I padri costituenti e la difesa della Carta
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 20.10.2009)
Il primo grido di allarme per le tentazioni distruttive verso la nostra Costituzione manifestate dalle maggioranze guidate da Silvio Berlusconi venne lanciato nel 1994 da Giuseppe Dossetti, uno dei padri più rappresentativi della nostra carta fondamentale e della nostra coscienza costituzionale. Con una lettera inviata il 25 aprile di quello stesso anno all’allora sindaco di Bologna, Walter Vitali, Dossetti lanciava i comitati per la difesa della Costituzione con queste parole: «Si tratta cioè di impedire ad una maggioranza che non ha ricevuto alcun mandato al riguardo di mutare la nostra Costituzione: [quella maggioranza] si arrogherebbe un compito che solo una nuova Assemblea Costituente, programmaticamente eletta per questo, e a sistema proporzionale, potrebbe assolvere come veramente rappresentativa di tutto il nostro popolo. Altrimenti sarebbe un colpo di stato».
Dossetti fu uno dei 556 deputati dell’Assemblea Costituente eletta il 2 giugno 1946, e poi membro della Commissione per la Costituzione (conosciuta anche come commissione dei 75) il cui compito era di elaborare un progetto di Costituzione. Il 21 novembre 1946, Dossetti presentò in Commissione la proposta relativa al diritto di resistenza. Queste le sue parole: «La resistenza individuale e collettiva agli atti dei poteri pubblici, che violino le libertà fondamentali e i diritti garantiti dalla presente Costituzione, è diritto e dovere di ogni cittadino». Rileggere oggi le discussioni dei costitutenti sul tema dell’oppressione e della necessità che la Costituzione si doti di strumenti di autodifesa è un’esperienza intellettuale unica perché rivela quanta attenzione, preparazione e serietà ci fosse in quell’Assemblea costitutiva della nostra democrazia. Riprendere in mano quella storia, quelle discussione è diventato essenziale per la nostra libertà.
Dossetti era un tomista e pensava al potere politico (quello costituito nello stato) come alla fonte di un rischio permanente dal quale premunirsi. Aldo Moro fu dalla sua parte e nonostante le ragionevoli perplessità nei confronti di un principio che era essenzialmente metagiuridico e di difficile traduzione in legge, tuttavia anche lui come Dossetti comprese quanto fosse essenziale per una democrazia che la cittadinanza venisse concepita e vissuta come un’identità politica non solo giuridica, perché alla sua base stava il dovere morale di preservare i fondamenti della sua stessa esistenza. È il cittadino che preserva se stesso preservando la carta.
E così, quando nel 1994 il padrone di Mediaset impresse una direzione autoritaria alla politica italiana e i partiti dell’opposizione anche allora sembrarono non comprendere per davvero la natura nuova e inquietante di quel corso politico, Dossetti riprese il ruolo morale di padre costituente e tornò a fare il dovere che la cittadinanza richiede: lanciò un movimento di cittadini attivi per esprimere un chiaro e forte "No!" alle manipolazioni della carta da parte di maggioranze o leader bramosi di dominio illimitato; un movimento che avesse il compito di far capire a tutta la nazione che la Costituzione non era a disposizione - proprio come non lo sono le donne, secondo la bella risposta di Rosy Bindi al capo della maggioranza.
La sovranità non è la stessa cosa del governo; e non lo sarebbe nemmeno se per ipotesi il governo godesse del 99% dei consensi elettorali. La differenza tra sovranità e maggioranza eletta che governa per un tempo limitato non è numerica, ma di forma e di sostanza. E infatti, nonostante Berlusconi si riempia la bocca della parola "popolo" egli pensa ai suoi elettori e a quelli che le sue strategie commerciali possono eventualmente catturare. Ma la sovranità e la costituzione non sono a disposizione di una parte, di nessuna parte, e non hanno nulla a che fare con la massa che un leader pensa di catturare, tenere o imbonire.
La ragione di questa indisponibilità è ancora una volta ben espressa dalle parole di Dossetti: «C’è una soglia che deve essere rispettata in modo assoluto... oltrepasserebbe questa soglia qualunque modificazione che si volesse apportare ai diritti inviolabili civili, politici, sociali previsti nell’attuale Costituzione. E così pure va ripetuto per una qualunque soluzione che intaccasse il principio della divisione e dell’equilibrio dei poteri fondamentali, legislativo, esecutivo e giudiziario, cioè per ogni avvio, che potrebbe essere irreversibile, di un potenziamento dell’esecutivo ai danni del legislativo, ancorché fosse realizzato con forme di referendum, che potrebbero trasformarsi in forme di plebiscito... In questo senso ho parlato prima di globalità del rifiuto cristiano e ritengo che non ci sia possibilità per le coscienze cristiane di nessuna trattativa».
La coscienza cristiana di Dossetti coincideva in quel caso perfettamente con quella pubblica del cittadino perché la difesa delle prerogative costituzionali era difesa della libertà di ciascuno di distinguersi ed essere autonomo dalla pretesa di omologazione e dominio di una maggioranza.
Nel maggio 1947, intervenendo sul tema proposto da Dossetti, Antonio Giolitti (allora Pci) ricordò che «la garanzia essenziale del regime democratico è... l’autogoverno morale e politico del cittadino». Per questa ragione, benché il diritto di resistenza (che avrebbe dovuto essere contenuto nell’Articolo 50) non passò l’esame, esso fa parte comunque nella cultura etica della cittadinanza democratica. La vita della Costituzione è nelle mani dei cittadini.
Ha scritto anni fa Paolo Pombeni che le idee dossettiane e dei costituenti sulla resistenza come autodifesa della Costituzione «scomparvero dall’attenzione dell’Assemblea Costituente e dalla stessa memoria storica», ma il loro principio ispiratore ha una portata che «dovrebbe essere rivalutata» perché, si potrebbe aggiungere, la Costituzione, scritta da una generazione che non è piú, è viva nel nostro presente e la sua persistenza é un nostro dovere civile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Ruby ter, il caso è chiuso?
Nello Stato di diritto la verità processuale non coincide con la verità storica. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.
di IDA DOMINIJANNI (CRS - Centro per la Riforma dello Stato, 16 Febbraio 2023)
Lo Stato di diritto è Stato di diritto, e nel diritto la forma è sostanza. E dunque, se la sentenza di un tribunale invalida l’impianto di un processo per un consistente vizio di forma, bisogna prenderne atto non con rassegnazione ma con soddisfazione. La sentenza di primo grado del tribunale di Milano sul processo Ruby ter, quello in cui Berlusconi era imputato di corruzione delle testimoni e le testimoni erano accusate di falsa testimonianza, ha stabilito che “il fatto non sussiste” e dunque tutti vanno assolti, perché l’intero processo è costruito su un errore formale: le ragazze che partecipavano alle “cene eleganti” di Arcore non andavano trattate come testimoni, in quanto tali soggette all’obbligo di dire la verità, ma come indagate in procedimenti connessi, in quanto tali non soggette a quell’obbligo (e aventi diritto a un avvocato difensore). Il vizio formale non è da poco, l’accusa cade e la palla, nonché l’onere della prova, torna alla procura responsabile della costruzione dell’impianto processuale. Si vedrà in appello, se ricorso in appello ci sarà. Diversamente, il caso è chiuso?
Nello Stato di diritto, la verità processuale non coincide con la verità storica. Riguarda esclusivamente l’accertamento che un fatto costituisca o non costituisca un reato e che chi l’ha commesso sia o non sia colpevole; non riguarda il giudizio complessivo, politico e morale, su quel fatto e su chi l’ha commesso, il quale giudizio complessivo non spetta ai giudici e ai tribunali ma a tutti - l’opinione pubblica, la società, i testimoni dell’epoca in cui il fatto è accaduto, gli storici che lo valuteranno in futuro. La sentenza giudiziaria sul processo Ruby ter dunque non chiude ma riapre il giudizio storico, politico e morale sui fatti da cui quel processo nasce.
Così almeno dovrebbe essere in uno Stato di diritto che fosse riconosciuto e interiorizzato come tale dai suoi cittadini e dalla sua classe politica. Il che purtroppo non è il caso dell’Italia che fu (e resta) berlusconiana né di quella che fu (e resta) antiberlusconiana. La prima non si è mai rassegnata ad accettare che vita e politica, pur eccedendo il diritto, devono sottostare al controllo di legalità. La seconda non si è mai convinta che il berlusconismo andava (e va ancora) sconfitto nella politica e nella vita e non, o non solo, nelle aule dei tribunali. Sulla sentenza Ruby ter la farsa si ripete stancamente: assolto giudiziariamente, Berlusconi si sente indebitamente assolto anche politicamente dal sexgate mentre non lo è affatto, e il fronte antiberlusconiano si sente gabbato giudiziariamente mentre dovrebbe rilanciare politicamente il giudizio su quella stagione. Che però non è mai stato capace di inquadrare nelle sue dimensioni e nei suoi significati reali.
Il sexgate che per tre anni, dal 2009 al 2011, ha tenuto sotto sequestro la politica e l’immaginario collettivo di questo paese, compromettendone altresì la reputazione all’estero, non è stato solo una sequela di scandali sessuali - Noemi e Ruby, stuoli di escort, “cene eleganti” e bunga-bunga - aventi come protagonista un premier in carica uso a frequentazioni hard di giovani donne talvolta minorenni. È stata l’epifania di un sistema di scambio fra sesso, potere e danaro (prestazioni sessuali retribuite in contanti, regalie, appartamenti, comparsate televisive, in qualche caso candidature politiche), a sua volta emblematico del più complessivo sistema di potere e di conquista del consenso che ha assicurato a Silvio Berlusconi un’egemonia ventennale sul corpo e sull’anima della società italiana. Lo sfondamento del confine fra pubblico e privato, la trasgressione sistematica della norma, l’etica e l’estetica del godimento, l’ostentazione della ricchezza e l’idea che tutto sia comprabile, la percezione di un sé smisurato e onnipotente, il sodalizio fra potere politico personalizzato e servitù volontaria acquiescente: tutti questi pilastri del berlusconismo trovarono nel sexgate un concentrato, potenziato da una concezione drogata della virilità e da una concezione mercificata del corpo e della libertà femminili, entrambe capaci di sedurre l’immaginario nazionale ben aldilà dei confini politici ed elettorali del centrodestra.
La politicità del sexgate stava per l’appunto in questa sua emblematicità del sistema di potere a cui strappava la maschera. Ma proprio questa emblematicità, unita alla difficoltà di mettere a fuoco l’impatto sulla sfera pubblica di una materia incandescente come la sessualità, suscitò reazioni anch’esse emblematiche dei tic del bipolarismo politico: nel centrodestra - lesionato tuttavia proprio in quegli anni dalla rottura fra Berlusconi, Fini e una parte di An - l’arroccamento sulla trincea della difesa della “vita privata” del capo e delle sue pretese verità, compresa l’identità della “nipote di Mubarak” votata in Parlamento; nel centrosinistra, l’ondeggiamento fra moralismo e giustizialismo di fronte a un fatto che richiedeva un salto di cultura politica. Non per caso il meglio dell’analisi venne dalla cultura femminista e da quella psicoanalitica, più attrezzate a navigare ai confini fra personale e politico e fra razionalità, immaginario e inconscio che il sexgate domandava di attraversare. Fu soprattutto grazie ad alcune donne - per prima Veronica Lario, l’allora moglie del premier - che lo scandalo scoppiò, fu soprattutto grazie alle centinaia di migliaia di donne, scese in piazza in massa contro un regime intollerabilmente sessista, che si aprì una voragine nel consenso finallora solidissimo del Cavaliere. E fu soprattutto grazie alle donne, e ad alcuni uomini che seppero cogliere l’occasione per uscire a loro volta dai binari di un ruolo maschile prescritto, se il livello del dibattito pubblico si arricchì per alcuni mesi di argomenti, prospettive e punti di vista inimmaginabili nell’asfissia mediatica di prima e di dopo.
Oggi che l’assoluzione di Berlusconi fa tornare tutto nei ranghi prevedibili dello schiamazzo contro l’uso politico della giustizia da un lato e del rispetto per le sentenze giudiziarie senz’altro aggiungere dall’altro c’è da chiedersi che cosa sia rimasto, nella società e nella politica, di quella turbolenta ma feconda stagione che strappò il regime del dicibile e dell’indicibile. Poco o nulla, è la risposta. Sul piano politico, quando Berlusconi, indebolito dal sexgate, fu costretto dalla crisi dello spread a farsi da parte, la consegna dello scettro al governo tecnico di Mario Monti, voluta dall’alto e senza ricorso alle urne, segnò un cambio di stagione netto dal carnevale berlusconiano alla quaresima dell’austerity, ma senza una sepoltura simbolica del berlusconismo che il rito elettorale avrebbe almeno agevolato; e infatti Berlusconi, nel frattempo condannato per frode fiscale, è sempre lì, azzoppato, depotenziato e senz’aura, eppure convinto fino a un anno fa di poter conquistare il Quirinale.
Sul piano del rapporto fra i sessi, la spinta femminista è stata spuntata e assorbita a sinistra da un rivendicazionismo paritario e vittimista che non ha portato frutti, mentre a destra Giorgia Meloni - che all’epoca votò in Parlamento che sì, Ruby era la nipote di Mubarak, e che nella sua autobiografia liquida il sexgate come “una condotta privata di Berlusconi un po’ spregiudicata” - ha costruito la sua resistibile ascesa sull’orgoglio di essere donna sì, ma nell’inedita declinazione reazionaria della donna-madre, donna-nazione, donna-cristiana. E vale ricordare che quando, nel 2016 e sotto un Trump per tanti versi emulo di Berlusconi, il “me too” americano e mondiale portò all’attenzione della sfera pubblica globale un catalogo di questioni analogo a quello sollevato dal sexgate, nessuno nella sfera pubblica italiana si ricordò di quello che da noi era successo solo cinque anni prima.
Quanto alla qualità del dibattito pubblico, oggi si avvita più semplicemente sui baci fra Fedez e Rosa Chemical e sui monologhi moraleggianti delle co-conduttrici di Sanremo, sotto l’occhio censorio di una destra sicuramente più perbene e altrettanto sicuramente più illiberale di Berlusconi, che vede dappertutto nemici che l’assediano e dichiara ogni giorno una guerra culturale contro il fantasma di una sinistra che non c’è. Tocca dare ragione ancora una volta a Veronica Lario, che a un certo punto, durante il sexgate, si lasciò scappare che il peggio non era suo marito ma quello che sarebbe venuto dopo.
Quella buona educazione (anche fisica) che ci serve
di Mauro Berruto (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Agosto del 1918, esattamente cento anni fa. Mancano pochi mesi alla fine della Prima Guerra mondiale e l’Italia sta uscendo dalla spirale di un conflitto feroce. Le cicatrici, la rabbia, il dolore, il risentimento dominano il Paese. Antonio Gramsci, che tre anni più tardi sarebbe stato fra i fondatori del Partito comunista italiano, pubblica sul giornale torinese L’ordine nuovo un articolo, poi inserito in un volume intitolato Scritti sotto la Mole.
È una riflessione sullo sport e sul modo di intendere, da parte degli italiani, quel fenomeno. Il pezzo, che ha un vero e proprio senso didascalico, si intitola “Il calcio e lo scopone”. È un’analisi sociologica molto seria che, riletta cento anni dopo, fa ancora pensare.
Gramsci descrive la partita di calcio come l’emblema della democrazia, perché si disputa a cielo aperto e sotto gli occhi del pubblico. «Ci sono movimento, gara, lotta, ma regolate da una legge non scritta che si chiama lealtà che viene continuamente ricordata dalla presenza dell’arbitro». Insomma, l’agone è definito da regole certe che permettono di distinguere e apprezzare i calciatori grazie alle loro capacità.
Di tutt’altro spirito, sostiene Gramsci, è impregnata la cultura dello scopone: «Una partita allo scopone: clausura, fumo, luce artificiale. Urla, pugni sul tavolo e spesso sulla faccia dell’avversario o del complice. Lavorio perverso del cervello. Diffidenza reciproca. Diplomazia segreta. Carte segnate. Strategia delle gambe e della punta dei piedi. Una legge? Dov’è la legge che bisogna rispettare? Essa varia di luogo in luogo, ha diverse tradizioni, è occasione continua di contestazione e litigi“. Per Gramsci «lo sport suscita anche in politica il concetto di “gioco leale”», mentre la cultura dello scopone è l’espressione più retrograda e anti-progressista della società: «Lo scopone è la forma di sport della società economicamente arretrata, politicamente e spiritualmente, dove la forma di convivenza civile è caratterizzata dal confidente di polizia, dal questurino in borghese, dalla lettera anonima, dal culto dell’incompetenza, dal carrierismo (con relativi favori e grazie del deputato)».
Che sia specchio o struttura della nostra società civile, il nostro modo di intendere lo sport è oggi molto vicino al nostro atteggiamento verso le istituzioni, verso tutte le forme di convivenza o tolleranza a cui siamo chiamati.
