ALLA LUCE del nostro tempestoso presente storico (e della "barbarie ritornata"), non è male (mia opinione e mio invito) rileggere il ricco e complesso lavoro sociologico-politico (altro che "romanzo"!) di Carlo Levi, “Cristo si è fermato ad Eboli”, e soffermarsi - in particolare - sul passaggio relativo alla “Ditta Renzi - Torino”, alle tasse, e alle capre (pp. 40-42, Einaudi, Torino 2010 - in rete):
Il ’passaggio’ offre un ‘cortocircuito’ tra la "Ditta Renzi" di ieri (1935-1936) e la "Ditta Renzi" di oggi (1994-2014), una sintesi eccezionale della "cecità" di lunga durata delle classi "dirigenti" del nostro Paese, e ricorda a tutti e a tutte come e quanto, ieri come oggi, ” (...) quello che noi chiamiamo questione meridionale non è altro che il problema dello Stato (...) (p. 220, cit.). E non solo: "È significativo che l’espressione di Tertulliano: "Il cristiano è un altro Cristo", sia diventata: "Il prete è un altro Cristo"" (Albert Rouet, arcivescovo di Poitiers, 2010)!
Il discorso è di lunga durata e investe le strutture stesse dellla cultura europea e planetaria: nel Cristo si è fermato a Eboli, c’è "la scoperta prima di un mondo nascente e delle sue dimensioni, e del rapporto di amore che solo rende possibile la conoscenza" (C. Levi, Le parole sono pietre. Tre giornate in Sicilia, "Introduzione" [1955], Einaudi, Torino 1978).
A mio parere, il lavoro (non solo questo! Si veda almeno anche "Paura della libertà", scritto in Francia nel 1939 - dopo il confino in Basilicata - e pubblicato nel 1946, dopo la scrittura nel 1942-1943 e la pubblicazione nel 1945 del suo capolavoro) di Carlo Levi, è ancora tutto da leggere e da rimeditare - assolutamente; è nell’ottica di una visione inaudita e inedita della storia, per molti versi (per intendersi e orientarsi) vicina a Giambattista Vico* e a Walter Benjamin*.
Al di là dei vari storicismi idealistici o materialistici, con grande consapevolezza filosofica e teologico-politica, in un passaggio sul nodo della civiltà contadina e delle sue guerre ("le sue guerre nazionali") e della storia "di quello che non si svolge nel tempo: la sola storia di quello che è eterno e immutabile, una mitologia", così scrive, contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli (come di Torino):
"La prima di esse [delle guerre nazionali] è quella di Enea. Una storia mitologica deve avere delle fonti mitologiche; e in questo senso, Virgilio è un grande storico. I conquistatori fenici, che venivano da Troia, portavano con sé tutti i valori opposti a quelli della antica civiltà contadina. Portavano la religione e lo Stato, la religione dello Stato. (...) Poi venne Roma, e perfezionò la teocrazia statale e militare dei suoi fondatori troiani, che, vincitori, avevano però dovuto accogliere la lingua e il costume dei vinti. E Roma si urtò anch’essa nella difesa contadina, e la lunga serie delle guerre italiche fu il più duro ostacolo al suo cammino"; e, ancora, fino ad illuminare il suo presente storico, scrive con lucidità e spirito critico: "(...) La quarta guerra nazionale dei contadini è il brigantaggio. Anche qui, l’umile Italia storicamente aveva torto, e doveva perdere. Non aveva armi forgiate da Vulcano, né cannoni, come l’altra Italia. E non aveva dèi: che cosa poteva fare una povera Madonna dal viso nero contro lo Stato Etico degli hegeliani di Napoli" (C. Levi, Cristo..., cit., pp. 123-125).
Detto diversamente, egli ha ben compreso - come scrive all’editore Einaudi nel 1963 - non solo "la Lucania che è in ciascuno di noi", ma anche "tutte le Lucanie di ogni angolo della terra". Nato a Torino (29 novembre 1902) e morto a Roma (4 gennaio 1975), ora riposa nel cimitero di Aliano, nella sua Terra. A suo onore e memoria, possono valere (in un senso molto prossimo) le stesse parole del "Finnegans Wake" di Joyce, riferite a Giambattista Vico (che pure aveva vissuto molti anni, a Vatolla, ai margini della grande foresta lucana, dell’"ingens sylva"): "Prima che vi fosse un uomo in Irlanda, c’era un lord in Lucania".
Come Vico e con Vico, Carlo Levi aveva capito da dove ripartire, per affrontare da esseri umani la "Paura della libertà" (cfr. Carlo Levi, Scritti politici, cit., pp. 132-209). Una lettura meditata e criticamente assimilata della vichiana "Scienza Nuova" (a partire da quella del 1725, "che tutta incominciammo - come scrive lo stesso Vico - da quel motto: A Iove principium musae, ed ora la chiudiamo con l’altra parte: Iovis omnia plena") è alla base di questo suo primo lavoro (ripetiamo: scritto dopo il confino a Grassano e ad Aliano, e prima della scrittura - cinque anni dopo - di "Cristo si è fermato ad Eboli").
Il suo omaggio a Vico non si riduce e non è riducibile solo alle allusioni già evidenti nei titoli dei capitoli (Ab Jove principium, Sacrificio, Amor sacro e profano, Schiavitù, Le muse, Sangue, Massa, Storia sacra):
Come vincere la paura della libertà, come convivere con la ingens sylva? L’incredibile è che, nel 1939, quando "un vento di morte e di oscura religione sconvolgeva gli antichi stati d’Europa" e "la bandiera tedesca fu alzata sulla torre Eiffel", Giambattista Vico è a fianco di Carlo Levi, come nel 1944, nel Lager di Wietzendorf, è a fianco di Enzo Paci - e ha aiutato entrambi a non perdere la strada e a riprendere il cammino della giustizia e della libertà.
