di Franco Cordero (la Repubblica, 23.01.2010)
Nelle classifiche dei paesi evoluti l’Italia naviga male e detiene un primato poco invidiabile, lo stile criminofilo. "Stilus" significa anche procedura. In penale, quando ho dato l’esame sessant’anni fa, era materia risibile, imparata su libercoli: fino al 1938 addirittura assente dal programma accademico; stava relegata nell’ultimo, trascurabile capitolo del corso penalistico. Carnelutti la chiamava Cenerentola.
Tra i penalisti eminenti era quasi punto d’onore schivarla, mirando diritto alla discussione nel merito: se quel fatto sia avvenuto; chi l’abbia commesso; come qualificarlo e via seguitando. Adesso rende servizi loschi. Il codice nato ventun anni fa doveva chiudere l’epoca postinquisitoria ma i legislatori non sapevano cosa significhi "processo accusatorio": significa forme sobrie, garanzie serie, agonismo leale, rigorosa economia del contraddittorio; in mano loro diventa cavillo micromaniaco, invadente, esoso, comodo nelle furberie ostruzionistiche; e la XIII legislatura completa la perversione codificando teoremi filati dalla Bicamerale (sui quali Licio Gelli vanta un diritto d’autore); sotto insegna centrosinistra spirava aria berlusconoide. La prassi attua una metamorfosi. Chiamiamola arte del sur place: difese con poche chances nel merito giocano partite dilatorie; sparisce l’autentica questione, se l’asserito reato esista e chi l’abbia commesso; futili schermaglie sfruttano i torpori dell’apparato sovraccarico, finché il tempo inghiotta i reati. Fanno storia le campagne giudiziarie dell’Unto: dopo tanto rumore resta un delitto estinto; altrove tagliava corto abolendo la norma incriminante, vedi falso in bilancio.
Dopo sette anni e mezzo al vertice dell’esecutivo, avendo sconvolto l’ordinamento nel suo privatissimo interesse, corre ancora rischi penali: persa l’immunità fornitagli dai due lodi, invalidi come la legge con cui aveva sotterrato l’appello del pubblico ministero, gioca grosso macchinando un istituto senza eguali nel museo dei mostri giudiziari. I processi italiani sono patologicamente lunghi (abbiamo appena visto perché): in proposito l’Italia figura male; cresce l’esborso alle vittime d’una giustizia tardiva; e il dl n. 1880, su cui Palazzo Madama ha votato mercoledì 20 gennaio, quadra i circoli riprendendo l’idea d’una sinistra toccata dal virus bicamerale. Eccola: imporre dei termini, scaduti i quali ogni processo ancora pendente vada in fumo; colpevoli o innocenti, tutti fuori, sotto lo scudo del ne bis in idem; allegramente liquidati i carichi pendenti, la giostra riparte. Figure da commedia dell’arte, divertenti ma non attecchiranno, finché il diritto sia ancora cosa seria. Sarà il quarto capolavoro berlusconiano abortito davanti alla Consulta.
Vari i motivi. Consideriamone alcuni. Esiste l’articolo 112 della Costituzione: l’azione penale è obbligatoria; se non agisce, il pubblico ministero, deve chiedere un provvedimento che lo sciolga dall’obbligo, perché rebus sic stantibus l’accusa sarebbe insostenibile; e rimane aperta la via d’ulteriori apporti. Azione obbligatoria, quindi irretrattabile: ciascuno dei due caratteri implica l’altro; mosse dall’attore pubblico, le ruote girano da sole, mentre nei sistemi anglosassoni può desistere (allora drops the prosecution); quando cambia idea, chieda l’assoluzione; il giudice dirà se vi sia o no un colpevole. Questo sistema esclude processi evanescenti allo scadere dei termini: equivarrebbero all’accusa lasciata cadere; ogni procedimento bene aperto, dove non ricorrano fatti estintivi del reato, esige la decisione nel merito (salvo un singolo caso, il non liquet previsto dall’articolo 202, comma 3, qualora il segreto di Stato interdica la prova sine qua non). L’articolo 112 della Costituzione è tra i più aborriti nel bestiario nero del monarca; e sappiamo cosa covi quando elucubra revisioni costituzionali: procure agli ordini del ministro affinché i possibili affari penali passino nel filtro delle convenienze. Sedici anni fa chi voleva insediare in via Arenula? Cesare Previti, uomo sicuro.
Secondo profilo d’invalidità: l’occupante scatena un terremoto pro domo sua; il mostro deve valere nei giudizi pendenti; così stabilisce l’articolo 2, escludendo appello e Cassazione (irragionevolmente: articolo 3 della Costituzione). Anche in tali limiti la novità affossa procedimenti a migliaia: è amnistia sotto nome diverso, anzi l’effetto risulta più grave, perché l’amnistia estingue i reati, mentre qui, svanendo il processo, non consta niente, e magari esistono prove più chiare del sole; ma le amnistie richiedono leggi votate in ogni articolo da due terzi delle Camere (articolo 79 della Costituzione).
Terzo profilo (stiamo enumerando i macroscopicamente rilevabili). I processi lunghi non dipendono da operatori poltroni, hanno cause organiche: ipertrofia legislativa, apparato povero, gli pseudogarantismi sotto la cui ala l’augusta persona guadagnava tempo; né questa politica criminofila vuol rimuoverle. Supponiamo che un processo su sette sconfini dai termini estinguendosi. La giustizia penale diventa lotteria: essere o no quel fortunato dipende da imponderabili, fuori d’ogni criterio legale, nella sfera del caso (tanto peggio se fosse manovrato sotto banco); Bridoye, racconta Rabelais, emetteva sentenze tirando i dadi. Valutato secondo l’articolo 3 della Costituzione, l’intero meccanismo appare perverso. La ventesima legge ad personam salva l’ipotetico corruttore nel caso Mills, perché il procedimento pende davanti al Tribunale da oltre due anni, id est un quarto della pena massima. Supponiamo una notitia criminis precoce, indagini rapidissime, udienza preliminare trascinata ad defatigandum e altrettanto il dibattimento: scaduti due anni, scatta il praestigium; il processo era fuoco fatuo; Monsieur ridiventa innocente, anche se le prove lo inchiodano, quando l’ipotetico reato sarebbe prescritto solo in otto anni (articolo 157 codice penale), anzi dieci, contando gl’incrementi da fatti interruttivi. I numeri misurano l’assurdo dell’avere un padrone senza barlumi d’etica.
Il mistero dell’intervista scomparsa
Perché chiedere un’intervista a uno dei più prestigiosi giuristi europei (di cui sono stranote le posizioni politiche e lo stile comunicativo) per poi non pubblicarla? Perché comportarsi in modo così offensivo verso uno degli intellettuali italiani più stimati e rispettati (anche dai suoi avversari) per la qualità, il rigore, l’indipendenza del suo lavoro? Un episodio che riempie di amarezza e incredulità.
di Franco Cordero
L’arte docile del giornale
Le premesse remote risalgono a quando scrivevo in «Repubblica». M’aveva invitato Ezio Mauro (novembre 2001): centinaia d’articoli e il Bagutta 2004, sul filo del rasoio perché Divus Berlusco regnava e i cautelosi rabbrividivano, ma non la direi mésaillance se bene o male è durata quindici anni. Due mesi fa esce Rutulia (Quodlibet), dove confluisce largo materiale d’allora. Il «Venerdì» manda qualcuno a intervistarmi, 24 ottobre: non so chi sia, né figura nel folto onomasticon del quotidiano e settimanale; ero sul chi vive, perciò lascio che parli a dirotto sfogliando il libro costellato da scarabocchi. Niente in contrario quando chiedo quesiti scritti. Arrivano e li sciolgo nella stessa forma. L’indomani canta genuflesso (26 ottobre): «Professore, grazie mille»; usciremo l’11 novembre; qualche giorno prima manderà l’intero testo affinché io lo riveda. La formula perentoria smentisce i sospetti ma il séguito rimane nella luna. L’ufficio stampa Quodlibet s’informa presso l’intervistatore: l’hanno spostata al 25 novembre; rinascono i dubbi, più gravi; e quel mattino non ne appare nemmeno l’ombra. Interpellato dall’editore, il predetto racconta un’historiette: le risposte erano nello stile dei miei articoli, quindi «non adatte» all’intervista (mai uditi argomenti simili), sicché lui e il direttore hanno deciso di non pubblicarla; in graziosa vece propongono una recensione. Il verbo “proporre” suona equivoco: l’homo in fabula accondiscenda e sarà benvoluto; altrimenti sibila la frusta recensoria. Forse erano servizi alla Leopolda, i cui adepti temono le lame affilate. Secondo questo canone, l’intervista, genus letterario, è ammissibile in quanto vi coli broda tiepida. Non interessano le opinioni cliniche sulla storia recente d’un paese afflitto da qualche tabe ereditaria.
Tali i fatti, ed ecco l’opus svanito in mano ai maestri stilisti del «Venerdì» (ogni capoverso risponde a uno o più quesiti).
Divus Berlusco regnabat. Ottant’anni gli pesano addosso, senza contare le gaffes accumulate nel quarto di secolo, ma resta temibile. Nello schieramento referendario sceglie “no”: è mossa tattica non sappiamo quanto credibile; niente lo fa supporre rassegnato alla vecchiaia quieta. L’animale biblico Leviathan nuota sott’acqua, sornione, cacciatore inesorabile: inganna le prede; lo servono uccelli parassiti; apre le fauci e gli puliscono i denti mangiando i residui del pasto. Nel caso suo è lacuna utile non avere l’organo pensante, nonché quello dei giudizi morali: risparmia fatica e dubbi tormentosi; operazioni d’istinto gli riescono a meraviglia.
Le «larghe intese» erano l’obiettivo d’una politica quirinalesca d’impronta monarchica, tenacemente perseguìta. Sarebbe enorme la grazia pretesa dal pirata dopo «l’attentato alla democrazia» che la Corte ha perpetrato applicandogli le norme. Qualche cortigiano ventila «guerra civile» e lascia pochi dubbi la fulminea nota con cui il Quirinale manda lodi al condannato, chiedendo riforme giudiziarie.
L’attuale presidente sta agli antipodi del predecessore. Temporibus illis (giovedì 26 luglio 1990) s’era dimesso con quattro ministri quando l’impudente Andreotti poneva la fiducia sulla legge Mammì, intesa al profitto parassitario d’un Re Lanterna già padrone delle Camere, sebbene non avesse ancora identità politica.
I 101 voti tolti a Prodi nel coup de scène 19 aprile 2013 gonfiano d’euforia l’Olonese: «meno male che Giorgio c’è», canta al microfono e dal complotto notturno nasce un governo a due teste, presieduto da Letta junior, nipote del mellifluo plenipotenziario d’Arcore; il séguito sarebbe diverso se la parola contasse qualcosa nel conclave politicante.