Sono passati cent’anni dalle suggestioni di Gramsci e, ahimè, lo sport, compreso quel calcio un po’ idealizzato, ha spostato le sue dinamiche verso quelle dello scopone che, peraltro, non si gioca quasi più e ha, a sua volta, lasciato il passo a partite da bar che si giocano con quelle stesse “carte segnate” (oggi si chiamano fake news), diffidenza, contestazioni, urla e pugni sul tavolo. Quelle partite le “giochiamo” sui temi dell’immigrazione, sul diritto di asilo, sull’opportunità dei vaccini, sul diritto al lavoro e diventano territorio di fazioni, di tifo da stadio, di ultrà che parteggiano per una o per l’altra squadra senza nessun tipo di competenza o di riferimento a regole certe, tantomeno ad arbitri riconosciuti e rispettati come tali. Sono passati cent’anni, il calcio non è più quello idealizzato e suggerito come esperienza civile da Gramsci. Le non-regole dello scopone sono diventate la forma del nostro confronto politico e civile. O incivile, forse.
Certo lo sport non è un paradiso di virtù, ma uno sport capace di recuperare il senso di quelle origini sarebbe uno strumento capace di rendere più civili le strutture della nostra vita associata che, tuttavia, è la lente che ci fa leggere anche lo sport secondo i propri parametri. Un cortocircuito da disinnescare, insomma. Come?
C’è un’unica soluzione che richiede tempo e investimenti: la scuola. Il ministro dell’Istruzione Marco Bussetti, insegnante di educazione fisica ed ex allenatore di basket, lo aveva dichiarato al suo insediamento: avrebbe voluto finalmente portare lo sport in modo strutturale nella Scuola Primaria.
Purtroppo il ministro Bussetti e i suoi ottimi programmi sembrano travolti dalle dichiarazioni di alcuni suoi colleghi su porti da chiudere, troppi vaccini o legge Mancino da rivedere, e quella voce che sembrava davvero di “cambiamento” in meglio, non la sentiamo più, neanche in lontananza. Ministro Bussetti, certo sta lavorando, ma ci dia certezze, che qui tira un’aria pesante: ci stiamo imbruttendo come squallidi giocatori di scopone di inizio secolo. Abbiamo bisogno di un po’ di educazione. Anche fisica.
Cattolici e politica.
Capire il «secolarismo», dare alternativa al nulla
di Raffaele Vacca (Avvenire, sabato 28 luglio 2018)
Nel marzo del 1994, parlando al clero di Pordenone, Giuseppe Dossetti disse che tutta la sua azione «così detta politica» era stata un’opera di educazione e di formazione, per alimentare e sostenere «la coscienza politica del nostro popolo, che matura non era e non è neanche oggi». Anche Giuseppe Lazzati, a un’azione politica concreta, aveva privilegiato il servizio di aiutare a formare al «pensare politicamente».
Nonostante la proposta e la promozione di scuole di politica negli stessi partiti e soprattutto nell’ambito dell’associazionismo cattolico, la coscienza politica della maggior parte degli italiani non solo non si è fortificata, ma si è indebolita sotto l’urto di una secolarizzazione, tendente a trasformarsi spesso in secolarismo (ovvero in una visione di vita che ritiene Dio superfluo).
Come aveva scritto Paolo VI nella Evangelii nuntiandi, che è del 1975, la secolarizzazione «è lo sforzo in sé giusto e legittimo, per nulla incompatibile con la fede e la religione, di scoprire nella creazione, in ogni cosa ed in ogni evento dell’universo, le leggi che li reggono, con una certa autonomia, nell’intima convinzione che il Creatore ha posto queste leggi».
Ma, come notò Pietro Scoppola dieci anni dopo, in Italia, con il rapidissimo espandersi del sistema industriale-tecnologico-capitalista, si era imposta un differente tipo di secolarizzazione, che aveva cercato di distruggere tutti i valori di cui aveva bisogno per nascere, e di consumare tutti i valori che non era in grado di riprodurre.
Questa secolarizzazione aveva picconato non solo la cultura cattolica (intendo per tale anche il modo di vivere), ma anche le stesse culture laiche. Con potenti mezzi di comunicazione e introducendo la spettacolarizzazione in ogni campo del vivere, aveva sempre di più diffuso l’opinione che si viene dal nulla e si va verso il nulla, per cui non bisogna pensare ad altro che a conseguire il massimo profitto economico possibile, soddisfare bisogni materiali sia naturali sia artefatti, tralasciare il ’pensare politicamente’ e dare deleghe in bianco a durante le elezioni.
Quantunque potentissimo, il sistema è tuttavia in crisi. Quando si ritrovano con se stessi non pochi avvertono un grave disagio nel vivere. Non lo avvertirebbero se avessero una visione cristianamente ispirata, che rivelerebbe a loro come agire. È questa visione di vita (che parecchi segretamente hanno) che bisognerebbe riproporre e lentamente riportare nella cultura italiana, che è anche cultura europea. Avendo consapevolezze di esperienze del passato (ma senza restare isterilmente in esse), ed avendo precisa consapevolezza della situazione esistente, ad alimentare questa cultura potrebbero essere nuove scuole di educazione e di formazione politica, tendenti non solo a educare e formare coloro che intendono candidarsi a svolgere attività politica in sede nazionale o locale, ma anche a educare e formare cittadini che sappiano comprendere, valutare e sostenere la politica, non restando oggetti passivi della sua azione, ma diventando soggetti consapevoli di questa. Ed aiutando altri a esserlo.
Raffaela Vacca è fondatore del Premio Capri-San Michele
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’ITALIA E L’ANNO DELLA VERGOGNA (1994): L’ALLARME DI DON GIUSEPPE DOSSETTI E IL SILENZIO GENERALE SULL’INVESTITURA ATEO-DEVOTA DEL "NUOVO" PRESIDENTE DELLA "REPUBBLICA" ("FORZA ITALIA").
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
LA QUESTIONE "CATTOLICA" E LO SPIRITO DEI NOSTRI PADRI E E DELLE NOSTRE MADRI COSTITUENTI. Per un ri-orientamento antropologico e teologico-politico. Una nota (del 2006)
Federico La Sala
La Costituzione non è mai al sicuro, occhio ai programmi elettorali
1947-2017. La Carta come una bussola nella sfida del voto
di Anna Falcone (il manifesto, 28.12.2017)
Sarà la cifra tonda, sarà che questo compleanno della Costituzione arriva dopo la schiacciante vittoria referendaria del 4 dicembre, fatto sta che mai come quest’anno la ricorrenza della firma è stata fortemente sentita dagli italiani, che hanno partecipato in tanti alle iniziative organizzate per l’occasione in tutta Italia. E non solo per rinnovare il ricordo: questa celebrazione e il messaggio che ne scaturisce assumono un valore cruciale per le prossime elezioni politiche.
Lo hanno giustamente sottolineato Felice Besostri ed Enzo Paolini nell’articolo pubblicato ieri sulle pagine di questo giornale. Perché chi ha vinto la battaglia referendaria, e continua a difendere davanti alle Corti le ragioni della legittimità costituzionale delle leggi elettorali, o a sostenere chi lo fa, non potrà sottrarsi, al momento del voto, a un giudizio di coerenza fra schieramenti politici e rispetto del voto referendario.
Il fatto che a 70 anni dalla sua entrata in vigore la Costituzione è e rimane, in gran parte, inattuata rappresenta - per chi voglia raccoglierla seriamente - la sfida politica per eccellenza delle prossime elezioni. Non a caso, molti elettori ed elettrici, che non si rassegnano all’esistente, chiedono agli schieramenti in campo di ripartire proprio dall’attuazione della Costituzione e dalla implementazione dei diritti già riconosciuti dalla Carta quale antidoto alle inaccettabili diseguaglianze del nostro tempo. Un passaggio necessario, se non indispensabile, per rafforzare la credibilità dei programmi politici e, auspicabilmente, ricucire quel rapporto di fiducia fra politica e cittadini mai così in crisi. Un vulnus democratico tradotto in un astensionismo che sfiora ormai il 55% dell’elettorato: dato più che allarmante a cui non ci si può e non ci si deve rassegnare.
Rilanciare il messaggio della necessaria difesa e attuazione della Costituzione - in particolare delle norme che garantiscono il pieno e trasparente esercizio della democrazia e attribuiscono alla Repubblica il compito di rimuovere gli ostacoli che alimentano e aggravano le condizioni di diseguaglianza fra cittadini - diventa, allora, cruciale, soprattutto alla vigilia di una tornata elettorale le cui regole saranno scandite dall’ennesima legge elettorale ad alto rischio di incostituzionalità.
Pur nella piena consapevolezza che la Costituzione non delinea un programma univoco, capace di blindare le scelte dei diversi governi - è necessario riconoscere, infatti, e una volta per tutte, che esiste un nucleo duro di principi e diritti fondamentali inderogabili che ogni forza politica deve impegnarsi ad attuare, nelle forme e nei modi che ritiene più opportuni, per rispettare quella fedeltà alla Costituzione che li lega indissolubilmente alla Repubblica e ai suoi compiti costituzionali. Un patto democratico di diritti e obiettivi programmatici, inequivocabilmente vincolanti, che deve tornare ad essere il cuore di ogni programma elettorale. Soprattutto a Sinistra.
Sia chiaro: non è un’indicazione di voto, ma il suggerimento a una riflessione suppletiva sul voto e su chi auspicabilmente si impegnerà in maniera chiara e credibile a difendere e attuare la Costituzione. Nella piena consapevolezza che un tale ambizioso obiettivo, per essere concreto, deve essere condiviso da tanti, e non è monopolizzabile da pochi o da forze marginali. Perché la Costituzione non è perfetta, né intoccabile, ma è l’unico punto certo che abbiamo, il primo “bene comune” in cui si riconoscono gli italiani in questa difficile fase di transizione democratica. Se questa virerà verso il restringimento progressivo degli spazi di partecipazione e di democrazia o verso modelli più avanzati dipenderà anche dal se e come eserciteremo il nostro diritto di voto.
In tal senso, l’astensionismo, anche come forma estrema di protesta, più che sortire un ‘ravvedimento’, rischia di favorire le destre nel prossimo Parlamento, e con esse la formazione di uno schieramento largo e più ampio della compagine del futuro governo che, se non arginato, potrebbe trovare i numeri per unire le forze di quanti - avendo fallito le riforme del 2006 e del 2016 - potrebbero convergere su un progetto analogo, se non peggiore. Un’operazione che, (ipotesi remota, ma non impossibile) qualora dovesse raccogliere il sostegno dei 2/3 dei componenti di ciascuna Camera potrebbe non dare spazio neppure alla raccolta delle firme per chiedere il referendum costituzionale e, con esso, il pronunciamento popolare.
Per questo è necessario sollecitare le forze politiche in campo affinché si pronuncino, tutte, sul loro programma costituzionale: sul se e come intendano intervenire sulla Costituzione; sul se e come intendano dare attuazione al suo nucleo duro di principi e diritti inderogabili; sul se e come intendano metterla “in sicurezza” da possibili incursioni di future maggioranze gonfiate. Perché non ci si debba più trovare in futuro a contrastare una riforma o, peggio, una riscrittura della Carta, di parte e neppure menzionata nei programmi elettorali e adeguatamente dibattuta nel Paese. Ai tanti italiani che si sono recati al voto il 4 dicembre, almeno questo, è dovuto.
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA... *
____________________________________________________________________
Le idee
La vergogna è morta
Da Berlusconi a Trump: così un sentimento è scomparso dall’orizzonte dei valori individuali e collettivi
di Marco Belpoliti (l’Espresso, 15 dicembre 2017)
Quando nel 1995 Christopher Lasch, l’autore del celebre volume “La cultura del narcisismo”, diede alle stampe un altro capitolo della sua indagine sulla società americana, “La rivolta delle élite” (ora ristampato opportunamente da Neri Pozza), pensò bene di dedicare un capitolo alla abolizione della vergogna.
Lasch esaminava gli scritti di psicoanalisti e psicologi americani che avevano lavorato per eliminare quella che sembrava un deficit delle singole personalità individuali: la vergogna quale origine della scarsa stima di sé. La pubblicistica delle scienze dell’anima vedeva in questo sentimento una delle ultime forme di patologia sociale, tanto da suggerire delle vere e proprie campagne per ridurre la vergogna, cosa che è avvenuta in California, ad esempio («programma cognitivo-affettivo finalizzato a ridurre la vergogna»). Lasch non ha fatto in tempo a vedere come questo sentimento sia stato abolito dalla classe dirigente che è apparsa sulla scena della politica mondiale all’indomani del 1994, anno in cui lo studioso della cultura è scomparso.
* * *
Con il debutto di Silvio Berlusconi in politica la vergogna è ufficialmente scomparsa dall’orizzonte dei valori e dei sentimenti individuali e collettivi. Le élite che hanno scorrazzato nel paesaggio italiano nel ventennio successivo alla “discesa in campo” sono state totalmente prive di questo. In un certo senso Berlusconi è stato l’avanguardia di una classe politico-affaristica che ha il suo culmine nella figura dell’attuale inquilino della Casa Bianca, Donald Trump. Nessuno dei due uomini d’affari trasformati in leader politici conosce né il senso di colpa né la vergogna propriamente detta.
La vergogna, come sostengono gli psicologi, costituisce un’emozione intrinsecamente sociale e relazionale. Per provarla occorre immedesimarsi in un pubblico che biasima e condanna. Ma questo pubblico non esiste più. Ci sono innumerevoli figure dello spettacolo, della politica, della economia e del giornalismo, per cui la sfrontatezza, l’esibizione del cinismo, la menzogna fanno parte della serie di espressioni consuete esibite davanti alle telecamere televisive e nel web. Nessuno prova più vergogna. Anzi, proprio questi aspetti negativi servono a creare un’immagine personale riconoscibile e, se non proprio stimata, almeno rispettata o temuta. Come ha detto una volta Berlusconi, genio del rovesciamento semantico di quasi tutto: «Ci metto la faccia». È l’esatto contrario del “perdere la faccia”, sentimento che prova chi sente gravare dentro di sé la vergogna. Metterci la faccia significa apparire rimuovendo ogni senso di colpa, di perdita del senso dell’onore, della rispettabilità.
* * *
L’esibizione dell’autostima è al centro del libro più celebre di Lasch, quello dedicato al narcisismo. «Meglio essere temuti che amati», recita un proverbio; nel rovesciamento avvenuto negli ultimi quarant’anni, cui non è estranea la televisione commerciale inventata da Silvio Berlusconi, è molto meglio che gli altri ti vedano come sei: cattivo, spietato, senza vergogna. L’assenza del senso di vergogna è generata dall’assenza di standard pubblici legati a violazioni o trasgressioni. Nella vergogna s’esperimenta l’immagine negativa di sé stessi, si prova il senso di un’impotenza. Questa emozione rientra in quel novero di quelle esperienze che sono definite dagli psicologi “morali”. Ciò che sembra scomparso in questi ultimi decenni è proprio un sistema di valori morali condivisi.
* * *
Non è lontano dal vero immaginare che la deriva populista nasca anche da questa crisi verticale di valori, dall’assenza di un codice etico collettivo. Nell’età del narcisismo di massa ognuno fa per sé, stabilendo regole e comportamenti che prescindono dagli altri o dalla società come entità concreta, entro cui si misura la propria esistenza individuale. La vergogna è senza dubbio un sentimento distruttivo, probabilmente molto di più del senso di colpa, come certificano gli psicoanalisti. Sovente porta a derive estreme, a reazioni autodistruttive, e tuttavia è probabilmente uno dei sentimenti più umani che esistano.
Per capire come funzioni la vergogna basta leggere uno dei libri più terribili e insieme alti del XX secolo, “I sommersi e i salvati” (Einaudi) di Primo Levi nel capitolo intitolato Vergogna. Lo scrittore vi riprende una pagina di un suo libro, l’inizio de “La tregua”, dove si racconta l’arrivo dei soldati russi ad Auschwitz. Sono dei giovani militari a cavallo che assistono alla deposizione del corpo di uno dei compagni di Levi gettato in una fossa comune. Il cumulo dei cadaveri li ha come pietrificati. Levi riconosce nei soldati russi il medesimo sentimento che lo assaliva nel Lager dopo le selezioni: la vergogna, scrive, che i tedeschi non avevano provato. La scrittore spiega che non è solo un sentimento che si prova per aver compiuto qualcosa di male, di scorretto o di errato. Nasce piuttosto dalla “colpa commessa da altrui”: la vergogna dei deportati scaturisce proprio da quello che hanno fatto i carnefici. Una vergogna assoluta, che rimorde alla coscienza delle vittime per la colpa commessa dai carnefici: «gli rimorde che esista, che sia stata introdotta irrevocabilmente nel mondo delle cose che esistono, e che la sua volontà sia stata nulla o scarsa, e non abbia valso a difesa». Levi parla di una vergogna radicale, che svela la profonda umanità di questo sentimento.