Nel gennaio 1946, nella "Prefazione alla prima edizione" di Paura della libertà, Carlo Levi così parla (cfr. Scritti politici, cit ., pp. 218-219) della sua "confessione" (definita poi "breve poema", nel 1964, e "poema filosofico" nel 1971): "Quello che avevo scritto era all’incirca la parte introduttiva dell’opera progettata, la prefazione: ma tutti gli svolgimenti particolari che avevo avuto in animo di fare vi erano impliciti (...) mi parve che il libro contenesse già tutto quello che intendevo dire, e che non occorresse più squadernarlo esplicitamente. C’era una teoria del nazismo, anche se il nazismo non è una sola volta chiamato per nome; c’era una teoria dello Stato e della libertà; c’era una estetica, una teoria della religione e del peccato, ecc. Il libro rimase qual era, senza seguito. Lo portai con me nel ’41, di nascosto in Italia; e molti amici mi consigliarono di stamparlo subito (...) non ho cambiato neppure una parola della stesura primitiva (...) mi è parso che convenisse lasciare a questo piccolo libro (Così diverso dal mio Cristo si è fermato a Eboli, scritto cinque anni dopo) il suo tempo, che è forse il suo valore di espressione".
Federico La Sala (07.09.2014)
*
SUL CONCETTO DI PRESENTE STORICO. Note per le "Tesi di filosofia della storia" di Walter Benjamin
IL PROFESSOR MAGALONE E... IL MASCELLA «MUSCOLONE». «Gagliano, come l’Italia, era in quel tempo in mano ai maestri di scuola»:
«Il podestà mi riconosce e mi chiama. Un giovanotto alto, grosso e grasso, con un ciuffo di capelli neri e unti che gli piovono in disordine sulla fronte, un viso giallo e imberbe da luna piena, e degli occhietti neri e maligni, pieni di falsità e di soddisfazione. Porta gli stivaloni, un paio di brache a quadretti da cavallerizzo, una giacchetta corta, e giocherella con un frustino. È il professor Magalone Luigi: ma non è professore. È il Maestro delle scuole elementari di Gagliano, ma il suo compito principale è quello di sorvegliare i confinati del paese. In quest’opera egli pone (avrò poi modo di constatarlo) tutta la sua attività e zelo. [...] e il professore mi dà subito notizie sul paese, e sul modo con cui mi conviene comportarmi [...]»(Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, Torino, 1945).
FLS
ANTROPOLOGIA (KANT), COSMOTEANDRIA, E "PREISTORIA" (#MARX): IL "NODO GORDIANO" DELLA STORIA D’EUROPA.
"RIFLESSIONI SISTEMICHE" (AIEMS - Associazione Italiana di Epistemologia e Metodologia Sistemiche). Una nota a margine della ripresa lodevolissima di una sollecitazione batesoniana a ripensare criticamente il "patrimonio" (del "matrimonio" ) della "caduta" biblica e della "cronica" tradizione "olimpica".
"La testura del sistema. La relazione nel pensiero di Gregory Bateson"(cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024):
"[...] Nel 1970 Bateson propone una idea forte, la ’flessibilità’. [...]
Anche una cultura è un sistema adattativo, se una società sopravvive diciamo che la sua cultura è adattativa. Ma può darsi invece che la società vada verso l’autodistruzione. [...] Questo ci dovrebbe dar da pensare, suggerire di concentrarci non sul problema degli adattamenti immediati, ma sui cambiamenti a lunga scadenza.
Chiederci se questo adattamento è davvero tale che lo possiamo sopportare.
[...].
È adattativo abituarsi a sciogliere il nodo gordiano con la violenza del taglio?
Scrive Nora #Bateson:
Il mito è arrivato fino a noi, portato dalla sabbia del tempo, con il culto della Madonna che scioglie i nodi.
(statua della Madonna che scioglie i nodi nella basilica dei Santi Vitale, Valeria, Gervasio e Protasio al Quirinale) [...]" (cfr. Lucilla Ruffilli e Giulia Testi, "Riflessioni Sistemiche", N° 30 - "Relazioni e cura", giugno 2024).
A ROMA
Calabria, addio a Lombardi Satriani. L’antropologo dei "senza voce"
di Vincenzo Bonaventura (Gazzetta del Sud - 30 Maggio 2022)
E’ un lutto importante per l’antropologia italiana e non solo, ma ancor più, pur nella sua statura internazionale, Luigi Lombardi Satriani, morto ieri a 85 anni, ha avuto (e continuerà ad avere) un ruolo fondamentale, di riscatto culturale e di conferma dell’importante valore umano e culturale di tradizioni antiche che sono tutt’altro che una reliquia del passato, soprattutto per la sua Calabria. Basti pensare al titolo del suo primo libro, “Folklore come cultura di contestazione” (1966), per comprendere come la sua ricerca, d’impronta francamente marxista - lo chiamavano «il barone rosso» - , anche oltre l’originale impostazione gramsciana, abbia posto in primo piano l’essenza della cultura popolare, tanto più quella della sua regione, come «oppositiva», cioè - come aveva scritto - in grado di «ridare voce a chi storicamente ne è stato espropriato, ai “muti della storia”». Folklore e tradizioni non come sopravvivenze di un antico che non ha più posto nel mondo di oggi, ma come cultura viva e vitale, e capace come tale d’essere “altro”, opponendosi alla cultura dominante, al consumismo e alla società massificata.
Lombardi Satriani, nato a San Costantino di Briatico (Vibo Valentia) nel dicembre del 1936, cominciò la sua carriera universitaria a Messina, per poi proseguirla a Napoli e alla Sapienza di Roma, di cui era professore emerito. È stato anche preside della facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università della Calabria (dove nel 2016 ha ricevuto la laurea honoris causa in Filologia moderna) e presidente onorario dell’Associazione italiana per le Scienze etno-antropologiche. Ha insegnato anche negli atenei di Austin (Texas) e San Paolo (Brasile) ed è stato Senatore, eletto con L’Ulivo, dal 1996 al 2001. Nel 2016 ha ricevuto il premio “Cocchiara” dell’Università di Messina.
