubblici. Si inginocchi lì dove ha versato lacrime finte e chieda perdono, se ne ha il coraggio, a quei bambini vittime del terremoto a cui ha dedicato il suo sarcasmo".
Il comitato vittime: "Pena e disprezzo". Sbigottimento, ma anche "pena e disprezzo" per la "mancanza di pietà" sono i sentimenti dei familiari delle vittime della Casa dello Studente dell’Aquila. "Se questi sono gli uomini dello Stato bisogna trovarne altri. Questi soggetti rappresentano solo fame di potere. Non sono rappresentanti delle istituzioni", dice Antonietta Centofanti, rappresentante deill’associazione. Le nuove risate sul sisma dell’Aquila, dopo quelle dell’imprenditore Francesco Maria Piscicelli, "sono l’esempio dell’ennesima situazione mediatica che ha scandito questo nostro tempo durissimo. "La più crudele e pazzesca è questa del prefetto Iurato; la più tragica quella messa in atto dalla Commissione Grandi Rischi su ordine di Guido Bertolaso".
Sindacato prefetti si dissocia. Sul caso interviene anche l’associazione sindacale dei funzionari prefettizi. Gli iscritti al Sinpref esprimono "sconcerto, amarezza e indignazione" e chiedono al ministro dell’Interno di intervenire immediatamente. Come categoria "quotidianamente impegnata a difendere i valori della legalità e della solidarietà" si dissociano da questo episodio. "Il Viminale dev’essere una casa di vetro", dicono, e "non può avere alcuna ombra". Sollevano dubbi sull’opportunità della nomina di Iurato a prefetto dell’Aquila, "dopo quello di responsabile del servizio tecnico logistico del dipartimento della pubblica sicurezza, struttura da tempo interessata da indagini ben note ed estremamente complesse". E avanza "analoghe considerazioni" per il "Prefetto Nicola Izzo, fino a pochi giorni fa Vicecapo Vicario della Polizia di Stato, per il quale stiamo chiedendo al ministro quale incarico gli sia stato conferito".
Barca: "Il 21 marzo inizia ricostruzione". Arriva una data, intanto, per l’avvio della ricostruzione all’Aquila. "Si parte a primavera, il 21 marzo". Il ministro della Coesione Territoriale, Fabrizio Barca, in un’intervista concessa a Riccardo Iacona, in onda domani sera a ’Presadiretta’ su Rai3, sembra non avere dubbi sul via alla ricostruzione dell’Aquila. "Tra quaranta giorni - spiega il ministro - annunceremo con il sindaco Cialente una ’road map’ in cui indicheremo con precisione edificio per edificio i tempi del bando di gara, dell’inizio dei cantieri e della consegna dei lavori". "Si partirà con gli edifici pubblici - spiega il ministro -. Cominceremo a giugno con il teatro San Filippo e subito dopo con il Palazzo Del Governo, che sarà sede della Provincia". Per Barca, "i soldi ci sono, anzi i soldi non sono mai stati un problema", perchè "oltre a quelli che erano stati già messi prima che intervenissimo noi, c’è un miliardo e 200 milioni di euro che abbiamo stanziato a dicembre". "Prima che io me ne vada - afferma il ministro - ci sarà la ’road map’ con tanto di targhe appese sugli edifici, perché la gente dell’Aquila sappia quale parte della città ricomincia a vivere. La stessa cosa succederà per gli edifici privati". Alla domanda sul perché la ricostruzione del centro storico non sia ancora cominciata, il ministro Barca risponde che "l’errore principale è stata la gestione non democratica della ricostruzione. Adesso invece ne abbiamo riconsegnato ai sindaci il potere e la proprietà". Nella stessa intervista il ministro rivendica che la ricostruzione leggera è molto avanti. "In questo momento - dice - sono rientrate all’Aquila 39 mila delle 67 mila persone che erano fuori casa. Siccome spesso si fa l’esempio positivo delle Marche, voglio dire che le persone rientrate all’Aquila sono il 59%, una percentuale più alta di quelli che alla stessa data erano rientrate nelle loro case nelle Marche".
* la Repubblica, 19 gennaio 2013
L’Aquila, i perché della sentenza Grandi Rischi
di Giuseppe Caporale (la Repubblica, 18 gennaio 2013)
I sette scienziati della Commissione Grandi Rischi che si riunirono all’Aquila cinque giorni prima del sisma devastante, lasciarono il loro "sapere" chiuso in un cassetto, e si prestarono a una "operazione mediatica" - voluta dall’allora capo del dipartimento della Protezione Civile Guido Bertolaso - che "disinnescò" in una parte della popolazione "la paura del terremoto" e indusse 28 delle 309 vittime della tragedia del 6 aprile 2009 "ad abbandonare le misure di precauzione individuali seguite per tradizione familiare in occasione di significative scosse di terremoto, con tragiche conseguenze".
Questo scrive il giudice Marco Billi in una delle 946 pagine di motivazioni della sentenza che ha portato alla condanna a sei anni di reclusione per omicidio colposo plurimo e lesioni gravi dei componenti della Commissione che si riunì a L’Aquila il 31 marzo del 2009, su ordine del Governo Berlusconi.
“Operazione mediatica" fatale e tragica. Scrive il giudice: "Gravi profili di colpa si ravvisano nell’adesione, colpevole e acritica, alla volontà del capo del Dipartimento della Protezione Civile di fare una ’operazione mediatica’ che si è concretizzata nell’eliminazione dei filtri normativamente imposti tra la Commissione Grandi Rischi e la popolazione aquilana. Tale comunicazione diretta, favorita dall’autorevolezza della fonte, ha amplificato l’efficacia rassicurante del messaggio trasmesso, producendo effetti devastanti sulle abitudini cautelari tradizionalmente seguite dalle vittime e incidendo profondamente sui processi motivazionali delle stesse" si legge nel dispositivo. "Dalla condotta colposa degli imputati è derivato un inequivoco effetto rassicurante".
Chi sono gli imputati. Le motivazioni della sentenza nei confronti di Franco Barberi, (presidente vicario della Commissione Grandi Rischi dell’epoca) Bernardo De Bernardinis (già vice capo del settore tecnico del dipartimento di Protezione Civile) Enzo Boschi (all’epoca presidente dell’Ingv) Giulio Selvaggi (direttore del Centro nazionale terremoti), Gian Michele Calvi, (direttore di Eucentre e responsabile del progetto Case), Claudio Eva (ordinario di fisica all’Università di Genova e Mauro Dolce direttore dell’ufficio rischio sismico di Protezione civile) sono state depositate questa mattina alla cancelleria del tribunale dell’Aquila.
"Valutazioni approssimative e generiche". "Le migliori professionalità scientifiche a livello nazionale" che in base ai loro singoli studi (pubblicati in Italia e all’estero) erano pur ben consapevoli della storia sismica del territorio, del "grave rischio di una forte scossa entro il 2015", del valore dello sciame sismico in atto come "precursore di un forte evento", si limitarono in quella riunione a una valutazione "superficiale, approssimativa e generica" con "affermazioni apodittiche e autoreferenziali, del tutto inefficaci ai doveri normativi imposti".
La colpa grave: "La carente analisi del rischio". "La colpa degli imputati è certamente grave - scrive il giudice - ampia e netta, infatti, è risultata la divaricazione tra la condotta in concreto tenuta e la regola precauzionale applicabile". E ancora: "La carente analisi del rischio sismico non si è limitata alla omessa considerazione di un singolo fattore ma alla sottovalutazione di molteplici indicatori di rischio e delle correlazioni esistenti tra tali indicatori" è scritto in sentenza.