Storia tenebrosa d’una prigionia. Il recluso era Aldo Moro, nel «carcere del popolo». L’hanno rapito le Brigate Rosse abbattendo i cinque della scorta, tamquam non esset. Al Viminale, sotto Francesco Cossiga, tiene banco la P2, ferocemente ostile al sequestrato, fautore d’una cauta apertura al PCI e presidente della Repubblica in pectore. Le messinscene poliziesche durano 55 giorni, incluso lo scandaglio d’un Lago della Duchessa. Dovevano salvarlo. Fallite le ricerche, trattino. Lo Stato non può, dicono rigoristi ignoranti del codice penale (art. 54, stato di necessità). L’introvabile scrive lettere disperatamente lucide, spiegando che delitto sia lasciarlo lì. «Non è più lui», dicono i santoni, nella cui favola il misteriosamente recluso è succubo dei terroristi; muoia com’erano morti i cinque della scorta. I brigatisti hanno l’occasione d’un colpo formidabile (lo suggeriva caritatevolmente Paolo VI), quale sarebbe restituirlo senza contropartite scatenando una crisi nel sistema, ma inviluppati in formule subintellettuali, non sanno risolversi; alla fine l’ammazzano con intuibile sollievo degli «imperialisti» contro cui declamano. Assente il cadavere, Tartufi sanguinari fingono lutto in San Giovanni. Hanno vinto, Andreotti, P2, Cossiga, il quale non cambia mestiere vergognandosi dell’inettitudine: nient’affatto, vola ad sidera; successore d’Andreotti in due governi, presiede il Senato e da Palazzo Madama sale al Quirinale; poi infesta le acque politiche, caso clinico e mina vagante. Che vita rimarrebbe al povero «irriconoscibile» se rapitori con la testa sul collo, senza disegni occulti, l’avessero liberato, guidandolo in salvo perché ormai incuteva paura agli pseudolegalisti eroi sulla pelle altrui? Vita cattiva, da homo sacer, esposto al malanimo pubblico. Eventi simili lasciano segni indelebili nel corpo sociale. L’Italia esce marchiata come paese infetto.
Che l’antiberlusconismo «non conduca da nessuna parte» e Sua Maestà d’Arcore sia idoneo al cursus honorum, era giaculatoria corrente nel Pd: Enrico Letta riteneva fattibile una «piccola legge» immunitaria che lo liberasse dalle rogne penali; Neapolitanus Rex s’era immischiato nell’invalido privilegio; e fin dalla XIII legislatura oligarchi postcomunisti garantivano Mediaset. Non s’è mai parlato sul serio del conflitto d’interessi. Enrico Letta difendeva con le unghie l’innaturale premiership costruita dal Colle sull’asse berlusconoide Pd-Pdl: l’unico possibile, salmodiavano cercatori d’ingaggio; la «ripresa» è dietro l’angolo ma svanisce se il governo cade (dopo quattro anni l’aspettiamo ancora). Reduce dal Golfo Persico, vantava 500 milioni lasciati cadere nel cappello dagli Emiri. In via Arenula custodiva i sigilli l’ex prefetto Anna Maria Cancellieri, cara al Colle e puntuale nel sostegno della famiglia Ligresti. Eventi esterni rompono l’immobilità verbosa.
Il fattore dirompente è l’uomo nuovo, la cui apparizione spariglia i conti: ha stravinto le primarie, infliggendo un avvilente 68% contro 18% alla vecchia guardia; la segreteria del partito era obiettivo preliminare; punta all’en plein quando siano riaperte le urne. I conoscitori lo descrivono animal politicum dalle rotte sicure: boy scout, campione d’un concorso televisivo (Canale 5), presidente della provincia, sindaco fiorentino. La mainmise sul Pd svela un cuculo rapace. Nelle immagini dagli schermi pedala bardato in bicicletta. Non incarna l’icona perfetta e volano sospetti ma i gerarchi sconfitti non offrono soluzioni raccomandabili. Ovvio che l’aborrano: è titolo a suo favore; avevano mani in pasta nelle «larghe intese». Va colpita l’immagine d’innovatore. L’offerta avvelenata è una premiership che l’abbindoli nel marasma: l’equivoca maggioranza gl’inibirebbe ogni serio tentativo; sono maestri nell’arte del tagliare teste. Napolitano spranga l’unica via negando lo scioglimento delle Camere: resti vivo l’esecutivo inerte; e loda chi lo presiede.
Lo sottovalutavano: in scena appare «veloce» (un Filippo Tommaso Marinetti senza insegna letteraria); è scaltro, insonne, famelico, ingordo, sicuro d’essere predestinato, molto pragmatico, pronto a muoversi in ogni verso. I suoi mondi mentali ignorano le ideologie. L’evanescente Letta apriva larghi spazi, ormai derelitto dal Quirinale, sicché una lieve spinta lo manda ai pesci. Agl’italiani piacciono i numeri da palcoscenico e i notabili Pd hanno poco appeal. Così ribalta le prospettive seminandosi un futuro nell’area postberlusconiana dalla quale l’adocchiano (gli elettori, non i gerarchi, spaventati dal concorrente). Nessuno lo supera come possibile erede del monarca logoro. Figura, gesti, parola, egotismi lo candidano al «partito nazionale». Saltano all’occhio due precedenti. Nella Roma medievale orfana del papa inscena mirabilia l’omonimo giovane notaio latinista, Nicola, abbreviato in Cola, figlio dell’oste Rienzi: s’è qualificato Spiritus Sancti miles, liberator Urbis, et cetera; sfoderata la spada in San Giovanni, taglia il mondo in tre fette, esclamando ogni volta «è mia» (1 agosto 1347). Ed è ancora giovane l’oratore imperioso Benito Mussolini, presidente del consiglio dal 31 ottobre 1922 al 25 luglio 1943. Non nominiamo Savonarola, il cui pathos tragico è assente nel fiorentino a Palazzo Chigi.
S’è identificato con l’Italia e racconta che la salus Rei publicae stia nel sì al referendum. Se il colpo gli riuscisse, sommando riforma costituzionale e Italicum o norme elettorali equivalenti avremmo in sella l’uomo che decide. Non è prospettiva consolante perché le sventure italiane dipendono da un malaffare economico nel quale l’eredità berlusconiana impedisce ogni serio intervento repressivo (vedi come lobbies industriose sabotino la raccolta delle prove).
p.s.
Sic stabant res domenica mattina 4 dicembre, quando gli uffici elettorali aprono le urne. Davano favorito l’uomo in sella: partito con un handicap, appariva irresistibile; aveva dalla sua organi influenti sull’opinione pubblica. Politici più o meno rusés scioglievano le riserve schierandosi. I conti notturni li deludono: quel referendum somigliava al gesto con cui l’omonimo notaio romano tagliava il mondo in tre fette aggiudicandosele; e lo sconfitto subisce la rovinosa percentuale che quattro anni fa aveva inflitto agli avversari nelle primarie. Stavolta è fallita l’ipnosi, ricorrente nella storia italiana. Bene ma l’orizzonte resta buio, data l’eterogenea motivazione dei «no»: vi figura l’Olonese; sbocceranno «larghe intese», i cui retroscena alimentano cronico illegalismo (vedi banche svaligiate et cetera); e finché la corruzione succhi miliardi, saremo bel paese depresso. L’unica terapia pensabile è un’effettiva legalità.
di Franco Cordero (la Repubblica, 18.03.2015)
CORRE voce che l’Italia, soggetto politico, goda d’una stella fortunosamente buona. Adolf Hitler la nomina domenica 7 dicembre 1941 nella Tana del Lupo: fallita l’offensiva su Mosca, l’aggressore rischia un’irrimediabile disfatta; l’umore è cupo tra i commensali ma a mezzanotte irrompe l’addetto stampa Heinz Lorenz; una radio americana ha annunciato l’attacco giapponese a Pearl Harbour. «The turning point», la svolta, esclama il Führer (in tedesco, è monoglotta), e uscendo dal Bunker nel gelo della foresta, porta la notizia ai tirapiedi Keitel e Jodl (morranno impiccati a Norimberga). Ormai è impossibile perdere questa guerra. Il Reich ha due alleati: in tremila anni il Sol Levante non ha mai subito sconfitte; e l’Italia le incassa sistematicamente ma alla fine siede tra i vincitori (David Irving, Hitler’s War 1939-4-2, Macmillan, London 1977, 352).
Tale massima trovava conferme nella storia otto-novecentesca. Le Parche diranno fin dove viga ancora. Non è motivo d’orgoglio che gli ultimi ventun anni abbiano la figura egemone in un titano d’arti fraudolente: solo lui e pochi intimi sanno l’origine dei primi miliardi; poi favori venali gli portano un impero mediatico; monopolista delle televisioni commerciali, plagia le platee corrompendo pensiero, sentimenti, gusto (un’epidemia italiana, cinque secoli dopo i morbi ispanico e gallico).
Caduti i protettori, raccoglie l’eredità fingendosi uomo nuovo. La sua fortuna sta negli avversari dalle ginocchia molli: avendo vinto (aprile 1996), gli garantiscono sotto banco le aziende, arnesi d’un colossale conflitto d’interessi, e lo riqualificano come partner d’una commissione chiamata a rifondare lo Stato nelle norme fondamentali; muore ignobilmente sabotato ab intra un secondo governo del centrosinistra, 1996-98. Ha dalla sua il Quirinale: Giorgio Napolitano predica «larghe intese», ossia apporti subalterni alla politica governativa; e gli presta manforte nella ricerca d’una impensabile immunità giudiziaria.
Qui l’astrologo vede influssi celesti: saremmo una monarchia caraibica se l’Olonese, stravinte le elezioni (aprile 2008), non portasse l’Italia a due dita dalla bancarotta, costretto quindi a dimettersi (novembre 2011); e sarebbe sparito se fossero sciolte le Camere, come la congiuntura richiede, senonché Neapolitanus Rex lo salva ibernandole; aperte finalmente le urne (febbraio 2013), il redivivo sfiora una quarta vittoria. Moltiplicano l’effetto intrighi notturni nei Ds: l’assemblea unanime acclama Romano Prodi, candidato al Quirinale; Deo gratias ma 101 elettori ipocriti gli negano il voto; e risale al Colle il patrono delle «larghe intese», nel segno d’una parentela (Enrico Letta, premier transigente Ds, è nipote dell’omonimo Gianni, plenipotenziario nei supremi affari berlusconiani).
Le stelle decidono diversamente: arriva in Cassazione uno dei processi dai quali usciva indenne perdendo tempo, affinché il delitto s’estinguesse (s’era abbreviato i termini): frode fiscale, quattro anni inflitti dalla corte d’Appello milanese; e passando in giudicato la condanna, decade dal Senato. Berlusco furiosus pretende la grazia su due piedi e comanda ai suoi d’uscire dal governo: stavolta qualcuno disubbidisce invocando interessi superiori; rinsavito, espia la pena nei servizi sociali.
Intanto sopravviene una mutazione in casa Ds. Malato cronico, perdeva voti ogni volta, sottomesso al pirata, e dopo avvilenti esperienze era prevedibile che alle primarie (essendo in palio la direzione politica) il giovane sindaco fiorentino sbaragliasse vecchi oligarchi nonché juniores professionisti d’una squallida politica (non basta chiamarsi «giovani turchi»).
Era parola d’ordine disfarsi dei rottami. Dalla segreteria l’occupante critica il governo in pose tra Savonarola e Robespierre: viene dai boy-scouts, campione d’oratorio e politicante precoce; inter alia vanta un ragguardevole successo alla Ruota della Fortuna, ordalia televisiva su Canale 5. Punta alla premiership e la via giusta sarebbe sciogliere le Camere, in cerca d’uno schieramento elettorale meno diviso, ma è dogma quirinalesco che restino quali sono, imponendo accordi a destra. Matteo Renzi presidente del Consiglio sceglie a colpo sicuro il partner d’un programma governativo: confabula con Berlusco Magnus nel Nazareno, santuario Ds; e spira «profonda sintonia».