I temi della religiosità popolare (e i suoi collegamenti con il cibo), della cultura della morte (fondamentale il suo studio sul sangue, “De Sanguine”, edizioni Meltemi) come argomento esistenziale dimenticato dalla contemporaneità, della vita quotidiana nei campi o nei pascoli (suo, tra gli altri, un documentario Rai sui pastori della Sardegna), sono stati da lui valorizzati e resi centrali, senza mai prescindere da un profondo spirito di servizio. Soprattutto si ricorda il suo incontro (sfociato in un programma Rai e in un libro, nel 1985, a quattro mani con Maricla Baggio) con Natuzza Evolo, la mistica di Paravati, che rimane ancora adesso la più importante e intensa testimonianza su una donna che ha segnato in modo misteriosamente forte la società calabrese. La lunga intervista con Natuzza mette in luce la capacità di Lombardi Satriani, da lui dichiarata e voluta, di creare un rapporto paritetico ed empatico, pur nella diversità dei ruoli. Un documentario che oggi ci dà uno spaccato dell’epoca, «nel contesto - come è stato scritto - di un Meridione intriso di realismo magico, dove una forte componente religiosa e spirituale si fonde con elementi esoterici di grande rilievo sociologico e antropologico». E dove, possiamo aggiungere, emerge la grande sincerità d’accenti della cultura popolare.
In un’intervista al “Manifesto” aveva dichiarato che l’antropologo deve «confrontarsi con i fenomeni che la vita quotidiana ci pone dinanzi con drammatica evidenza: penso all’immigrazione di massa che vede fuggiaschi dall’Africa, che cercano nella nostra società riparo dalle violenze della guerra e delle persecuzioni», portando con sé la necessità di «una revisione radicale dei nostri strumenti metodologici. Oggi più che mai è tempo di mutamento, anche per il lavoro di antropologo». Una conclusione importante, un testamento di lavoro che ancora una volta può trovare nelle campagne spopolate della Calabria, e non solo, la sua naturale (e dolorosa) evoluzione.
I messaggi di cordoglio
“La Calabria perde una personalità di grande valore, che ha raccontato la nostra società attraverso lo studio del folklore, della religiosità popolare, e della cultura contadina. È venuto a mancare Luigi Maria Lombardi Satriani. Antropologo di rara intelligenza, fine accademico, già senatore della Repubblica. Era nato più di 85 anni fa a San Costantino, una frazione di Briatico, in provincia di Vibo Valentia. Aveva insegnato nelle Università di Messina, della Calabria, e a ‘La Sapienza’ di Roma. Sincero cordoglio da parte della Giunta regionale”. Così Roberto Occhiuto, presidente della Regione Calabria.
È morto il grande antropologo Luigi Maria Lombardi Satriani
Lo chiamavano il "barone rosso" per le sue idee progressiste. Ha rivoluzionato la scienza umana indagando il folklore e criticando una certa visione felice del consumismo, condivisa anche a sinistra. Ha conciliato rigore della ricerca e letterarietà della scrittura
di Marino Niola (la Repubblica, 30 MAGGIO 2022)
Il "barone rosso" ha preso congedo dalla vita. Con Luigi Maria Lombardi Satriani scompare uno degli antropologi più importanti del nostro paese. Lo chiamavano così per la sua origine aristocratica e per le sue idee politiche, sempre decisamente progressiste. Che lo portarono anche ad entrare in Senato nel 1996 con la maglia dell’Ulivo.
Grande visione scientifica e umanità generosa, addirittura straripante. La sua fame di vita gli ha sempre fatto da bussola. E il suo ago magnetico ha sempre puntato verso il Sud, dell’Italia e del mondo. Negli anni Sessanta, nel clima concitato e a tratti drammatico della contestazione, revocò in questione la rappresentazione dominante della cultura popolare. Divisa tra marxismo e crocianesimo, distanti ma concordi nel guardare al mondo contadino come ad un’umanità ferma su un binario morto dello sviluppo. Come un relitto folklorico. Una scheggia di storia non più nostra per dirla con il Pasolini de Le ceneri di Gramsci.
Ma lui rovesciò il tavolo facendo affiorare negli usi e costumi di un Mezzogiorno che sembrava più lontano nel tempo che nello spazio, una radicale contestazione della cultura dominante, sia di quella conservatrice, sia di quella progressista. Per lui quel quarto stato con i suoi riti e i suoi miti, con le sue idee di comunità e di società, per il solo fatto di esistere, costituiva una smentita della fiducia nelle magnifiche sorti e progressive del consumismo incipiente. Negli anni Sessanta scrisse libri fondamentali come Il folklore come cultura di contestazione che sviluppa, in una fusione originale ed eterodossa, le linee portanti delle scienze sociali italiane, da Antonio Gramsci ad Ernesto de Martino.
I suoi corsi all’Università di Messina, della Calabria, alla Federico II di Napoli e in seguito alla Sapienza e al Suor Orsola Benincasa erano degli autentici happening dove ragione e rivoluzione si davano convegno. Il pensiero di Lombardi Satriani è di fatto all’origine del cosiddetto Folk revival, un movimento politico e poetico che ha rivelato al paese l’esistenza di un immenso giacimento culturale che una malintesa idea dello sviluppo rischiava di cancellare troppo in fretta, relegandolo nel retrobottega della storia.
