[...] "Il rafforzamento dei valori e delle istituzioni democratiche in Italia e in Europa è stato l’impegno di una vita - ha ricordato il capo dello Stato -, avendo io speso 43 anni come membro del Parlamento italiano, per dieci legislature, e come membro del Parlamento europeo, in due legislature". Una responsabilità "che ancora mi spetta esercitare e a cui non mi sottraggo - ha aggiunto Napolitano - operando e pensando per l’ulteriore marcia della democrazia" [...]
ISRAELE
A Napolitano il premio "Dan David"
"Mi compete la cura della democrazia"
Il capo dello Stato insignito dell’onorificenza all’Università di Tel Aviv, presente Shimon Peres. "La democrazia non può considerarsi compiuta e vitale una volta per tutte, neppure in Italia. Richiede cure, verifiche critiche, riforme. Responsabilità a cui non mi sottraggo" *
TEL AVIV - "Mi compete di certo la responsabilità di operare come presidente della Repubblica per il consolidamento della democrazia in Italia, rinata grazie alla lotta contro il fascismo e alla Resistenza". Lo ha detto Giorgio Napolitano ricevendo questa sera all’università di Tel Aviv il Premio internazionale "Dan David". "E’ per me di grande significato che sia una istituzione israeliana a riconoscere e premiare il mio impegno".
Presente alla cerimonia il presidente israeliano Shimon Peres, che ha lodato "l’autorità morale di Napolitano che non può essere scalfita". Il premio Dan David, che prevede una borsa da un milione di dollari, è stato conferito a Napolitano in segno di riconoscimento per la sua storica iniziativa politica e parlamentare, all’interno del Partito comunista italiano, per il distacco del Pci dall’influenza di Mosca, l’accettazione dell’Alleanza Atlantica e l’avvicinamento alle posizioni europeiste, per il suo coraggio e la sua integrità intellettuale che hanno contribuito a guarire le ferite della Guerra Fredda in Europa. Nella motivazione si legge che "nel clima attuale un po’ caotico della politica italiana, egli si erge come un faro di ragionevolezza, moderazione, difesa dei valori democratici e di tolleranza, come una figura ammirata e rispettata dai membri di tutte le parti".
"La democrazia non può considerarsi compiuta e vitale una volta per tutte, neppure in Italia - ha dichiarato il presidente della Repubblica -, richiede attente cure, verifiche critiche, riforme se necessario. E comunque nuovi sviluppi in rapporto al mutare dei tempi e delle esigenze. E’ mio dovere adoperarmi perché in questo senso si esprima in Italia uno sforzo condiviso".
"Il rafforzamento dei valori e delle istituzioni democratiche in Italia e in Europa è stato l’impegno di una vita - ha ricordato il capo dello Stato -, avendo io speso 43 anni come membro del Parlamento italiano, per dieci legislature, e come membro del Parlamento europeo, in due legislature". Una responsabilità "che ancora mi spetta esercitare e a cui non mi sottraggo - ha aggiunto Napolitano - operando e pensando per l’ulteriore marcia della democrazia".
Napolitano ha quindi espresso "sincera emozione" e riconoscenza alla Fondazione che gli ha assegnato il premio con una motivazione così nobile. Il Capo dello Stato ha ricordato che nel 1977, in Germania, ad Hannover, gli fu assegnato il premio Leibniz Ring per il contributo dato con "l’opera di tutta una vita" all"integrazione dell’Italia nell’Umione Europea e del suo partito nella democrazia parlamentare". "Ma il premio Dan David - ha aggiunto Napolitano - ha ai miei occhi un valore speciale perché si richiama alla singolare esperienza e autorità di uno Stato nato e sviluppatosi come democrazia parlamentare nella difficile regione del Medio Oriente, così lontana dalle tradizioni politiche e statuali dell’Europa e dell’America del Nord".
Il presidente della Repubblica ha concluso riaffermando di essere un "convinto assertore dell’importanza dell’esistenza e della sicurezza dello Stato di Israele" e del fatto che il suo sistema di democrazia parlamentare sia un "punto di riferimento per l’intero Medio Oriente".