Non ha ripulsioni ideologiche né etiche: da allora il Sire d’Arcore fornisce voti al governo; ed è presumibile che il legame empatico includa interessi Mediaset. S’è formata una quasi diarchia. Saltano agli occhi profonde differenze ma non è pura fantasia che l’ex boy-scout capti l’elettorato sul quale sinora regnava divus Berlusco, ormai fallito nel sogno del partito unico.
Emergono due punti: primo, il disinganno tra quanti investivano fiducia nel sindaco fiorentino contro le mummie transigenti; secondo, che almeno altrettanti lo guardino dall’area moderata, ma conversioni simili implicano il patronato d’interessi incompatibili con un partito vagamente orientato a sinistra. Sinora il funambolo evitava scelte traumatiche (appariva dubbio il senso dell’avere virtuosamente sostenuto la candidatura Mattarella: contro, complottavano esponenti della minoranza Ds; ed era certamente malvista dai berluscones).
La conclusione suona ovvia: l’Italia sarebbe affossata da un partito dominante che lasci le cose quali sono; modificarle significa colpire corruttori, corrotti, parassiti, evasori fiscali, una criminalità infiltrata nello Stato. Partita ardua. L’analista patologo avrà molto da dire perché le equazioni economiche eclissano l’astro italico, refrattarie a illusionismi, inni, pantomime, dove eccelle l’omonimo dello sventurato notaio romano (1313-54: era anche ingegnoso scenografo, con un Ego vorace).
Tutti gli ostacoli del governo Renzi
di Franco Cordero (la Repubblica, 20.06.2014)
A TRE settimane dal voto europeo numeri ed eventi suggeriscono rilievi irrispettosi: gli 11.202.231 di voti raccolti dall’esordiente, pari al 40.8% dei votanti, erano un exploit inaudito nelle fiere elettorali italiane ( adde L’Altra Europa, 4%); i 4.614.364 (16.8%) racimolati da Forza Italia riflettono un leader ormai fiacco ma, issato a cavallo, può ancora guidare la carica, se qualche espediente meccanico lo tiene ritto (capitava in un vecchio film sul Cid Campeador); e inclusi i presumibili confluenti nel cartello (Ncd, Udc, FdI, Lega Nord), l’armata variopinta conta 9.997.02 teste (31.1%), in vista del tête-à tête finale, potendo pescare nel 21.11% sterile accumulato dai pentasiderei (qualora viga l’Italicum). Votassimo domani, la vittoria sarebbe ancora più larga, sennonché l’ex sindaco fiorentino vuole un’intera legislatura, fino al 2018 e qui ha gioco meno facile. Glielo complicano degli handicap.
Vediamoli cominciando dalla mistica delle riforme costituzionali; le promuoveva il Quirinale, tale essendo l’obiettivo della «larghe intese»: le quali erano veicolo d’un regime consortile dove il Pd sarebbe stato junior partner, perché nella XVI legislatura Re Lanterna era padrone, ma in 42 mesi dilapida il capitale, fino alle squallide dimissioni, sabato 12 novembre 2011. Furioso e gemebondo, lamentava le maglie strette d’una Carta obsoleta e i lunghi percorsi legislativi, imputabili alla struttura bicamerale, ululando ogniqualvolta la Consulta dichiarasse invalide norme disegnate sulla sua anomala misura. Il Colle guardava, indifferente all’immane conflitto d’interessi e coinvolto in manovre d’abusiva immunità.
L’eclissi dura un anno: redivivo, sfiora la clamorosa rivincita; nasce un governo bicolore guidato da Letta nipote, la cui storia familiare e politica vale un programma; e chi elabora le novità supreme, ministro competente? Gaetano Quagliariello, centurione berlusconiano. Marchiate dall’oligarchia partitica, le Camere attuali erano le meno idonee a rifondare lo Stato. Così tengono banco questioni artificiose su cui il governo s’impegna a vuoto.
L’urgente sta nell’economia infestata da mafie, camorra, corruzione: mancavano due spanne alla bancarotta; il morbo italico è debito pubblico straripante, declino produttivo, disoccupati, rendite parassitarie, caduta dei consumi, istruzione deficitaria, atonia morale. Molto cambierebbe appena fossero snidati i vampiri e l’uomo nuovo parla chiaro ma i consorti coltivano interessi nella cui gestione “garantismo” significa impunità: ad esempio, aborrono le intercettazioni, in ossequio alla privacy delittuosa; intendono la difesa come ingegnoso perditempo; difendono meccanismi perversi della prescrizione, affinché almeno un processo su tre finisca in scandalosi proscioglimenti. Nella casistica a colletto bianco è raro che scatti la pena: quando avviene, benefici penitenziari la convertono, tagliano, diluiscono; vedi Silvius Magnus, caso Mediaset.
Che nell’Italia 2014 “mercato” sia parola vuota, lo dicono notizie Expo e Mose scoperchiando malaffari miliardari dall’effetto notorio: un km d’alta velocità costa sei volte la stessa opera in Francia; vi mangiano impresari, intermediari, “facilitatori”, funzionari, pseudoconsulenti, parassiti dal vario colore sotto trasversale ombrello politico. Le procure ottengono misure cautelari. Qui gli oligarchi battono un colpo strepitoso.
Mercoledì 11 giugno Montecitorio votava norme comunitarie sulla responsabilità civile del magistrato. L’emendamento del solito leghista contempla azioni dirette contro l’autore dell’asserito «danno ingiusto» ossia liti tra imputato e chi lo giudica: idea da manicomio; l’arnese intimidatorio inquina il giudizio e lo ostruisce perché ogni chiamato in causa diventa incompatibile; l’Olonese li fulminerebbe uno dopo l’altro. L’emendamento riscuote 187 sì contro 180 e se Palazzo Madama, ripetesse l’impresa, navigheremmo sulla Nave dei folli (l’aveva incisa Dürer, 1494).
Naturali i trionfi a destra ma il Pd conta 293 teste sotto la cupola montecitoria e ne erano presenti 214; chi se ne intende calcola 57 traditori. Il capogruppo, pupillo dal emobersaniano, non se ne stupisce: fioriscono i « garantisti » Pd, eccome, primus quorum ipse; lo esclamava un anno fa, memorabile outing, e intavola la candidatura al patronato dei perseguibili o già imputati (corruttori, corrotti e simili); voci confraterne chiedono una «svolta storica» dal «giustizialismo» al virtuoso contrario.
Il Quirinale emette una vaga frase equidistante ( l’anno scorso esortava tribunali e corti al rispetto dello «statista » indaffarato). Lo sconfitto 2013 grida d’avere votato contro l’emendamento e solleva dubbi sul gruppo M. R. Sono lunghi i quasi 4 anni residui d’una legislatura completa, con innumerevoli occasioni d’imboscata. La vecchia guardia include vescovi atei, pasticheur postmarxisti: non vinceranno mai partite elettorali ma sono temibili nei giochi d’inerzia e fuoco amico. Il premier in carica è colpevole d’avere vinto due volte, alle primarie e nelle europee. Insomma, quanto meno dura la mésalliance, tanto meglio, ed è auspicabile un trasloco al Quirinale.
Scontiamo ancora i 101 voti Pd tolti a Romano Prodi: l’avevano appena acclamato; nella versione ipocrita Napolitano rieletto scongiura catastrofi. Nossignori, volevano larghe intese oligarchiche; Berlusco Felix canta al microfono «meno male che Giorgio c’è».
Il disegno consortile lo presupponeva ancora una volta salvo dal processo. Era scena da teatro nero lo stupore rabbioso giovedì 1 agosto 2013, h. 19.38: la lunga caduta dell’impero forse comincia lì, dalla lettura del dispositivo d’una sentenza; staremmo assai peggio se il tempo avesse estinto anche quella frode fiscale.
La partita finale
di Franco Cordero (la Repubblica, 17.01.2014)
L’analisi retrospettiva aiuta a capire cos’avvenga. Torniamo alla primavera 2008, quando S.B. rimette piede a Palazzo Chigi, forte d’una strepitosa vittoria elettorale: ha due Camere ubbidienti; l’avversario gli rende ossequio; finti neutrali cantano mirabilia. Niente sembra impedire la conversione della Repubblica italiana in signoria (Casa d’Arcore) ma i fasti nascondono due grossi tarli.
Primo: pendono pericolosi giudizi penali, relitto d’una pirateria esercitata a mansalva e niente esclude che emerga altro.
Secondo: formidabile nel combinarsi affari in spregio alle norme, l’uomo non sa da che parte cominci l’arte del governo; in lingua d’Esopo o Fedro, è come affidare la gestione del pollaio alla volpe; dottrina e prassi berlusconiane implicano corruzione, falso, frode, parassitismo, fisco evaso, giustizia truccata, e tale marasma devasta l’economia. Francis Drake predava l’oro spagnolo dei galeoni, mentre costui dissangua l’Italia a beneficio suo e dei furbi (vedi P2, P3, P5 e simili compagnie).
Dalla Corte dei conti sappiamo cosa succhi allo Stato l’attuale regime vampiresco, almeno 60 miliardi annui: continuando finiamo in bancarotta; qualunque ragioniere calcola tempi e misura del rendiconto. Oscura le prospettive una crisi planetaria. Lui la nega raccontando quanto siano ricchi gl’italiani: viaggiano in aereo; frequentano i ristoranti; hanno appartamenti il cui valore sale a vista d’occhio; «le mie aziende vanno a gonfie vele».
Due punti gravemente vulnerabili. Padrone delle Camere, vuol diventare immune dalla giurisdizione penale, riuscendovi. Peccato che fosse legge invalida. Se la fa riacconciare, sicuro dell’esito perché vi mette mano un presidente della Repubblica insistente nel chiedere «larghe intese»: parlando chiaro, definiamole «concerto subalterno degli oppositori»; è al potere un plutocrate stregone dei media, in terrificante conflitto d’interessi. Tutt’e due cadono dalle nuvole quando l’antipatica Corte ribadisce il verdetto.
Nel terzo tentativo chiede qualcosa in meno: che le udienze slittino ogniqualvolta dichiara d’essere impedito da affari governativi; e siccome anche qui emergono aspetti d’invalidità, operai volenterosi s’accingono alla quarta fatica. Nella parte in cui vale, la norma ad personam gli viene comoda. La sua strategia è elementare: implacabile perditempo, finché scadendo i termini della prescrizione (se li era accorciati), svaniscano i delitti; cadono le braccia davanti a simili spettacoli.
Assorbito dagli affari penali e privati interessi, figura poco alla ribalta d’haute politique. Perdeva i colpi, ritrovando l’aureola sotto Natale 2009, quando un matto gli scaglia nei denti il Duomo milanese in miniatura: i soliti pulpiti maledicono chi inquina le teste; don Luigi Verzè, imprenditore decotto, rievoca la salita al Calvario; tra i morbidi oppositori qualcuno sta compunto, quasi ammettendo colpe collettive. Poi espelle dal partito l’antagonista interno, possibile leader d’una destra pulita (aprile 2010), ed è l’ultimo exploit, applaudito dal Corriere della Sera. L’anno dopo l’Italia cammina gobba: ha la crisi nelle ossa; e lui perde importanti elezioni amministrative, persino a Milano; ma forte dei numeri in parlamento, sarebbe inamovibile se non lo rovesciassero le borse. Distavamo due dita dal disastro.