Mentre Lombardi Satriani affermava risolutamente la contemporaneità di quelle schegge di passato. Per lui le tarantolate pugliesi, le veggenti calabresi, le devote di Padre Pio non erano il residuo imbarazzante di un mondo anacronistico, ma gli anelli deboli dello sviluppo, le sorelle di "Rocco e i suoi fratelli" che erano rimaste al paese a custodire lari e penati. E l’altra faccia del miracolo economico Lombardi Satriani la rivelò anche in libri pionieristici come Folklore e profitto del 1973 dove per la prima volta venivano analizzati antropologicamente parole e immagini degli spot televisivi.
Di fatto era l’antropologia di Carosello. La grande capacità di cogliere il legame nascosto fra l’arcaico e il postmoderno, in seguito condusse Lombardi Satriani a studiare il simbolismo del sangue sullo sfondo del flagello dell’Aids, il rapporto tra contaminazione e malattia, tra male fisico e stigma morale. E nei 1982 vinse il Premio Viareggio con Il ponte di San Giacomo, un bellissimo libro scritto con Mariano Meligrana sull’ideologia della morte nel mondo contadino italiano. Dove mostrava le conseguenze tragiche della rimozione della morte in una società come la nostra, sospesa o prigioniera di un eterno presente.
Ma in realtà la forza del pensiero di Lombardi Satriani stava nella capacità di coniugare il rigore della ricerca con la letterarietà della scrittura. Una sintesi che lui considerava indispensabile per non trasformare le scienze umane in un arido elenco statistico o in un inventario notarile di curiosità locali. In realtà Luigi Maria Lombardi Satriani è sempre stato in presa diretta su ciò che rende umani gli uomini. E l’unica consolazione quando si perde un maestro come lui è pensare che ha sempre preso la vita a piene mani. Per questo ha visto prima e più degli altri.
Un mondo di cose più che di persone: saggi di de Martino
Antropologia. Ideata da Goffredo Fofi per e/o, la Piccola Biblioteca Morale ripropone tre saggi di Ernesto de Martino, scritti rispettivamente nel ’49, nel ’50 e nel ‘64: «Oltre Eboli», a cura di Stefano De Matteis
di Alfonso M. Iacono (il manifesto, Alias, 04.04.2021).
Nella Piccola Biblioteca Morale, ideata per e/o, Goffredo Fofi ripropone tre saggi di Ernesto de Martino, scritti rispettivamente nel ’49, nel ’50 e nel ‘64: Oltre Eboli (a cura di Stefano De Matteis, pp. 97, € 8,00). Ricercatore sul campo, teorico e, al contempo militante e dirigente politico, Ernesto de Martino (come Raniero Panzieri, per non parlare di Gramsci) sarebbe oggi un intellettuale tanto auspicabile quanto impensabile.
Richiamandosi al libro di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, de Martino osserva come sia intrinseco al carattere della società borghese che «Cristo non vada ‘oltre Eboli’». Cosa c’era, meglio: cosa c’è oltre Eboli? «Il mondo popolare subalterno, egli scrive, costituisce, per la società borghese un mondo di cose più che di persone, un mondo naturale che si confonde con la natura dominabile e sfruttabile.... tale mondo, per la società borghese, forma problema quasi esclusivamente (e in ogni caso fondamentalmente) per conquistatori, agenti commerciali e funzionari coloniali, per prefetti e questori».
L’oltre Eboli c’era ancora dopo la Liberazione. E oggi? La pubblicità di una nota azienda di supermercati (quanto si sarà arricchita con la pandemia?) suona, come è noto, così: «persone oltre le cose». L’oltre Eboli di oggi è tutta qui. L’umanità a buon mercato. Ciò che de Martino individuava nelle cosiddette classi subalterne, in particolare del Sud di allora, oggi si trova ovunque. Persone ridotte a cose, ma spesso attentamente truccate e esteticamente ben messe.
Nel secondo saggio, Note lucane, de Martino parla di un mondo perduto eppure incredibilmente attuale, e prova un senso di colpa, vergogna e collera di fronte a uomini trattati come bestie: «se la democrazia borghese ha permesso a me di non essere come loro, ma di nutrirmi e di vestirmi relativamente a mio agio, e di fruire delle libertà costituzionali, questo ha un’importanza trascurabile: perché non si tratta di me, del sordido me gonfio di orgoglio, ma del me concretamente vivente, che insieme a tutti nella storia sta e insieme a tutti nella storia cade...provo vergogna di aver io consentito che questa concessione immonda mi fosse fatta, di aver lasciato per lungo tempo che la società esercitasse su di me tutte le sue arti per rendermi ‘libero’ a questo prezzo, e di aver tanto poco visto l’inganno da mostrare persino di gradirlo».
L’oltre Eboli è sempre più al Sud del mondo e si è mostrato con virulenza in questa pandemia, ma il neoliberismo è riuscito a spazzare via il senso di colpa, la vergogna e la collera, al punto che la morte dei più deboli appare inevitabile mentre la logica del profitto nega la socializzazione dei brevetti dei vaccini e la vita delle persone conta meno della macabra, libera negoziazione di mercato.
De Martino vede nell’apocalisse un mondo nuovo
di Alessandro Zaccuri (Avvenire, 18 febbraio 2021)
Dove sarà adesso il campanile di Marcellinara? Non sarà che qualcos’altro ha preso il suo posto? Oppure non sappiamo più che farcene di punti di riferimento, di bussole e rose dei venti, di piccole patrie dalle quali è preferibile non allontanarsi? Quanto fosse importante il campanile del paese in provincia di Catanzaro lo racconta Ernesto de Martino in uno dei tre saggi ora riuniti in Oltre Eboli (e/o, pagine 100, euro 8,00). Curato da Stefano De Matteis per la “Collana di pensiero radicale” diretta da Goffredo Fofi, il volume vale da introduzione essenziale alla figura e all’opera di colui che, a buon diritto, viene considerato il principale innovatore degli storici antropologici in Italia.