* la Repubblica, 15 maggio 2011
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Napolitano: "In Italia troppa partigianeria
E i leader politici non siano gelosi di me" *
ROMA - In Italia c’è un eccesso di partigianeria politica. Lo ha detto il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano nel suo incontro stamattina con i giornalisti della stampa estera.
All’incontro ha partecipato una rappresentanza di giornalisti di diverse testate internazionali e secondo quanto si è appreso il capo dello stato avrebbe fatto riferimento, come gli è capitato altre volte, a una partigianeria politica esasperata usando il termine inglese "hyperpartisanship".
"Penso che non ci sia per i politici italiani motivo di ingelosirsi, perchè viaggiamo su pianeti diversi, non ci sono comparazioni possibili, che non siano invece arbitrarie", ha aggiunto il capo dello Stato a proposito del suo ruolo. Spiegando poi che il compito del Colle è quello di "rappresentare l’unità nazionale" ed è "completamente diverso da quello dei leader politici".
* la Repubblica, 23 maggio 2011
«l’Orchestra fu fondata per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said»
Le note del «ciclone» Baremboim. Quando la musica lascia il segno
di Enrico Girardi (Corriere della Sera, 22.05.2011)
Ogni volta che Barenboim arriva in Italia, è come se un ciclone si abbattesse sulla nostra vita culturale. Questa settimana ha riunito di nuovo i ragazzi arabi, palestinesi e israeliani dell’Orchestra del Divano, li ha portati a suonare presso le massime istituzioni musicali del Paese (Scala e Santa Cecilia), ha provato con loro pezzi nuovi da eseguire a Vienna, ha registrato con loro la bellissima puntata di «Che tempo che fa» andata in onda ieri sera, ha ricevuto dal presidente Napolitano (che ha «girato» l’intero ammontare del premio Dan David, un milione di dollari, appena ricevuto in Israele) un significativo sostegno materiale per coinvolgere nell’esperienza del Divano altri musicisti giovanissimi, ha raccontato quale significato rivesta l’aver portato un gruppo di musicisti europei a suonare Mozart a Gaza. Ma cosa significa tutto questo fare, fare, fare? O si tratta di quella forma di horror vacui che atterrisce decine e decine di artisti che han bisogno di far parlare di sé tutti i giorni per non sentirsi finiti; oppure si tratta di una passione feroce che si alimenta di continuo.
E la risposta al quesito la danno non solo gli esiti artistici delle esecuzioni del Divano ma gli occhi, gli sguardi, le espressioni che abbiamo visto ieri sera sui volti dei ragazzi ospiti da Fazio. Volti aperti, belli, intelligenti, consapevoli che soddisfare un’attitudine alla musica e insieme recare al mondo un messaggio così forte di speranza, di condivisione, di solidarietà- sia pure nella diversità delle proprie opinioni politiche e religiose - è un privilegio impagabile.
Il Divano è stato fondato nel 1999 per un’intuizione comune dell’israeliano Barenboim e del palestinese Said. Ma è ormai chiaro a tutti che questi 12 anni di vita hanno trasformato l’iniziativa in qualcosa di molto più prezioso di quanto i fondatori osassero probabilmente sperare: un segno permanente di civiltà che non cambierà il mondo ma che ha già cambiato il cuore di quanti, a qualunque titolo, hanno avuto a che fare con questi ragazzi. Anche da semplici telespettatori.
La Mummia televisiva
di Norma Rangeri, (il manifesto, 21.05.2011)
Non più la libreria del leader giovane che seduce gli italiani con il sogno ceronato. Al suo posto un politico lento nel parlare, lo sguardo fisso, i capelli dipinti e il volto colorato come una mummia della nomenklatura sovietica. Dopo una settimana di silenzio, colpito dal flop delle preferenze nel forziere del suo elettorato, il premier si è presentato sulle reti televisive e radiofoniche (controllate o di proprietà) per un appello al voto di quattro minuti.
Il conflitto di interessi entra nelle case degli italiani seguendo gli orari delle edizioni di sei telegiornali. Pesante e asfissiante nella normalità dei palinsesti, si ripresenta con Berlusconi che parla come capo del governo e come candidato al comune di Milano, con il simbolo del Pdl formato gigante dietro le spalle e la didascalia che lo indica come presidente del consiglio. Una manifestazione di arroganza nel mezzo di una corsa elettorale che sta perdendo, una prova di forza di un leader dimezzato nel consenso e nella presa sulla maggioranza di governo.