Sabato 12 novembre 2011 esce ingloriosamente. L’augusto stratega, però, gli salva un futuro tenendo artificialmente vive le Camere. Nei 15 mesi del governo cosiddetto tecnico, la cui formula clinica era «salasso senza riguardo ai socialmente deboli», l’Olonese defenestrato ripiglia in mano i fili, sfiorando la vittoria, col relativo premio garantito dal Porcellum (se l’erano grugnito nell’anno 2006, affinché l’avversario, presumibile vincitore, trovasse un paese ingovernabile).
Tale l’Italia 2013: tre schieramenti hanno basi elettorali quasi pari; e dal Quirinale incombe quel malaugurato disegno d’alchimia governativa, ovviamente ben visto dal redivivo; al Pd l’acquiescenza costa i 2.045.190 voti persi in 5 anni ed era già sconfitto allora. Stride il monito con cui l’imperioso demiurgo chiede tregua a favore del fuggiasco dalle aule giudiziarie: Deo gratias, commentano spettatori inquieti; tra poco compie i sette anni e sloggia dal Colle; ma tra le quinte complotta un partito delle «larghe intese». Sapiunt Dalemam le mosse che tra sabato 20 aprile e domenica reinsediano l’uscente, evento senza precedenti.
Appena reincoronato, installa un governo bicefalo: una testa appartiene al nipote del plenipotenziario berlusconiano in mille missioni; l’altra sta sul collo d’Angelino Alfano, prediletto da Re Lanterna, sebbene gli manchi «un quid»; alla giustizia va la signora ex prefetto, ministro degl’Interni nel governo tecnico, protetta dal Colle, e questa scelta ha dei sottintesi. Giochi fatti, se Dike patisse i venti. Ha del miracoloso che a Milano Tribunale e Corte d’appello conducano in porto i dibattimenti su una frode fiscale americana: caso lampante; e nelle due sedi Re Lanterna incassa la condanna a 4 anni. La difesa ostruzionista aveva speso ogni espediente. S’era anche chiuso al San Raffaele lamentando noie agli occhi.
In Cassazione la causa sarà chiamata al 30 luglio. Tutta da vedere la pantomima d’un evangelico ministro berlusconiano: presumibilmente ignaro delle questioni (non erano affare suo: gestisce trasporti e infrastrutture): torce viso e mani, parla a fiotti, ruota gli occhi, spiegando convulso come non sia pensabile una decisione negativa sul ricorso; sarebbe attentato alla democrazia. La discussione avviene in due giorni. Opinanti à la page prevedono l’annullamento con rinvio, motivato da qualche piccolo difetto, nel qual caso il processo torna a Milano e Kronos lo inghiotte. L’avverbio latino è utinam: “Dio voglia”; salviamo la “stabilità”, valore supremo. Il dispositivo li lascia esanimi: è res iudicata la condanna a 4 anni; e in questo scenario vedremo come equazioni giuridiche incidano nella storia d’Italia. Forse siamo alla rumorosa partita finale.
La partita a scacchi di re lanterna
di Franco Cordero (la Repubblica, 24.01.2012)
Che Berlusco Magnus abbia condotto l’Italia a due dita dalla fossa, lo dicono i numeri. Sembrava onnipotente e in tre anni dilapida il capitale: due mesi fa era un relitto, politicamente parlando, scaricato persino dall’apologetica pseudoequidistante; non capitolerà mai, ripete fino all’ultimo; e come Dio vuole, toglie l’ormai insostenibile disturbo, dimissionario coatto.
Qui lo scenario muta. Nell’anomala maggioranza a due anime su cui campa il gabinetto professorale chiamato a salvare l’Italia dal default, sta meglio che a Palazzo Chigi: ha un potere d’interdizione; i peones temevano lo scioglimento delle Camere; rassicurati, fanno quadrato. Gli resta uno zoccolo duro elettorale sotto ipnosi televisiva, e sa dove cercare sostegni (ad esempio, dalla gerarchia ecclesiastica, pagandoli in favori inauditi sulla pelle dello Stato).
Passiamo alle congetture prognostiche. Il solo punto sicuro è che, rebus sic stantibus, non revochi la fiducia ai professori: istigato dai leghisti in furioso rigurgito tribale («stacchi la spina», cos’aspetta?), ogni tanto ventila propositi minacciosi, da non prendere sul serio; staccandola morrebbe col paziente; e resta da vedere se riesca a staccarla; in una congiuntura simile è prevedibile che dei gregari passino al campo governativo salvando indennità, rimborsi, pensione. Molto dipende dalle lune economiche. Qualora l’Italia esca stremata ma viva, grazie alla terapia eroica, ha partita elettorale scomoda chi vendeva illusioni: sfumata la sbornia, lo vedono dal vero, un pifferaio; istupidendo poveri diavoli s’arricchiva a dismisura, con largo beneficio degli adepti malaffaristi.
Nella seconda ipotesi la primavera 2013 trova l’economia europea in sesto e l’effetto traumatico pesa meno: dirà (il verbo puntuale è «sbraitare») d’avere visto giusto, mentre dei terroristi seminavano paure gratuite in odio al governo amato dal popolo; era un complotto; stampa eversiva, giustizia deviata, tenebrosi poteri forti, ecc.; e riprende fiato il partito della vita facile (lassismo fiscale, al diavolo la concorrenza, favori venali, mercati neri, logge, trionfi omertosi).
Terza, sciaguratissima eventualità, quam Deus avertat, che, fallite le terapie, l’Italia affoghi: Stato insolvente significa tensioni crude; saltano i circuiti legali; nello status naturae immaginato da Thomas Hobbes «homo homini lupus» ma il Caimano Leviathan s’impone ai lupi. È la sua ora: il denaro gli scorre nelle mani; ha castelli, ville, lanterne magiche, trombe; schiera cappellani, maghi, sgherri; assolda compagnie di ventura.
Fantasie apocalittiche? Non direi. S’era fondato l’impero mediante frode, corruzione, plagio: è organicamente incapace d’autocontrollo; gli mancano categorie elementari, dalla morale al gusto. Confermano tale natura nove anni d’un malgoverno funesto: crede che tutto gli sia lecito; pretende poteri assoluti; lo stesso delirio sfoga sul palco internazionale. Supponiamo che l’Italia sia benestante e sull’onda del trionfalismo populistico Sua Maestà riconfiguri lo Stato a modo suo. Quante volte l’ha detto, lamentando d’avere le mani legate, lui, «uomo del fare». Ecco quadri verosimili: abita al Quirinale, penalmente immune, quindi niente da obiettare alle soirées; da Monte Cavallo governa pro domo sua mediante docili ministri; presiede un Consiglio superiore della magistratura addomesticato; il pubblico ministero cambia nome, avvocato dell’accusa, e piglia ordini dall’esecutivo; fioriscono P5, P6 e via seguitando nella schiuma d’affari loschi.
L’unico inconveniente è che, non essendo inesauribili le mammelle collettive, succhiate da boiardi, corruttori, corrotti e varia malavita, prima o poi sopravvenga la bancarotta. Che l’antietica berlusconiana portasse lì, era ovvio: nessun organismo sociale resiste al salasso sistematico; lo sviluppo economico richiede tensioni morali incompatibili con oppio televisivo, saturnali permanenti, furbizie gaglioffe. I caimani non leggono, quindi Re Lanterna non sa chi sia Max Weber, né cos’abbia scritto sull’etica calvinista nella cultura del capitalismo (ma un panegirista, forse burlone, gli attribuiva letture latine, niente meno che Erasmo).
Le prognosi non allargano i cuori. Il berlusconismo sopravvive, non foss’altro come potente lobby, dalle televisioni alla banca, con tante possibili cabale tattiche (fa testo l’infausta Bicamerale), né sono uomini della penitenza i dignitari d’Arcore. E i cantori sedicenti neutrali? Lo proclamavano condottiero neoliberale, salvo ammettere tra i denti che tale non sia un nemico del mercato: servizi simili segnano le persone, chi li ha resi probabilmente continua. Dopo 18 anni d’egemonia brutale o strisciante, quando non stava al governo, è trucco d’esorcista rimuoverlo dalla storia come non vi fosse mai entrato (così Benedetto Croce liquidava vent’anni fascisti, un brutto sogno). Rincresce dirlo ma i fatti parlano: aveva radici etniche e lascia impronte; dettava modelli accettati ex adverso; chiudendo gli occhi sulla colossale anomalia, professionisti della politica lo considerano ancora interlocutore valido. Iscriviamola nei caratteri meno lodevoli dell’anima italiana, una socievole indifferenza morale: è caduto sotto il peso d’errori suoi, sconfitto dai mercati; non che gli oppositori l’abbiano combattuto e vinto in termini d’idee e scelte etiche.
In proposito, dovendo indicare una lettura istruttiva, nominerei Kafka, Il processo, secondo capitolo. Una domenica mattina Josef K., misteriosamente imputato, va in tribunale. Scenario onirico: il pubblico in galleria sta curvo toccando il soffitto con testa e spalle; qualcuno le appoggia al cuscino che s’è portato; aria greve, fumo, polvere, rumori confusi; la platea appare divisa tra due partiti. Nell’arringa K. sentiva in empatia metà del pubblico. Lo interrompono degli strilli. Parlava stando su una predella. Sceso nella calca, vede i distintivi sotto le barbe: erano finti partiti; non fanno caldo né freddo le furenti invettive con cui li apostrofa. Gl’italiani hanno gravi doléances verso una classe politica connivente o inerte davanti al predone, fin dagli anni della resistibile ascesa.
Alfano: presto il nuovo Lodo *
Il ministro della giustizia, Angelino Alfano, assicura che per la presentazione di un lodo costituzionale per lo ’scudo’ alle più alte cariche dello stato «non passerà molto tempo». «Lo strumento- aggiunge aAfano- lo decideremo in sede politica. Stiamo valutando e non passerà molto tempo per la decisione». Il ministro spiega che nel legittimo impedimento, approvato ieri dalla Camera e atteso al Senato, c’è una norma «che postula proprio l’esistenza di una iniziativa nell’arco dei 18 mesi» per un lodo costituzionale sull’immunità e che «la Camera ha inoltre approvato un ordine del giorno, con il parere favorevole del governo, che impegna a compiere questa scelta. Noi- aggiunge il ministro- ci muoveremo in questa direzione». Il nuovo lodo, a quanto si apprende, coprirà anche i ministri. E la sponda è offerta sia dai rilievi mossi dalla Consulta in occasione della bocciatura della prima edizione dello scudo penale, sia dalla legge sul legittimo impedimento, che riguarda appunto sia il premier che i ministri.
Il ragionamento che i tecnici del centrodestra hanno applicato nella scrittura di questa norma è semplice, ma porta a quella che al premier è stata prospettata come la ’soluzione finale’. In prima istanza, verrebbe introdotta una modifica costituzionale alle prerogative del presidente del Consiglio e quindi dei ministri e del presidente della Repubblica. In tutti gli articoli che riguardano i poteri e le prerogative di queste cariche verrebbe introdotta una frase in cui si stabilisce che, nei loro confronti, non si può «nè cominciare nè proseguire l’azione penale». Questo introdurrebbe le necessarie condizioni costituzionali per porre al riparo dai processi penali sia il presidente della Repubblica che quello del Consiglio, che però, essendo ’primus inter pares’, ha le stesse specifiche degli altri membri del governo, come anche tenuto in considerazione nella redazione del legittimo impedimento. Ecco quindi l’ingresso dei ministri ma la fuoriscita dei presidenti delle Camere tra le alte cariche dello Stato tutelate.