Quella di de Martino (nato a Napoli nel 1909 e morto a Roma nel 1965) rimane una figura complessa, ma proprio per questo tanto più interessante per l’indagine sulla dimensione storica dell’esperienza religiosa. Crociano di formazione e militante del Partito comunista per scelta, collaborò con Cesare Pavese all’allestimento della “Collana viola” tramite la quale la casa editrice Einaudi rese disponibili nel nostro Paese testi fondamentali come Il ramo d’oro di James Frazer, il Trattato di storia delle religioni di Mircea Eliade, e poi gli scritti di Carl Gustav Jung, di Vladimír Propp, di Károly Kerényi.
A inaugurare la “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” (questa la dicitura ufficiale) era stato nel 1948 Il mondo magico dello stesso de Martino, manifesto di un metodo nel quale, da lì in poi, confluiscono ricerca sul campo, elaborazione teorica e impegno politico. Distaccandosi dall’ortodossia marxista, che considera la religione alla stregua di una sovrastruttura della quale l’umanità è destinata a disfarsi, de Martino riconosce alle pratiche del sacro una potenziale forza di liberazione, in virtù della quale il «mondo popolare subalterno» acquisisce il diritto a intervenire nei processi storici, fino a modificarne il corso.
È questa l’ipotesi (sostenuta con rimandi all’etnologia sovietica decisamente troppo generosi e forse addirittura interessati) che de Martino formula nel primo dei saggi scelti da De Matteis, risalente al 1949 e incentrato sulla necessità di superare l’immagine, fissata dal celebre libro di Carlo Levi, di una civiltà che si sarebbe arrestata al simbolico «confine di Eboli». De Martino, al contrario, è persuaso che l’apparente «imbarbarimento» - causato dall’irrompere di «abitudini culturali» nelle quali rientra anche una «ingenua fede millenaristica» - possa aiutare a comprendere non solo «“lato oscuro” del genere umano», ma anche il «“lato oscuro” della nostra stessa anima di “occidentali” e di “moderni”». Lo conferma il secondo testo presentato in Oltre Eboli, le Note lucane del 1950 che documentano la complessità di una religiosità contadina vissuta come elemento di rivendicazione sociale.
Ma è nel terzo contributo, datato 1964 e dedicato al Problema della fine del mondo da cui furono occupati gli ultimi anni della vita di de Martino, che raggiungiamo finalmente Marcellinara. Siamo nell’entroterra calabrese, lo studioso non riesce a trovare la strada, chiede a un anziano pastore di accompagnarlo per un tratto, tanto poi sarà lui stesso a riportarlo indietro in auto. L’uomo accetta, ma appena perde di vista il campanile è preso dal panico: «per tale scomparsa - scrive de Martino - esperiva angosciosamente il crollo della sua angustissima patria culturale con l’abituale paesaggio che faceva da scenario quotidiano ai suoi spostamenti col gregge». La sua è una condizione per certi aspetti simile a quella del paranoico «contadino di Brema» sul quale, nello stesso periodo, de Martino si sofferma durante la stesura dell’incompiuto La fine del mondo, del quale è uscita nel 2019 da Einaudi una nuova edizione critica.
All’interno del medesimo progetto di articolata ripubblicazione delle opere di de Martino si aggiunge ora, sempre per Einaudi, l’imprescindibile Morte e pianto rituale (a cura di Marcello Massenzio, pagine LXXVIII+372, euro 29,00), il saggio del 1958 nel quale si stabilisce la continuità tra le forme primitive del lutto e le successive liturgie funebri per il tramite della lamentazione della Vergine ai piedi della Croce. A tratti polemico verso la Chiesa del suo tempo, de Martino ha comunque saputo cogliere un aspetto essenziale del cristianesimo, che è la consapevolezza per cui «la fine di un mondo non significherà la fine del mondo, ma, semplicemente, il mondo di domani». Oppure, come potrebbe dire un credente «il mondo che verrà» come annunciato nel Credo.
LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA.... *
Speranze e delusioni in un tornante decisivo del Novecento italiano
L’Orologio di Carlo Levi
di Andrea Mariuzzo (Il Mulino, 02 dicembre 2020])
Il 29 novembre del 1902 nasceva a Torino uno degli intellettuali più brillanti e sottovalutati del Novecento italiano: Carlo Levi. Esponente di quella generazione di figli della buona borghesia del capoluogo piemontese che in tanti casi si sarebbe impegnata nel gruppo cittadino di Giustizia e Libertà sgominato dalla polizia politica fascista nel 1935 a causa della delazione di Dino “Pitigrilli” Segre, Levi fu per tutta la vita attivista politico della sinistra antifascista, ma anche scrittore e giornalista, osservatore con occhio quasi antropologico delle dinamiche sociali piccole e grandi di un Paese, del suo Mezzogiorno più profondo e di una classe politica, e soprattutto pittore molto apprezzato dai suoi contemporanei.
Tuttora, Levi deve la sua fama alle riflessioni nate nel periodo del confino in un villaggio della Lucania, e raccolte in Cristo si è fermato a Eboli, pubblicato da Einaudi subito dopo la fine della Seconda guerra mondiale e tradotto in tutto il mondo. Ormai quasi dimenticata è, invece, la sua opera letteraria forse più matura, L’Orologio, pubblicato sempre con la casa editrice torinese nel 1950. Eppure, esso rappresenta forse l’unico esempio riuscito, quantomeno tra i pochi applicati a materia relativa all’età repubblicana italiana, di un genere assai raramente praticato nella letteratura italiana, quello del “romanzo politico”.
Riletto oggi, di certo, il libro presenta al pubblico una difficoltà non da poco che pure deve essere affrontata per apprezzarlo, cioè la necessità di immaginarsi come all’epoca e nel contesto della sua stesura un protagonista degli eventi narrati, risalenti a cinque anni prima, potesse rileggerli e guardare criticamente al modo in cui li visse. Vale tuttavia la pena di provarci, per poter godere di una riflessione che ha ancora molto da dirci sull’attualità e sulle sue radici storiche.