* * *
Gli psicologi affermano che la vergogna è molto più distruttiva del senso di colpa. Proprio per questo è lì che si comprende quale sia la vera radice dell’umano. Si tratta della «vergogna del mondo», come la definisce Levi, vergogna assoluta per ciò che gli uomini hanno fatto agli altri uomini, e non solo ad Auschwitz, ma anche in Cambogia, nella ex Jugoslavia, in Ruanda, nel Mar Mediterraneo e in altri mille posti ancora.
Che la vergogna ci faccia umani non lo dice solo Levi in modo estremo, ma lo evidenzia l’ultima frase di uno dei più straordinari testi letterari mai scritti, “Il processo” di Franz Kafka. Libro che quasi tutti hanno letto almeno una volta da giovani. Il romanzo dello scrittore praghese termina con una frase emblematica: «E la vergogna gli sopravvisse». K. è stato ucciso dai due scherani che l’hanno perseguitato nel corso dell’intera storia. L’hanno barbaramente accoltellato al cuore, dopo avere tentato inutilmente di convincerlo a farlo lui stesso. Il libro di Kafka si chiude con questa frase che, come ha segnalato Giorgio Agamben, significa esattamente questo: la vergogna ci rende umani. Chissà se Silvio Berlusconi e la sua corte hanno mai avuto in mano questo racconto, se l’hanno letto. Probabilmente no. Ma anche se lo avessero fatto, dubito che ne avrebbero tratto qualche ammaestramento, com’è evidente da quello che è seguito dal 1994: senza vergogna.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
VERGOGNA E "LATINORUM": UNA GOGNA PER L’ITALIA INTERA. Sul filo di una nota di Tullio De Mauro
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Inedito.
Giovanni Bianchi: «La resistenza sia senza odio»
A un mese dalla scomparsa del politico cattolico una riflessione dove descrive l’impegno partigiano, sull’esempio di Dossetti e Gorrieri, con lo spirito di chi al fucile antepone la risposta etica
di Giovanni Bianchi (Avvenire, 24 agosto 2017)
Aveva ragione Norberto Bobbio quando affermava che il nostro Paese era fatto di «diversamente credenti» dove i cattolici semmai hanno una caratteristica. Ho titolato il mio libro Resistenza senza fucile. I cattolici non è che fossero pacifisti, magari qualcuno sì. L’unico che ha partecipato a tutte le azioni disarmato è stato Giuseppe Dossetti sull’Appennino reggiano. Su quello modenese c’era Ermanno Gorrieri, sarà ministro del lavoro, che sparava cercando di mirare giusto. La differenza è in un’altra modalità di condurre la guerra, lo dice Gorrieri «Noi cercavamo di non fare stragi inutili e fare morti inutili».
Chi definisce meglio questa modalità dei cattolici, ma lo ripeto non è pacifismo, combattendo senza armi, a mani nude, è Ezio Franceschini (sarà rettore dell’Università Cattolica di Milano): «Noi cattolici abbiamo imparato a combattere senza odiare ». Non è che se prendi una pallottola da uno che non ti odia non ti fa secco, però è diversa la modalità, il modo di affrontare il nemico. Io avevo una grande amicizia con Sergio Zigliotti, uno dei capi sull’Appennino parmense, scomparso un anno fa e vice presidente dei partigiani cristiani. Faceva il liceo a Genova e trovandosi sull’Appennino parmense si è aggregato ai partigiani. Farà la maturità classica alla fine della lotta di Liberazione con un tema, che avrei voluto leggere, intitolato Dante partigiano cristiano. Questo per dire qual era l’animo.
Vado alla conclusione con un altro episodio raccontato dall’amico ebreo Stefano Levi Della Torre, grande architetto, uno dei rappresentanti della comunità ebraica milanese. Una volta mi spiegò, cosa che mi ha lasciato impressionato, che suo padre, partigiano in ’Giustizia e Libertà’, dopo la Liberazione si trovava con un amico delle brigate Garibaldi una volta al mese. Sapete cosa facevano? Una volta al mese uno sosteneva le ragioni dell’altro! Un esempio stupendo di che cosa può essere la democrazia, l’ascolto, la comprensione. Una di quelle modalità che, comunque collocate nella Resistenza, ci spiegano come quelle persone abbiano provato a combattere senza odio. Mi sembra davvero una cosa attorno alla quale riflettere.
Se poi si viene all’oggi in un periodo nel quale si vendono armi a gogò. Pensate al viaggio di Trump in Arabia Saudita, contratti iper miliardari e con una scelta molto precisa dei Sunniti wahabiti, ossia quelli che stanno con l’Isis. Per carità non è che gli Sciiti siano tutte brave persone. In una fase nella quale papa Francesco ci dice che è incominciata la terza guerra mondiale a pezzetti e capitoli. O questo papa dice barzellette ai funerali, o bisognerà prenderlo sul serio. Cos’è questa terza guerra mondiale? Mi viene in mente Carl Schmitt, grande giurista, perfino filo nazista, ma un’intelligenza acutissima, che negli anni ’60 disse «è incominciata la terza guerra mondiale ». Ed è una guerra civile combattuta da terroristi: è la radiografia.
Non voglio rovinare le notti a nessuno, ma quando uno va a scavare nella storia non è che si ferma a mettere un’altra lapide. Si chiede cosa stiamo costruendo, come è possibile. Chiudo con una bella immagine della piccola, ma importante, resistenza tedesca: ’La Rosa Bianca’. Questi ragazzi di Monaco di Baviera, studenti, che si ritrovano alla sera per leggere i classici tedeschi, hanno fatto sei volantini in tutto che mettevano in giro, all’Università, nelle guide delle cabine telefoniche. La cosa incredibile è questa: li prendono e il tribunale del popolo nazista di Monaco di Baviera li giudica alla mattina e li ghigliottinano nel pomeriggio, tale il timore che potesse il contagio attecchire.
Ma la cosa stupenda è che uno dei ragazzi che vanno alla ghigliottina si rivolge all’altro e dice «comunque ci rivediamo fra dieci minuti». Uno che ha il fegato di dire una cosa così testimonia una speranza, che non è l’ottimismo, ma un’altra cosa di estremamente positivo e motivante anche per l’oggi e per il futuro. Credo che riandare a vedere i fatti della Resistenza in questo modo ti arricchisce, non è soltanto fare memoria. La memoria è essenziale, ma è un modo per creare un punto di vista, per guardare la vicenda nella quale, a qualche titolo, siamo dentro, ma per andare avanti.
Voglio svegliare l’aurora - Il centenario della nascita di Giuseppe Dossetti 1913-2013 *
Perché non possiamo non dirci laburisti
di Giuseppe Dossetti (l’Unità, 10 febbraio 2013)
Trascorse le primissime ore di sorpresa, di fervore, di entusiasmo, l’esito delle elezioni inglesi appare sempre meglio come la vittoria di un mondo nuovo in via di faticosa emersione. Vittoria innanzi tutto del lavoro più che, come alcuni hanno detto, vittoria del socialismo; vittoria cioè di una effettiva, concreta e universale realtà umana, meglio che di una particolare dottrina e prassi politica concernente l’affermazione sociale di quella realtà.
Certo il Partito laburista ha contrastato e vinto i conservatori opponendo alla loro caparbia cristallizzazione di interessi e di metodi, un vasto programma di trasformazioni sociali; ma si tratta di tali socializzazioni che, per i principi teorici cui si richiamano (e che non hanno a che vedere con le dottrine classiche del socialismo, né di quello utopico, né di quello marxista), per il campo di applicazione (le industrie chiave e i grandi gruppi finanziari) e soprattutto per il metodo di realizzazione (proprietà sociale e non statale) non consentono, se non per approssimazione giornalistica o propagandistica, di parlare di socialismo, almeno come da decenni lo si intende nell’Europa continentale, e come da mesi lo si intende nella ripresa italiana.
Ben più propriamente invece dobbiamo parlare di un programma di concreta e realistica inserzione, al vertice della gerarchia sociale e politica, del lavoro, inteso come la prima e fondamentale esplicazione della personalità umana, come il genuino e non fallace metro delle capacità, dei meriti, dei diritti di ognuno: programma che non è logicamente né praticamente connesso con la teoria socialista e che può essere condiviso, come di fatto lo è, da altri partiti non socialisti.
In secondo luogo la «vittoria della solidarietà», più e meglio che come qualcuno si limita a dire vittoria della pace. Gli elettori inglesi rifiutando con così grande maggioranza a Churchill, vincitore della guerra, il compito di organizzare il dopo-guerra, non hanno semplicemente voluto esprimere la loro volontà di pace e il proposito di allontanare gli uomini, gli interessi, gli atteggiamenti che hanno portato alla guerra e potrebbero perpetuarla in potenza o in atto, ma ben più essi hanno voluto mostrare la loro preferenza per quelle forze e quegli uomini che, appunto per la loro qualità e il loro spirito di lavoratori e di edificatori, hanno dato prova di avere una volontà positiva e attiva per l’edificazione di una nuova struttura sociale e internazionale in cui, nei rapporti tra singoli, tra classi e tra nazioni, non solo siano psicologicamente superate, ma persino oggettivamente rimosse, le possibilità concrete di egoismi, di privilegi, di sopraffazioni e in cui siano poste garanzie effettive di solidarietà e di uguaglianza.
Infine, «vittoria della democrazia»: non solo per l’aspetto dai giornali e dai commentatori più rilevato, cioè per il fatto che, con l’avvento del laburismo al potere, la democrazia inglese entra finalmente nella linea della sua coerenza plenaria e la democrazia quasi esclusivamente formale (cioè di forme costituzionali e parlamentari di fatto accessibili solo a una minoranza di privilegiati) quale sinora è stata, si avvia a essere democrazia sostanziale, cioè vero accesso del popolo e di tutto il popolo al potere e a tutto il potere, non solo a quello politico, ma anche a quello economico e sociale; ma vittoria della democrazia in un senso ancor più profondo e definitivo che molti non considerano e forse alcuni vogliono ignorare, cioè per il fatto che per la prima volta nella storia dell’Europa contemporanea si è potuto effettuare, nonostante le difficoltà dell’ambiente (la «Vecchia Inghilterra» conservatrice per eccellenza) e le difficoltà del momento (l’indomani della più grandiosa storia militare), una trasformazione così grave, decisa e inaspettata, che tutti consentono nel qualificarla «rivoluzione» e che tuttavia questa rivoluzione è avvenuta proprio per le vie della legalità e attraverso i metodi della democrazia tipica e gli istituti del sistema parlamentare.
Questo fatto è quello che riassume e corona, è quello che consacra nel presente e garantisce per l’avvenire la definitività delle altre vittorie. Ma è soprattutto quello che veramente conclude la storia dell’Europa moderna e apre non un nuovo capitolo, ma un nuovo volume, ponendo fine all’età del liberalismo europeo e preannunziando insieme la fine del grande antagonista storico della concezione liberale; cioè il socialismo cosiddetto scientifico. Non sembri un’affermazione paradossale: essa è veramente il frutto di una meditazione storica.
La vittoria del Partito laburista, che non è partito di classe, ma partito interclassista (in quanto accoglie il filatore di Manchester, Mac Farlane, il proletario del Galles e il maresciallo Alexander), del Partito laburista che non ha vinto solo con i voti dei distretti operai, ma anche con quelli dei centri rurali più legati alle concezioni tradizionali della Vecchia Inghilterra, del Partito laburista che ha vinto con una elezione popolate e veramente libera, tale vittoria, diciamo, ha non solo concluso il periodo delle dittature o delle aristocrazie conservatrici, ma ha smentito per la prima volta con la prova dei fatti le dottrine e le prassi (già da tempo confutare in teoria) che solo nel ricorso alla forza, nella dittatura di una classe sulle altre e nella metodologia dell’attivismo sopraffattore vedono una possibilità di ascesa per i lavoratori e di instaurazione di una vera democrazia.
Da oggi i lavoratori di tutto il mondo finalmente sanno di potere con fiducia rispondere ad un grido che li invita all’unità, ma non nel nome di un mito di classe e di lotta, ma nel nome di una volontà di solidarietà con tutti e di libertà e giustizia per tutti. Volontà che, come ha riconosciuto Clemente Attlee, è veramente cristiana.
Reggio Emilia, 31 luglio
L’attacco a Dossetti divide il Vaticano
di Marco Ansaldo (la Repubblica, 9 gennaio 2013)
Il pensiero di don Giuseppe Dossetti si trova di nuovo sotto attacco dei conservatori. Proprio alla vigilia dell’uscita di due libri che a cent’anni dalla nascita affrontano la vita dell’importante religioso e politico dc, ispiratore delle aperture innovative del Concilio Vaticano II e accusato di filocomunismo. La polemica è guardata in Vaticano con preoccupata intensità, perché capace di assumere sfumature politiche inattese.
L’imbarazzo è palpabile, e per molte ragioni. Perché sono appena trascorsi i cinquant’anni delle celebrazioni per l’inizio del Concilio. Perché la questione scoppia alla vigilia di una tornata elettorale che già si annuncia carica di veleni. E soprattutto perché quella appena esplosa è una mina difficile da disinnescare, senza scontentare tutti. Tanto a destra quanto a sinistra, per intenderci, di uno schieramento ecclesiastico le cui intenzioni di voto appaiono questa volta, tutt’altro che uniformi.
All’origine del caso il confronto mai sopito fra Dossetti e l’arcivescovo emerito di Bologna, il cardinale Giacomo Biffi, il quale sull’eredità spirituale del sacerdote che finì per ritirarsi a vita privata in una comunità da lui fondata, ha sempre dato battaglia. Ma andiamo con ordine. Il 30 dicembre scorso Biffi ha fatto pubblicare sulle pagine di Bologna Sette, il settimanale dell’arcidiocesi, una lettera del cardinale Giovanni Battista Re in cui l’illustre porporato sosteneva di condividere le tesi dell’ex arcivescovo di Bologna sulle «lacune e le anomalie della teologia dossettiana». Non solo. Il cardinale, condividendo le riserve di Biffi, criticava il periodo in cui Dossetti era segretario dei quattro moderatori al Concilio Vaticano II, “usurpando” le competenze dell’allora segretario.
Dunque, un colpo alle idee di Dossetti che fecero da leva alle posizioni del cardinale Lercaro in chiave di profondo rinnovamento della Chiesa. Re è un pezzo da novanta in Vaticano. Già vescovo di Brescia, è stato il sostituto in Segreteria di Stato, e poi prefetto della Congregazione per i vescovi. Bologna Sette ha presentato la lettera di Re addirittura come «un documento che gli storici della Chiesa non potranno ignorare nella loro ricerca appassionata e sincera della verità».
Una fine d’anno amara per i dossettiani, che domenica 6 gennaio hanno così espresso, sempre sul settimanale della Curia, per bocca di don Athos Righi, superiore della comunità fondata dal leader, il loro “dolore”. I lettori, sorpresi e amareggiati. La rivista dell’arcidiocesi si è vista costretta a battersi il petto: «Se il nostro settimanale è venuto meno alle esigenze della carità ce ne scusiamo sinceramente... non era nostra intenzione recar turbamento alla Chiesa o offendere la memoria di don Giuseppe». I numeri del settimanale sono ora sui tavoli della Segreteria di Stato.
Assieme ai due volumi che stanno per uscire: Giuseppe Dossetti. L’avventura politica di un riformatore cristiano, di Paolo Pombeni, e Il professorino, di Enrico Galavotti (entrambi editi da Il Mulino). Un bel caso da risolvere, non c’è che dire. Perché su Dossetti, la Chiesa continua a dividersi.
GIUSEPEP DOSSETTI (1913-1996)
C’è una morale nella politica
di Sergio Zavoli (Il Sole 24 Ore - Domenicale, 11 marzo 2012)
Avrebbe novantanove anni, nacque nel febbraio del 1913, è stato tra i personaggi centrali della democrazia repubblicana sorta sulle macerie del fascismo, il suo pensiero politico e la sua essenza civile e morale stanno ancora attraversando l’identità di un cattolicesimo che ha il suo esordio storico quando i cattolici, nella riconquistata libertà, consolidano laicamente la scelta democratica di Sturzo.
È appena il 1945 quando - mentre De Gasperi interpreta la necessità di dar vita a una economia di mercato - Dossetti propende per una libertà politica cui va affiancata un’economia anche statale in grado di garantire la tutela dei ceti subalterni, ovviamente deboli rispetto al potere condizionante delle grandi forze economiche. Dossetti scrive: «La Democrazia cristiana non vuole e non potrà essere un movimento conservatore», attirandosi qua e là addirittura il sospetto di voler far sua la distinzione di Maritain tra fascismo e comunismo. Mentre il primo, cioè, andava considerato una forza estranea agli ideali cristiani in quanto perseguiva un ideale di Stato-guida, che permea di sé tutto, dalla cultura agli ordinamenti, al cittadino sacrificato all’individuo; il secondo è visto come una sorta di "eresia cristiana", cioè un sistema che richiama lontanamente originarie ispirazioni comunitarie. D’altronde fu Berdjaef, il filosofo russo espulso dall’Urss nel 1922, a dire che il comunismo doveva intendersi come «la parte di dovere non compiuta dai cristiani».