Il sapere nascosto. Spiega il magistrato: "Il carattere distintivo degli imputati non consiste semplicemente nella quantità e nella qualità del loro sapere, ma consiste nella capacità di usare tale ’sapere’ nel senso voluto dal legislatore, ossia in senso di valutazione prevenzione e previsione del rischio. Non sottoporre tale ’sapere’ alla valutazione dei componenti della Commissione nella sede deputata del 31 marzo 2009 equivale alla morte del sapere". E continua: "Il tema relativo alla condivisione delle conoscenze specialistiche personali tra i diversi imputati è particolarmente importante. La Commissione è un organo collegiale, composto dai migliori esperti in ambito nazionale. La natura composita ed eterogenea di tale organo è prevista per legge proprio al fine di consentire e di favorire la ’comunione dei saperi’ specifici, la sinergia tra le specifiche competenze".
"Non si contesta il mancato allarme". Nella sentenza anche una delle parti che più ha fatto discutere: quella sulla possibilità di prevedere i terremoti. E il giudice lo scrive chiaramente: "I terremoti non si possono prevedere - annota Billi - ma la valutazione del rischio è stabilita dalla legge per ’mitigare gli effetti tragici’, per ’ridurre il più possibile il numero delle vittime’".
"Non è compito del giudice verificare lo stato delle conoscenze scientifiche sulla previsione dei terremoti; il compito del giudice è invece quello di accertare se la condotta tenuta dagli imputati in occasione della riunione del 31 marzo sia stata o meno pertinente ed in linea con i doveri di previsione e prevenzione ed analisi del rischio imposto dalla normativa vigente. E se tale condotta sia stata adeguata e coerente con il patrimonio scientifico conoscitivo comune tra i vari componenti della commissione".
"Non dovevano dunque prevedere il sisma, ma valutare il rischio sulla base delle loro effettive conoscenze e calibrare una corretta informazione". Non si contesta quindi un "mancato allarme", ma una "inidonea valutazione del rischio" e una "inidonea informazione".
"Ovvio sostenere che solo costruendo bene si mitigano i danni". "La tesi difensiva secondo la quale l’attività del rischio sismico consiste solo nel miglioramento delle norme sismiche, negli interventi di consolidamento strutturale preventivo e nella riduzione della vulnerabilità delle strutture esistenti, secondo gli imputati rappresenta l’unico strumento di mitigazione del rischio. Ma tale tesi appare assolutamente infondata", "ovvia" e "inutile", in quanto il nostro Paese è "caratterizzato da centri storici particolarmente estesi" e i Comuni italiani non hanno "sufficienti risorse economiche".
Quindi "accanto al richiamo circa la necessità di rafforzare le costruzioni e migliorare le loro capacità di resistere al terremoto, che ricorda più una clausola di stile che un intento concretamente attuabile, pari dignità hanno i meccanismi di analisi del rischio e di informazione alla popolazione. Tali meccanismi consentono di ridurre il rischio sismico mitigando il fattore di vulnerabilità e della esposizione attraverso strumenti alternativi finanziariamente più sostenibili, rispetto al pur auspicabile rafforzamento dell’immenso patrimonio edilizio esistente".
L’Aquila, le verità che ci hanno nascosto
di Stefania Pezzopane, Assessore al Comune dell’Aquila
«A L’AQUILA LA VERITÀ NON SI DICE». CON QUESTE POCHE PAROLE PRONUNCIATE DA BERTOLASO A BOSCHI È STATO SEGNATO IL DESTINO CRUDELE DI UNA CITTÀ. Oggi più che mai sento tutto il dolore per l’inganno che abbiamo subito. L’ennesima ulteriore dimostrazione che prima del terremoto gli aquilani non sono stati messi in condizione di essere informati su quello che stava accadendo.
Sfido chiunque ora a difendere la commissione Grandi Rischi in nome di una ideologica difesa della scienza. Queste persone erano venute all’Aquila con il proposito predeterminato di rassicurarci. I giudici sono stati non solo coraggiosi ma veri difensori dello Stato. Uno Stato che in quei giorni ci ha scientificamente ignorati. Gli scienziati infatti, invece di fare il loro mestiere, hanno piegato la loro scienza e la loro coscienza ad una logica allucinante.
Una pagina vergognosa. Nel mio libro «La politica con il cuore», che ho scritto nel 2009, avevo apertamente denunciato l’inganno e la superficialità dei quali si era resa colpevole la commissione. Nessuno, neanche il Comune dell’Aquila che si è costituito parte civile fin dal 2010, ha mai avuto intenzione di processare la scienza.
Piuttosto ci interessa accertare atti e responsabilità di quei componenti della commissione che a L’Aquila è venuta, non purtroppo per indagare il fenomeno che da mesi colpiva il territorio, bensì per obbedire al comando del capo della Protezione civile Bertolaso che in una intercettazione telefonica con l’assessore Stati affidava agli scienziati il solo scopo di fare esclusivamente «un’operazione mediatica» e «tranquillizzare la gente».
La comunità scientifica e quei politici che insorgono contro questa sentenza, nulla sanno degli atti processuali e non aspettano, come sarebbe giusto, di vedere le motivazioni della sentenza, ma più comodamente usano la metafora ideologica e davvero poco razionale del «processo alla scienza». Il ministro Clini con le sue affermazioni di difesa della commissione fa veramente rigirare nella tomba Galileo Galilei.
Mi sarei aspettata dalla comunità scientifica una presa di distanza dai comportamenti di quei «cosiddetti scienziati» che, invece di comportarsi da tali, hanno piuttosto assecondato il bisogno politico della rassicurazione, invece del bisogno scientifico dell’informazione. Quando un giudice condanna un medico che per negligenza o imperizia ha prodotto menomazioni o morte ad un paziente, è forse un processo alla medicina? O non è molto più semplicemente il processo a quel medico negligente e incapace? Quando si processa un politico che ruba e lo si condanna giustamente, non è semplicemente il processo a quel politico e alle sue ruberie e non un processo alla politica? I medici competenti e i politici onesti ringraziano i giudici che condannano incapaci e disonesti.
Questa coraggiosa sentenza rende un po’ di giustizia agli aquilani truffati prima e dopo il terremoto ed ingannati in maniera vergognosa. Il terremoto dell’Aquila non poteva essere previsto, ma a noi aquilani non è stato detto questo, è stato detto esattamente il contrario, ovvero che non era prevedibile in quel dato momento un terremoto grave e che lo sciame sismico era un fenomeno di scaricamento dell’energia, cioè un elemento positivo e tranquillizzante.
Come può allora una comunità scientifica preferire una difesa ad oltranza di chi è condannato, invece di difendere la scienza dall’oltraggio delle interferenze della brutta politica che in quella circostanza e forse anche in altre ha usato commissioni, comitati per fini che nulla c’entrano con l’informazione scientifica.
La commissione in occasione del terremoto dell’Emilia Romagna e del Pollino si è comportata molto diversamente, così come la Protezione Cilvile in più di un’occasione dopo il 6 aprile ha lanciato allarmi meteo, addirittura invitando la popolazione a non uscire di casa. Non mi sembra che quegli allarmi abbiano prodotto se non qualche disagio, gravi ripercussioni. A L’Aquila sarebbe bastato non negare l’evidenza. Mentre nella città ferita, dopo le rassicurazioni, si sono contati 309 morti e migliaia di feriti. Ma l’Aquila pur truffata ed ingannata non si arrende.