Il presidente-candidato si appella ai moderati con l’estremismo del linguaggio leghista, visibile ostaggio degli umori dell’alleato, appeso agli interessi delle camicie verdi che hanno impostato la musica del secondo tempo della campagna elettorale coprendo i muri di Milano con lo slogan «la zingaropoli di Pisapia». Al quale lo spot di Berlusconi aggiunge una nota sul tema (l«Pisapia vuole baracca libera») nella finta intervista che inonda il piccolo schermo, accompagnata dalle faccette patetiche dei caporali dei telegiornali travestiti da giornalisti.
E’ un Berlusconi imbalsamato nella parodia del berlusconismo («con noi meno tasse per tutti, toglieremo anche l’ecopass a Milano») quello che chiama i milanesi e i napoletani al voto contro la sinistra. Tenta la rincorsa del centrodestra verso i ballottaggi evocando i fantasmi della sua realtà parallela, sventolando l’immagine di Milano trasformata nella «Stalingrado d’Italia», prigioniero di un mondo che non c’è più, impantanato in un’ideologia sempre meno capace di egemonia. Conosce la manipolazione demagogica e la proclamazione dell’emergenza, il vecchio armamentario che ricicla per rivolgersi a un elettorato che sarà moderato ma ha dimostrato di non essere così sprovveduto.
Berlusconi non ha scelto il comizio di piazza o la platea di qualche palazzetto, troppo pericoloso affrontare lo scontento delle città che gli hanno voltato le spalle. Meglio mettere la faccia nel territorio protetto del feudo mediatico, dove le telecamere si muovono sotto il suo controllo, e i telespettatori non hanno diritto di replica.
Missione Anp a Roma diventa ambasciata
Abu Mazen: grazie Napolitano
Dopo i colloqui di domenica con Peres e Netanyahu, Giorgio Napolitano si è recato ieri nei Territori per incontrare Abu Mazen. Il rappresentante dell’Anp a Roma viene elevato al rango di ambasciatore.
di Marcella Ciarnelli (l’Unità, 17.05.2011)
L’Autorità nazionale palestinese avrà il suo formale ambasciatore in Italia. Lo ha annunciato il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, al termine del colloquio con Abu Mazen a Betlemme, tappa importante della visita di due giorni in Israele e nei territori. «A nome del governo annuncio l’elevazione della delegazione al rango di missione diplomatica, e al rango di ambasciatore il rappresentante diplomatico palestinese» a Roma che sarà accreditato al Quirinale. «È un altro regalo che ci fa l’Italia»,ha sottolineato Abu Mazen.
Il presidente italiano aveva iniziato la sua visita accolto con gli onori militari nel cortile dell’edificio della sede distaccata a Betlemme dell’Anp. Picchetto d’onore con Abu Mazen. Poi una banda ha suonato gli inni nazionali, seguiti dalla marcia trionfale dell’Aida. È cominciato così l’incontro che era stato preceduto domenica da quello, con il presidente d’Israele, Shimon Peres, e poi da quello con il premier Netanyahu.
Napolitano al termine del colloquio ha voluto ribadire che bisogna operare subito, «adesso, a maggio, a giugno, a luglio» per affidare la nascita dello Stato palestinese ad «un rilancio della prospettiva negoziale», invece di «aspettare ciò che accadrà a settembre» alludendo chiaramente alla preannunciata intenzione del presidente dell’Anp di proclamare appunto in settembre, in mancanza di alternative, la nascita dello Stato palestinese presso l’Onu. La strada maestra, per Napolitano, resta quella di «riaccendere un clima di dialogo fra le parti» in modo da far in modo che sia più di una speranza la soluzione del conflitto israelo-palestinese.
GENEROSITÀ E LUNGIMIRANZA
L’Italia sosterrà la ricerca del dialogo chiamando l’Unione europea che condivide la responsabilità della pace in Medio Oriente a non sottrarsi all’impegno ma, al contrario, a dimostrare la massima «generosità e lungimiranza» secondo la formula «due popoli, due Stati» che presuppone la reciproca accettazione e la coesistenza pacifica. Una formula che entrambe le parti hanno accettato ed ora «si tratta di farne discendere accordi che permettano la concreta realizzazione» di un progetto che sembra allontanarsi davanti agli scontri sanguinosi che ci sono stati, soprattutto ai confini di Israele con Libano e Siria, nel giorno della «catastrofe».