Una volta introdotto il principio costituzionale, il resto della manovra sarà portato avanti con legge ordinaria, perchè, come spiegano sempre dal centrodestra, «la Costituzione elenca i principi, poi ci vuole una legge per applicarli». È qui che verranno introdotti concetti come la eventuale rinunciabilità della tutela offerta dallo scudo o la reiterabilità in caso di nomina o elezione ad altra carica, il tipo di copertura offerta e la durata degli effetti. Il tutto, ovviamente, per via ordinaria. In quel testo, si sta ragionando, si potrebbe prevedere di introdurre lo scudo anche per i presidenti delle Camere.
L’introduzione del principio di impossibilità a «cominciare e/o a proseguire l’azione penale», poi, otterrebbe anche un altro risultato: di fatto, renderebbe inutile la norma transitoria del processo breve, scritta di fatto per stoppare i processi a carico del premier. Berlusconi sarebbe infatti coperto prima dal legittimo impedimento (la norma-ponte) e poi dal neo-principio costituzionale che renderebbe ’improseguibilì le azioni penali contro il presidente del Consiglio. Resta ancora da definire la strategia parlamentare per arrivare a questa soluzione. Al momento, l’ipotesi più accreditata è quella di iniziare a fine febbraio, ma forse anche dopo le regionali. Entro il 28 febbraio, infatti, va approvato il dl riempi-procure, che oggi la Camera ha licenziato all’unanimità. Prima però il Senato dovrà approvare il legittimo impedimento, varato ieri da Montecitorio. Ecco quindi la finestra temporale opportuna aprirsi soltanto dopo il 28 febbraio, ovvero in piena campagna elettorale per le regionali. A quel punto, è la spiegazione che danno nel centrodestra, «fra presentare un testo il 5 marzo o il 30 non cambia niente». Al momento, infine, non è stato ancora deciso se le nuove norme costituzionali saranno proposte dal Governo o da parlamentari.
* l’Unità, 04 febbraio 2010
IL COMMENTO
Le rivelazioni di Massimo Ciancimino Se fondate, sono accuse catastrofiche per la nostra democrazia
L’obbligo di chiarire quella leggenda nera
di GIUSEPPE D’AVANZO *
I MORTI non si possono smentire e i vivi hanno difficoltà a difendersi dalle parole di morti. È una condizione che crea inestricabili ambiguità. Si ascoltano con disagio le rivelazioni di Massimo Ciancimino. Le ragioni sono due. La prima può avere come titolo: il morto che parla. Perché a parlare con la voce di Massimo, il figlio, è Vito Ciancimino, il padre, il mafioso corleonese, il confidente di uno Stato debole e compromesso, il consigliere politico di Bernardo Provenzano. Anche se Massimo Ciancimino mostra di tanto in tanto una lettera o un pizzino, sono soprattutto i ricordi delle sue conversazioni con il padre la fonte delle accuse contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri.
Ricordiamole perché, se fondate, quelle accuse sono catastrofiche per la nostra democrazia (un uomo, che si è fatto imprenditore con il denaro della mafia e politico con la sua protezione, governa il Paese). Se menzognere e maligne, indicano che contro il capo del governo è in atto un’aggressione ricattatoria che fa leva su alcune oscurità della sua avventura umana e professionale. La mafia, dice Ciancimino, finanziò le iniziative imprenditoriali del "primo Berlusconi" (Milano2). Marcello Dell’Utri sostituì Vito Ciancimino nella trattativa tra lo Stato e Cosa Nostra innescata dopo la morte di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e la nascita di Forza Italia, nel 1993, è stata il frutto di quel pactum sceleris.
I ricordi del giovane Ciancimino inverano, con la concretezza di una testimonianza "diretta", la cattiva leggenda che accompagna da decenni il racconto mitologico della parabola imprenditoriale del presidente del Consiglio. Si può dire così: quelle dichiarazioni riordinano in un resoconto esaustivo e "chiuso" l’intera gamma delle incoerenze che Berlusconi e i suoi collaboratori nella fondazione dell’impero hanno lasciato nel tempo incancrenire per non volerle mai affrontare. Come già è accaduto quando in un’aula giudiziaria è apparso Gaspare Spatuzza, si deve ricordare che Cosa Nostra è tra gli anni settanta e ottanta molto vicina alle "cose" di Silvio Berlusconi e ricompare ancora nel 1994 quando il ministro dell’Interno dell’epoca, Nicola Mancino, dice chiaro che "Cosa Nostra garantirà il suo appoggio a Forza Italia".
I legami tra Marcello Dell’Utri e i mafiosi di Palermo non sono una novità. Come non sono sconosciuti gli incontri tra Silvio Berlusconi e la crème de la crème di Cosa Nostra (Stefano Bontate, Mimmo Teresi, Tanino Cinà, Francesco Di Carlo). Né sono inedite le rivelazioni sulla latitanza di Gaetano e Antonino Grado nella tenuta di Villa San Martino ad Arcore, protetta dalla presenza di Vittorio Mangano, capo del mandamento di Porta Nuova. Con quali capitali Berlusconi abbia preso il volo, a metà degli settanta, ancora oggi è mistero inglorioso.
Molto si è ragionato sulle fidejussioni concessegli da una boutique del credito come la Banca Rasini; sul flusso di denaro che gli consente di tenere a battesimo Edilnord e i primi ambiziosi progetti immobiliari, quando ancora Berlusconi non si dice proprietario dell’impresa, ma soltanto "socio d’opera" o "consulente". Quei capitali erano "neri" soltanto perché sottratti al fisco, espatriati e rientrati in condizioni più favorevoli o erano "sporchi" perché patrimonio riciclato delle ricchezze mafiose, come ha suggerito qualche mese fa Gaspare Spatuzza quando disse: "La Fininvest era un terreno di pertinenza di Filippo Graviano, come se fosse un suo investimento, come se fossero soldi messi di tasca sua"? Le parole di Massimo Ciancimino riportano alla luce anche un’ultima e antica contraddizione di Berlusconi e dei suoi cronisti disciplinati, la più bizzarra: la datazione della nascita di Forza Italia nel 1994 e l’ostinato rifiuto a ricordare che le doglie di quel parto cominciarono nella primavera del 1993 da un’idea covata da Marcello Dell’Utri fin dal 1992.
È una rosa di "vuoti" e antinomie che apre spazi al ricatto mafioso. E’ uno stato che dovrebbe preoccupare tutti. Cosa Nostra minaccia in un regolamento di conti il presidente del Consiglio. Ne conosce qualche segreto. Ha con lui delle cointeressenze antiche e inconfessabili. Le agita per condizionarne le scelte, ottenerne utili legislativi, regole carcerarie più favorevoli, minore pressione poliziesca e soprattutto la disponibilità di ricchezze che (lascia intuire) le sono state trafugate. Lo ripetiamo. In questo conflitto - da un lato, una banda di assassini; dall’altro un capo di governo liberamente eletto dal popolo, nonostante le sue opacità - non c’è dubbio con chi bisogna stare. E tuttavia il capo del governo (per sottrarre se stesso a quel ricatto rovinoso) e la magistratura (per evitare che un governo legittimo sia schiacciato da una coercizione criminale che ne condiziona le decisioni) sono chiamati a fare finalmente luce sull’inizio di una storia imprenditoriale e sull’incipit di un romanzo politico.
È la seconda ragione di disagio, l’assenza di iniziative politiche e giudiziarie a fronte di denunzie così gravi. Ogni cosa sembra risolversi in una "tempesta mediatica", in una rumorosa e breve baruffa che scatena per qualche giorno sospetti, furori e controsospetti e controfurori senza che si intraveda non un’evidenza in più che scacci i cattivi pensieri o li renda più fondati, ma addirittura non si scorge alcuna attività in grado di spiegare finalmente come stanno le cose. Il risultato è che ce ne stiamo qui stretti tra la possibilità di avere al governo un paramafioso, un riciclatore di soldi che puzzano di morte e la probabilità che l’uomo che ci governa sia ricattato da Cosa Nostra per qualche passo storto del passato. È un circuito che va interrotto nell’interesse di Berlusconi, del suo governo e del Paese, della sua credibilità internazionale.
I modi per chiudere questa storia sono certo laboriosi, forse dolorosi, ma agevoli. La magistratura (per quel che se ne sa, ancora non è stata aperta un’istruttoria) accerti la fondatezza delle testimonianze di Massimo Ciancimino e Gaspare Spatuzza - magari evitando di rovesciarle in un’aula di tribunale, prima di una loro verifica. Berlusconi rinunci a scatenare, come d’abitudine, i suoi cani da guardia e faccia finalmente i conti con il suo passato. Non in un’aula di giustizia, ma dinanzi all’opinione pubblica. Prima che sia Cosa Nostra a intrappolarlo e, con lui, il legittimo governo del Paese. È giunto il tempo che questo conflitto sia affrontato all’aperto e non risolto nel segreto con un gioco manipolato e incomprensibile che nasconde alla vista il ricatto, i ricattatori, la punizione minacciata, ciò che si può compromettere, un nuovo accordo salvifico.
Una commedia da tre soldi
di Franco Cordero (la Repubblica, 14.04.2011)
Ha dell’allucinatorio il voto con cui la Camera berlusconiana qualifica reato ministeriale l’oggetto della causa postribolare pendente a Milano e intima al Tribunale d’astenersene: vale uno zero giuridico, perché i trecentoventi o quanti siano non hanno il potere che s’illudono d’esercitare; è come se un questore emettesse condanne penali o, arrogandosi funzioni ultraterrene, l’Olonese presidente del Consiglio distribuisse indulgenze à valoir nell’ipotetico purgatorio.
Scene d’una sgrammaticata commedia da due soldi, i cui attori improvvisano. Se la res iudicanda sia reato comune o ministeriale, lo diranno i giudici: data una condanna, l’appellante ripropone la questione; qualora soccomba anche lì, gli resta il ricorso in Cassazione. I cervelloni credono d’avere sferrato un colpo da maestri: «dichiariamo improcedibile l’accusa» (il clou esoterico sta nel predicato), «così il Tribunale, spalle al muro, deve ammettersi incompetente o sollevare un conflitto d’attribuzioni e tutto rimane sospeso». Ogni sillaba manda il suono delle monete false. Gli onorevoli straparlano, ossequenti al regime egomaniaco. Ipse dixit: è ai ferri corti col «brigatismo giudiziario», tale essendo nel suo universo deforme l’idea che la legge vincoli anche l’impunito ricchissimo; castigherà le toghe proterve, bisognose «d’una lezione»; e i famigli rabberciano norme à la carte.
La «sovranità del Parlamento» (i berluscones la vantano almeno due o tre volte pro die) è formula italiota d’una monarchia assoluta prima che s’installino gli embrioni del futuro Stato costituzionale: le attuali Camere sono cassa armonica dell’esecutivo; vi siedono persone ignote agli elettori; le nominano agenti del beneplacito sovrano.
Chiaro quale sia il modello: platee stupefatte dalla droga mediatica forniscono voti; lassù, accessibile soltanto alle baiadere, siede Dominus Berlusco, ogni mattina più ricco (quanto sia disinteressato, attento solo al bene collettivo, fuori della mischia d’affari, lo dicono sordi ringhi con cui accoglie l’estromissione dalle Generali della devota lunga mano Cesare Geronzi). Niente vieta che vecchi organi rimangano, anzi conviene tenerli in piedi, finti vivi, palcoscenico d’una troupe innocua: Sua Maestà ne prende uno o una qualunque nel mucchio e li addobba; voilà, diventano ministri o figure analoghe; gerarchie adoranti esercitano poteri subordinati in conflitto permanente; griglie selettive escludono i diversi.