Ma Dossetti tende alla qualità di una scelta ben più radicale e autentica, che ne farà un testimone scomodo, talvolta persino mal tollerato, di quanto si può dare alla politica senza farlo venir meno alla morale, al pragmatismo senza sottrarlo ai principi, al cittadino senza privarlo della persona.
Chi non ha in mente questa fedeltà laica e insieme religiosa al primato dell’uomo, quello della sua intrinseca e libera dignità personale, stenterà a farsi largo negli aspetti non di rado impervi - per esempio della dignità sacerdotale - di don Giuseppe Dossetti. Non a caso egli fa coincidere l’unicum cui si ispira affrontando la politica come il momento in cui si diventa responsabili personalmente di ciò che scegliamo per l’orientamento di noi stessi e nei confronti degli altri.
Ecco, allora, la base su cui poggiare il peso della scelta: la norma costituzionale dell’eguaglianza tra i cittadini, da perseguire attraverso la ricerca e la messa a punto di un modello di statualità sottratta, insieme, alla vischiosità della conservazione borghese e a una giustizia sociale i cui costi gravino sulle libertà personali; nell’assoluta preminenza dei diritti inalienabili di un uomo partecipe della speranza collettiva - laica, razionale, organizzata dalla politica dentro la storia - ma nella intangibile responsabilità della risposta individuale.
Si è detto di Dossetti che aveva i principali nemici, per paradosso, nelle sue idee. Certo, voler trarre da una vocazione originale e rigorosa un patrimonio di principi da comunicare a masse di cittadini comportava un’impresa virtuosa e pedagogica tale da scontrarsi con quel bisogno di duttilità e tolleranza che la gran parte di un popolo appena rinato alla democrazia coltivava nel limbo di una coscienza civile ancora confusa; in cui, per legittimarsi anche spiritualmente, bastava esibire l’alibi del «perché non possiamo non dirci cristiani», di crociana memoria, per indispettire chiunque intendesse la lotta politica come un esercizio fondato sulla pregiudiziale anti-comunista, e da tenere in sospetto una parte della stessa sinistra, la quale si sentiva insidiata nella sua dimensione più difficile, quella dell’autocritica filosofica e pragmatica.
Questi condizionamenti non giovarono all’immagine pubblica di Dossetti, ma al tempo stesso ne esaltarono la dimensione, per dir così, più sottesa e costosa. Tra gli uomini che hanno rifondato lo spirito democratico del nostro Paese è quello che ha reso più manifesto il significato morale del far politica, seppure alzandolo a un tale livello di esemplarità da essere, non di rado, irriconoscibile. Forse si fa torto al politico, ma quanto gli si toglie nella sfera pubblica alla sfera pubblica ritorna proprio attraverso quella privazione: è il paradosso-Dossetti, la sua storia e la sua coscienza. Pochi eletti, di quegli anni e dopo, hanno uniformato i propri gesti all’esigente esemplarità di quella lezione. Dossetti ne fu così consapevole che prese su di sé, assumendolo nel suo animo, il segno di contraddizione che egli stesso aveva finito per rappresentare. E quando cominciò a capire che la parola, passando per strade e piazze spesso votate alla facilità degli slogan, all’intelligenza pratica e quindi alla realtà del giorno per giorno non suscitava più le risposte che avrebbe voluto udire, la portò nel deserto e ne rimase paziente, incorruttibile custode.
Così aveva descritto il senso di quel viaggio fruttuoso: «Il mio sacerdozio è nato da uno sbocco credo coerente con la vita che già conducevo, una vita consacrata nell’intenzione e nella forma al dominio dell’orazione sull’azione tutta orientata a diffondere tra i laici cristiani una formazione che stesse a monte del pensiero socio-politico e che lo sanasse continuamente dai suoi pericoli: perché il pensiero politico è continuamente insidiato da grandi pericoli». E subito dopo, per ricomporre nella sua fondamentale unità il senso dell’altra scelta, aggiungerà: «Noi non siamo monaci, conduciamo una vita molto simile, o quasi integralmente eguale alla vita dei monaci, però negli istituti monastici tradizionali non mi riconosco».
Nasceva qui, non sentendosi espulso dalla politica, ma riconoscendone i legittimi limiti temporali, la necessità di radicare in un certo luogo - con una testimonianza tangibile anche per i significati di memoria e di lascito - la scelta definitiva di Monte Sole come riferimento e irradiazione verso la Palestina, l’Oriente, le cento terre, le cento patrie, le cento paci promesse. Monte Sole è una sorta di vulcano alla rovescia, dove si è compiuta una violenza senza tempo, in quanto consumata davanti al giudizio di Dio. È quindi il luogo della preghiera continua, per un perdono senza soste.
Qui Dossetti vuole un radicamento e si conforma a una regola. Egli è «uomo delle regole». Prima del presbiterio viene da una cultura giuridica, sa che la civiltà del diritto si fonda sul "contratto". Occorre regolare quel "contratto": nella Costituzione come nel Concilio, come nella stessa "piccola regola" che si darà il monastero di Monte Sole. Un "contratto" che rimetta insieme, anzitutto, storia ed etica, politica e morale, non per trasferire nella vita civile quello che ricavi dalla vita religiosa. Non è integralismo, né zelo, né mera virtù: si tratta di rivivere la dimensione pubblica secondo il principio della condivisione e della solidarietà.
C’è un fascino di Dossetti che sta anche in questo continuo contemplare e agire, nel mettere in crisi ciò a cui pensa per sottoporlo alla prova di ciò in cui crede. Egli vedeva, in lontananza, una grande crisi religiosa, anche di cristianità, forse per l’insorgere di culture pragmatiche, dispensatrici di straordinari sollievi terreni, spesso ingannevoli e persino alienanti. Anche di qui il suo sguardo all’Oriente, in cerca di una grande scaturigine di religiosità, da cui attingere per nutrire un grembo vasto, limpido, universale. C’è un enigma nell’aver visto queste distanze, e concepito quel viaggio, dal suo stare a Monteveglio, il piccolo centro della sua intoccabile, appartata totalità. «Non è possibile purificarsi da solo o da soli; purificarsi, sì, ma insieme; separarsi per non sporcarsi è la sporcizia più grande». Sono parole di Tolstoj e don Giuseppe le sa a memoria.
La parte finale della sua vita è stata giudicata una fuga dal mondo. Dossetti stesso annotava: «E qualcuno (anche tra cattolici e persino teologi) parla della vita monastica non solo come di "fuga dal mondo", ma persino dalla Chiesa». E qui è possibile cogliere una conclusione: «Al termine di ogni via c’è l’unico e definitivo mistero di Gesù di Nazareth, figlio di Dio e figlio di Maria, che con la sua croce e la sua morte volontaria, gloriosa e vivificante, è divenuto il primogenito dei morti aprendo per noi la via della Risurrezione».
Dossetti chiuderà il suo libro, lacerato e di nuovo riunito dalla sua totalità, il 15 dicembre del 1996. Credenti e non credenti parteciperanno alle esequie in gran numero. Intorno alla bara, per un tratto della cerimonia funebre, si alterneranno vecchi partigiani con i loro nipoti e pronipoti, i nuovi bambini della comunità; laicamente destinati a capire i valori anche civili che lo spirito, secondo Dossetti, sa mettere nella storia. La quale forse non si ripete, ma quanto disse e visse Dossetti somiglia ancora a non poche questioni che si presentano davanti alla Chiesa e ai cattolici nella dimensione globalizzata dei problemi. La centralità dell’uomo, l’etica associata allo sviluppo, la relazione tra uomo e ambiente, le connessioni tra diritti umani e civili, la lotta agli egoismi vecchi e nuovi, la salvaguardia delle diverse identità, il dialogo tra le culture religiose, la laicità dello Stato e della politica, sono temi che investono anche la teologia cattolica e la pratica dei credenti, la loro visione della società e delle relazioni umane. Tutto ciò nel segno della prima delle regole: la ricongiunzione del cittadino con la persona, della politica con la moralità, dello Stato con l’interesse del popolo.
Unità attorno alla Costituzione
di Vittorio Cristelli (vita trentina, 20 marzo 2011)
Il 17 marzo è stato dichiarato festa nazionale per i 150 anni dell’Unità d’Italia. C’è chi si è dissociato e non intende far festa, argomentando che 150 anni fa il proprio territorio non faceva parte dell’Italia e il Trentino Alto Adige è tra questi territori. Nel frattempo si sono svolte due grandi manifestazioni di piazza. La prima il 13 febbraio per la rivendicazione della dignità delle donne, la seconda il 12 marzo in difesa della Costituzione italiana. Ambedue hanno portato in piazza un milione di persone.
E allora mi son detto: “Perché non celebrare l’Unità d’Italia attorno alla Costituzione? Perché soffermarsi sulle tappe e non guardare al traguardo cui è giunta l’Italia con la Costituzione repubblicana? Parti dell’Italia hanno avuto storie diverse: una borbonica, una veneziana, una pontificia, una austroungarica. L’Italia è stata anche monarchica e fascista.
Mi balza alla mente il nostro Alcide De Gasperi, che era parlamentare austroungarico, e poi divenne artefice in posizione di alta responsabilità della Costituzione italiana. Rilanciamo ancora i borbonici, i veneziani, i papalini, e gli austroungarici? E perché non anche i monarchici, i fascisti e, più in là, i longobardi, i vandali, gli unni, gli ostrogoti, i visigoti e i celti?
Assumendo l’esempio della maturazione della persona, questo ritorno al passato in termini clinici si chiamerebbe regressione allo stato adolescenziale o addirittura infantile. L’elaborazione della Carta costituzionale ha rappresentato un vero e proprio esame di maturità in cui si sono confrontate visioni diverse, ideologie contrapposte, e hanno raggiunto quelle sì l’unità sfociata nel frutto finale costituito da una vera e propria patente di maturità: una delle Costituzioni migliori al mondo.
Accennavo alle manifestazioni per la dignità delle donne e in difesa della Costituzione. Ne cito solo il primo comma dell’articolo 3 che potrebbe fungere da bandiera: “Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religioni, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali”. Ci sono tutti: gli uomini e le donne, i celti, i normanni, i reti e i longobardi; i parlanti italiano, francese, tedesco o ladino; i cattolici e i protestanti, ma anche i musulmani e i non credenti; quelli di sinistra e di destra; i ricchi e i poveri. E tutti convergono in unità. Ma di unità, come diceva già Emanuele Kant, si può parlare solo tra diversi. Perché altrimenti si tratta di omologazione.
Questo discorso vale a maggior ragione oggi che dobbiamo tendere ad un’unità ancora più larga, e cioè all’unità europea. Stridono fino alla contraddizione le richieste dell’intervento unitario europeo per affrontare l’emergenza emigrati dal Magreb in fiamme fatte da chi fino a ieri parlava di secessione di una parte d’Italia dall’unità nazionale.
E’ vero e ne sono pienamente cosciente che l’unità sui valori della Costituzione è un’unità culturale, ma propria per questo è importante perché terreno fecondo su cui può realizzarsi l’unità politica. Se manca ancora l’unità politica dell’Europa è perché ci si è ripiegati solo sull’unità economica. Lo diceva a chiare lettere Jean Monnet, uno dei fondatori della Comunità economia europea (Cee), quando osservò: “Se fosse necessario ricominciare lo farei a partire dalla cultura”. E allora si può ben dire che gli attacchi più pericolosi all’unità d’Italia oggi, ben più di quelli al tricolore e all’inno di Mameli, sono quelli diretti a scardinare la Costituzione. E i Comitati Dossetti in difesa della Costituzione sono presidi intelligenti dell’Unità d’Italia.
Giuseppe Dossetti, «sentinella» della Costituzione fino alla fine
di Roberto Monteforte (l’Unità, 10 marzo 2010)
Un grande sogno: una nuova generazione di credenti impegnati in politica al servizio della comunità, attenti al raggiungimento del bene comune, difensori dei fondamentali valori umani etici e sociali, la vita, la famiglia, ma anche il diritto al lavoro, alla difesa della dignità della persona. Lo ha invocato il presidente della conferenza episcopale italiana Angelo Bagnasco, ne ha parlato recentemente anche il segretario di Stato Tarcisio Bertone.
Segno che per la Chiesa vi è un vuoto preoccupante nella politica italiana. Un vuoto che pone domande e non solo ai credenti su cosa sia oggi la politica, quella «pulita». È difficile non osservare una deriva pericolosa, una perdita di senso, un appannamento dei riferimenti etici fondamentali. La nascita del Pd anche a questo ha inteso rispondere.
Per questo può essere utile tornare a riflettere sulle radici, sulle fondamenta della nostra Repubblica, a ciò che esprime la Costituzione repubblicana, allo straordinario sforzo di sintesi alta tra le culture democratiche del nostro paese che essa esprime. Un patrimonio che va trasmesso e attualizzato. È anche in questa chiave che oggi pare utile tornare a riflettere sulla figura di Giuseppe Dossetti: cattolico, antifascista, tra i fondatori della Democrazia cristiana e tra i padri della nostra Costituzione. Una vita ricca. Seguendo la sua profonda vocazione spirituale, nel 1951 lascia la politica, nel 1959 è ordinato sacerdote, sarà stretto collaboratore dell’arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Lercaro.
Tutto alla fine si tiene: metterà la sua sensibilità e la sua esperienza «politico-istituzionale» al servizio del Concilio Vaticano II. Infine arriva la scelta più radicale, Dossetti si fa monaco, fonda la comunità della Piccola Famiglia e all’inizio degli anni 70 si trasferisce a Gerico in Terrasanta, nei territori occupati da Israele, per poi tornare con i suoi monaci a Monte Sole, sopra a Marzabotto, luogo simbolo sull’Appennino Bolognese dove vi fu una delle più efferate stragi nazifasciste.
La Costituzione repubblicana e il Concilio Vaticano II: due momenti straordinari della sua vita che lo vedranno «sentinella» e custode sino alla fine dei suoi giorni. Uscirà dal silenzio del suo eremo per condurre la sua ultima battaglia civile e politica a difesa della Costituzione minacciata. Nel 1994, oramai anziano, si farà promotore dei circoli a difesa della Carta costituzionale. Si spegnerà il 15 dicembre 1996 a 83 anni. Il suo è un lascito prezioso. Parla ancora oggi la sua storia. A credenti e non credenti. In lui dimensione religiosa e impegno civile e politico a favore del bene comune si intrecciano. Ma senza integralismi, laicamente, senza alcuna subalternità clericale verso le gerarchie.
LE TAPPE DELLA STORIA
Di tutto questo dà conto il libro Giuseppe Dossetti. Sentinella e discepolo (Collana Saggistica Paoline, n.43 pp 176 euro 13) autori Cesare Paradiso e monsignor Pietro Fragnelli, vescovo di Castellaneta. Un volume che ripercorre le tappe di un percorso che scandiscono quelle della vita democratica dell’Italia repubblicana, il suo complesso rapporto con la Dc e l’antagonismo con De Gasperi, gli ambienti culturali dove si è formato, i rapporti con gli altri protagonisti della vita politica partire dai padri dell’Assemblea costituente, con Togliatti. Quindi la maturazione della scelta religiosa, la sua profonda spiritualità, la dimensione della preghiera e il suo rapporto con Dio, il suo monachesimo.
Sarà lo stesso Dossetti nel famoso discorso dell’Archiginnasio di Bologna, tenuto in occasione del conferimento del premio assegnatogli dalla città, il 22 febbraio 1986, a ricapitolare le tappe della sua vita. L’impegno politico dal 1944 sino alle sue «dimissioni » dalla Dc del 1952, critico per la deriva moderata e l’anticomunismo esasperato del suo partito a cui rimproverava, anche freddezza nella difesa della Costituzione.
La sua non era una difesa statica. Anzi. Gli autori lo sottolineano: per Dossetti il pericolo era che «stando fermi, siano altri - prima o dopo - a imporre i loro cambiamenti e che le cose “rovinino addosso». «Al posto di uno Stato debole, agnostico, insufficiente, - questa la sua previsione - verranno altri che costruiranno uno Stato forte e volitivo. Eventualmente senza di noi. Eventualmente contro di noi».
«Attenzione - aggiungeva - agli assalti alla sovranità popolare che si pretende di sostituire con una sovranità mitica, che seduce il popolo, ma in sostanza lo viola e lo delegittima. La conseguenza sarà il passaggio da una democrazia rappresentativa parlamentare, con le sue mediazioni dialogiche spesso difficili, a una democrazia populista, a influenza mediatica, in cui l’assenza di razionalità e l’appello prevalente a “mozioni istintive e impulsi emotivi” ridurranno il consenso del popolo sovrano a un mero applauso al Sovrano del popolo».
Sono parole pronunciate nel 1995, da un monaco uscito dalla politica quaranta anni prima. Parole profetiche.