Ma per Abu Mazen, che ha usato un tono molto netto nel dirlo, «l’Anp è disposta a tornare al tavolo del negoziato con Israele solo di fronte a uno stop alle colonie nei Territori occupati». Le assicurazioni dell’esponente palestinese che la riconciliazione fra Fatah e Hamas, e la nascita del nuovo governo «tecnico» non toglieranno all’Anp e allo stesso Abu Mazen la titolarità esclusiva di condurre il negoziato con Israele rispettando i principi fissati dal Quartetto formato da Onu, Russia, Usa ed Ue, da Napolitano sono state accolte positivamente.
La visita in Israele si è svolta mentre in Italia era in corso l’importante consultazione elettorale. Mentre iniziava lo spoglio Napolitano era al Tempio italiano. Nessun accenno, ovviamente. Men che mai un commento. Ma ben forte l’invito che «cerco di esprimere, in Italia e fuori dall’Italia di valorizzare quello che unisce gli italiani al di là delle dispute politiche e ideologiche pur legittime, ma che spesso vanno oltre il segno e il limite compatibile con un minimo di coesione e di unità nazionale, necessarie per affrontare le sfide che ci attendono».
MEDIO RIENTE
Napolitano, concessione ai palestinesi
"In Italia avrete un ambasciatore"
GERUSALEMME - Il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha annunciato la decisione del governo italiano di elevare il rango del rappresentante diplomatico dell’Autorità nazionale palestinese in Italia riconoscendogli il titolo di ambasciatore. L’annuncio a Betlemme dopo un colloquio con il presidente palestinese Abu Mazen che ha commentato: "è un altro regalo che ci fa l’Italia".
*la Repubblica, 16.05.2011
Michele Ciliberto ha scritto un libro prezioso per interpretare la politica degli ultimi vent’anni
Dispotismi. Berlusconi e il sonno della politica
di Luca Landò (l’Unità, 15.05.2011)
Berlusconi siamo noi. Certo, spiegarlo agli operai in cassa integrazione o ai loro figli senza lavoro, sarà difficile. Ma se vogliamo capire perché l’Italia ruoti da sedici anni intorno a un imprenditore “sceso” in politica per difendere i propri interessi un signore anziché quelli del Paese, sarà bene guardarsi allo specchio. E porsi qualche domanda. Per quale motivo gli italiani hanno firmato un assegno in bianco a un signore indagato per corruzione, frode fiscale, falso in bilancio e adesso imputato con l’accusa di concussione e favoreggiamento di prostituzione minorile. Tutto merito del grande comunicatore, come viene definito con involontario umorismo il padrone delle tv private e controllore di quelle pubbliche? O non c’è piuttosto un concorso di colpa, una manina inconscia con la quale tutti noi abbiamo aiutato la resistibile ascesa del Cavaliere? Insomma, genio lui che ci ha fatti fessi, o fessi noi che lo abbiamo lasciato fare?
È la domanda che ha spinto Michele Ciliberto, noto studioso del Rinascimento ad occuparsi di una questione che di rinascimentale ha ben poco. Il fatto è che Ciliberto, oltre che docente di storia della Filosofia alla Normale di Pisa, è uno di quei (pochi) intellettuali impegnati sopravvissuti alla grande estinzione, un dinosauro d’altri tempi, convinto che lo studio e la riflessione siano un cardine portante su cui far poggiare e ruotare l’intera azione politica.
Il risultato è un libro prezioso dal titolo volutamente contradditorio, La democrazia dispotica (Laterza, 202 pagg, 18 euro), che riprende un concetto espresso due secoli fa da Alexis de Tocqueville nella molto citata (ma poco studiata) Democrazia in America. Da buon normalista, Ciliberto parte dai classici dell’ottocento e del novecento: Marx, Weber, Toqueville appunto, ma anche Gramsci e Thomas Mann. Non per guardare l’oggi con gli occhiali di ieri (esercizio pericoloso quanto inutile) ma per capire i dubbi che spinsero quei geniali signori a interrogarsi sulle nuove forme di convivenza democratica.