Tale struttura subpolitica connota un Paese solo geograficamente europeo, dal futuro miserabile perché lo sviluppo economico richiede tensione psichica, cultura, lavoro duro, regole ferme, mentre qui regnano privilegi parassitari, variegato malaffare, gusti fraudolenti, mente corta, animule spente. Confessa una vocazione ministeriale, né punta basso aspirando alla Farnesina, la svelta figliola che, secondo l’accusa, sovrintendeva alle ospiti della reggia: nei dialoghi intercettati coltiva un argot dal percussivo registro turpiloquo; e sotto accusa d’avere gestito prostitute, conferma la candidatura.
Qui s’indigna uno che scrive in décor grammaticale, storpiando impetuosamente i concetti: non marchiamole con quel nome (nei Tre moschettieri Milady porta una P impressa a fuoco sulla spalla); sono damigelle intente allo scramble mondano; è risorsa anche il corpo. Lo stesso maestro pensatore sventola liberalismo sui generis e culto berlusconiano, classico ossimoro del genere «sole nero» o «ghiaccio bollente». Gli aneddoti dicono a che punto siamo nella corsa al Brave New World.
La malattia italiana non risponde più alla solita farmacopea. L’Unico squaglia gravi accuse in falsa ilarità turpiloqua, spaventando persino gli obbligati a ridere. Rebus sic stantibus, è imputato in quattro sedi. Da tre pendenze rognose lo liberano due leggi che le Camere votano sul tamburo, tagliando ancora la prescrizione e seppellendo d’un colpo l’intero processo, appena scadano dei termini. La terza toglie al giudice il vaglio del materiale probatorio offerto dalle parti: se la difesa indica mille testimoni, saranno escussi tutti, in mesi e anni, finché suoni la campana; l’aula chiude i battenti; non se ne parla più.
I giudizi diventano materia volatile: dibattimenti fluviali, processi brevi, larghe sacche d’oblio; fantasie carnevalesche da Nave dei matti? No, leggi italiane. L’ordinaria prassi politica risulta impotente contro l’abuso sistematico, tanto l’ha pervertita Re Lanterna. Temendo la sfiducia, compra degli oppositori (gesto automatico, gli viene naturale: cambiano uniforme, esigono i prezzi, li incassano; il transito non è finito, sappiamo dal coordinatore. La secessione nel Pdl inalberava insegne virtuose ma i bei giochi durano poco. Le anime transumano salmodiando motivi edificanti.
Di questo passo, la legislatura compie l’intero ciclo: tra due anni divus Berlusco s’insedia al Quirinale, portandovi i divertimenti che sappiamo (accadeva sotto Rodrigo Borgia, Sua Santità Alessandro VI; vedi monsignor Iohannes Burckardus, cerimoniere impeccabile e cronista meticoloso nel Liber notarum: domenica sera 31 ottobre 1501 danno spettacolo orgiastico «quinquaginta meretrices honestae»); presiede il consiglio l’attuale guardasigilli, viso spirituale; nella ratio studiorum dei licei appare una nuova materia, Arte dell’osceno. Tale essendo il presumibile futuro, è questione capitale come scongiurarlo: discutiamone perché i tempi stringono; tra poco il fuoco lambirà le polveri (scriveva Walter Benjamin, cultore d’allegorie e metafore).
L’immunità parlamentare e lo spirito dei gangster
di FRANCO CORDERO (la Repubblica, 28 gennaio 2010)
Starà lontano dai tribunali, quasi fossero plotoni d’esecuzione: parole sue; altro che ricacciare le accuse in gola al pubblico ministero rosso, come blaterava. Erano latta i due scudi immunitari e vituperando i fabbri inetti, s’è ordinato il terzo in metallo forte (una legge ex articolo 138 della Costituzione, ma sarebbe altrettanto invalida
Il dl numero 1880, applaudito a Palazzo Madama mercoledì 20 gennaio, sotterra i processi pendenti a decine di migliaia: l’ordine al ministro era tassativo, servirglielo in due mesi o perde i sigilli (qui, 22 novembre 2009); e resta nell’utero finché la Cassazione abbia deciso sul ricorso Mills, mentre la filanda allestisce una presunzione iuris et de iure d’impedimento del premier a comparire.
Splende lo stile gangsteristico: il testo votato dalla Camera alta è una pistola alla tempia del paese; e nella pentola stregonesca bolle un’altra idea, riesumare l’immunità parlamentare. Esisteva (articolo 68 della Costituzione): l’ha abrogata una legge costituzionale 29 ottobre 1993 numero 3; vogliono risuscitarla nella stessa forma. Parliamone cominciando dallo Statuto albertino, 4 marzo 1848: «Nessun deputato può essere arrestato, fuori del caso di flagrante delitto, né tradotto in giudizio senza il previo consenso della Camera» (articolo 46); i senatori, allora nominati a vita dal re, godono d’un foro speciale, giudicabili solo dai loro pari (articolo 37). L’immunità processuale difende i deputati antigovernativi da una magistratura devota alla monarchia (articolo 68: «La giustizia emana dal re ed è amministrata in suo nome dai giudici ch’egli istituisce»): e i pensanti notano come sia un quadro inverso dell’attuale; adesso sono gli uomini del governo a temere la giurisdizione indipendente (articolo 101 della Costituzione).
I costituenti 1946-47 vedevano la politica in chiave virtuosa. Dopo tre decadi fioriscono "culture" alquanto diverse: l’egemone è impresario d’affari bui, via via più grossi, re pirata delle televisioni commerciali sotto l’ala del postmarxista rosa Bettino Craxi; Giulio Andreotti gli cuce addosso un’oscena legge Mammì, agosto 1990, dichiarata invalida dalla Consulta, 5 dicembre 1994, ma ormai les jeux sont faits. La criminalità in colletto politico allevava un debito pubblico da bancarotta. Erano taglia esosa le tangenti riscosse dai partiti, con largo arricchimento privato. L’arresto d’un amministratore (Mario Chiesa, presidente del milanese Pio Albergo Trivulzio, 17 febbraio 1992) innesca effetti domino: i pagatori coatti vengono a denunciarsi; pochi mesi disintegrano Dc e Psi (particolare curioso: il segretario risanatore era Ottaviano Del Turco, il cui nome riappare l’anno scorso sullo scenario penale della sanità abruzzese). Il parlamento fungeva da luogo d’asilo: e lo rimane, visto il voto 29 aprile 1993, con cui la Camera bassa salva Craxi dalle accuse più gravi, ma sei giorni dopo abolisce l’impopolare voto segreto in questa materia; idem Palazzo Madama l’indomani; e con le foglie d’autunno l’immunità parlamentare cade come una Bastiglia diroccata o la statua staliniana nella Piazza Rossa.
Ma siccome la malattia era radicata, morbus italicus, sopravvengono metastasi: fingendosi uomo nuovo, l’avventuriero parassita dei partiti morti raccoglie l’eredità, donde un lungo riflusso; nel sedicesimo anno dall’intrusione imperversa senza ritegno. La platea pare stupefatta: incalliti Tartufi gli rendono ossequio; i soliti chierici salmodiano e scampanellano; vigono iniqui privilegi. Vediamone uno: l’articolo 68 della Costituzione subordina ancora perquisizioni e intercettazioni al permesso della Camera competente; è già favore incongruo, e niente lo giustifica quando l’incauto onorevole sia ascoltato su linee altrui; lì non esisteva tutela; paghi dazio l’incauto parlatore. L’articolo 4 legge 20 giugno 2003 numero 140 contempla tale caso: le cose dette svaniscono se l’assemblea vieta d’usarle; anche fossero corpo d’un reato flagrante? Sì, risponderebbero sull’attenti i gruppi Pdl. Li abbiamo visti, automi parlanti al cenno del padrone, qualunque cosa ordini.
Dunque, i berluscones rivogliono l’immunità parlamentare: che vìoli il principio d’eguaglianza, lo vede anche un bambino appena sveglio; manterremmo otto o novecento invulnerabili dalla giurisdizione penale, finché non lo conceda la Camera dove siedono. Responsi insindacabili. Dire che vaglino il cosiddetto fumus delicti, è formula ipocrita, falsa in fatto, assurda in logica normativa, dovunque i poteri siano separati, né esistono limiti temporali: sui banchi invecchiano dinosauri con sette o otto legislature, id est quarant’anni, senza contare i senatori a vita; e che l’essere «toccabili» o no dipenda dai motivi sommersi d’un voto dei colleghi, costituisce ulteriore vizio.
Le Camere ridiventano luogo d’asilo: "confugio" era il nome corrente nel foro napoletano quando chiese e conventi ospitavano gl’immuni, tema d’un conflitto permanente tra le autorità laiche ed ecclesiastiche; Mater Ecclesia difende i privilegi con le unghie. Veniamo al clou: l’articolo 3 della Costituzione non ammette persone diseguali ma l’immunità era prevista dall’articolo 68; possibile che fosse invalido? Ci vuol poco a sciogliere l’apparente paradosso. I complessi normativi vivono, diversamente dai teoremi d’Euclide: mutando l’ambiente, variano i significati delle formule; sessantadue anni fa nessuno pensava che saremmo diventati armento d’uno strapotente pirata. Inoltre, non è norma intangibile qualunque testo votato ex articolo 138: deve inquadrarsi nel sistema, altrimenti sarebbero interpolabili le regole più matte da chi controlla i due terzi dei seggi; ad esempio, non luogo a procedere se così delibera una corte d’onore (nelle monarchie assolute circolavano lettres de cachet) o la tessera d’un partito quale requisito d’ammissione al pubblico impiego (vedi regime fascista). Norme simili nascono morte, secondo la Costituzione vigente, salvo prendere piede, perché avvento e caduta degli ordinamenti sono puro fatto: non sarebbe la prima volta che soperchierie diventano legge; e divus Berlusco può riuscirvi, con tutti quegli sgherri, così ricco, padrone delle lanterne magiche.
IL DISPOTISMO ALL’ITALIANA
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 28 Gennaio 2010)
In un saggio esemplare e pochissimo conosciuto, scritto alla vigilia della Rivoluzione, il Marchese di Condorcet dava alle stampe la sua requisitoria contro il dispotismo dei moderni. Condorcet partiva dalla definizione classica - quella che fa perno sulla relazione padrone/servoe che designa la subordinazione di qualcuno alla volontà arbitraria di qualcun altro - per avanzare un’importantassima ridefinizione, molto adatta, più di quella antica, alla società moderna. Una società fatta di articolazione e pluralismo dei poteri, a partire da quello economicoe finanziario fino a quello religioso e delle appartenenze di ceto e che riusciva a generare forme di “dispotismo indiretto”, attivo cioè non attraverso la coercizione diretta, quella della volontà che si fa legge dello Stato, ma mediante un’azione a ragnatela di influenza che condiziona le relazioni sociali e politiche con l’esito di far valere per vie traverse la volontà despotica, quella cioè di alcuni, di un ceto o un potentato.