NOTARE. Ma la prima colpa non è di Berlusconi. E’ della struttura politico-legislativa che gli ha permesso di rimanere lì "ad libitum". Se andiamo poi a vedere notiamo che questa struttura è stata voluta soprattutto dal PD. Avevano fatto male i calcoli, ma non si rimedia senza un solenne "mea culpa, mea culpa, mea massima culpa!!!" Inoltre più nessuno dice che in ITALIA esistono, come minimo, 60.000 milioni di euro l’anno di TANGENTI pari a 60 miliardi. Se, anche in questo momento non lo dice più nessuno, allora "gatta ci cova". E l’evasione fiscale? Per le IMPOSTE non c’è nessuna volontà di accertarle pienamente poiché, altrimenti, basterebbe fare come in U.S.A. Approvare una legge che autorizzi la Pubblica Amministrazione a mandare in giro clienti fasulli per mettere gli evasori alla prova. Io non dico come Bartali, però molte cose sono da buttare. OSSERVAZIONE POLITICA e CULTURA: DALLA “LINEA BARTOLETTI” alla “LINEA RUINI” e da MORO e LA PIRA, a BERLUSCONI FOTO: ILARIA DEL CARRETTO. Vedi: http://www.facebook.com/media/set/?set=a.228902670488564.62602.100001064993213&l=48437d71c1&type=1 Quando, il 15 settembre 1958, Mons. ENRICO BARTOLETTI arrivò a Lucca quale vescovo Ausiliare aveva in mente due cose. La tomba di Ilaria del Carretto e la scritta, in greco, che si trovava sulla parete al lato della stessa tomba. Si leggeva in greco: “Tànatos, atànatos, tà loipà tnetà”, che mi spiegò voleva dire: “La morte immortale, il resto di tutte le cose, mortali”. Non essendo lui disposto a soggiacere a cose periture, per non dire effimere, da vescovo puntava tutto sulla meditazione della morte quale essenza di immortalità. Il Bartoletti, in quei mesi, intimamente si identificava con Ilaria del Carretto, morta anche lei, appunto. La prima volta che andai a trovarlo a Lucca mi disse di guardare bene la tomba poiché, oltre a lui (Ilaria), ci sarei stato anch’io. Guardai bene, in san Martino, il sacro monumento di Jacopo Della Quercia ma non riuscii mai a vedermi. La prima volta che ritornai a Lucca comunque mi domandò: “ti sei visto?” Gli risposi: “o guardato bene ma non mi sono visto da nessuna parte”, e lui zitto. Solo dopo alcuni anni dalla morte del Bartoletti, avvenuta nel 1976, riguardando la tomba riuscii a capire dove mi aveva collocato. Mi identificava nel cagnolino che si trova ai suoi piedi, non so ancora se per un sentimento di affettività verso Ilaria, oppure a sua difesa. Ultimamente, dopo la pubblicazione, nel 1994, delle due lettere di don Milani al Bartoletti (10/09/1958 e 1°/10/1958), ritengo anche a Sua difesa. Infatti esistono dei cani addestrati anche per la difesa personale. Ma tutto ciò non si sarebbe verificato se, dopo la morte di papa ALBINO LUICIANI, non si fosse passati, alla C.E.I. e in Vaticano, dalla “LINEA BARTOLETTI” per una Chiesa profetica e povera (e per Aldo Moro), alla “LINEA RUINI” per una Chiesa temuta, trionfante ed assistenzialista (e per Silvio Berlusconi), come lascia intendere anche l’Enciclopedia Wikipedia alla voce “E. Bartoletti”. Cfr. FOTO su Facebook a Giovangualberto Ceri. F.to GIOVANGUALBERTO CERI 1 - RICORDI Disse, forse, a Firenze pubblicamente queste parole il Cardinale ERMENEGILDO FLORIT, nel 1976 dopo morto Mons. ENRICO BARTOLETTI: cioè mi sembra proprio durante l’ESEQUIE. Ho io qui scritto adesso, “forse”, perché ancora non mi risulta che alcuno, la frase che citerò, se la sia ricordata, e quindi potrei anche essermela sognata. Disse dunque, forse, il Cardinale Florit: “Questo è il caso, tutto unico, in cui il SUCESSORE fa l’esequie del suo PREDECESSORE.” Florit con ciò alludeva al fatto che, venendo Egli a Firenze, aveva avuto piena contezza che il Cardinale ELIA DALLA COSTA aveva indicato il Bartoletti come suo degno successore e non Lui, cioè Florit, e volle con questa frase farne nobilmente ammenda. Se fosse vero, e io non me la fossi inventata, l’apprezzerei molto detta dal Cardinale Florit. Molto tempo prima, proprio il giorno in cui i quotidiani pubblicavano a Firenze la nomina del Bartoletti ad Ausiliare dell’Arcivescovo di Lucca, credo fosse una domenica mattina di piena estate 1958, io incontrai per caso il Bartoletti in Via de’ Pecori e, fra le altre cose, fece scivolare questa frase: “PERCUOTERANNO IL PASTORE E IL GREGGE SARÀ DISPERSO”, ma non so dove l’avesse letta. Questa sua frase combacia però stranamente con quella di Florit all’esequie. Sarà per caso? F.to GIOVANGUALBERTO CERI
2 - RICORDI LA STORIA DE ‘I DUE CANARINI DEL SINDACO DI FIRENZE PROFESSOR GIORGIO LA PIRA’. La stampa li fece diventare famosi. Nella causa per la sua beatifica zio e non se ne parla. Glieli aveva dati però, a Lucca, un altro futuro santo: Monsignor Enrico Bartoletti. Perché? Una delle molte volte che sono andato a trovare a Lucca, all’arcivescovado, Mons. Bartoletti, e cioè dopo il 1958, entrato nella sua stanza, che ha una finestra che guarda il dietro della Cattedrale di san Martino, lui mi fece notare di avere due canarini in gabbia: quasi mi volesse indicare un nostro simbolo autobiografico. Mi venne da rimanerne sorpreso è dissi, più o meno: “Ma come si fa a tenere degli uccellini in gabbia. Io non vorrei starci. Liberiamoli!!! Lui, della mia meraviglia, quasi se ne offese e mi rispose: “Se gli liberassi morirebbero, non saprebbero dove andare a dormire, e anche per procurarsi il cibo. Ma come puoi pensare che una persona come me, tanto amante della LIBERTÀ, possa, non so per quale motivo, tenere due animali prigionieri?” Capii che aveva respinto indignato l’osservazione al mittente, ma non si dimostrò adirato. Quando la volta dopo ritornai i due canarini però non c’erano più. Li aveva regalati al professor La Pira in quale credo li tenesse a Palazzo Vecchio. Anche i giornali ne parlarono. La volta prima dell’incidente dei due canarini Mons. Bartoletti mi aveva fatto notare che io e Giorgio La Pira arrivavamo sempre senza prima avvertire, ed eravamo gli unici. Ma, per lui, disse che tutto ciò andava bene lo stesso, ovviamente trattandosi di noi. Anzi, riempiendomi di orgoglio trovò il modo di dirmi anche che, fra me e Giorgio La Pira, preferiva me, mentre fra me e Giuseppe Dossetti preferiva Dossetti. Dopo dettolo, notò che io ero rimasto male, che avevo fatto il broncio, e perciò aggiunse: “Questo lo penso io, ma non è detto che universalmente, oggettivamente, debba essere così.” E poi cambiò discorso. Cosa ne fece il Sindaco La Pira, poi, dei due canarini? Dove andarono a finire? Forse una risposta potrebbero darcela il fratelli GIOVANNONI, O GIANNI, O GIORGIO, che, di La Pira, conoscevano tutti i particolari mentre io l’avevo visto sempre da lontano, o di sfuggita, anche perché non era effettivamente il mio tipo, né io il suo, pur essendomi io stesso rovinata l’esistenza per aver seguito la sua delibera. E si tratta della delibera dell’Amministrazione La Pira contro gli APPALTI del DAZIO, o Imposte di Consumo. E si tratta della Deliberazione Consiliare 5 ottobre 1964, n. 5555/710/C e del coraggiosissimo ricorso di La Pira, in data 16 Gennaio 1965, contro il Prefetto di Firenze che l’aveva bocciata, all’uopo ovviamente autorizzato con deliberazione d’urgenza della Giunta Comunale in data 15 Gennaio 1965, n.383. Gran parte di questa storia, che sta all’origine dell’approvazione in ITALIA dell’ IVA (Imposta sul Valore Aggiunto) non appaltabile, al posto dell’ I.C.O. appaltabile, ovviamente il tutto per l’intervento del Bartoletti, è stata pubblicata sulla rivista ‘SOTTO IL VELAME’, dell’Associazione Studi Danteschi e Tradizionali, di Torino diretta da RENZO GUERCI ( Il leone Verde Edizioni - Torino, Settembre 2005, n. VI, pp. 147 - 163). Questo numero VI della rivista potrà ancor oggi essere ricevuto da tutti telefonando a Torino, a RENZO GUERCI, al n. 011 22.64.721. Email: dantesca@tin.it. Sarebbe però interessante infine sapere anche chi, a Lucca, regalò i due canarini a Mons. Enrico Bartoletti, se, chi lo fece, è ancora vivo, o qualcuno ne sa qualcosa. Siamo di fronte a due futuri santi uniti anche dalla storia di questi due canarini in gabbia. DVD su YOUTUBE: http://www.youtube.com/watch?v=wV4vEG15yjA. F.to GIOVANGUALBERTO CERI
IL DISPOTISMO ALL’ITALIANA
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 28 Gennaio 2010)
In un saggio esemplare e pochissimo conosciuto, scritto alla vigilia della Rivoluzione, il Marchese di Condorcet dava alle stampe la sua requisitoria contro il dispotismo dei moderni. Condorcet partiva dalla definizione classica - quella che fa perno sulla relazione padrone/servoe che designa la subordinazione di qualcuno alla volontà arbitraria di qualcun altro - per avanzare un’importantassima ridefinizione, molto adatta, più di quella antica, alla società moderna. Una società fatta di articolazione e pluralismo dei poteri, a partire da quello economicoe finanziario fino a quello religioso e delle appartenenze di ceto e che riusciva a generare forme di “dispotismo indiretto”, attivo cioè non attraverso la coercizione diretta, quella della volontà che si fa legge dello Stato, ma mediante un’azione a ragnatela di influenza che condiziona le relazioni sociali e politiche con l’esito di far valere per vie traverse la volontà despotica, quella cioè di alcuni, di un ceto o un potentato.
Condorcet aggiungeva anche che era più facile liberare una nazione dal dispotismo diretto che da quello indiretto, perché quest’ultimo operava per vie sotterranee e si avvaleva di una studiata opera di opinione che poteva far apparire le denunce come attacchi calunniosi e invidiosi destituiti di valore fattuale. Non era forse vero che le procedure di selezione del personale politico e le regole del gioco democratico erano rispettate? Il trucco del governo rappresentativo, ecco la conclusione di Condorcet, stava proprio nel riuscire a cancellare dal vocabolario politico la parola dispotismo perché si trattava di un governo non più retto sul potere personale di qualcuno ma invece su procedure di decisione che rendevano il potere politico una funzione temporanea e soggetta al giudizio pubblico, sia per via del voto che dell’opinione.
Ecco il gioco di prestigio cheè stato messo in atto diremmo quasi alla perfezione nel nostro Paese: attraverso l’uso delle regole un potentato acquista potere e usa gli strumenti che le norme gli consentono per rovesciare il governo costituzionale. Il dispotismo indiretto di “una particolare classe” di cittadini che “godono privilegi finanziari e onorifici” è una prova di “quanto facile sia dominare il corpo dei rappresentanti e come infine l’eguaglianza di rappresentanza politica esista solo di nome”, poiché tanto il meccanismo elettorale quanto l’uso distorcente delle istituzioni introducono ineguaglianza tra i cittadini.
L’incrinatura del principio di eguaglianza si estendea macchia d’olioe intacca i codici, quello penale e quello civile, poiché nell’organizzazione della giustizia è la sede della garanzia del diritto o il suo stravolgimento. Condorcet era convinto, con più di una buona ragione storica, che “il dispotismo di un uomo solo esistesse solo nell’immaginazione”. Il dispotismo è sempre di “alcuni” o dei “pochi” mai di uno solo, poiché l’uno ha bisogno di appoggiarsi su un più o meno vasto sistema di amiciziee lealtà. Del resto, “è facile che un piccolo gruppo di uomini riesca a unirsi e la loro ricchezza li renda capaci di comperare altre forme di potere”.
Dal 1994 l’Italia è una democrazia in marcia verso un dispotismo indiretto che non ha bisogno di rovesciare la costituzione per svuotarla. Resa la rappresentanza politica ineguale (poiché questo è l’esito del sistema elettorale che abbiamo) e quindi creata una maggioranza che è in molta parte composta di un ceto di clienti e amici per attuare un progetto che è disarmante nella sua semplicità: governare restando impuniti per tutto ciò che fanno o non fanno; essere al di sopra della legge attraverso la manipolazione della legge. L’ostacolo costituzionale più importante che è rimasto è quello rappresentato dalla giustizia - caduto questo, poco resterà da dire se non che l’Italia non è più una democrazia costituzionale, ma un dispotismo indiretto.
In coda, una postilla: è interessante immaginare come professori e studiosi di legge e istituzioni politiche che si sono fatti opinion-supporters di questa maggioranza, spieghino ai loro studenti i principi dello stato di diritto, le regole del governo limitato, il costituzionalismo; e in quale periodo storico situano la pratica della divisione dei poteri, e infine, come definirebbero o in quale categoria collocherebbero il governo del quale sono oggi benevoli commentatori.
Dossetti. La Costituzione come bussola
di Maurizio Chierici (il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2009)
Domani è l’anniversario della morte di don Giuseppe Dossetti, memoria cancellata dagli uragani di questi giorni. Dossetti (13 febbraio 1913 - 15 dicembre 1996) collaboratore e avversario di De Gasperi; Dossetti uno dei padri della Costituzione.
Nel ’95 quando Berlusconi annuncia all’Italia che cosa ha in mente dopo aver demolito la vecchia Repubblica, Dossetti abbandona l’esilio spirituale nelle montagne della Giordania. Torna a Bologna. Raccoglie i costituzionalisti con un discorso drammaticamente confermato. Parla di una “mitologia sostitutiva” con la quale il liberismo della destra ha aperto il conflitto costituzionale.
Raniero La Valle, direttore dell’Avvenire d’Italia a Bologna negli anni segnati dal lavoro comune tra il cardinale Lercaro e Dossetti; La Valle, analizza la “mitologia sostituiva” che tendeva a sostituire la sovranità popolare “col mito antidemocratico, anzi idolatrato, di un potere da conservare ad ogni costo e contro ogni ragione e interesse del paese” mediante la sollecitazione di forme plebiscitarie per “ridurre il consenso del popolo sovrano all’applauso del popolo sovrano”. Dossetti ricordava il senso della sovranità del popolo custodito dalla Costituzione, che si vorrebbe cambiare stravolgendo “la volontà popolare che ha, come normale espressione, la sua rappresentanza nelle assemblee del Parlamento”, e normale garanzia le istituzioni che vegliano sulla Carta Magna: presidente della Repubblica e Corte costituzionale.
Dossetti era talmente preoccupato da girare l’Italia per lanciare l’allarme. Ogni sera la sua voce, e aveva 81 anni. Denunciava che “alla Costituzione ancora formalmente e sostanzialmente vigente si sono volute opporre ipotetiche norme di una mitica Costituzione ancora non scritta, del tutto immaginarie, sulla semplice base di deduzioni ricavate solamente dalla legge elettorale maggioritaria, deduzioni del tutto infondate e senza nessun precedente in qualunque ordinamento costituzionale”. Gennaio 1995. Quindici anni dopo il cammino dei cambiamenti passa per le tv, madri della patria.
Il degrado politico anni Novanta allarmava Dossetti. Quando nel 1991 i nostri soldati vanno per la prima volta a “difendere i sacri confini” fuori dai nostri confini bombardando Saddam Hussein, guerra del Golfo, rompe per la prima volta un silenzio lungo 30 anni. Lo strappo alla Costituzione disegnata dopo il fascismo gli sembrava intollerabile. Viveva ormai lontano dalla politica che lo aveva visto antagonista a De Gasperi. Assieme a La Pira, Ardigò, Andreatta, quel gruppo bolognese dove Prodi stava crescendo, si era illuso di creare un movimento cattolico nel quale morale e cultura disegnassero una società di partecipazione comunitaria. Laica e slegata alle influenze vaticane.
Utopia troppo severa; avevano vinto gli “altri”. E Dossetti si ritira negli studi monastici sulle colline di Bologna (Monte Sole attorno alla Marzabotto del massacro nazista), e poi lungo il Giordano. Ed ecco il silenzio si rompe nell’incontro con una giornalista in una baracca di Ma’hin, monte Nepo dove Mosè aveva sfiorato la terra promessa.