Perché in democrazia, prima o poi, arriva inesorabile una scelta: diventare tutti eguali e tutti schiavi, oppure tutti eguali e tutti liberi? Certo, la schiavitù democratica è morbida e gentile, è psicologica anziché fisica. E soprattutto è volontaria. A finire in catene non è il corpo ma il libero arbitrio. Lo spiega bene Tocqueville in uno dei passaggi più urticanti, perché ci spinge sull’orlo del burrone, a due passi dal tabù: «Vedo una folla di uomini che non fanno che ruotare su loro stessi... Al di sopra si erge un potere immenso e tutelare, che si occupa da solo di assicurare il godimento dei loro beni e di vegliare sulla loro sorte. È assoluto, minuzioso, sistematico, previdente e mite. È così che giorno per giorno rende sempre più raro l’uso del libero arbitrio».
Non basta dunque parlare genericamente di democrazia. Sempre meglio specificarne il tipo, la marca. E quella che stiamo vivendo è una democrazia asimmetrica, a immagine e somiglianza, non del popolo che vota e sceglie, ma del capo scelto e votato. Un uomo solo al comando, ma col voto entusiasta degli elettori. E qui si cela il paradosso di questa democrazia di forma ma non di fatto: il sostegno della popolazione a un leader che non fa gli interessi della nazione ma quelli più personali e fin troppo privati. Un masochismo democratico che, secondo Ciliberto, sarebbe però sbagliato ricondurre a nuove forme di fascismo o di rinnovato peronismo: quella che si realizza con Berlusconi, infatti, è una malattia della democrazia moderna e, come tale, potrebbe ripresentarsi in altre forme e in altri Paesi. Spiace dirlo, ma l’Italia è in questo caso un laboratorio di alto valore internazionale. Perché comprendere quel che avviene da noi diventa di fondamentale importanza per qualunque sistema democratico.
Le cause sono tante. Ma il brodo di coltura, come direbbero i patologi, è legato al crollo dei grandi partiti di massa del Novecento, quelli per i quali, a destra come a sinistra, l’individuo era una goccia nel mare della storia, un organismo il cui senso esistenziale si completava solo contribuendo allo sviluppo di un progetto collettivo e inarrestabile. I movimenti del ’68 prima, il crollo dei muri dopo, hanno eroso questa visione della politica e del mondo, lasciando il campo a una interpretazione più individuale e libera della vita. È il personale che diventa politico, certo, ma anche un nuovo individualismo che cresce a dismisura.
Una trasformazione antropologica, come la chiama Ciliberto, che gli eredi dei grandi partiti di massa non sono stati in grado di anticipare e tanto meno affrontare. Non lo ha fatto la Democrazia Cristiana, travolta dal crollo di un sistema politico ormai logoro e contraddittorio. Ma non lo ha fatto nemmeno la sinistra, il Pci e le sue evoluzioni, legata a una visione di politica e di impegno che guardava più al Novecento che al nuovo millennio.
È in questo deserto della politica che Berlusconi si presenta come il salvatore, l’unico capace di attraversare il Mar Rosso e portare il popolo abbandonato dai vecchi partiti verso nuove sponde e un nuovo futuro. È lui il cantore di questo incontenibile individualismo e non è un caso che a intonare la musica non sia un politico di professione. In questo senso, ed è qui uno dei punti più interessanti del libro, Berlusconi non rappresenta l’antipolitica, ma la post-politica. Perché il Cavaliere la politica non la uccide, la usa.
Soffiando sul fuoco dell’individualismo e del “tutti padroni a casa propria”, Berlusconi smonta con il consenso popolare le istituzioni su cui poggia quel bene collettivo chiamato Stato. Attacca il Quirinale, ignora il Parlamento, sbeffeggia i simboli dell’antifascismo, minaccia i giudici e adotta un linguaggio irrituale condito da battute e privo di ogni bon ton istituzionale. Una demolizione del passato presentata agli elettori-telespettatori come il nuovo che avanza.