Condorcet aggiungeva anche che era più facile liberare una nazione dal dispotismo diretto che da quello indiretto, perché quest’ultimo operava per vie sotterranee e si avvaleva di una studiata opera di opinione che poteva far apparire le denunce come attacchi calunniosi e invidiosi destituiti di valore fattuale. Non era forse vero che le procedure di selezione del personale politico e le regole del gioco democratico erano rispettate? Il trucco del governo rappresentativo, ecco la conclusione di Condorcet, stava proprio nel riuscire a cancellare dal vocabolario politico la parola dispotismo perché si trattava di un governo non più retto sul potere personale di qualcuno ma invece su procedure di decisione che rendevano il potere politico una funzione temporanea e soggetta al giudizio pubblico, sia per via del voto che dell’opinione.
Ecco il gioco di prestigio cheè stato messo in atto diremmo quasi alla perfezione nel nostro Paese: attraverso l’uso delle regole un potentato acquista potere e usa gli strumenti che le norme gli consentono per rovesciare il governo costituzionale. Il dispotismo indiretto di “una particolare classe” di cittadini che “godono privilegi finanziari e onorifici” è una prova di “quanto facile sia dominare il corpo dei rappresentanti e come infine l’eguaglianza di rappresentanza politica esista solo di nome”, poiché tanto il meccanismo elettorale quanto l’uso distorcente delle istituzioni introducono ineguaglianza tra i cittadini.
L’incrinatura del principio di eguaglianza si estendea macchia d’olioe intacca i codici, quello penale e quello civile, poiché nell’organizzazione della giustizia è la sede della garanzia del diritto o il suo stravolgimento. Condorcet era convinto, con più di una buona ragione storica, che “il dispotismo di un uomo solo esistesse solo nell’immaginazione”. Il dispotismo è sempre di “alcuni” o dei “pochi” mai di uno solo, poiché l’uno ha bisogno di appoggiarsi su un più o meno vasto sistema di amiciziee lealtà. Del resto, “è facile che un piccolo gruppo di uomini riesca a unirsi e la loro ricchezza li renda capaci di comperare altre forme di potere”.
Dal 1994 l’Italia è una democrazia in marcia verso un dispotismo indiretto che non ha bisogno di rovesciare la costituzione per svuotarla. Resa la rappresentanza politica ineguale (poiché questo è l’esito del sistema elettorale che abbiamo) e quindi creata una maggioranza che è in molta parte composta di un ceto di clienti e amici per attuare un progetto che è disarmante nella sua semplicità: governare restando impuniti per tutto ciò che fanno o non fanno; essere al di sopra della legge attraverso la manipolazione della legge. L’ostacolo costituzionale più importante che è rimasto è quello rappresentato dalla giustizia - caduto questo, poco resterà da dire se non che l’Italia non è più una democrazia costituzionale, ma un dispotismo indiretto.
In coda, una postilla: è interessante immaginare come professori e studiosi di legge e istituzioni politiche che si sono fatti opinion-supporters di questa maggioranza, spieghino ai loro studenti i principi dello stato di diritto, le regole del governo limitato, il costituzionalismo; e in quale periodo storico situano la pratica della divisione dei poteri, e infine, come definirebbero o in quale categoria collocherebbero il governo del quale sono oggi benevoli commentatori.
In questo momento l’Italia sta attraversando un periodo strano...
di U. ECO (2002) *
«Certo. Tutti i giornalisti vengono a intervistarmi su Berlusconi. Rispondo loro che si occupa dei suoi interessi con successo. Il problema è quel 50% di Italiani che gli permette di farlo, e il rischio di contagio che può effettivamente colpire la Francia e la Germania. Questa maniera di considerare la politica come un’impresa pubblicitaria è un problema che riguarda tutto l’Occidente. Ma lasciamo che quest’esperienza mostri la sua nocività ed evitiamo in ogni caso di parlare di fascismo. E conserviamo il nostro sangue freddo. Le tecniche di governo del Signor Berlusconi sono delle tali mazzate che più le si critica e più si ha l’aria d’esser pazzi. Quell’uomo si adopera per dare a ciascuno di noi un’occasione al giorno per indignarci, e in questo modo finisce per far sgonfiare la protesta e la rabbia. Ma se io riuscissi a lanciare una sassata ogni mattina e a romperle ogni volta un vetro, sarebbe lei ad aver l’aria dell’imbecille. Non Berlusconi».
* Cit. da: Intervista a Umberto Eco, Vi scrivo dal medio evo, di MARCELLE PADOVANI - la Repubblica, 17 febbraio 2002.
di U. Eco *
"Nel 1931 il fascismo aveva imposto ai professori universitari, che erano allora 1.200, un giuramento di fedeltà al regime. Solo 12 (1 per cento) rifiutarono e persero il posto. Alcuni dicono 14, ma questo ci conferma quanto il fenomeno sia all’epoca passato inosservato lasciando memorie vaghe. Tanti altri, che poi sarebbero stati personaggi eminenti dell’antifascismo postbellico, consigliati persino da Palmiro Togliatti o da Benedetto Croce, giurarono, per poter continuare a diffondere il loro insegnamento. Forse i 1.188 che sono rimasti avevano ragione loro, per ragioni diverse e tutte onorevoli. Però quei 12 che hanno detto di no hanno salvato l’onore dell’Università e in definitiva l’onore del Paese.
Ecco perché bisogna talora dire di no anche se, pessimisticamente, si sa che non servirà a niente.
Almeno che un giorno si possa dire che lo si è detto "
* Cit. da: U. Eco, Il nemico della stampa, L’Espresso, n. 28, 2009 - 10.07.2009)
Sondaggio sulla fiducia nelle istituzioni. Il capo dello Stato piace al 70% degli italiani
Diminuiscono i consensi all’esecutivo. Pollice verso anche per scuola, sindacati e partiti
Eurispes, cresce fiducia in Napolitano
In calo il governo, sale la magistratura *
ROMA - Aumenta la fiducia degli italiani nel presidente della Repubblica Giorgio Napolitano: crede in lui il 70% della popolazione. In leggero calo, invece, la fiducia verso l’operato del governo, che cala dal 27,7% dello scorso anno al 26,7%. Male anche per scuola, sindacati e partiti. Crescono invece i giudizi favorevoli nei confronti della magistatura. Questi i dati più rilevanti del sondaggio Eurispes sulla fiducia degli italiani nelle istituzioni contenuto nel rapporto Italia 2010 che verrà presentato venerdì prossimo. In termini assoluti, il dato è positivo: la fiducia nelle istituzioni, infatti, è salita in un anno di ben 28,5 punti percentuali, passando dal 10,5% del 2009 al 39% del 2010. Di pari passo è diminuita del 10% la quota di italiani che esprimono un calo della fiducia, che si attesta al 45,8%. In vetta Giorgio Napolitano. Il 70% degli italiani si fida di Napolitano, con un aumento di 6 punti percentuali rispetto all’anno scorso. Il capo dello Stato, dunque, è sempre più un punto di riferimento per gli italiani. Questo vale soprattutto per gli over 65, che gli accordano la fiducia nel 73,3% dei casi e tra coloro che hanno tra 45 e 64 anni (73,7%). In ogni caso, il consenso tocca tutte le fasce di età e non scende mai al di sotto del 60%.
Cala il governo. In lieve calo, invece, la fiducia nel governo: i pareri positivi sono il 26,7% contro il 27,7% dell’anno precedente. Il dato - precisa Eurispes - è comunque costante negli ultimi anni, sia che si tratti di un governo di centrodestra che di uno di centrosinistra. Mostrano maggiore fiducia i cittadini del Nord-est (29,4%) e quelli di destra e centrodestra, mentre il livello più basso è nelle isole (22,8%) e negli elettori di sinistra e centrosinistra.
Si attesta su livelli simili la fiducia nel Parlamento: 26,9% contro il 26,2% del 2009. Percentuali più alte si registrano tra gli elettori di destra, centrodestra e centro, mentre i cali più vistosi si hanno a sinistra e nel centrosinistra.
Sale la magistratura. Insieme al presidente della Repubblica, l’istituzione che quest’anno acquista nuovo credito è la magistratura. Il consenso è in crescita da 5 anni e oggi quasi un italiano su due dà fiducia ai magistrati. Se, infatti, nel 2009 i fiduciosi erano il 44,4%, quest’anno c’è stato un balzo del 3,4% che porta la percentuale al 47,8%. Ad avere meno fiducia nella magistratura sono gli italiani di destra (35,6%) e centrodestra (35,4%), molto più fiduciosi quelli di centro (53%). A sinistra (58,1%) e al centrosinistra (58,5%) l’apprezzamento è ancora più alto.
La scuola. Si tratta di un’istituzione che continua a perdere fiducia, soprattutto tra le fasce giovanili. Il 52,7% dei ragazzi tra i 18 e i 24 anni ha dichiarato di avere poca fiducia e il 10,1% non ne ha per nulla. E, nonostante l’appartenenza politica del ministro dell’istruzione, il poco credito risulta molto forte tra le persone di destra (43,2%) e centrodestra (50,3%), anche se aumenta nella sinistra (53,7%) e nel centrosinistra (50,4%).
I partiti. Il 45,5% degli intervistati non nutre alcuna fiducia nei partiti e il 42,4% ne ha poca, a fronte di un 12,1% che si dichiara fiducioso. Una opinione quasi uniforme in tutte le aree geografiche del Paese e che prescinde dall’area politica di appartenenza. E tuttavia, rispetto all’anno precedente, questa fiducia aumenta del 5%. Da sottolineare poi che l’85,3% condivide l’idea che i partiti dovrebbero cercare di raggiungere il massimo di concordia possibile per il bene del paese. Quanto alla legge elettorale, la stragrande maggioranza (83,1%) è favorevole alla reintroduzione delle preferenze.
Sindacati. Risutati negativi anche per i sindacati, che perdono consensi soprattutto a sinistra (il 68,5% ha poca o nessuna fiducia) e nel centrosinistra (67,1%).
Altre istituzioni. Sale invece la fiducia nei confronti delle associazioni di volontariato (82,1%) e della Chiesa (47,3%), con un aumento dell’8,5% rispetto all’anno precedente. Migliora il dato per la pubblica amministrazione (+3,7%), anche se il tasso di sfudicia resta altissimo (+73,8%). Buoni risultati anche per le forze dell’ordine, in costante aumento sia per carabinieri che per polizia e guardia di finanza.
* la Repubblica, 25 gennaio 2010
La giunta Anm ha deciso le modalità dell’iniziativa di sabato in occasione delle cerimonie presso le 26 corti d’Appello italiane
nelle Aule i giudici saranno con toga e Costituzione in mano. "Basta aggressioni e insulti dal premier"
Anno giudiziario, la protesta delle toghe
"Sedie vuote quando parlerà il ministero"
Il Guardasigilli: "Hanno scelto di macchiare una giornata che è per i cittadini e per il loro diritto di avere giustizia"
ROMA - Presenti con la toga e con una copia della Costituzione in mano nelle aule delle cerimonie di inaugurazione dell’anno giudiziario nelle 26 corti d’Appello. Aule che però i magistrati abbandoneranno per protesta quando prenderà la parola il rappresentante del ministero della Giustizia, non prima di aver letto un durissimo documento che chiama in causa direttamente il presidente del Consiglio: "Basta insulti e aggressioni", affermano le toghe. I magistrati si dicono certe che "la dignità della magistratura verrà tutelata dal garante degli equilibri costituzionali", cioè dal capo dello Stato. "L’Associazione nazionale magistrati ha scelto di macchiare una giornata che è per i cittadini e per il loro diritto di avere giustizia", è la replica del ministro della Giustizia Angelino Alfano.