Accetta le domande con qualche esitazione. Preferisce rispondere scrivendo: “Credo sia meglio, dopo tanto tempo. Se poi lo desidera possiamo parlarne, ma la sostanza non cambia”. Leggo ad alta voce i foglietti che mi allunga. Dossetti ascolta le sue parole con le mani intrecciate, come pregasse. “Dal momento che questa guerra, contro ogni speranza di ragionevolezza, è deplorevolmente scoppiata, credo di dover osservare il silenzio in modo ancor più rigoroso. Ma c’è una volontà più forte: attestare il nostro ascolto e una nostra attenzione verso non poche rivendicazioni islamiche di questa congiuntura. Ecco perché restare qui, mentre gli eserciti si affrontano, non può non essere rispettoso, umile e pacifico, non solo nelle intenzioni anche nei comportamenti. Dice il salmo 33- 14-15 ‘Preserva la lingua del male, le labbra da parole bugiarde. Fa il bene, cerca la pace e perseguila”. Ho l’impressione che non si persegua la pace quando le parole restano equivoche e anche bugiarde. “Come italiano e antico costituente, potrei aggiungere che molte menzogne si sono pronunciate nel Parlamento di Roma. Per giustificare la partecipazione di nostre forze aeronavali, si è fatto dire all’articolo 11 della Costituzione ciò che non corrisponde né alla lettera, né al suo spirito”. Articolo 11 la cui stesura lo aveva impegnato nella mediazione tra De Gasperi e Togliatti.
“C’è una decisione delle Nazioni Unite...”, provo a ricordargli, rompendo l’accordo delle domande scritte. “Si è preteso di collegare l’interpretazione a una finzione verbale e al ristabilimento di una legalità internazionale. Troppe volte in passato questa Carta non è stata strumento di legalità. E la guerra di oggi rischia di diventare illimitata nel fine come nei mezzi. L’Onu dà l’impressione di averla abbandonata a se stessa. Non ne controlla gli sviluppi e affida il conflitto all’arbitrio, per così dire tecnico, di una delle due parti in contesa”. Nel salutare due parole: “Non so se sono un vero uomo di pace, ma spero di avvicinarmi alla speranza per diffondere la pace che è un bene universale”.
Illusione che non convince Livio Caputo: prima di diventare sottosegretario del Berlusconi Uno, governava gli esteri del Corriere. “Cosa c’entra la Costituzione con la guerra?”. Insomma, Dossetti vecchio impiccio fuori dal mondo.
Ma Ugo Stille e Giulio Anselmi dedicano a Dossetti un grande titolo di terza pagina. E il mattino dopo Il Giornale diretto da Montanelli commenta la riflessione di Dossetti col disprezzo di Nicola Matteucci: “Aveva taciuto trent’anni, poteva continuare”. Poi è venuto l’Afghanistan e la Baghdad che sappiamo. Imbarazzo superato, Costituzione adattata ai buoni rapporti internazionali. Possiamo partecipare a ogni guerra preventiva nel rispetto della nostra Carta fondamentale. Ma non basta: purtroppo la Carta lega le mani a chi governa. Si vuole allargare lo strappo per cambiare la vita di tutti. Meno uno. Protagonisti gli stessi nomi. Solo Dossetti è la memoria della speranza.
L’analisi.
Nel ’94 l’annuncio, ma il progetto partì nel ’92. Il premier lamenta
di essere accusato di "cose mai viste" a proposito delle stragi di mafia del 1993
La nascita di Forza Italia
e le bugie del Cavaliere
Ma ci sono anche documenti notarili che retrodatano la creazione del partito
di GIUSEPPE D’AVANZO *
FORZA ITALIA nasce nel 1993, da un’idea covata fin dal 1992. Non c’è dubbio che già nell’aprile del 1993 - quindi alla vigilia della prima ondata delle stragi di mafia di via Fauro, Roma (14 maggio), via dei Georgofili, Firenze (27 maggio) - è matura la volontà di Berlusconi di "mettersi alla testa di un nuovo partito".
In luglio - in parallelo con la seconda ondata di bombe, via Palestro, Milano, 27 luglio; S. Giorgio al Velabro, S. Giovanni in Laterano, Roma, 28 luglio - si mette a punto il progetto politico che diventa visibile in settembre e concretissimo in autunno. E’ una cronologia pubblica, quasi familiare, documentata da testimoni al di sopra di ogni sospetto. Dagli stessi protagonisti. Addirittura da atti notarili. Se è necessario ricordarla, dopo sedici anni, è per le sorprendenti parole di Silvio Berlusconi. Dice il presidente del Consiglio a Olbia: "Mi accusano di cose mai viste. Dicono che io sia il mandante delle stragi di mafia del ’92 e ’93; che avrei orchestrato insieme a Dell’Utri per destabilizzare il Paese. E’ una bufala visto che Forza Italia non era ancora nata e nacque solo un anno dopo quando diversi sondaggi mi avevano detto che c’era un spazio politico per evitare che finissimo in mano ai comunisti" (il Giornale, 29 novembre).
"La pianificazione dell’operazione politica di Berlusconi cominciò nel giugno 1993, subito dopo la vittoria dei partiti di sinistra alle elezioni amministrative, e già a fine luglio se ne cominciarono a scorgere le prime, anche deboli, avvisaglie pubbliche", scrive Emanuele Poli (Forza Italia, strutture, leadership e radicamento territoriale, il Mulino).
Il 28 luglio, intervistato da Repubblica, Berlusconi invoca "la necessità di una nuova classe dirigente" e rivela che, in quelle settimane, "sta incontrando in varie città d’Italia chiunque condividesse i "valori liberaldemocratici" e credesse nella libera impresa". Nello stesso giorno, intervistato dal Corriere della Sera, Giuliano Urbani, docente di Scienza della politica alla Bocconi, svela i suoi incontri con intellettuali, opinionisti, imprenditori di Confindustria che condividono le preoccupazioni "per una replica su scala nazionale della vittoria delle sinistre alle amministrative". In segreto, Berlusconi e Urbani già lavorano insieme.
Il loro progetto politico diventa pubblico il 29 giugno, quando molti uomini vicini a Berlusconi (Marcello Dell’Utri, Cesare Previti, Antonio Martino, Mario Valducci) costituiscono l’"Associazione per il buon governo" presso lo studio del notaio Roveda a Milano. Le nove sezioni tematiche dell’Associazione raccolte in un libretto ("Alla Ricerca del Buongoverno") diventano il "riferimento ideologico" dei nascenti club di Forza Italia. Il 6 settembre, Berlusconi ne inaugura il primo. Il 25 novembre viene fondata a Milano da Angelo Codignoni, ex direttore di La Cinq, il network francese di Fininvest, l’"Associazione nazionale del Club di Forza Italia".
Questa è la storia ufficiale, verificata dai politologi. Se ne può mettere insieme un’altra con le testimonianze dirette, che sono mille e una. Ne scegliamo qui soltanto tre. La prima è di Indro Montanelli (L’Italia di Berlusconi, Rizzoli). "Il 22 giugno del 1993, Urbani espone le sue tesi a Gianni Agnelli, che ascoltò con attenzione limitandosi a dire: "Ne ha parlato con Berlusconi?". Il 30 del mese Urbani si trattenne alcune ore a villa San Martino ad Arcore. Le idee che espose erano idee che il Cavaliere già rimuginava. Sta di fatto che, a distanza di un paio di giorni, Berlusconi convocò Gianni Pilo, direttore del marketing in casa Fininvest. Pilo doveva accertare quali fossero i "sogni" degli italiani: il che fu fatto tramite due istituti specializzati in sondaggi d’opinione. Qualche settimana più tardi Pilo ebbe un istituto demoscopico tutto suo mentre Marcello Dell’Utri gettava le fondamenta d’una struttura organizzativa su scala nazionale". Quindi, i primi sondaggi sono del ’93 e non del ’94.
Il secondo testimone diretto è Enrico Mentana, che retrodata al 30 marzo "il primo indizio chiaro della volontà di Berlusconi" di creare un partito. Quel giorno, consueta riunione mensile ad Arcore dei responsabili della comunicazione del gruppo. Ci sono Berlusconi, il fratello Paolo, Letta, Confalonieri, Dell’Utri e Del Debbio di Publitalia, l’amministratore delegato Tatò, i direttori dei periodici, Monti (Panorama), Briglia e Donelli (Epoca), la Bernasconi e la Vanni dei femminili, Orlando il condirettore de il Giornale, Vesigna (Sorrisi e Canzoni). E poi i televisivi, Costanzo, Ferrara, Fede, Gori, Mentana, direttore del Tg5. Che cita (Passionaccia, Rizzoli) il verbale della riunione: "Ad avviso di Silvio Berlusconi, l’attuale situazione è favorevole come non mai per chi provenendo da successi imprenditoriali voglia dedicare i propri talenti al governo della cosa pubblica. Non nasconde che gli viene una gran voglia di mettersi alla testa di un nuovo partito". Cinque giorni dopo, la decisione è presa. Lo racconta il terzo testimone, Enzo Cartotto, ghost writer di Giovanni Marcora e Piero Bassetti, prima di diventare consigliere politico di Berlusconi e Dell’Utri.
I ricordi di Cartotto si possono ricavare dall’interrogatorio reso alla Procura di Palermo il 20 giugno 1997 e da un suo libro Operazione Botticelli.
"Nel maggio-giugno 1992 sono contattato da Marcello Dell’Utri perché vuole coinvolgermi in un progetto. Dell’Utri sostiene la necessità che, di fronte al crollo degli ordinari referenti politici del gruppo, Fininvest "entri in politica" per evitare che un’affermazione delle sinistre possa portare il gruppo Berlusconi prima a un ostracismo e poi a gravi difficoltà. Dell’Utri mi fa presente che questo suo progetto incontra molte difficoltà nel gruppo e, utilizzando una metafora, mi dice che dobbiamo operare come sotto il servizio militare, e cioè preparare i piani, chiuderli in un cassetto e tirarli fuori in caso di necessità. Dell’Utri mi invita anche a sostenere questa sua tesi presso Berlusconi, con il quale io coltivo da tempo un rapporto di amicizia. Successivamente a questo discorso, comincio a lavorare presso gli uffici della Publitalia. (...) Partecipo a un incontro tra Berlusconi e Dell’Utri, nel corso del quale Berlusconi dice espressamente a Dell’Utri e a me di non mettere a conoscenza di questo progetto né Fedele Confalonieri, né Gianni Letta. Dall’ottobre 1992 in poi, mi occupo di contattare associazioni di categoria ed esponenti del mondo politico dell’area di centro e il risultato del sondaggio fu che tutte queste forze sentono fortemente la mancanza di un referente politico. Si arriva quindi all’aprile del 1993, quando Berlusconi mi dice che aveva la necessità di prendere una decisione definitiva su ciò che si deve fare perché le posizioni di Dell’Utri e Confalonieri gli sembrano entrambe logiche e giuste, e lui non è mai stato così a lungo in una situazione di incertezza. Che devo fare?, mi chiede Berlusconi. Confessa: "A volte mi capita perfino di mettermi a piangere, quando sono sotto la doccia e sono solo con me stesso. Non so veramente come venirne fuori". Mi dice che, per prendere una decisione, quella sera ad Arcore, ha chiamato Bettino Craxi. Alla riunione partecipiamo soltanto noi: io, Craxi e Berlusconi. (...) Dice Craxi: "Bisogna trovare un’etichetta, un nome nuovo, un simbolo che possa unire gli elettori che un tempo votavano per il pentapartito. Io sono convinto che, se tu - Silvio - trovi una sigla giusta, con le televisioni e con le strutture aziendali di cui disponi puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e dagli ex comunisti". (...) "Bene - dice Silvio - so quello che devo fare. E’ deciso. Adesso bisogna agire da imprenditori. Chiamare gli uomini, comunicare la decisione. Adesso bisogna dirlo a Marcello (Dell’Utri), perché mi metta attorno persone che mi possano accompagnare. Bisogna fare quest’operazione di marketing sociale e politico. Va bene, allora andiamo avanti, procediamo su questa strada, ormai la decisione è presa".
E’ il 4 aprile 1993. Quel giorno - è domenica, piove, fa freddo come in inverno - può essere considerato il giorno di nascita di Forza Italia. Perché il Cavaliere vuole farlo dimenticare?
Non è una novità, in Berlusconi, l’uso politico e sistematico della menzogna. In questo caso egli nega la realtà, la sostituisce con una menzogna per liberarsi di un sospetto - fino a prova contraria, soltanto una coincidenza - sollecitato dal sincronismo tra le sue mosse politiche e la strategia terroristica di Cosa Nostra. E’ una contemporaneità che i mafiosi disertori dicono combinata. Se c’è stata intesa o collaborazione, non ha trovato per il momento alcun attendibile, concreto conforto. Confondere le cose, eclissare fatti da tutti conosciuti, appare a Berlusconi la migliore via d’uscita dall’imbarazzante angolo. E’ la peggiore perché destinata a rinvigorire, e non a sciogliere, i dubbi. Un atteggiamento di disprezzo per la realtà già non è mai moralmente innocente. In questi casi, la negazione della realtà - al di là di ogni moralistica condanna - finisce per mostrare il bugiardo corresponsabile di una colpa. Che bisogno ne ha Berlusconi, quando raccontando la verità dei fatti può liberarsi di quella nebbia? Perché non lo fa? Qual è la ragione di questa fragorosa ultima menzogna, in un momento così delicato per il Cavaliere?
© la Repubblica, 1 dicembre 2009
Letta sull’Osservatore «Profonda osmosi tra Chiesa e Stato» *
Tra Chiesa e Stato in Italia c’è una «profonda e feconda osmosi», «una situazione del tutto eccezionale» da cui l’Italia «sta imparando progressivamente a trarre la massima utilità»: lo scrive il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Gianni Letta, nella presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia», curato da Pierluca Azzaro e pubblicato dalla Libreria editrice vaticana in collaborazione con l’Ambasciata d’Italia presso la Santa Sede, anticipata ieri dall’Osservatore romano. Ancora un articolo del gentiluomo di «Sua Santità» ospitato dal quotidiano della Santa Sede ricco di riconoscimenti verso il pontificato. «Oggi si può affermare con soddisfazione scrive Letta che nella città di Roma convivono pacificamente e collaborano fruttuosamente lo Stato Italiano e la Sede apostolica».
PAROLA POLITICA E PAROLACCE
di don Aldo Antonelli
Un ministro, semplice manovale d’azienda, dipendente di Berlusconi prima e più che ministro della repubblica, oltre a sfarfagliare sulla filosofia d’azienda, mentisce spudoratamente anche sui fatti. O non sa, il che è grave o sapendo mentisce, il che è ancora più grave. Ieri sera, con una faccia da bronzo da far invidia al peggiore dei bulli di quartiere, Alfano ha ripetuto il ritornello che Berlusconi stesso ama ripetere con ossessione cercando di convincere perfino se stesso: "Tutti i suoi guai giudiziari sono iniziati con la sua discesa in campo"! Falso, falso e falso.
Berlusconi viene indagato per traffico di stupefacenti, undici anni prima della nascita di Forza Italia. Nel 1983 (l’accusa è archiviata). È condannato in appello (e amnistiato) per falsa testimonianza nel 1989, venti anni fa. Nel 1993, un anno prima della sua prima candidatura al governo, la procura di Torino già indaga sul Milan e i pubblici ministeri di Milano sui bilanci di Publitalia. Al di là di queste date, è documentato dagli atti giudiziari che Silvio Berlusconi e il gruppo Fininvest finiscono nei guai non per un assillo "politico" dei pubblici ministeri, ma per le confessioni di un ufficiale corrotto del Nucleo regionale di polizia tributaria di Milano. Ammette che le "fiamme gialle" hanno intascato 230 milioni di lire per chiudere gli occhi nelle verifiche fiscali di Videotime (nel 1985), Mondadori (nel 1991), Mediolanum Vita (nel 1992) , tutti controlli che precedono l’avventura politica dell’Egoarca.
Di fronte a questo diluvio a cascata di menzogne il cardinal Bertone, da parte sua, trova scandaloso che qualcuno dica "parolacce". Per la sua morale la parolaccia è più grave della menzogna; ho l’impressione che sia rimasto un bambino mai cresciuto. Ciò che lo preoccupa è la politica di facciata e non il vuoto della politica e ancor meno la politica asservita agli interessi aziendali e personali dell’Egoarca. Lo preoccupano le parole scorrette che offendono il galateo e non le parole mendaci che stravolgono e imprigionano le coscienze e ancor meno le leggi ad personam che istituzionalizzano e consacrano ruberie, falsi in bilancio e abusi di potere.