È con questo show insistente e permanente che Berlusconi costruisce il suo carisma di leader, di politico innovativo solo perché diverso. Non importano più i contenuti ma le parole, non più i risultati (peraltro negativi, anzi disastrosi) ma le promesse.
È da qui, da questo leader carismatico che nasce la nuova democrazia dispotica, una sorta di dittatura morbida in cui il popolo sovrano rinuncia alle proprie richieste, abdica al libero arbitrio e anziché difendere i propri interessi, sceglie con entusiasmo quelli del proprio capo.
Esiste un modo per uscire da questo infernale tunnel? Una terapia per ridare vigore e ossigeno a una democrazia sempre più pallida? La risposta di Ciliberto è una sola: il risveglio dell’impegno e della passione politica. Il motivo è evidente: se il sonno della ragione genera mostri, il sonno della politica genera Berlusconi. Solo una politica rinnovata, anzi risvegliata, sarà dunque capace di contrastare simili fenomeni e tali derive. Ma il punto è proprio questo: chi è in grado, oggi, di risvegliare la Bella Addormentata? Non certo un Principe Azzurro, se così fosse ricadremmo nella patologia appena descritta, con un nuovo leader carismatico, fosse anche di sinistra, al posto di Berlusconi. No, il risveglio della politica è il risveglio dei cittadini. Ed è su questo che un partito deve lavorare. Non tanto o non solo per battere Berlusconi. Ma per curare la democrazia.
Il punto, avverte, Ciliberto, è nel guardare in faccia il problema senza cercare scorciatoie. Le primarie, tanto per esser chiari, non saranno mai la soluzione se alle loro spalle non cresce prima un partito con la voglia e la forza di tornare ad ascoltare e discutere, di essere centrale (nei palazzi) ma anche capillare nelle città, nei quartieri, nelle fabbriche. Perché l’obiettivo non è cavalcare la piazza, ma trasformare la piazza in politica, l’agora in polis. Ridare ai cittadini il senso che per cambiare le cose non bastano le promesse di uno: ci vuole l’impegno di tutti.
PS
C’è un aspetto che Ciliberto non tocca e che i fatti del nord Africa impongono invece con irruenza. È il ruolo di Internet come strumento di controinformazione ma anche luogo di discussione politica. Una sorta di gigantesca sezione virtuale in cui riprendere a discutere e partecipare come si faceva un tempo nelle fumose sezioni di partito. In fondo non è un caso se l’unico Paese in Europa a non essersi ancora dotato di un programma di sviluppo digitale sia proprio il nostro. Nella società addormentata dalla tv e da Berlusconi, il web potrebbe diventare un pericoloso strumento. Chissà che il risveglio della politica non passi proprio dalla Rete. Dall’altra parte del Mediterraneo è già accaduto.
L’AMACA
di Michele Serra (la Repubblica, 15 maggio 2011, p. 30)
“Se i figli delle vittime difendono i carnefici: Tobagi Alessandrini e Rossa stanno con Pisapia amico dei terroristi che uccisero i loro genitori”.
Vi prego di annotarvi questo titolo (prima pagina del “Giornale” di ieri) che è riuscito, dopo una vita che leggo i giornali, a farmi venire le lacrime agli occhi dal dolore. Avrei preferito scrivere: dall’ira, o dal disgusto. Ma era proprio dolore, dolore per la morte profanata, per gli affetti sconciati, per la verità brutalizzata, per quei tre padri e quei tre figli.
Tre padri di sinistra (il socialista Tobagi, il comunista Rossa, il magistrato progressista Alessandrini) ammazzati dal terrorismo rosso che odiava la sinistra democratica quasi quanto la odiano, oggi, quelli del “Giornale”. Tre figli rimasti di sinistra anche in memoria di quella lotta per difendere lo Stato e la democrazia, anche per onorare i loro padri. Che oggi si sentono rinfacciare di “difendere i carnefici dei loro genitori” - non so se riuscite a cogliere la leggerezza dell’accusa, ad apprezzare lo stile raffinato - perché votano a sinistra e non a destra, come farà mezza Milano, mezza Milano dunque “amica dei terroristi”. Perché comunisti, sinistra, terroristi, brigatisti, per questi avvelenatori della memoria, della storia, della politica, del giornalismo, sono la stessa cosa, lo stesso infame branco da spazzare via, come ripete del resto da vent’anni il loro capo.