L’Orologio, dunque, prende esplicitamente le mosse dalle conclusioni del Cristo si è fermato a Eboli, in alcune pagine citando esplicitamente il libro precedente. Nell’Italia fossilizzata su illusori contrasti all’interno della propria classe dirigente che in realtà celavano la realtà profonda della dialettica di sopraffazione sui “contadini” dei “donluigini”, occorreva ricostruire da zero una comunità nazionale realmente coesa, strutturata attorno a istituzioni davvero al servizio dei cittadini e capaci di accompagnarli nel loro sforzo di elevazione sociale, ma prima di tutto occorreva smantellare fino in fondo gli apparati amministrativi e burocratici dal precedente assetto strutturalmente ineguale. A quegli apparati burocratici i privilegiati di ogni livello, dai grandi imprenditori monopolisti ai piccoli titolari della concessione di una farmacia, erano avvinghiati per ottenere ciò che sanciva in modo inequivocabile la propria condizione di privilegio: una sinecura pubblica, una sovvenzione, una deroga, una norma spudoratamente favorevole.
Su questi rapporti istituzionali e politici malati, che pure lo precedevano di decenni negli interstizi della società italiana, si era retto per vent’anni il regime fascista, e allo smantellamento di questa patologia che era stata una delle basi portanti della dittatura doveva dedicarsi, per completare la sua opera, l’antifascismo vittorioso nel 1945. Era del resto questo l’obiettivo di quella che il Partito d’Azione, allora soggetto politico di riferimento di Carlo Levi nonché interprete più convinto dell’epopea resistenziale, intendeva raggiungere con quella che con un certo understatement era presentata come “riforma della pubblica amministrazione”, ma che in realtà doveva essere una rivoluzione culturale, un lavacro purificatore di tutti i germi socio-culturali alla radice del fascismo. Lavacro purificatore forse utopistico, ragione fondamentale per cui tanta parte delle culture politiche italiane, da quelle raccolte nei partiti di massa della sinistra marxista a quella del cattolicesimo organizzato di governo fino agli opinionisti liberal-conservatori a la Montanelli, avrebbe ricordato il Pda come un partito di anime belle, di illusi sospesi tra il desiderio di crogiolarsi nei loro sogni e la volontà di realizzarli con un colpo di mano giacobino, in definitiva figure storicamente inutili o peggio ancora (per chi guardava da destra) mosche cocchiere per utopie assai meglio armate.
Scrivendo L’Orologio nel 1950, Levi non rinnegava affatto quell’obiettivo ideale, ma in una certa misura ammetteva la necessità di riflettere su quanto esso fosse effettivamente realizzabile, poiché chiariva che esso poteva essere spiegato, e “fatto passare” al pubblico, solo nella forma del romanzo, della scrittura di finzione. Il canovaccio del racconto era però intessuto di fatti reali, poiché l’azione si svolgeva effettivamente tra il 22 e il 24 novembre del 1945, nelle convulse giornate in cui si consumò la crisi del governo guidato da Ferruccio Parri, l’esecutivo in cui gli azionisti avevano riposto le speranze di vedere realizzate le loro istanze di rinnovamento al soffio del “vento del Nord” dell’esperienza resistenziale. Allo stesso modo aveva radici nella realtà anche il ruolo del protagonista e voce narrante, direttore del quotidiano del partito che esprimeva “il Presidente”, proprio come nel novembre 1945 Levi era direttore dell’organo azionista “L’Italia libera”.
In fondo tutto il romanzo è la riflessione su quanto la compagine azionista ed ex-partigiana alla guida del governo chiede troppo a quel “vento del Nord”, per il quale era impossibile soffiare così forte da abbattere abitudini e necessità radicate troppo in profondità nel sentire del Paese, soprattutto delle sue zone più problematiche.
Questa riflessione si dipana, sul piano narrativo, nella forma di due viaggi.
Dapprima il protagonista-narratore si trova a compiere un giro per Roma alla ricerca di esponenti politici più o meno importanti, ma soprattutto alla scoperta di funzionari e impiegati passati dal pre-fascismo al post-fascismo senza mutare di una virgola il loro atteggiamento e il modo di interpretare il loro ruolo. Essi, ai suoi occhi, rappresentavano la vera forza materiale della conservazione, in quanto legati in maniera irremovibile a quei piccoli privilegi che di fatto non permettevano loro null’altro che di galleggiare appena sopra la miseria, ma senza i quali essi non sapevano neppure immaginarsi.
Al protagonista toccò poi compiere un viaggio di andata e ritorno per Napoli che assunse i caratteri di un’odissea tra strade bombardate e paesi ridotti all’inesistenza. Il viaggio di ritorno, in particolare, avverrà in automobile, privilegio che il direttore di un giornale di partito non si sarebbe mai potuto concedere se nel capoluogo campano non avesse ricevuto un passaggio da due esponenti di spicco dei due grandi partiti che si apprestavano a gestire in proprio il governo e il potere: Colombi (figura sotto cui si cela il democratico-cristiano Attilio Piccioni) e Tempesti (il comunista Emilio Sereni).
Proprio nel corso del viaggio due rappresentanti dei grandi partiti di massa, a cui simbolicamente sarebbe passata la responsabilità di guidare il Paese pochi giorni dopo con l’incarico di formare il governo affidato direttamente al leader della Dc Alcide De Gasperi, si rendono protagonisti di un dialogo di cui il protagonista è muto testimone, forse profetico per il dibattito pubblico degli anni successivi: un dialogo in cui moderati e sinistra si confrontano da posizioni opposte, ma portandolo avanti utilizzando le stesse parole e riconoscendo reciprocamente il ruolo l’uno dell’altro. Si manifestava insomma come inevitabile la conclusione che avrebbe condotto all’esito delle elezioni per la Costituente nel giugno 1946, ovvero quella per cui per avere successo nella politica italiana si doveva finire per accettare, e quasi per incorporare e rappresentare, ciò che nel Paese non funzionava, costruendo su tale comune accettazione la collaborazione e il conflitto.