* l’Unità, 29.10.2012
La protezione incivile
di Francesco Merlo (la Repubblica, 27.10.2012)
La spavalderia è la stessa che Bertolaso esibiva sulle macerie quando si vestiva da guerrigliero geologico, da capitano coraggioso, gloria e vanto del berlusconismo, con certificati ammiratori a sinistra. Ma i testi delle telefonate che, in rete su repubblica. it, ora tutti vedono e tutti giudicano, lo inchiodano al ruolo del mandante morale. Quel «nascondiamo la verità», quel «mi serve un’operazione mediatica», quel trattare gli scienziati, i massimi esperti italiani di terremoti, come fossero suoi famigli, «ho mandato i tecnici, non mi importa cosa dicono, l’importante è che tranquillizzino », e poi i verbali falsificati...: altro che processo a Galileo! E’ Bertolaso che ha reso serva la scienza italiana.
Più passano i giorni e più diventa chiara la natura della condanna dell’Aquila. Non è stato un processo alla scienza ma alla propaganda maligna e agli scienziati che ad essa si sono prestati. E innanzitutto perché dipendono dal governo. Sono infatti nominati dal presidente del Consiglio come i direttori del Tg1 e come gli asserviti comitati scientifici dell’Unione sovietica. In Italia la scienza si è addirittura piegata al sottopotere, al sottosegretario Bertolaso nientemeno, la scienza come parastato, come l’Atac, come la gestione dei cimiteri. Dunque è solo per compiacere Guido Bertolaso, anzi per obbedirgli, che quei sette servizievoli scienziati sono corsi all’Aquila e hanno improvvisato una riunione, fatta apposta per narcotizzare.
Chiunque ha vissuto un terremoto sa che la prima precauzione è uscire di casa. Il sisma infatti terremota anche le nostre certezze. E dunque la casa diventa un agguato, è una trappola, può trasformarsi in una tomba fatta di macerie. In piazza invece sopra la nostra testa c’è il cielo che ci protegge. Ebbene all’Aquila, su più di trecento morti, ventinove, secondo il processo, rimasero in casa perché tranquillizzati dagli scienziati di Bertolaso. E morirono buggerati non dalla scienza ma dalla menzogna politica, dalla bugia rassicurante.
Purtroppo il nostro codice penale non prevede il mandante di un omicidio colposo plurimo e Bertolaso non era imputato perché le telefonate più compromettenti sono venute fuori solo adesso. E però noi non siamo giudici e non dobbiamo attenerci al codice. Secondo buon senso Bertolaso è moralmente l’istigatore dei condannati, è lui che li ha costretti a sporcarsi con la menzogna.
Tanto più perché noi ora sappiamo che questi stessi scienziati avevano previsto l’arrivo di un’altra scossa mortale, nei limiti ovviamente in cui la scienza può prevedere le catastrofi. Ebbene, il dovere di Franco Barberi, Bernardo De Bernardinis, Enzo Boschi, Mauro Dolce, Giulio Selvaggi, Gian Michele Calvi, Claudio Eva era quello di dare l’allarme. Gli scienziati del sisma sono infatti le sentinelle nelle torri di avvistamento, sono addestrati a decifrare i movimenti sotterranei, sono come i pellerossa quando si accucciano sui binari. Nessuno si sogna di rimproverarli se non “sentono” arrivare il terremoto. Ma sono dei mascalzoni se, credendo di sentirlo, lo nascondono.
Il processo dell’Aquila dunque è stato parodiato. E quell’idea scema che i giudici dell’Aquila sono dei persecutori che si sono accaniti sulla scienza è stata usata addirittura dalla corporazione degli scienziati. Alcuni di loro, per solidarizzare con i colleghi, si sono dimessi, lasciando la Protezione Civile nel caos, proprio come Schettino ha lasciato la Concordia. Il terremoto in Italia è infatti una continua emergenza: giovedì notte ne abbiamo avuto uno in Calabria e ieri pomeriggio un altro più modesto a Siracusa.
Ebbene gli scienziati che sguarniscono le difese per comparaggio con i colleghi sono come i chirurghi che scioperano quando devono ricucire la ferita.
Ma diciamo la verità: è triste che gli scienziati italiani si comportino come i tassisti a Roma, forze d’urto, interessi organizzati, cecità davanti a una colpevolezza giudiziaria che può essere ovviamente rimessa in discussione, ma che non è però priva di senso, sicuramente non è robaccia intrusiva da inquisizione medievale. Insomma la sentenza di primo grado può essere riformata, ma non certo perché il giudice oscurantista ha condannato i limiti della scienza nel fare previsioni e persino nel dare spiegazioni.
E il giudice dell’Aquila è stato sobrio. E’ raro in Italia trovare un magistrato che non ceda alla rabbia, alla vanità, al protagonismo. Ha letto il dispositivo della sentenza, ha inflitto le condanne e se n’è andato a casa sua come dovrebbero fare tutti i magistrati, a Palermo come all’Aquila. Pochi sanno che si chiama Marco Billi. Non è neppure andato a Porta a Porta per difendersi dall’irresponsabile travisamento che ai commentatori frettolosi può essere forse perdonato, ma che è invece imperdonabile al ministro dell’Ambiente Corrado Clini, il quale ha tirato in ballo Galileo e ci ha tutti coperti di ridicolo facendo credere che in Italia condanniamo i sismologi perché non prevedono i terremoti, che mettiamo in galera la scienza, che continuiamo a bruciare Giordano Bruno e neghiamo che la Terra gira intorno al Sole.
Il ministro dell’Ambiente è lo stesso che appena eletto si mostrò subito inadeguato annunziando che l’Italia del referendum antinucleare doveva comunque tornare al nucleare. Poi pensammo che aveva dato il peggio di sé minimizzando i terribili guasti ambientali causati dall’Ilva di Taranto. Non lo avevamo ancora visto nell’opera brechtiana ridotta a battuta orecchiata, roba da conversazione al Rotary, da sciocchezzaio da caffè. E sono inadeguatezze praticate sempre con supponenza, a riprova che c’è differenza tra un tecnico e un burocrate. In Italia puoi scoprire che anche il direttore generale di un ministero non è un grand commis di Stato ma un impiegato di mezza manica.
So purtroppo che è inutile invitare personaggi e comparse di questa tragica farsa ad un atto di decenza intellettuale, a restituire l’onore alla ricerca, alla scienza e alla giustizia, e a risalire su quelle torri sguarnite della Protezione Civile senza mai più umiliarsi con la politica. A ciascuno di loro, tranne appunto al dimenticabile Bertolaso che intanto si è rintanato nel suo buco, bisognerebbe gridare come a Schettino: «Torni a bordo...».