Qui ritorna anche il discorso sulle parole, meglio, sulla parola, ma ad un altro e ben più alto livello. La filosofa spagnola Maria Zambrano ha analizzato bene il legame profondo che c’è tra la parola e la politica, così che una parola degradata e vuota produce una politica fatta di menzogna e di violenza. Marco Campedelli, sul notiziario della rete Radié Resh ("In Dialogo" - settembre 2009), si chiede perché la parola sia fonte sorgiva per la politica e risponde: «Per il fatto che la parola nella sua costituzione essenziale è parola dialogica, parola come relazione, e dunque parola che crea la polis, la città degli uomini».
Prosegue: «Una politica inumana, disumana, nasce da una parola che ha perso il senso, una parola la cui dimora è stata abbandonata dalla vita. E’ allarmante come nel nostro Paese una massa di persone siano attratti e affascinati da "Signori nessuno" che infilano una dopo l’altra come perle in una collana, parole piatte, vuote e più drammaticamente parole violente e disumane. Pensiamo come il nostro Nord-Est sia la patria della Lega. Se noi analizzassimo il linguaggio della Lega capiremmo che il rapporto tra parola e violenza, tra parola ed esclusione, tra parola e discriminazione è all’origine di un modo nuovo di "pensare" dove la parola caccia dalla sua dimora il "Tu" e vi pone al centro il trono grottesco dell’"Io"».
Se il cardinal Bertone avesse parlato, per esempio, in questi termini, avrebbe dato prova di esser cresciuto e avrebbe dato testimonianza di una Chiesa che è chiamata dal vangelo a pronunciare parole di senso, parole di vita, parole di profezia. Smettendo i panni del bandidore di moralismi vuoti e di parole banali.
Aldo Antonelli
La patria non è lui
di Giovanni Maria Bellu *
In fondo il ragionamento non fa una grinza: io sono l’Italia, dice il premier, e dunque chi mi «sputtana», in realtà «sputtana» la patria. È giusto. La patria è sacra. Bisogna amarla in tutte le circostanze. C’è una guerra? E tu devi combattere per la patria. Un’immane catastrofe naturale? E tu devi ricostruire la patria. Mica puoi prendertela con lei. Sputtanarla, poi...
Il piano di Silvio Berlusconi per farsi patria ha avuto un’accelerazione formidabile dopo l’individuazione di alcune organizzazioni anti-italiane operanti nel territorio nazionale: la Corte costituzionale che ha vilipeso il lodo Alfano, argine giuridico creato a difesa della patria, e il presidente della Repubblica il quale si ostina a considerare patria quel territorio delimitato a nord dalle Alpi, attraversato longitudinalmente dagli Appennini e circondato dal Mar Mediterraneo.
Al contrario, per esempio, del ministro Maria Vittoria Brambilla che, rivela qua accanto il nostro Congiurato, reputa Silvio Berlusconi parte del patrimonio turistico nazionale, come il Colosseo, il campanile di Giotto e Piazza San Marco. O del ministro ombra degli Esteri Franco Frattini che, ci racconta il collega danese Mads Frese, continua a tenere impegnati i nostri sempre più imbarazzati ambasciatori nella titanica impresa di convincere la stampa estera che Silvio Berlusconi e il Canal Grande sono la stessa cosa.
Impresa, oltretutto, resa ancora più complessa dal verbo temerariamente scelto dal premier per denunciare le attività antipatriottiche. All’uditore straniero che per seguire le recenti cronache politiche italiane ha dovuto arricchire il suo vocabolario di parole che non aveva studiato nel corso di lingua, il verbo «sputtanare», più che un’attività anti-italiana, evoca le attività del premier medesimo.
Ma non illudiamoci che lo sgomento del mondo sia sufficiente a salvarci. Silvio Berlusconi non se n’è mai curato, come dimostra l’assoluto sprezzo del ridicolo con cui continua ad affrontare gli impegni internazionali. Gli basta essere patria in patria. Cioè nel luogo dei suoi interessi e dei suoi affari. Ha un piano. Rozzo ed efficace, come ci spiega Claudia Fusani: utilizzare il consenso di cui ancora gode per accelerare la svolta presidenzialista. Modificare il sistema costituzionale. Delegittimare il capo dello Stato e prenderne il posto. Fantapolitica? C’è stato un tempo, nemmeno tanto lontano, in cui la descrizione del quadro attuale sarebbe stata liquidata come fantasia pura. La stiamo vivendo. Ed è qua che lo sbalordimento mondiale per il premier si estende a tutti noi. Leggiamo, alle pagine 4 e 5, le cronache sugli scandali in corso in Francia, Spagna, Inghilterra. Robetta rispetto alla nostra. Bazzecole. Eppure la stampa le denuncia, i politici sono costretti a dare spiegazioni, a dimettersi, a restituire il maltolto, anche quando si tratta di poche centinaia di sterline. «È un problema di diverse sensibilità», dice magnanimamente a Roberto Brunelli Michael Braun, corrispondente a Roma del tedesco Die Tagesszeitung. Già, solo la sensibilità democratica di chi ci vive può salvare la patria. Quella vera.
(Filo rosso del 14 ottobre 2009)
* Nemici Il blog a cura di Giovanni Maria Bellu 13/10/2009 09:30
Tra mafia e Stato
di Lirio Abbate *
Brusca rivela: Riina disse che il nostro referente nella trattativa era il ministro Mancino. Ma dopo l’arresto del padrino, i boss puntarono su Forza Italia e Silvio Berlusconi
E’ la vigilia di Natale del 1992, Totò Riina è euforico, eccitato, si sente come fosse il padrone del mondo. In una casa alla periferia di Palermo ha radunato i boss più fidati per gli auguri e per comunicare che lo Stato si è fatto avanti. I picciotti sono impressionati per come il capo dei capi sia così felice. Tanto che quando Giovanni Brusca entra in casa, Totò ù curtu, seduto davanti al tavolo della stanza da pranzo, lo accoglie con un grande sorriso e restando sulla sedia gli dice: "Eh! Finalmente si sono fatti sotto". Riina è tutto contento e tiene stretta in mano una penna: "Ah, ci ho fatto un papello così..." e con le mani indica un foglio di notevoli dimensioni. E aggiunge che in quel pezzo di carta aveva messo, oltre alle richieste sulla legge Gozzini e altri temi di ordine generale, la revisione del maxi processo a Cosa nostra e l’aggiustamento del processo ad alcuni mafiosi fra cui quello a Pippo Calò per la strage del treno 904. Le parole con le quali Riina introduce questo discorso del "papello" Brusca le ricorda così: "Si sono fatti sotto. Ho avuto un messaggio. Viene da Mancino".
L’uomo che uccise Giovanni Falcone - di cui "L’espresso" anticipa il contenuto dei verbali inediti - sostiene che sarebbe Nicola Mancino, attuale vice presidente del Csm che nel 1992 era ministro dell’Interno, il politico che avrebbe "coperto" inizialmente la trattativa fra mafia e Stato. Il tramite sarebbe stato l’ex sindaco mafioso di Palermo, Vito Ciancimino, attraverso l’allora colonnello Mario Mori e il capitano Giuseppe De Donno. L’ex responsabile del Viminale ha sempre smentito: "Per quanto riguarda la mia responsabilità di ministro dell’Interno confermo che nessuno mi parlò di possibili trattative".
Il contatto politico Riina lo rivela a Natale. Mediata da Bernardo Provenzano attraverso Ciancimino, arriva la risposta al "papello", le cui richieste iniziali allo Stato erano apparse pretese impossibili anche allo zio Binu. Ora le dichiarazioni inedite di Brusca formano come un capitolo iniziale che viene chiuso dalle rivelazioni recenti del neo pentito Gaspare Spatuzza. Spatuzza indica ai pm di Firenze e Palermo il collegamento fra alcuni boss e Marcello dell’Utri (il senatore del Pdl, condannato in primo grado a nove anni per concorso esterno in associazione mafiosa), che si sarebbe fatto carico di creare una connessione con Forza Italia e con il suo amico Silvio Berlusconi. Ma nel dicembre ’92 nella casa alla periferia di Palermo, Riina è felice che la trattativa, aperta dopo la morte di Falcone, si fosse mossa perché "Mancino aveva preso questa posizione". E quella è la prima e l’ultima volta nella quale Brusca ha sentito pronunziare il nome di Mancino da Riina. Altri non lo hanno mai indicato, anche se Brusca è sicuro che ne fossero a conoscenza anche alcuni boss, come Salvatore Biondino (detenuto dal giorno dell’arresto di Riina), il latitante Matteo Messina Denaro, il mafioso trapanese Vincenzo Sinacori, Giuseppe Graviano e Leoluca Bagarella.
Le risposte a quelle pretese tardavano però ad arrivare. Il pentito ricorda che nei primi di gennaio 1993 il capo di Cosa nostra era preoccupato. Non temeva di essere ucciso, ma di finire in carcere. Il nervosismo lo si notava in tutte le riunioni, tanto da fargli deliberare altri omicidi "facili facili", come l’uccisione di magistrati senza tutela. Un modo per riscaldare la trattativa. La mattina del 15 gennaio 1993, mentre Riina e Biondino si stanno recando alla riunione durante la quale Totò ù curtu avrebbe voluto informare i suoi fedelissimi di ulteriori retroscena sui contatti con gli uomini delle istituzioni, il capo dei capi viene arrestato dai carabinieri.
Brusca è convinto che in quell’incontro il padrino avrebbe messo a nudo i suoi segreti, per condividerli con gli altri nell’eventualità che a lui fosse accaduto qualcosa. Il nome dell’allora ministro era stato riferito a Riina attraverso Ciancimino. E qui Brusca sottolinea che il problema da porsi - e che lui stesso si era posto fin da quando aveva appreso la vicenda del "papello" - è se a Riina fosse stata o meno riferita la verità: "Se le cose stanno così nessun problema per Ciancimino; se invece Ciancimino ha fatto qualche millanteria, ovvero ha "bluffato" con Riina e questi se ne è reso conto, l’ex sindaco allora si è messo in una situazione di grave pericolo che può estendersi anche ai suoi familiari e che può durare a tempo indeterminato". In quel periodo c’erano strani movimenti e Brusca apprende che Mancino sta blindando la sua casa romana con porte e finestre antiproiettile: "Ma perché mai si sta blindando, che motivo ha?". "Non hai nulla da temere perché hai stabilito con noi un accordo", commenta Brusca come in un dialogo a distanza con Mancino: "O se hai da temere ti spaventi perché hai tradito, hai bluffato o hai fatto qualche altra cosa".
Brusca, però, non ha dubbi sul fatto che l’ex sindaco abbia riportato ciò che gli era stato detto sul politico. Tanto che avrebbe avuto dei riscontri sul nome di Mancino. In particolare uno. Nell’incontro di Natale ’92 Biondino prese una cartelletta di plastica che conteneva un verbale di interrogatorio di Gaspare Mutolo, un mafioso pentito. E commentò quasi ironicamente le sue dichiarazioni: "Ma guarda un po’: quando un bugiardo dice la verità non gli credono". La frase aveva questo significato: Mutolo aveva detto in passato delle sciocchezze ma aveva anche parlato di Mancino, con particolare riferimento a un incontro di quest’ultimo con Borsellino, in seguito al quale il magistrato aveva manifestato uno stato di tensione, tanto da fumare contemporaneamente due sigarette. Per Biondino sulla circostanza che riguardava Mancino, Mutolo non aveva detto il falso. Ma l’ex ministro oggi dichiara di non ricordare l’incontro al Viminale con Borsellino.
Questi retroscena Brusca li racconta per la prima volta al pm fiorentino Gabriele Chelazzi che indagava sui mandanti occulti delle stragi. Adesso riscontrerebbero le affermazioni di Massimo Ciancimino, figlio di don Vito, che collabora con i magistrati di Palermo e Caltanissetta svelando retroscena sul negoziato mafia- Stato. Un patto scellerato che avrebbe avuto inizio nel giugno ’92, dopo la strage di Capaci, aperto dagli incontri fra il capitano De Donno e Ciancimino. E in questo mercanteggiare, secondo Brusca, Riina avrebbe ucciso Borsellino "per un suo capriccio". Solo per riscaldare la trattativa.
Le rivelazioni del collaboratore di giustizia si spingono fino alle bombe di Roma, Milano e Firenze. Iniziano con l’attentato a Maurizio Costanzo il 14 maggio ’93 e hanno termine a distanza di 11 mesi con l’ordigno contro il pentito Totuccio Contorno. Il tritolo di quegli anni sembra non aver portato nulla di concreto per Cosa nostra. Brusca ricorda che dopo l’arresto di Riina parla con il latitante Matteo Messina Denaro e con il boss Giuseppe Graviano. Chiede se ci sono novità sullo stato della trattativa, ma entrambi dicono: "Siamo a mare", per indicare che non hanno nulla. E da qui che Brusca, Graviano e Bagarella iniziano a percorrere nuove strade per riattivare i contatti istituzionali.
I corleonesi volevano dare una lezione ai carabinieri sospettati (il colonnello Mori e il capitano De Donno) di aver "fatto il bidone". E forse per questo motivo che il 31 ottobre 1993 tentano di uccidere un plotone intero di carabinieri che lasciava lo stadio Olimpico a bordo di un pullman. L’attentato fallisce, come ha spiegato il neo pentito Gaspare Spatuzza, perché il telecomando dei detonatori non funziona. Il piano di morte viene accantonato.
In questa fase si possono inserire le nuove confessioni fatte pochi mesi fa ai pubblici ministeri di Firenze e Palermo dall’ex sicario palermitano Spatuzza. Il neo pentito rivela un nuovo intreccio politico che alcuni boss avviano alla fine del ’93. Giuseppe Graviano, secondo Spatuzza, avrebbe allacciato contatti con Marcello Dell’Utri. Ai magistrati Spatuzza dice che la stagione delle bombe non ha portato a nulla di buono per Cosa nostra, tranne il fatto che "venne agganciato ", nella metà degli anni Novanta "il nuovo referente politico: Forza Italia e quindi Silvio Berlusconi".
Il tentativo di allacciare un contatto con il Cavaliere dopo le stragi era stato fatto anche da Brusca e Bagarella. Rivela Brusca: "Parlando con Leoluca Bagarella quando cercavamo di mandare segnali a Silvio Berlusconi che si accingeva a diventare presidente del Consiglio nel ’94, gli mandammo a dire "Guardi che la sinistra o i servizi segreti sanno", non so se rendo l’idea...". Spiega sempre il pentito: "Cioè sanno quanto era successo già nel ’92-93, le stragi di Borsellino e Falcone, il proiettile di artiglieria fatto trovare al Giardino di Boboli a Firenze, e gli attentati del ’93". I mafiosi intendevano mandare un messaggio al "nuovo ceto politico ", facendo capire che "Cosa nostra voleva continuare a trattare".
Perché era stata scelta Forza Italia? Perché "c’erano pezzi delle vecchie "democrazie cristiane", del Partito socialista, erano tutti pezzi politici un po’ conservatori cioè sempre contro la sinistra per mentalità nostra. Quindi volevamo dare un’arma ai nuovi "presunti alleati politici", per poi noi trarne un vantaggio, un beneficio".
Le due procure stanno già valutando queste dichiarazioni per decidere se riaprire o meno il procedimento contro Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, archiviato nel 1998. Adesso ci sono nuovi verbali che potrebbero rimettere tutto in discussione e riscrivere la storia recente del nostro Paese.
INCHIESTA P3
Dell’Utri non risponde, indagato Caliendo
Bankitalia commissaria il Ccf di Verdini
L’interrogatorio del senatore è durato meno di un’ora. Avviso di garanzia anche per il sottosegretario alla Giustizia. Berlusconi gli conferma la fiducia. Via Nazionale ravvisa "gravi irregolarita" nella banca del coordinatore Pdl. Il Riesame: interferenza metodica sulle istituzioni. Il Csm approvato trasferimento di Marconi
Dell’Utri non risponde, indagato Caliendo. Bankitalia commissaria il Ccf di Verdini Il sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo *
ROMA - Dopo l’interrogatorio fiume 1 di Denis Verdini, oggi in procura a Roma è stato il turno di Marcello Dell’Utri. L’interrogatorio del senatore del Pdl è stato però molto più breve. Meno di un’ora. Dell’Utri, indagato assieme allo stesso Verdini e a Flavio Carboni nell’inchiesta sulla cosiddetta P3, si è avvalso, infatti, della facoltà di non rispondere.
All’uscita dalla procura, Dell’Utri ha spiegato così il suo "silenzio" davanti al procuratore aggiunto Giancarlo Capaldo e al sostituto Rodolfo Sabelli: "A Palermo 15 anni fa", ha detto dell’Utri, "ho parlato 17 ore e sono stato rinviato a giudizio sulla base della mie dichiarazioni. Ho imparato da allora"."Sono un indagato provveduto", ha continuato il senatore del Pdl, "mi sono avvalso della facoltà di non rispondere che reputo una regola fondamentale dell’indagato provveduto. Consiglio a tutti gli altri di fare come me".