Mi chiedo quanto irrisarcibile, incolmabile odio possa partorire un titolo così.
Una Tac desolante sulla scuola italiana
di Mario Pirani (la Repubblica, 16.05.2011)
Ogniqualvolta m’imbatto in qualche analisi seria sullo stato della nostra scuola, un senso di desolazione mi pervade e non mi consola unirmi al coro anti-Gelmini, non perché anche quest’ultima non abbia commesso i suoi errori, ma in quanto i colpi maggiori al nostro ordinamento vengono dai tagli massicci del bilancio, imposti da Tremonti per fronteggiare deficit e debito pubblici, un obbligo cui non si poteva deflettere, ma che si sarebbe dovuto suddividere su altre voci (di spesa e di entrata) così da salvaguardare l’istruzione e l’avvenire delle nuove generazioni, come è avvenuto negli altri Paesi europei che dimostrano ben altra sensibilità di fronte a questo snodo centrale del loro futuro. Del resto, i tagli sono cominciati nel 2004, col secondo governo Berlusconi, sono proseguiti anche in seguito e si sono ancor più accentuati negli ultimi anni.
Lo prova ad abbondanza il dossier "Un’indagine sugli insegnanti italiani" presentato dal Cidi (Centro d’iniziativa democratica degli insegnanti, e-mail: insegnarecidi.it) che si potrebbe paragonare, per l’accuratezza della documentazione e dei dati, a una Tac sullo stato di salute (o meglio di malattia) di quella che un tempo orgogliosamente si chiamava Pubblica istruzione.
Se a qualcuno sta ancora a cuore il tema se lo procuri con la modica spesa di 9 euro. Potrà riflettere, per citare qualche dato, sul fatto che gli insegnanti italiani sono i più vecchi e i peggio pagati d’Europa, con una età media superiore ai cinquant’anni e un’assunzione che risale almeno a vent’anni orsono. La mancanza di concorsi, la diminuzione di nuovi posti, il taglio di ore che proseguirà fino al 2015, l’andata in pensione senza rimpiazzo si tradurranno in un’ulteriore riduzione di organico anche senza licenziamenti. Nel contempo si cristallizzerà una condizione di precariato di lungo periodo, spesso sopra i 40 e talvolta i 50 anni di età, con un ulteriore invecchiamento del personale.
Ma quel che ha depauperato socialmente oltre che economicamente gli insegnanti, avvilendone sempre più il ruolo, è il progressivo calo delle retribuzioni reali, senza recupero del fiscal-drag e dell’inflazione accertata, accentuato dall’ultima Finanziaria che impone il blocco della contrattazione e degli scatti di anzianità fino al 2013, con ricadute sulle pensioni e sul trattamento di fine lavoro.
A seconda dell’anzianità e del livello scolastico un insegnante guadagna al netto delle ritenute tra 1200 euro a inizio carriera a 2000 al suo termine. Non tenendo conto di questi ultimi aggravi, le statistiche Ocse al 2010 vedevano, a parità di potere d’acquisto, a fine carriera un insegnante italiano delle elementari a 38.000 dollari l’anno contro una media internazionale di 48.000, un docente della secondaria di I grado a 42.000 contro 51.000, un docente della secondaria superiore a 44.000 contro 55.000. Vi è inoltre da considerare che il massimo del livello viene raggiunto da noi dopo i 35 anni di servizio, contro i 25 della media Ocse.
L’indagine del Cidi si sofferma a lungo su considerazioni che non possiamo neppure riassumere concernenti gli effetti negativi del declassamento economico sulla percezione sociale degli insegnanti come figure di riferimento e dello stesso studio concepito come un valore controcorrente se non inutile. Ne deriva un quadro deprimente della marginalità culturale del nostro Paese, in coda per numero di laureati in proporzione alle leve demografiche, per titolo di studio (meno della metà della popolazione ha un titolo secondario superiore contro l’85% della Germania), per spesa pubblica per l’istruzione (il 4,5% contro il 5,7% della media Ocse). Abbiamo elencato solo alcuni dati di un dossier che se vigesse un codice per punire i delitti sociali potrebbe costituire l’atto di incriminazione di una intera classe politica.