Lettera a Napolitano
Noi scienziati diciamo bravi ai giudici de L’Aquila
Egregio Signor Presidente,
siamo molto preoccupati per le fuorvianti informazioni diffuse da alcune organizzazioni scientifiche, da alcune riviste e da alcuni quotidiani sulla sentenza di condanna in primo grado dei membri della commissione Grandi Rischi, che si riunirono a L’Aquila il 31 marzo 2009. La disinformazione su tale argomento ha indotto la comunità scientifica e l’opinione pubblica a ritenere erroneamente che le motivazioni del rinvio a giudizio dei componenti della Cgr consistano nel-l’aver essi “fallito nel prevedere il terremoto”; questa interpretazione erronea può influenzare la comunità scientifica e l’opinione pubblica contro una sentenza pronunciata nel nome del popolo italiano. Una lettera firmata da oltre 5.000 esponenti della comunità scientifica internazionale era stata inviata alla Sua attenzione già prima del rinvio a giudizio, sulla base di questo falso assunto.
ABBIAMO osservato, con disappunto, che tale erronea posizione persiste anche ora che il processo al Tribunale de L’Aquila, lungo e doloroso, ha portato alla condanna in primo grado di tutti i componenti della Cgr. Ci sembra che coloro che hanno preso posizione contro la sentenza non abbiano capito, e forse neppure letto, le motivazioni dell’accusa. Noi, invece, siamo convinti che la sentenza abbia messo in luce delle precise responsabilità dei componenti della Cgr, che sono stati accusati non per non aver saputo prevedere il terremoto, bensì per aver voluto convalidare una previsione di “non rischio” in corso, nonostante alcuni di questi scienziati avessero precedentemente pubblicato articoli in cui sostenevano il contrario sulla situazione a L’Aquila. Inoltre, la mancanza d’indipendenza di giudizio della Cgr, che ha rilasciato dichiarazioni in linea con il Dipartimento della Protezione civile, dimostra che il rapporto tra il mondo della ricerca e le istituzioni preposte alla salvaguardia della popolazione deve essere rivisto.
IL PROCESSO è stato pubblico ed è accuratamente documentato nei registri giudiziari. La documentazione processuale, già disponibile, dimostra che non si è messa in discussione, né tantomeno attaccata, la scienza. Lo scopo del processo è stato solo di accertare la verità, per il trionfo della giustizia, non certo di intimidire la scienza. Questo procedimento giudiziario costituirà un riferimento, dal punto di vista giuridico internazionale. Interpretandolo come un attacco alla scienza e agli scienziati, i detrattori dei suoi esiti travisano la realtà dei fatti. Noi crediamo, al contrario, che tali esiti siano di estrema importanza per stimolare i ricercatori a “fare scienza” in modo responsabile e imparziale, in particolare quando si tratta di indagare fenomeni naturali non prevedibili con precisione e suscettibili di gravissime conseguenze quali sono i terremoti. Siamo convinti che tutte le persone dotate di buon senso concorderanno sul fatto che gli scienziati, inclusi i membri del Cgr, sono tenuti a rispondere delle loro azioni in modo responsabile - così come anche tutti gli altri professionisti - in materia di Protezione civile. È giusto che il rispetto e l’onore concessi loro dalla comunità siano da essi ricambiati con un’attività svolta con integrità, altruismo e onestà.
Non ci sentiamo per nulla minacciati nella nostra professionalità dalla sentenza di condanna del Giudice Marco Billi del Tribunale de L’Aquila. Essa non riguarda la scienza, non è una condanna alla scienza. Siamo fortemente in disaccordo con chi paventa che, a seguito della sentenza del Tribunale de L’Aquila, gli scienziati, in futuro, avranno paura di fornire la propria opera a supporto alla Protezione civile. Riteniamo che una tale infondata visione sia il risultato diretto dell’errata interpretazione delle motivazioni dell’accusa e della sentenza di condanna che le ha recepite. Pensiamo che la conclusione di questo tragico evento possa rappresentare l’inizio di un percorso più virtuoso, dal punto di vista sia scientifico che etico, per il futuro dell’Italia.
GLI SCIENZIATI saranno, in futuro, più che disposti a mettere al servizio della comunità la loro esperienza, usando maggiore precauzione sia nell’analisi del rischio sia nella comunicazione alla popolazione, soprattutto per la salvaguardia della sicurezza della popolazione, alla quale dovranno essere comunque sempre comunicati, con onestà, i limiti delle conoscenze scientifiche. Infine, sottolineiamo che, anche se i terremoti non sono prevedibili con precisione, la politica della Protezione civile può essere efficacemente indirizzata anche dai risultati dei più recenti studi sia nel settore della sismologia sia in quello dell’ingegneria sismica, che tengano in considerazione l’evento massimo atteso, che può essere stimato in modo “robusto”, sia nel breve che sul lungo termine.
* I soci fondatori e sostenitori dell’International Seismic Safety Organization: Alessandro Martelli, Lalliana Mualchin, Benedetto De Vivo, Indrajit K. Ghosh, Allen W. Hatheway, Jens-Uwe Klügel, Vladimir G. Kossobokov, Ellis L. Krinitzsky, Efraim Laor, Giuliano Panza, Mark R. Petersen, Francesco Stoppa, Augustin Udias, Patrick J. Barosh
* il Fatto, 15.11.2012
Berlusconi-Letta-Bertolaso. Così "la politica del fare" ha umiliato la legge
Dall’alto è stato offerto un salvacondotto a comportamenti storti
I compari e la Triarchia
il sistema dell’emergenza
di GIUSEPPE D’AVANZO *
Deflagra lo scandalo della Protezione civile e Silvio Berlusconi urla ai magistrati "Vergognatevi!" e, in fretta, corre a nascondersi per sette giorni tra le quinte. Si defila. Sta alla larga, muto come un pesce. Ben protetto, attende gli eventi e ora che il fondo "gelatinoso" - familistico, combriccolare, spregiudicato, avidissimo - è in piena luce, il premier avverte il pericolo, come un fiato caldo sul collo. Può scoppiargli tra le mani, quest’affare. Prova a uscire dall’angolo. Rinuncia a trasformare in un soggetto di diritto privato, in una società per azioni, le "funzioni strumentali" della Protezione civile. Abbandona la pretesa di garantire l’impunità amministrativa a chi la governa. Accantona l’idea di imporre al Parlamento un altro voto di fiducia. Si accorge che quei passi indietro non sono sufficienti. Non lo proteggono abbastanza da quel che si scorge nel pozzo nero dove si sono infilati molti dei suoi fedelissimi, addirittura il coordinatore amatissimo del suo partito. Si decide a una proposta che, fiorita sulla sua bocca, appare avventurosa: "Chi sbaglia e commette dei reati non può pretendere di restare in nessun movimento politico" (se non se stesso, quanti del suo inner circle dovrà escludere dal Palazzo?).
Al di là del messaggio promozionale che, vedrete, durerà il tempo della campagna elettorale, il premier si sente interrogato e coinvolto dallo scandalo. Finalmente, perché il modello del trauma e del miracolo, dell’emergenza risolta con un prodigio - non è altro che questo la Protezione civile - è il fondamento della "politica del fare", la strategia che glorifica una leadership politica che ha in Gianni Letta la guida burocratico-amministrativa e in Guido Bertolaso il pilota tecnocratico. Il destino dell’uno è avvinto alla sorte dell’altro, degli altri, come in un indistricato nodo gordiano perché il sistema della Protezione civile è il prototipo del potere che Berlusconi pretende e costruisce. E’ il dispositivo che anche pubblicamente Berlusconi invoca quando dice: "Per governare questo Paese ho bisogno dei poteri della Protezione civile".