"Ruolo di Dell’Utri superiore a Verdini". Secondo quanto scrive l’agenzia Ansa, i pm romani ritengono dopo gli interrogatori che il ruolo di Dell’Utri, sotto il profilo politico, sarebbe stato superiore a quello di Verdini. Sempre secondo quanto trapela da Piazzale Clodio, nonostante le nove ore di interrogatorio, le spiegazioni fornite dal coordinatore del Pdl non avrebbero convinto i magistrati, che le avrebbero trovate generiche.
"Verdini non convince". Tra le argomentazioni del coordinatore che non avrebbero persuaso i pm ci sono le spiegazioni sui 2,6 milioni pagati dalla Società Toscana Edizione (della quale Verdini è socio) allo stesso coordinatore, alla moglie Simonetta Fossombroni ed al coordinatore toscano del partito Massimo Parisi. Altro punto poco chiaro, le cene a palazzo Pecci Blunt, la casa romana di Verdini, che per i pm sarebbero servite tra l’altro, a stabilire interventi sulla Consulta per il lodo Alfano. In merito al dossier a luci rosse per screditare la candidatura a governatore della Campania di Stefano Caldoro, Verdini avrebbe ammesso di esserne stato a conoscenza, ma di non avere preso parte al complotto.
Commissariato il Ccf. Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti ha firmato il decreto di commissariamento del Credito Cooperativo Fiorentino, la banca di cui fino a ieri era presidente Verdini. La Banca d’Italia l’aveva proposto il 21 luglio "per gravi irregolarità nell’amministrazione e gravi violazioni normative", dopo "gli accertamenti ispettivi di vigilanza condotti presso il Credito Cooperativo Fiorentino - Campi Bisenzio - Società Cooperativa".
Indagato anche Caliendo. Capaldo e Sabelli hanno deciso l’iscrizione nel registro degli indagati anche del sottosegretario alla Giustizia Giacomo Caliendo. Anche a Caliendo è contestato il reato di violazione della legge Anselmi sulle società segrete. Il sottosegretario potrebbe essere interrogato entro la fine di questa settimana. Il suo nominativo appare in alcune vicende sulle quali si è soffermata l’attenzione degli inquirenti. Tra queste una cena nella casa romana di Verdini, a palazzo Pecci Blunt, che avrebbe avuto il fine di stabilire le strategie di intervento sul lodo Alfano, sulla nomina di Alfonso Marra a presidente della Corte D’Appello di Milano e sul ricorso in Cassazione dell’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino contro l’ordinanza di custodia cautelare emessa nei suoi confronti dalla magistratura napoletana.
Dopo aver appreso di essere stato iscritto nel registro degli indagati, Caliendo ha subito ribadito la sua estraneità alla P3: "Io non ho mai contattato né fatto elenchi di giudici della Corte costituzionale favorevoli o contrari al lodo Alfano".
Berlusconi: "Fiducia in Caliendo". Dopo il ministro della Giustizia Angelo Alfano, anche Silvio Berlusconi ha confermato la propria piena fiducia nel sottosegretario. In una nota di Palazzo Chigi si legge che il premier "ha incontrato il sottosegretario Giacomo Caliendo e, in relazione all’indagine quest’oggi annunciata nei suoi confronti, gli ha espresso la più ampia solidarietà e, rinnovandogli piena fiducia, lo ha invitato a continuare a lavorare con l’impegno fin qui profuso". Il deputato Niccolò Ghedini ha definito "sorprendente la decisione di indagare il senatore", auspicando "una immediata archiviazione".
Dal canto suo, dopo il colloquio con il presidente del Consiglio, Caliendo ha detto di aver chiesto tramite i suoi avvocati,"di essere sentito dai pm". Sto aspettando". "Mi ha confermato la sua piena fiducia e mi ha chiesto di andare avanti. Dunque resto nel mio incarico", ha aggiunto lasciando Palazzo Grazioli.
"P3 attiva anche nel Lazio". L’inchiesta si arricchisce intanto di nuovi sviluppi. Il "gruppo", che, secondo la magistratura faceva capo a Flavio Carboni, Arcangelo Martino e Pasquale Lombardi, si interessò anche dell’esclusione della lista del Pdl provinciale dalle elezioni regionali del Lazio. E’ quanto emerge dall’ordinanza del tribunale del riesame con la quale i giudici hanno negato la scarcerazione a Carboni e Lombardi.
Nell’ordinanza scrivono i giudici, "Lombardi non manca di invitare l’onorevole Ignazio Abrignani, responsabile elettorale nazionale del Pdl, a seguire una via ’parallela’ rispetto a quella istituzionale (ricorso presso il Consiglio di Stato avverso l’esclusione della lista Pdl Roma e Provincia dalle elezioni regionali) suggerendogli di rivolgersi ad Antonio Martone (ex avvocato generale della Cassazione) perchè è ’molto amico’ e può risolvere il problema, ma della cosa questa volta il Lombardi segnala che è meglio non parlare al telefono".
"Interferenza metodica". Dal documento emerge inoltre come il gruppo abbia "portato avanti una metodica azione d’interferenza sull’esercizio delle funzioni di organi costituzionali e di amministrazioni pubbliche, come la Corte Costituzionale, il Consiglio superiore della magistratura, la regione Sardegna, la Corte di Cassazione, la Corte d’Appello di Milano, l’ispettorato del ministero della Giustizia, venendo incredibilmente accettato come interlocutore accreditato". E’ a causa di questa "fitta rete di conoscenze", concludono i giudici, che "deve essere mantenuta la custodia cautelare in carcere".
Marconi trasferito. Dal Csm intanto arriva l’ok al trasferimento per incompatiblità ambientale di Umberto Marconi, fino ad oggi presidente della Corte d’Appello di Salerno, uno dei magistrati coinvolti nella vicenda P3. Il magistrato andrà dunque a svolgere funzioni di consigliere presso la Corte d’Appello di Napoli, come da lui stesso richiesto in una lettera inviata a Palazzo dei Marescialli. Al momento del voto, si è astenuto il vice presidente Nicola Mancino.
* la Repubblica, 27 luglio 2010
E ora su la testa
di Rossana Rossanda (il manifesto, 22 gennaio 2011)
Non è piacevole essere oggi un’italiana all’estero. Tanto meno se si è stata una sia pur minuscola tessera di ceto politico, due volte consigliere comunale e una volta deputata, una cui l’antipolitica fa venire il nervoso. E per di più comunista libertaria, specie rarissima, orgogliosa di sé e di un paese che, fino agli anni Sessanta e con diverse code nei Settanta, pareva il laboratorio politico più interessante d’Europa.
Oggi gli amici che incontro non dicono più: ma che disgrazia quel vostro Berlusconi! Mi chiedono: Com’è che l’avete votato tre volte? Che è successo all’Italia? Una come me si trova a balbettare. Perché hanno ragione, non si può più fare del premier il caso personale di uno che ha fatto troppi soldi, che ha tre televisioni, che prende il paese per un’azienda di sua proprietà, che sa che molti sono acquistabili e li acquista, e adesso, gallo attempato, si vanta dei suoi exploits su un numero illimitato di pollastrine: «Vorreste tutti essere come me, eh??».
E’ vero che l’Italia lo ha votato e rivotato. E’ vero che non c’è traccia di una destra formalmente civile che di lui ne ha abbastanza, né di un sedicente centro deciso a liberarsene. E neanche di una sinistra capace di rischiare un «buttiamolo fuori con le elezioni». La destra tutta perché gli è ancora complice, il centro perché lo è stato, la sinistra perché il sistema elettorale bipolare le faceva comodo contro le sue ali meno docili. Metà dell’Italia è berlusconiana, l’altra metà è azzittita, e non c’è imputazione - ignoranza, prevaricazione, corruzione, soldi, attentato ai minori - mossa al personaggio che sia in grado di scuoterla. Anzi. C’è qualche verità nelle vanterie di costui, se più se ne sente più tutti si accucciano per calcoli loro. Perfino i media, che sarebbero di opposizione, sono diventati un buco della serratura per voyeurs intenti a sfogliare pagine su pagine o ad ascoltare minuti su minuti di dialoghi sul prezzo per un appalto o per togliersi le mutande.
Che ci è successo? Da quando? Perché? Sarebbe una discussione interessante. Si potrebbe sprofondare in una storia secolare di servaggi, Francia o Spagna pur che se magna. O di una unità nazionale sotto una monarchia codina, tardiva e ben epurata di ogni fermento rivoluzionario - i giacobini napoletani decapitati o appesi nel giubilo dei lazzari e sanfedisti, la repubblica romana repressa, e soltanto le tracce dell’ammodernamento giuridico di Napoleone al nord. Non sarà del tutto casuale che siamo stati noi a inventare il primo fascismo europeo. Ci deve essere qualcosa di guasto nella coscienza della penisola. Alcuni di noi pensano che soltanto la presenza di un partito comunista che non mollava sui diritti sociali ha costretto il paese alla democrazia, come un tessuto fragile ma fortemente intelaiato, che non si è lacerato finché i comunisti non si sono uccisi da soli.
Tutto da vedere, se se ne avesse voglia. Ma chi ne ha? Lo slogan nazionale è: fatti gli affari tuoi. Vota chi si fa i suoi. Non è una storia soltanto italiana, tutta l’Europa va a destra. Ma da noi si esagera. In Francia un vecchio ed elegante signore, Stephan Hessel, che non alza la voce ma non ha mai taciuto, ha scritto un opuscolo: Indignatevi! Ne sono sparite subito quasi un milione di copie. Una settimana fa voleva parlare della Palestina, glielo hanno impedito. E lui e i suoi lettori si sono trovati fuori, in migliaia, di notte, con un freddo polare, nella piazza del Pantheon, a gridare: Basta! Perché noi no? Si sta meglio con la testa alta, invece che fra le spalle e gli occhi a terra. Non so se lo farà Vendola. Non credo che lo farà Bersani. Ma chiudiamo con il cinismo del chi se ne frega. Indigniamoci !
L’ITALIA: UNA REPUBBLICA CON "DUE PRESIDENTI DELLA REPUBBLICA: L’ISTITUZIONALIZZAZIONE della "LOGICA" del MENTITORE E IL PARADOSSO DEL SULTANO ...
NADIA URBINATI NON RIESCE A CAPIRE COME E PERCHE’ SIAMO DIVENTATI
UN "BORDELLO STATE": UN PAESE BORDELLO. .
TENUTO FUORI CAMPO IL PROBLEMA ISTITUZIONALE DEL "MENTITORE", RESTA TOTALMENTE ALL’OMBRA E IN BALIA DELLA "COSCIENZA" E DEL POTERE DEL "SULTANO"!.
L’ITALIA NELLO STALLO, IL "GOLPE MORALE", E IL PRESIDENTE DELLA REPUBBLICA
di Nadia Urbinati (la Repubblica, 13.02.2011)
"Chiediamo insieme le dimissioni di Berlusconi". Con questo slogan le donne rompono il silenzio. E lo fanno in massa a Milano come a New York. Invitano gli uomini a schierarsi con loro, perché tutte e tutti sono stanchi dei continui attacchi alla Costituzione, alla giustizia, alla libera informazione e alla dignità delle donne e degli uomini. Stanchi degli abusi, dell’illegalità, del servilismo che contraddistinguono questa maggioranza. Soprattutto, le donne che manifestano dissipano ogni dubbio sull’insidiosa distinzione tra "donne reprobe" e "donne serie" che è stata da più parti ripetuta in queste settimane di protesta contro gli abusi contestati al premier. Questa distinzione è sbagliata. È il segno di una reale impotenza della cultura dell’opposizione etico-politica al regime del sultanato. È figlia dei paradossi che hanno segnato il successo egemonico di Berlusconi, costruito a partire dagli anni ’70 su un’interpretazione estrema, ma non opposta, della cultura individualista nell’età dei diritti. Mettere in moto una contestazione politica efficace quando l’oggetto è l’uso dei diritti è difficile ed insidioso. Su questa difficoltà e su questa insidia riposa tanto il successo di Berlusconi quanto la debolezza dell’opposizione. Vediamo di mettere in luce due di questi paradossi, quello legato alla morale trasgressiva e quello legato alla libertà.
Per tradizione, la cultura dell’opposizione di sinistra è stata cultura della trasgressione. Lo è stata per necessità, poiché la lotta per i diritti demolisce i sistemi gerarchici di potere. Lo è stata per il carattere peculiare della libertà, che alimenta il pensiero critico rispetto all’opinione dominante sui costumi e sui valori. In questo senso la cultura d’opposizione è stata ed è trasgressiva. In aggiunta, vi è l’aspetto generazionale poiché i movimenti per i diritti civili sono anche portatori di svecchiamento culturale e politico. E poi, questi movimenti si traducono in richiesta di eguaglianza di rispetto e quindi riscrivono i ruoli famigliari e sociali: giovani e donne sono stati e sono alleati naturali nelle lotte per la libertà. Negli anni del dopoguerra alla cultura morale dell’anti-autoritarismo è corrisposto un modello di vita libero e trasgressivo: le relazioni sentimentali e sessuali nel mondo variegato della sinistra, istituzionale o di movimento, erano tutto fuorchè tradizionali. La libertá sessuale non è stata soltanto una conseguenza possibile di diritti conclamati, ma prima ancora un modo di vivere l’intimitá con l’altro e con la sessualitá. Insomma, la cultura di chi ha lottato per i diritti civili è stata una cultura della trasgressione e dell’opposizione insieme.
Il paradosso dell’Italia di oggi è che il premier occupa lo spazio della trasgressione, costringendo l’opposizione nel ruolo impossibile del conservatorismo. Ecco perché la distinzione tra donne brave e donne reprobe è segno di un atteggiamento che incarta e sconvolge la nostra cultura liberale e democratica. Si tratta di una distinzione che non dovremmo fare, non soltanto per non cadere nella trappola tesa dal premier. C’è una ragione ulteriore: difendere i diritti, volere i diritti significa necessariamente credere che ciascuno sia autonomo e responsabile delle proprie scelte, piacevoli o spiacevoli che siano, e che di quelle scelte non debba rendere conto a nessuno, se non alla legge se e quando viola i diritti altrui (qui sta la vera ragione della critica ai comportamenti del premier). Ora, che una persona risponda o no alla propria coscienza è un fatto che alla cultura dei diritti non interessa direttamente, anche se i liberali si augurano che ciascuno sia in grado di avere una coscienza individuale che faccia da sentinella (e magari impostano la vita famigliare ed educativa perché questa coscienza venga formata). Dopo di che, come ciascuno o ciascuna di noi usa quei diritti di libertá sono fatti che non riguardano nessuno. E se l’opinione pubblica critica i nostri comportamenti e le nostre abitudini sessuali, noi siamo legittimati a reagire con una contro-opinione.
Ma la distinzione tra donne reprobe e donne brave scompagina proprio questa cultura dei diritti poiché sembra dire che le donne devono essere rispettate nella misura in cui esse usano "bene" i loro diritti. Ovviamente, questo discorso non riguarda le minori: poiché la responsabilità giuridica è una componente essenziale del godimento dei diritti ed è legata all’età adulta stabilita dalla legge. Ma nel caso di persone adulte, di donne adulte, l’uso che esse fanno della loro vita non è un fatto che può diventare oggetto di critica da parte dell’opinione pubblica e politica. La cultura dei diritti non ha nulla a che fare con la gogna nè con la distinzione tra donne brave e donne reprobe.
I paradossi che questo presidente del Consiglio provoca sono quindi dei più spinosi, perché la sua mania (che è un problema serissimo, non perché disturba la morale ordinaria, ma per l’alta funzione che egli esercita) è il frutto estremo del rovesciamento del giudizio pubblico in giudizio privato. Il paradosso è che il trasgressivismo malato di chi ci governa induce i critici a flirtare con la tentazione di discriminare le donne in ragione dei loro comportamenti. Le centinaia di giovani donne che hanno preso regali e soldi dal presidente non sono il bersaglio: non si devono mettere alcune donne contro altre, anche perché è proprio questo l’esito studiato della politica del leader.
È certo difficile che si crei empatia tra le donne che lavorano e le donne che mettono il loro corpo a servizio; ma la sorgente della difficoltà va individuata con correttezza. La nostra attenzione critica dovrebbe essere rivolta non alle donne per la loro condotta, ma alle politiche dei governi che la destra ha in questi anni messo in moto con l’obiettivo esplicito di indebolire i diritti associati al lavoro e di dissociare infine il lavoro dalla dignità per identificarlo con un pugno di soldi a qualunque costo o addirittura con il dono (e questo non vale solo per le donne che vanno ad Arcore come la vicenda Fiat insegna). Questa dequalificazione estrema del valore delle persone deve offendere e fare reagire. Essa è il vero problema, in quanto abbassa le aspettative delle donne e degli uomini e, quel che è peggio, confonde il giudizio sulle responsabilità e le colpe. L’obiettivo critico non sono le donne giovani e belle che frequentano le case del premier. L’obietto è il premier, la sua illegalità e le politiche sociali del suo governo. L’obiettivo è il messaggio che trasmette da decenni ogni giorno. A tutto questo bisogna reagire, insieme, e dire basta.