Durante le cerimonie nei distretti di corte d’Appello i magistrati indosseranno la toga e avranno in mano una copia della Costituzione "per simboleggiare il forte attaccamento alla funzione giudiziaria e alla Carta costituzionale", spiega l’Anm in una nota. Ma al momento dell’intervento del rappresentante del ministero della giustizia "lasceranno in maniera composta l’aula per testimoniare il proprio disagio per le iniziative legislative in corso, che rischiano di distruggere la giustizia in Italia, e per la mancanza degli interventi necessari ad assicurare l’efficienza del sistema"; e soltanto alla fine rientreranno. A decidere le modalità della protesta che le toghe metteranno in atto sabato prossimo è stata oggi la giunta dell’Anm.
I presidenti delle sezioni locali dell’Associazione leggeranno il documento predisposto dai vertici del ’sindacato delle toghe’ e alla fine del suo intervento mostrerà una copia del dossier "Le verità dell’Europa sui magistrati italiani", che poi consegnerà al presidente della corte d’Appello. Contemporaneamente i rappresentanti della giunta locale distribuiranno ai presenti copie del dossier. Conclusa la cerimonia, ogni giunta locale dell’Anm organizzerà una conferenza stampa nella quale, oltre a illustrare il documento e il dossier, si esporranno le particolari situazioni del distretto.
Il documento. "Non intendiamo assuefarci ad un costume politico che ha reso pratica quotidiana l’insulto e il dileggio", afferma il documento dell’Anm. E invece "ogni giorno siamo costretti ad ascoltare invettive e aggressioni nei confronti dei magistrati. ’Cloaca’, ’cancro’, ’metastasi’, ’disturbati mentali’, ’plotoni di esecuzione’ sono solo alcune delle espressioni utilizzate dal capo del governo e da esponenti politici di primo piano nei confronti della magistratura". "I magistrati - sottolinea ancora l’Anm- non sono parte di un conflitto e non sono contrapposti a nessuno. Per questo diciamo basta alle aggressioni". L’Anm punta l’indice anche contro "la ’campagna mediatica’ condotta da taluni organi di stampa contro i magistrati", che "si alimenta di dati e informazioni false e che dipinge i magistrati come fannulloni strapagati, unici responsabili del dissesto del sistema giudiziario". Per contrastarla l’Anm ha pubblicato e diffuso dati ufficiali del rapporto della Commissione europea (CEPEJ) che "smentiscono in maniera oggettiva queste menzogne", un dossier che sarà distribuito durante le cerimonie di sabato prossimo.
"Basta con riforme distruttive del sistema giudiziario", con "leggi prive di razionalità e di coerenza, pensate esclusivamente con riferimento a singole vicende giudiziarie e che hanno finito per mettere in ginocchio la giustizia penale in questo Paese", afermano ancora i magistrati.
Il documento punta l’indice contro più riforme del governo e della maggioranza a cominciare da quella sul processo breve: già con la Legge ex Cirielli - scrivono le toghe - "il numero di processi che si chiudono con la prescrizione è balzato alla impressionante cifra di 170.000 l’anno"; ma questi aumenteranno "in maniera esponenziale" se dovesse diventare il ddl sul processo breve "che ridurrà il processo penale ad una tragica farsa e determinerà un rischioso disordine organizzativo con effetti pregiudizievoli sulla tutela dei diritti dei cittadini anche nel settore civile".
"Rispettiamo l’autonomia del Parlamento - afferma l’Anm- ma è nostro dovere segnalare alla politica gli effetti e le ricadute che singoli provvedimenti legislativi possono avere sul sistema. Sentiamo pertanto il dovere di dire che se dovessero essere approvate anche la riforma delle intercettazioni e la riforma del processo penale proposte dal Governo e in discussione in parlamento, non sarebbe in nessun modo possibile assicurare giustizia in questo Paese".
In alternativa a quelle "distruttive" l’Anm chiede che si facciano le "vere riforme" , quelle che cioè servono a rendere più celeri i giudizi. Le toghe sollecitano la revisione delle circoscrizioni giudiziarie; la riforma delle procedure nel civile e nel penale, per togliere alla parte "che ha interesse al prolungamento del processo la possibilità di ’abusare’ dei diritti per sottrarsi alle proprie responsabilità, l’informatizzazione dei processi, la depenalizzazione dei reati minori e la introduzione di pene alternative al carcere. Oltre a chidere investimenti sul personale amministrativo, sulla riqualificazione, sull’innovazione informatica; risorse e mezzi "adeguati alla gravità della situazione".
Reazioni. "L’Anm piuttosto che inaugurare l’anno giudiziario ha deciso di inaugurare la campagna elettorale in vista delle elezioni per il Csm che si terranno in primavera" ed "ha scelto di macchiare una giornata che è per i cittadini e per il loro diritto di avere giustizia". Lo afferma il Guardasigilli Angelino Alfano che aggiunge: "sono il ministro della Giustizia, servo il mio paese e ho giurato sulla Costituzione. A differenza di coloro che seguiranno le improvvide indicazioni dell’Anm, parteciperò all’inaugurazione dell’anno giudiziario presso la Suprema Corte di Cassazione alla presenza del Presidente della Repubblica".
Duro il coordinatore del Pdl, Sandro Bondi. "La decisione annunciata dall’Anm - dice - è una profonda e oltraggiosa lesione dell’ordine democratico e costituzionale. A questo punto è improcrastinabile una posizione chiara di tutte le Istituzioni a salvaguardia delle legittime prerogative democratiche".
"Registriamo la singolare concezione della democrazia del ministro Bondi, che nega persino il diritto ad esprimere il dissenso a chi ha il compito di rappresentare i magistrati, mentre trova assolutamente normale che il Parlamento continui a varare norme che contribuiscono alla destrutturazione del già malandato sistema giudiziario". Lo dichiara in una nota il presidente del Forum Giustizia del Pd, Andrea Orlando ’suggerendo’ al governo di "guardare al merito delle questioni segnalate in modo unitario da tutte le componenti della magistratura" piuttosto che "alzare i toni".
"Un governo responsabile invece di accusare, ancora una volta, i magistrati di essere sobillatori, rifletta sulle ragioni profonde della loro protesta, che non sono una rivendicazione economica nè di interessi personali. Ma, semplicemente, la richiesta di garantire a tutti i cittadini di avere giustizia sia se vittime di reati, sia se chiamati a rispondere delle loro azioni", lo afferma il leader dell’Italia dei Valori Antonio Di Pietro.
* la Repubblica, 27 gennaio 2010
Emergenza nazionale
di CARLO FEDERICO GROSSO (La Stampa, 30/1/2010)
Fra politica e magistratura sono tempi di grande tensione. Ma ieri, all’inaugurazione solenne dell’anno giudiziario in Cassazione davanti al parterre delle alte cariche dello Stato, i toni sono stati misurati e composti. È bene che sia stato così, anche se i problemi esistono, sono profondi e non sono certamente le chiacchierate di un mattino a dissiparli.
Il Primo Presidente e il Procuratore Generale della Cassazione hanno pronunciato parole condivisibili. Sullo sfondo vi era, ovviamente, il tema del «processo breve» appena votato in Senato dalla maggioranza con l’intento di salvaguardare il premier dai processi in corso. Entrambi i due alti magistrati hanno sottolineato che un processo rapido costituisce, comunque, esigenza imprescindibile di ogni società civile. Ma hanno soggiunto che l’obiettivo non può essere conseguito tramite leggi di giornata, asfittiche e di corto raggio; deve essere invece perseguito attraverso riforme organiche di vasto respiro, accompagnate da un potenziamento delle risorse umane e materiali destinate all’esercizio della giurisdizione.
Parole ineccepibili, che il mondo del diritto pronuncia da anni, ma che, per anni, sono state ignorate dalla politica che, giorno dopo giorno, ha lasciato che la giustizia s’impoverisse. Ha ragione il Primo Presidente a denunciare l’intollerabilità di una situazione che, nella gerarchia mondiale in materia di giustizia, vede l’Italia solo al centocinquantesimo posto, al pari del Gabon, della Guinea e dell’Angola. Ma occorre ricordare che, se ciò è capitato, è soprattutto colpa di chi, al governo e in Parlamento, a tutto ha pensato tranne che a rendere efficiente la macchina giudiziaria dotandola, per legge, dei mezzi e degli strumenti necessari.
Ed occorre, ulteriormente, ricordare, ancora una volta con le parole del Primo Presidente, che senza un disegno riformatore di ampio respiro della legislazione penale e dell’organizzazione giudiziaria sarebbe vano pretendere di «imporre ex lege una risposta di giustizia che possa in concreto essere breve ed efficace a fronte di un crescente carico di domanda». In altre parole, prescrivere per legge un processo breve senza dotare gli addetti dei mezzi e degli strumenti idonei a rispettare i tempi stabiliti, significa introdurre, semplicemente, una mannaia destinata a cancellare processi, condanne, soluzioni giudiziarie. Un disastro ulteriore, e forse definitivo.
Il ministro della Giustizia, stando alle notizie di agenzia, ha cercato di abbozzare, riconoscendo che la condizione della giustizia italiana, specie di quella civile, costituisce «una vera e propria emergenza nazionale», ed annunciando «un piano straordinario di smaltimento delle pendenze». In realtà, sarebbe necessario un progetto complessivo di intervento sui codici civili e penali, sugli organici del personale giudiziario, sulla distribuzione delle sedi giudiziarie, sulla copertura dei posti vacanti. Non un intervento straordinario, ma un ordinario, serio, riassetto globale del sistema legislativo e giudiziario.
Un’ultima annotazione. Sempre il ministro, in un unico accenno leggermente polemico in una giornata «pacificante» ricca di composto equilibrio istituzionale, ha dichiarato di avere rispetto per l’indipendenza dell’ordine giudiziario, ma ha sottolineato che «i giudici sono soggetti alla legge» e che «la legge la fa il Parlamento libero, democratico, espressione del popolo italiano», quello stesso popolo italiano in nome del quale i giudici pronunciano le loro sentenze.
Anche questa è annotazione, di per sé, assolutamente condivisibile, costituendo, ciò che è stato detto, fotografia della divisione dei poteri propria dello Stato di diritto. Occorre tuttavia ricordare, al ministro e a noi tutti, che il Parlamento, nel legiferare, è sovrano, ma è, comunque, tenuto a rispettare la Costituzione (cosa sovente dimenticata in questi ultimi tempi). Nel dibattito di ieri in Cassazione è stato d’altronde ignorato un profilo di grande importanza. Si è parlato ampiamente della necessità di riformare con legge ordinaria la giustizia penale e civile per renderla efficiente (cosa sulla quale sono tutti, bene o male, a parole d’accordo); si è però taciuto sulle ventilate riforme costituzionali attraverso le quali una parte consistente del personale dei partiti intenderebbe rimodulare i rapporti di potere fra politica e magistratura.
È, questo, un profilo di grandissima delicatezza. Non si vorrebbe infatti che, con la scusa del riequilibrio fra i poteri dello Stato, si intendesse in realtà proteggere in modo abnorme il mondo politico intriso di malaffare. La speranza è che il clima con il quale il tema della giustizia ordinaria è stato affrontato ieri nell’inaugurazione dell’anno giudiziario in Cassazione consenta di affrontare con altrettanta distensione anche quello, assai meno pacifico, che concerne la ventilata riforma costituzionale. Per intanto si attende con una certa apprensione che cosa accadrà, oggi, nelle inaugurazioni dell’anno giudiziario in ciascuna sede di Corte d’Appello.