La storia è nota, oramai. Il sovrano decide l’eccezione rimescolando l’emergenza con l’urgenza e infine l’urgenza con l’ordinarietà. Nel "vuoto di diritto", cade ogni regola. Si umilia la legge. Il governo può affermare l’assolutezza del suo comando. Lo affida alla potenza tecnologica della Protezione civile, libera di decidere - al di là di ogni uguaglianza di chances - progetti, contratti, direzione dei lavori, ordini, commesse, consulenze, assunzioni, forniture, controlli. La scena è ancora più vivace se si rileggono le parole del bardo televisivo del premier: "Piaccia o non piaccia, Berlusconi è l’uomo del fare. Sbuffa contro le lentezze di un sistema bicamerale perfetto e si rifugia nei decreti legge. Lamenta gli estenuanti dibattiti parlamentari e propone di far votare solo i capigruppo. Si sente imbrigliato nei vincoli costituzionali che il presidente della Repubblica (e ora anche quello della Camera) gli ricordano. Ma appena arriva un’emergenza rinasce. Perché rinasce? Perché emergenza chiama commissario e il commissario agisce per le vie brevi, saltando le procedure. Guido Bertolaso e Gianni Letta si ammazzano di lavoro, l’uno sul campo, l’altro nelle retrovie di Palazzo Chigi. Ma il commissario ideologico è il Cavaliere. ... Quando va a L’Aquila, Berlusconi si siede con gli uomini della Protezione civile e guarda carte, rilievi, progetti. Niente doppie letture parlamentari in commissione e in aula, niente conferenze di servizi, niente rallentamenti burocratici, niente fondi virtuali" (Bruno Vespa, Panorama, settembre 2009).
* * *
Adesso sappiamo che cosa si è mosso e ritualmente si muove dietro l’emergenza, sia essa il G8 alla Maddalena, i rifiuti di Napoli, il terremoto dell’Aquila o i festeggiamenti per i 150 anni dell’Unità d’Italia. Berlusconi, "commissario ideologico", laboriosamente chino su "carte, rilievi e progetti" è un’immagine che bisogna ricordare. Racconta una presenza e una responsabilità. Spiega meglio di tante parole perché - ora che quel potere assoluto si scopre corrotto - lo scandalo della Protezione civile è lo scandalo di una leadership politica, il dissesto della "politica del fare", lo smascheramento della materia di cui è fatta, di un metodo, degli uomini che lo interpretano. Nel cerchio infimo della responsabilità troviamo gaglioffi che ridono di tragedie e lutti che presto diventeranno - soltanto per loro - fortuna e ricchezza; funzionari dello Stato che barattano i loro obblighi per i favori di una prostituta; giudici costituzionali in società con imprenditori malfamati; segretari generali di Palazzo Chigi che esigono prebende e benevolenze perché sanno di poterle pretendere (è a Palazzo Chigi, nella stanza di Gianni Letta, che tutto si decide e quindi...); un corteo di mogli, cognati, figli, fratelli - rumoroso e vorace come una nube di cavallette - in cerca di collocazione, incarichi, provvigioni, affari, magari soltanto uno stipendiuccio da incassare senza troppa fatica. Qualche malaccorto minimizza: non è una notizia che politici e amministratori si interessano di appalti. L’argomento dovrebbe chiudere il discorso, lasciare cadere in un canto che quegli appalti interessavano soltanto alcuni, sempre gli stessi, e non il mercato, non i migliori, non la pubblica utilità; far dimenticare che dove non ci sono regole, dove non soffia l’aria fresca dell’attenzione e della critica pubblica è inevitabile che "cresca come un fungo una corruzione senza colpa".
Una corruzione senza colpa è quel che si scorge a occhio nudo nello scandalo della "politica del fare", al di là di ogni indagine giudiziaria, come se le condotte di quegli uomini di Stato e civil servant e professionisti e imprenditori fossero necessitate, come se le loro azioni fossero, più che una libera decisione, "un adempiere, un ’riempirè tasselli già pronti". Costretti in un "sistema", come può esservi responsabilità e castigo? In qualche modo, è vero perché "di rado un individuo si rende colpevole da solo", ha scritto Joseph De Maistre. Le ragioni di quelle responsabilità devono essere rintracciate in un cerchio più alto, allora, nella triarchìa (Berlusconi, Letta, Bertolaso) che ha voluto e creato un metodo, ne ha amministrato le condizioni e i risultati, ha lasciato un salvacondotto a quei comportamenti storti. E’ per questo che oggi Bertolaso e Letta devono mentire o dissimulare (non sapevamo, non siamo stati informati, siamo stati informati male) e Berlusconi deve lamentare che i suoi due collaboratori "sono stati ingannati". Bene. Ammettiamo che siano stati imbrogliati davvero e chiediamoci: Bertolaso e Letta hanno avuto la possibilità di non lasciarsi ingannare? Sono stati messi nella condizione di sapere e provvedere? Non dallo zibaldone delle intercettazioni, ma dalle stesse parole di Bertolaso si può trarre la conferma di una consapevolezza delle manovre smorte e della necessità di non punire per salvaguardare il "sistema".
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Dice Bertolaso: "A un certo punto, ho scoperto che alla Maddalena dei lavori, che avevamo previsto costassero 300 milioni di euro, stavano per essere appaltati a 600. Incaricato della pratica era un certo De Santis. Io ho capito che qualcosa non tornava. Ho allontanato De Santis" (il Giornale, 14 febbraio).
Dunque, salta fuori che l’ingegnere Fabio De Santis, "soggetto attuatore" dei progetti del G8 - Bertolaso finge di non sapere chi è, anche se lo ha scelto direttamente - potrebbe essere disonesto. Lo sostituisce. Non segnala a nessuno il suo sospetto o le sue certezze nemmeno quando Fabio De Santis, pur privo delle qualifiche idonee (non è un direttore generale), è nominato provveditore alle opere pubbliche in Toscana e Umbria, dove diventerà il perno di un "sottosistema" che ha il cardine politico nel coordinatore del Partito delle Libertà, Denis Verdini, e l’asse imprenditoriale in Riccardo Fusi della Baldassini-Tognozzi-Pontello. A livello locale, si riproduce un triangolo speculare e simmetrico a quel che governa lassù in alto, a Roma. Bertolaso sa di non poter denunciare quel "certo De Santis" perché il sistema che sostiene la strategia dell’emergenza e il "fare" è oligarchico, protetto, "chiuso". Egli ne è parte costituente e perno essenziale. Sa del familismo di un altro "soggetto attuatore", Angelo Balducci, ma come denunciarlo se egli stesso, il gran capo della Protezione civile, il leader tecnocratico del "fare" berlusconiano, chiama al lavoro, dovunque operi, il cognato? Bertolaso sa dove si trova, sa qual è il suo mestiere e la sua parte in commedia, è consapevole di quali fili che non deve toccare, delle richieste che deve soddisfare.