Si chiudeva così la riflessione sul recente passato di Levi, che aveva accompagnato parole e pensieri del protagonista col pensiero ricorrente di un vecchio orologio di famiglia che aveva portato a riparare, ma che non avrebbe più ritirato anche perché nel frattempo gli eventi gliene avevano regalato uno nuovo, come a simboleggiare anche sul piano materiale una netta cesura nel suo percorso esistenziale di attivista politico antifascista che però si stagliava sulla continuità della verità destinata a uscire in modo più evidente dalle pagine del volume: «il nostro [Stato] è una grande organizzazione caritatevole per coloro che ne fanno parte [...]. Qualcuno deve pagare le spese della pubblica carità, le spese di Stato: e questi sono coloro che dello Stato non fanno parte».
Dopo settant’anni queste parole restano allo stesso modo suggestive, anche se l’effettiva partecipazione o meno alla “carità di Stato” si è fatta sempre meno facilmente intuibile.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
VICO E MARX CONTRO LA PRASSI (ATEA E DEVOTA) DELLA CARITÀ POMPOSA. Alcune note su un testo del Muratori
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO" !
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
Disurbanizzare le nostre vite. Esperienze di cooperazione territoriale
La fusione tra città e campagna non solo è possibile, ma addirittura necessaria, oltre a essere un anelito profondissimo di chi vive agonizzando il contesto urbano e di chi interpreta come solitudine quello rurale. Una testimonianza dalla Terra dei Fuochi
di Miriam Corongiu e Riccardo Festa *
Parlare di “terra” vuol dire più comunemente discutere di un ideale luogo del vivere (urbano o rurale) e non di un reale modello spirituale, politico, produttivo ed ecologico o di una concreta possibilità occupazionale. Il vero e proprio genocidio culturale perpetrato a danno dei contadini, una strage che ha eradicato dalla memoria e dalla pratica un’intera civiltà, ha reso le campagne periferie non solo geografiche, ma soprattutto mentali, eclissando quella dimensione che Pasolini definiva paleocontadina e con la quale è svanita di certo l’estrema durezza del vivere che le era connaturata, ma anche un paradigma di resilienza e di comunità.
La narrazione (e la realtà) della pandemia di Covid-19, il disastro dei cambiamenti climatici e le devastazioni ambientali di ogni latitudine ci mostrano, come in una vetrofania, che abbiamo sbagliato tutto: il pianeta, le persone, hanno bisogno di una vita radicalmente diversa che non può esaurirsi negli spazi cubicolari delle metropoli, nel grigiore del travettismo spirituale o nell’idea di una natura altra e selvaggia l’accesso alla quale è appannaggio dei parchi o, peggio, degli zoo. Sono ormai decenni che numerose esperienze europee e d’oltreoceano ci raccontano di un’aspirazione differente, di un costante tentativo di volo verso forme del vivere più leggere e ricche. L’introduzione di usi agricoli nei contesti urbani come gli orti, il superamento della dicotomia tra città e campagna attraverso le transition town, pratiche come ecobox e re-urban ci parlano di centinaia di cittadini impegnati e condensati intorno all’agroecologia, l’apicoltura, il compostaggio di quartiere.
La fusione tra città e campagna non solo è possibile, ma addirittura necessaria, oltre a essere un anelito profondissimo di chi vive agonizzando il contesto urbano e di chi interpreta come solitudine quello rurale. Alla luce del coronavirus e dell’innaturale quanto ineluttabile caldo estivo - entrambi figli dell’antropocene - potremmo aggiungere che solo così sarà possibile imprimere l’indispensabile svolta in tema di emissioni climalteranti e perfino favorire l’accesso a condizioni migliori di vivibilità in periodi di contagi e quarantene. La fine della dicotomia tra città e campagna, teorizzata da Engels già alla fine del 1800, è rimasta per lo più uno slogan. Nonostante il sogno degli architetti disurbanisti russi che teorizzavano la dispersione (dedensificazione) dell’habitat, della distribuzione dell’energia, della decentralizzazione della politica e nonostante la terribile evidenza dei ghetti di stato nei quartieri malfamati o delle periferie deruralizzate in cui si producono fenomeni come quello della Terra dei Fuochi, siamo rimasti dentro l’incubo del capitalismo senza mettere in discussione nulla della città classica. La cancellazione pianificata a tavolino dei contadini ha completato il processo di urbanizzazione delle menti che, però, deve e può essere invertito con proposte politiche serie e attuabili sul piano nazionale/locale.
I nostri comuni avrebbero mille modi per sostenere questo modello mettendo al centro dell’amministrazione ordinaria le aree agricole periurbane e marginali, in un’ottica di rivalutazione non solo dell’agricoltura locale, ma anche di miglioramento della qualità di vita nell’urbs strettamente intesa: l’elevata domanda di beni alimentari sani e naturali, di servizi ricreativi, di ristorazione e ospitalità rurale e - come ci ha duramente insegnato la Covid- 19 - di attività didattiche in spazi a misura di bimbo, impongono che ci si occupi di accrescere le relazioni tra contadini e tra contadini e cittadini, di stimolarne la partecipazione dal basso, di rendere accessibili le terre incolte ricadenti nelle proprietà comunali, di organizzare momenti formativi utili alla transizione ecologica e sportelli informativi indispensabili a orientarsi nella giungla tecnico/normativa. La Consulta Agricola Comunale, ad esempio, potrebbe essere lo strumento amministrativo attraverso il quale contadini, associazioni, cooperative e cittadini esprimono la loro opinione ed essere protagonisti della loro storia. Uno “sportello agricoltura” potrebbe fornire informazioni sulla finanza ordinaria, sulle attività dell’amministrazione locale e regionale, sui mercati locali e sulle scuole contadine.