Ancora un esempio, per comprendere meglio. E’ tratto non dai brogliacci dei carabinieri, ma dal lavoro giornalistico. Si sa chi è Gianpaolo Tarantini. E’il ruffiano che ingaggia prostitute per addolcire le notti di Silvio Berlusconi. Si sa che Tarantini vuole lucrare da quella attività affari e ricchezza. Chiede al capo di governo di incontrare Bertolaso. Gli vuole presentare un suo socio o protetto, Enrico Intini, desideroso di entrare nella short list della Protezione civile. Berlusconi organizza il contatto. Bertolaso discute con Intini e Tarantini. Quando la storia diventa pubblica, Bertolaso dirà: "La Protezione civile non ha mai ordinato né a Intini né a Tarantini l’acquisto di una matita, di un cerotto o di un estintore". E’ accaduto, per Intini, di meglio. Peccato che Bertolaso non abbia mai avuto l’occasione di ricordarlo. L’impresa di Intini ha vinto "la gara per il nuovo Palazzo del cinema di Venezia, messa a punto dal Dipartimento guidato da Angelo Balducci, appalto da 61,3 milioni di euro". Scrive il Sole 24 ore: "La gara ha superato indenne i ricorsi delle imprese escluse e dell’Oice (organizzazioni di ingegneria) in virtù delle deroghe previste per la Protezione civile". Anche per Tarantini non è andata male. Ha una società che naviga in cattive acque, la "Tecno Hospital". La rileva "Myrmex" di Gian Luca Calvi, fratello di Gian Michele Calvi, direttore del progetto C. A. S. E., la ricostruzione all’Aquila di 183 edifici, 4.600 appartamenti per 17mila persone con appalti per 695 milioni di euro. Come si vede, forse il ruffiano di Berlusconi e il suo amico non hanno venduto alla Protezione civile una matita, ma la Protezione civile, direttamente o indirettamente, qualche beneficio a quei due glielo ha assicurato.
* * *
Shakespeare ha scritto che per un governante "lasciare al misfatto (evil) un qualche compiacente lasciapassare - invece di colpirlo - è l’equivalente di averlo ordinato" (Misura per misura). E’ quel che si vede nello scandalo della "politica del fare". Chi governa, vede e sa. Lascia correre, chiude gli occhi e si volta dall’altra parte per proteggere un "sistema" che privatizza l’intervento dello Stato, chiudendolo nel cerchio stretto delle famiglie, degli amici politici, dei compari di convivio. Non si discute di responsabilità penali (se ci saranno, si vedrà, e poi quasi mai per capire e giudicare bisogna attendere una sentenza). E’ in discussione un "sistema", un dispositivo di potere, chi lo ha creato, l’affidabilità di chi lo governa, la responsabilità di decisione e controllo che Berlusconi, Letta e Bertolaso si sono assunti dinanzi al Paese.
Gianni Letta, governatore della macchina burocratico-amministrativa in nome di Berlusconi, sarà anche stato distratto quando Angelo Balducci è asceso alla Presidenza del Consiglio superiore dei lavori pubblici (ora è in galera) o quando quel "certo De Santis" è stato destinato alle opere pubbliche della Toscana e dell’Umbria. Il sottosegretario alla Presidenza del consiglio, candidato dal presidente del consiglio alla Presidenza della Repubblica, sarà stato anche "informato male" quando ha detto che non ha mai lavorato in Abruzzo (ci ha lavorato fin dalla prima ora), quel furfante che rideva mentre, alle 3,32 del 6 aprile del 2009, 308 aquilani morivano, 1.600 erano feriti e 63.415 restavano senza casa, ma ci si deve chiedere allora: quante volte Gianni Letta è stato "informato male" o è stato distratto negli anni dello "stato d’eccezione"? Lasciamo cadere ogni ipotesi di complicità o favore (e in alcuni casi è impossibile non scorgerla), come si possono conciliare i poteri assoluti della triarchìa con l’irresponsabilità con cui ha assolto al suo dovere? Né vale dire che all’Aquila i poteri straordinari della Protezione civile si sono rilevati efficienti. Come purtroppo si rendono conto gli aquilani, la "politica del fare", giorno dopo giorno, sta mostrando quel che era: miracolismo mediatico. Un modello centralista e autoritario - il prototipo del potere berlusconiano - ha trasformato un’antica città con un sistema urbano delicato e un centro storico prezioso e vitale (perderà due terzi degli abitanti e nulla si sa delle strategie e dei piani per farlo rivivere) in un deserto di venti periferie e quartieri satellite che travolgono i luoghi, la memoria, i legami sociali, deformandone l’identità culturale, pregiudicando un futuro a cui è stata promessa "la ricostruzione" e ha ottenuto soltanto un progetto edilizio e nulla più. Ma questa è un’altra storia che presto saranno gli stessi aquilani a raccontare. C’è da credere che saranno loro, gli aquilani, a spiegare agli italiani con il tempo e la loro infelice esperienza che cos’è davvero la "politica del fare", perché lo scandalo della Protezione civile è il tracollo di un prototipo di potere, il più clamoroso fallimento dell’"uomo del fare".
© la Repubblica, 19 febbraio 2010
Centinaia di persone in piazza con cartelli con scritto
’Io non ridevo’ e ’Riprendiamoci la nostra città’
forzato un posto di blocco all’altezza dei Quattro cantoniper entrare a Piazza Palazzo
L’Aquila, i terremotati invadono la zona rossa
"Non possono portarci via 700 anni di storia"
Sono saliti sui cumuli di macerie del terremoto
di aprile urlando la propria rabbia.
Ognuno ha preso una pietra
L’AQUILA - Centinaia di aquilani si sono ritrovati stamani in piazza con cartelli con scritto ’Io non ridevo’ e ’Riprendiamoci la nostra città’, in segno di protesta alla luce delle intercettazioni divulgate negli ultimi giorni relative all’inchiesta fiorentina sugli appalti del G8. I manifestanti hanno forzato un posto di blocco all’altezza dei Quattro cantoni, nel cuore della zona rossa, per entrare a Piazza Palazzo, considerata inaccessibile.
Le forze dell’ordine, dalla polizia all’esercito, hanno provato a impedire ai manifestanti, circa 300, di varcare le transenne, ma è stato inutile: al primo tentativo di forzare i blocchi, le persone al posto di guardia hanno preferito lasciar passare la gente per evitare disordini. Così i manifestanti hanno raggiunto piazza Palazzo, la stessa in cui un mese fa era stato celebrato un Consiglio comunale tra cumuli di macerie. Gli stessi cumuli su cui una decina di aquilani sono saliti, urlando la propria rabbia per non avere più a disposizione la loro città. Simbolicamente ogni persona ha preso con sè una pietra dalle macerie residue dai crolli del terremoto di aprile.
"Non possono portarci via 700 anni di storia - ha commentato la docente universitaria Giusi Pitari, tra i manifestanti - è ora di riprenderci la nostra città, siamo indignati - ha proseguito - anche di fronte all’assenza dei nostri rappresentanti istituzionali".
"Non ridevamo, non ridevamo quella notte - ha urlato un altro dei manifestanti, Stefano Cencioni - perché tra questi vicoli sono morte delle persone, e queste macerie ne sono la testimonianza". Cencioni, un uomo sulla quarantina, ha voluto precisare che il suo "non è uno sfogo contro il sistema della Protezione Civile che tanto ha dato a questa città". "Ho conosciuto volontari - ha detto - che hanno lasciato le loro attività anche in Sicilia e in Valle d’Aosta per venire ad aiutarci e la persona a capo di questo sistema non può essere una persona da condannare", ha detto riferendosi a Guido Bertolaso. Molte sono state però le critiche rivolte al capo della Protezione Civile sollecitate da quei comitati cittadini vicini al Movimento ’3e32’ che fin da subito non hanno risparmiato critiche al sistema del Dipartimento.
* la Repubblica, 14 febbraio 2010
Onna sfida gli sciacalli del sisma "Piscicelli venga a trovarci"
Il coraggio degli onnesi è senza limite: dal paese simbolo del terremoto parte l’invito ai due imprenditori che ridevano al telefono la notte del sei aprile
di Giustino Parisse
L’AQUILA. Ieri mattina sul presto - ero ancora un po’ intorpidito da una notte come al solito travagliata - ho ricevuto la telefonata del vicepresidente della Onna Onlus (l’associazione che si occupa di seguire le vicende della ricostruzione), Gianfranco Busilacchio. Mi chiedeva se potevo procurargli l’indirizzo dell’avvocato di quel tal Piscicelli, quello che rideva la notte del terremoto pensando agli affari, suoi, mentre noi eravamo travolti dalle macerie, dalla polvere e dal dolore. Ho pensato che volesse mandargli una lettera di insulti da girare poi al suo cliente. Invece Gianfranco mi ha sorpreso: «Ma no, voglio scrivergli per invitare lui, Piscicelli, e tutta la sua famiglia a passare una giornata qui da noi a Onna. Forse vedendo le macerie e parlando con chi il sei aprile ha perso tutto si renderà conto dell’enormità e dell’assurdità di quanto ha affermato, così come risulta dalle intercettazioni della Procura di Firenze».
Io non so se quell’incontro mai ci sarà. Se dovessi stabilirlo adesso non sono convinto di voler essere presente. Quelle parole, al di là di giustificazioni e scuse, sono una ferita che si è andata ad aggiungere alle altre. E oggi, se non avessi un impegno preso già da tempo, sarei anch’io in piazza Duomo con tanti aquilani sdegnati. Però ho apprezzato quel sentimento di apertura e disponibilità che arriva dal rappresentante di una comunità che fra le rovine ha perso tutto ma ha saputo mantenere dignità e identità, cosa che invece «quei due» non hanno mai avuto.
IL CARNEVALE. La ricostruzione - come è noto - non è fatta solo da cemento, ferro e mattoni ma si nutre anche di gesti ed eventi simbolici. E ieri a Onna, nel centro polifunzionale, la comunità ha provato a tornare a sorridere. È stata infatti organizzata una festa di Carnevale alla quale hanno preso parte molti bambini che frequentano l’asilo delle suore. Nel luogo dove dopo il sei aprile era stata sistemata la tendopoli si sono visti i coriandoli, le grida gioiose dei bimbi, una musica allegra. Negli occhi degli adulti ho visto un lampo di speranza per quelle mascherine festose sotto alle quali c’erano i volti di coloro che un giorno torneranno a fruire del paese completamente ricostruito.
IL MATRIMONIO Stamani ci sarà un altro momento importante per la comunità. Più di dieci mesi fa una coppia di giovani, Valentina e Francesco, aveva deciso di sposarsi. Il terremoto ha sconvolto i piani e la cerimonia è stata rinviata. Ma intanto la coppia ha avuto un bel bebé, Daniel, e stamani, alle 11, nella piccola chiesa provvisoria di Onna, saranno celebrati dal parroco, don Cesare Cardozo, un matrimonio e un battesimo. È la vita che va avanti e che non si fa sconfiggere dal terremoto.
IL BOSCO SACRO. E la comunità non dimentica chi non c’è più. Oggi, sempre a Onna, verrà presentato il progetto di un bosco sacro. Ci saranno 41 alberi, uno per ogni abitante di Onna che ha perso la vita sotto le macerie. Sarà realizzato in uno spazio a fianco al nuovo villaggio di legno. Sarà - come afferma chi ha promosso l’iniziativa - «un parco per la memoria, un bosco in cui chi è sopravvissuto non si senta solo». (14 febbraio 2010)
* Fonte: Il Centro
La società fra etica e anestetica
di ILVO DIAMANTI *
Il sospetto è che: "Tanto rumore per nulla". Come altre volte. Che il clamore intorno allo scandalo sugli appalti gestiti dalla Protezione civile in vista del G8 a La Maddalena e nella ricostruzione, dopo il terremoto in Abruzzo, alla fine, non produca effetti.
Non ci riferiamo all’ambito giudiziario. L’inchiesta seguirà il suo percorso, per accertare la fondatezza di accuse tanto infamanti. Ne verificherà le responsabilità e i responsabili. Non ci riferiamo neppure al versante politico, dove tutto si è svolto secondo copione. A partire dalla difesa del premier nei confronti del sottosegretario Bertolaso. Attesa e prevedibile, anche nelle parole. Quasi per riflesso pavloviano. Il nostro sospetto riguarda, invece, l’atteggiamento della "società media", rilevato dai sondaggi. Tradotto e banalizzato in Opinione Pubblica. L’opinione della maggioranza. Silenziosa. Il sospetto è che, anche questa volta, la reazione della "società media" si limiti a quel brontolio, continuo e diffuso, che pervade la vita quotidiana. Dove tutti - davvero: tutti - si lamentano, recriminano, criticano.
A voce bassa. Dichiarano la loro sfiducia verso i "politici". Di ogni parte. Ma soprattutto di sinistra, perché loro, prima e più degli altri, hanno sollevato la questione "morale". Se ne sono fatti garanti. Finendone, anch’essi, invischiati. Per cui prevale la convinzione - popolare - che ogni reazione, ogni moto di indignazione: è inutile. Non serve. Sono tutti uguali. E nulla cambia.
Da ciò il rischio: l’assuefazione a ogni scandalo. Che quindi non dà più scandalo. E induce, anzi, a guardare con sospetto chi si scandalizza. A trattarlo - con acida ironia - da "professionista dell’indignazione". Così, dopo ogni esplosione polemica, sopravviene - e ritorna - il silenzio. O meglio: il mormorio. La colonna sonora (meglio: il sottofondo) al tempo della "società sfrenata". Senza freni. Perché, anzitutto, si sono persi i riferimenti che associavano e orientavano i cittadini. Nel rapporto con le istituzioni e con il governo. I partiti di massa, grandi educatori al servizio di un progetto futuro. Dissolti. Personalizzati e oligarchici. Le grandi organizzazioni "intermedie" di rappresentanza. I sindacati, in primo luogo. Perlopiù burocratizzati. Una base ampiamente composta da impiegati pubblici e pensionati. Difficile chiedere loro di imporre vincoli morali. Fatica perfino la Chiesa, scossa e divisa al suo interno, come dimostrano le tensioni emerse dopo la campagna diffamatoria che ha costretto alle dimissioni il direttore dell’Avvenire, Dino Boffo. Lo stesso mondo del volontariato, il mitico Terzo settore, oggi appare impegnato - peraltro, con successo - sul mercato dei servizi più che dei valori. E gli "intellettuali". Reclutati dai media. (Soprattutto dalla tivù). Oppure dai partiti. Voci deboli, perché hanno poco da dire. (Io, naturalmente, non mi chiamo fuori. Anche se la definizione di "intellettuale" mi fa rabbrividire).
Così, oggi è difficile trovare soggetti in grado di rafforzare il senso "civico" della società, ma anche di inibire il senso "cinico". Mancano, cioè, i "freni". Gli stessi "anticorpi della democrazia", come scrive da tempo Giovanni Sartori.
Ma forse c’è dell’altro. Oltre al "familismo amorale", riferito alla società del Mezzogiorno nel classico studio di Edward Banfield degli anni cinquanta - e oggi esteso all’intera società italiana. Oltre alla delusione prodotta dal ripetersi ciclico di rivolte antipolitiche puntualmente riassorbite e rimosse. Prima Tangentopoli, poi, quindici anni dopo, la Casta. E come effetto: dai partiti di massa ai partiti personali, ispirati da Forza Italia e Silvio Berlusconi.
Oltre a tutto ciò, dietro al disincanto diffuso del nostro tempo, c’è la mutazione del rapporto fra società e politica. Mediato dai media. Cioè: im-mediato. Senza mediazione. La politica e i leader di fronte agli elettori soli. In modo asimmetrico e squilibrato. Perché oggi la metafora più adeguata per descrivere il sistema della rappresentanza (ben delineata dal filosofo Bernard Manin) richiama la "scena", dove si confrontano gli attori e il pubblico. Il quale può, certamente, decretare il successo oppure il decesso di un programma e (simbolicamente) di un attore. Ma, appunto, non è lui a decidere i palinsesti. Perché può solo reagire a un’offerta elaborata dall’esterno. A cui non partecipa. Ebbene, fatti e attori della scena politica in questa fase propongono una rappresentazione davvero amorale. Dove il dolore si mischia alla speculazione, la tragedia alla corruzione. Dove il pianto è interrotto dalle risa. La biografia del potere accosta, una accanto all’altra, figure e immagini di generi contrastanti.
Da Rosarno a Palazzo Grazioli. Da L’Aquila alle telefonate di Balducci, Anemone e compagnia. E poi: i morti sul lavoro, i potenti della terra, escort e veline, aggressioni violente, il volto insanguinato del premier. Le immagini si sommano e si confondono. Senza soluzione di continuità. In questo paese provvisorio, abitato da post-italiani (per usare una felice e amara definizione di Edmondo Berselli), tutti siamo spettatori di una rappresentazione in-differente. Dove non c’è differenza fra giusto e ingiusto, giudici e malfattori, furbi e onesti. Buoni e cattivi. Perché i cattivi, i furbi e i disonesti fanno audience. Questa democrazia fondata sulla "deroga" (come l’ha chiamata nei giorni scorsi Ezio Mauro) rammenta un reality, anzi: iper-reality show. Dove al massimo possiamo "nominare": Bertolaso oppure Berlusconi. (Gli altri sono già usciti dal gioco). Consapevoli del rischio: che il nominato, invece di essere escluso, resti protagonista della scena. Come prima e più di prima.
D’altronde, è difficile vedere alternativa. Se ci si arrende al pensiero unico: del partito personale, della scena mediatica al posto del territorio, dello spettatore al posto del cittadino, del senso comune al posto del senso civico. Dell’Opinione Pubblica dettata dai sondaggi invece che dal dibattito "pubblico" sui problemi, con la partecipazione degli attori sociali e degli intellettuali.
Allora il senso civico si confonde con il senso comune. E il senso etico diventa, al più, anestetico.
* © la Repubblica, 14 febbraio 2010
L’EDITORIALE - CON DIECI DOMANDE A BERTOLASO
Così hanno espropriato
Costituzione e parlamento
di EUGENIO SCALFARI
La prima parola che viene in mente è bordello, nel senso letterale e metaforico del termine già usato da Dante nella celebre apostrofe "Non donna di province ma bordello", cui si potrebbe aggiungere l’altro verso della stessa terzina: "Nave senza nocchiero in gran tempesta". Il padre della nostra letteratura, cioè della nostra storia, aveva scolpito ottocento anni fa uno dei connotati permanenti della nostra società, per fortuna non il solo, ma purtroppo quello più ricorrente.... (la Repubblica, 14.02.2010)
Scalfari risponde alla lettera di Bertolaso
È difficile correre
con le scarpe nel fango
EUGENIO SCALFARI (la Repubblica, 15.02.2010)
Via libera della commissione ambiente di Montecitorio al decreto emergenze: soppresse le norme contestate
Una norma consentirà ai cittadini dei territori colpiti da uno stato di calamità di non pagare i tributi per sei mesi
Protezione civile, Bertolaso: "Resto"
Cancellata la norma sulla Spa
"Pronto a farmi interrogare, ma non so da chi"
ROMA - Mentre restano in carcere gli indagati per l’inchiesta per i lavori del G8 alla Maddalena che lo vede coinvolto, il sottosegretario alla presidenza del consiglio e responsabile della Protezione civile, Guido Bertolaso annuncia di non voler fare passi indietro: "Mi hanno chiesto di restare e continuare a fare il mio dovere. Dopo di che, domani vedremo". Parole pronunciate mentre viene soppressa la norma che puntava ad introdurre la Protezione civile Spa. Solo un accenno alle vicende giudiziarie che lo riguardano: "Vorrei farmi subito interrogare, ma non so da chi. La procura di Firenze non è competente e sembra che i magistrati di Perugia non abbiano ancora le carte. Voglio subito chiarire la mia posizione".
Via la Protezione Spa. La commissione Ambiente di Montecitorio ha approvato tutti gli emendamenti di relatore e governo al decreto emergenze, sopprimendo le norme sulla Protezione civile Spa. Il decreto approderà domani in aula. Gli emendamenti presentati dal relatore sono una decina: tra questi quello soppressivo della norma dell’articolo 16. Di questo articolo, tuttavia, restano in piedi le competenze relative alla flotta aerea, come già anticipato da Bertolaso in commissione.
Modificato anche l’articolo 3 nella parte contestata dal Pd che prevede una sorta di scudo giudiziario per i commissari straordinari in Campania: "Lo scudo resta ma riguarda soltanto cause amministrative e civili e non quelle penali e viene specificato meglio, anche se secondo me era già chiaro, che è relativo soltanto alla campania", spiega il presidente della commissione Ambiente Agostino Ghiglia (Pdl). Scompare anche la norma dell’articolo 15 che prevedeva la vigilanza da parte della Protezione civile sulla Croce rossa, mentre sull’emergenza carceri resta la competenza della Protezione civile. Una norma, inoltre, consentirà ai cittadini dei territori colpiti da calamità di non pagare i tributi per sei mesi. "L’importante - dice il sottosegretario alla presidenza del consiglio - è che non sia stata cancellata del tutto la Protezione civile. Quella prevista dal decreto era una struttura aggiuntiva per renderla più agile e funzionale". Bertolaso è convinto che la Spa fosse semplicemente di supporto al lavoro della Protezione civile: "Era una struttura aggiuntiva, non c’era alcuna trasformazione come qualcuno continua a scrivere".
Le reazioni. "Se il governo ritira quell’articolo fa il suo dovere. Per noi e’ il punto più importante. Non possiamo allestire una società che è un colpo allo Stato e un colpo al mercato, è un pasticcio enorme" taglia corto il segretario del Pd Pier Luigi Bersani. "Lo scandalo della Protezione Civile è solo la punta dell’iceberg - rimarca Antonio Di Pietro - Tangentopoli non è mai cessata". Il leader dell’Udc Pier Ferdinando Casini, invece, fa più esplicitamente riferimento al caso Bertolaso: "Un servitore dello Stato non può essere ghigliottinato prima che siano chiare le sue responsabilita’’. Umberto Bossi, infine, si schiera con Bertolaso: "Non si deve dimettere, perché bravo è bravo. Il problema era la privatizzazione della Protezione civile". Che adesso è stata messa nel cassetto.
* la Repubblica, 16 febbraio 2010