In Terra dei Fuochi, cioè proprio dove le campagne sono il fulcro di una devastazione senza precedenti, le politiche per il governo del territorio non hanno assunto ancora questa visione. Risultano episodiche e malmesse le esperienze di pianificazione dei sistemi ambientali del territorio agricolo e forestale finalizzate a riqualificare colture, a salvaguardare ed estendere aree produttive di pregio, a tutelare gli assetti idrogeologici, a riqualificare naturalisticamente i bacini fluviali, ad aumentare la fertilità dei suoli, a regolamentare i microclimi, a valorizzare il paesaggio storico, a sviluppare economie locali attraverso la trasformazione dei prodotti tipici, l’artigianato, l’agriturismo.
A disegnare il filo tra città e campagna sono rimaste, perciò, le iniziative dal basso. Che sono tante. E convincenti. La facoltà di architettura della Federico II di Napoli, corso di Urban Planning, lavora a una mappatura degli orti sociali, delle aziende gestite da cooperative sociali e di quelle private caratterizzate da un’etica ambientale il cui approccio di comunità è il seme necessario alla disurbanizzazione delle nostre menti. Tra queste L’Orto Conviviale, alla periferia di un grande centro urbano alle falde del Somma-Vesuvio, tenta di colmare il vuoto culturale praticato tra contadini e cittadini anche attraverso pratiche di tipo spaziale: una casa aperta a tutti, al centro di un giardino, mette a disposizione di una comunità intera gli spazi di famiglia, la frescura dell’erba il cui conforto è sempre meno conosciuto, la possibilità di respirare in libertà e un patrimonio culturale che, ancora in tanti, si ostinano a coltivare reinterpretando quegli spazi incompiuti, indecisi, che non posseggono una funzione, ma che sono ambiti di opportunità per l’accoglienza della diversità respinta dagli spazi funzionali attivi possessori di una propria identità.
Un esperimento di successo sul piano della sostenibilità economico-ambientale e di trasformazione di un territorio come quello campano che soprattutto in ambito urbano produce “avanzi” corrispondenti ad aree in attesa di modificazione, sospese tra ciò che sono state e ciò che diverranno, una sorta di limbo durante il quale, di frequente, avvengono processi spontanei di rinaturalizzazione. L’agricoltura, considerata settore residuale dalle politiche economiche dominanti, deve dunque tornare a essere il centro di un’ampia rete di attività articolate attraverso la connessione di produzioni, servizi e opportunità.
Lo spazio astratto dell’economia si materializza, infatti, attraverso la sepoltura della complessità territoriale e ambientale. Il luogo scompare e con esso l’articolazione integrata dell’ambiente fisico, costruito, abitato; scompaiono le identità locali, i valori stratificati nel tempo e reinterpretabili nella fase di transizione dall’economia moderna a una sostenibile; il suolo viene considerato come semplice supporto della costruzione mentre il piano e il progetto si sottraggono al confronto con le questioni poste dalla necessità di una transizione ecologica. Le aree residuali, “gli avanzi“, acquistano un valore rilevante per la sperimentazione di proposte trasformative in ogni direzione: la questione di fondo è utilizzare questi luoghi per il necessario passaggio a un’economia non più dipendente dall’energia fossile con modelli insediati funzionalmente e morfologicamente nuovi. L’esigenza di ridurre le emissioni di gas serra è l’occasione per queste aree di promuovere ricadute positive per l’intero sistema urbano attraverso la realizzazione di reti pedonali e ciclabili, implementazione della dotazione di verde, conservazione del patrimonio naturale, risparmio energetico, riqualificazione, mixité funzionale e sociale, riduzione del consumo di suolo, densificazione, dove possibile, e connettività.
Oggi serve molta innovazione nell’affrontare le questioni territoriali.
Abbiamo bisogno di mettere a punto una strategia di lunga durata che faccia della cooperazione tra aree contigue il punto di forza per ispirare, indirizzare e consolidare una nuova governance, efficace e resistente, dando vita a una nuova centralità diffusa con la potenzialità di essere insieme individuale e comunitaria. Individuale nella connessione all’innovazione gestionale e alla produzione cooperativa e comunitaria nella consapevole condivisione di risorse locali e di senso comune.
In breve, presuppone la capacità di avere una visione concreta che preveda anche maggiore investimento in ricerca, in formazione ed educazione all’uso delle risorse. Significa fare città più resistenti nelle quali il consumo non si manifesti in montagne di rifiuti nei territori contigui e una cultura che non guardi a un prato come un tappeto sotto il quale seppellire rifiuti tossici. Significa creare territori consapevoli che cooperano, nei quali riuso, riciclo e infine smaltimento in piena sicurezza possano trovare forma chiare e condivise.
Per cambiare direzione è necessario mettere in campo azioni alle diverse scale che allo stesso tempo coinvolgano tutti. Non è solo “economia circolare”, è molto di più: è ripensare la dimensione economica della nostra esistenza creando spazi adatti a una vita piena e soddisfacente.
L’unica alla quale dovremmo ambire.
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Miriam Corongiu è contadina e attivista ecologista
Riccardo Festa è architetto territorialista
Foto di copertina di Diego Delso da commons.wikimedia
Carlo Levi, lo Stato mannaro
di Franco Baldasso (Alfabeta-2, 30 giugno 2019)
In Homo sacer. Il potere sovrano e la nuda vita, libro che è prima di tutto un ripensamento delle categorie del politico, Giorgio Agamben si sofferma sul significato giuridico di quella figura dell’immaginario folkloristico occidentale che è il werewolf, chiamato anche loup garou: il lupo mannaro. “Quello che doveva restare nell’inconscio collettivo”, scrive Agamben, “come un ibrido mostro tra umano e ferino, diviso tra la selva e la città - il lupo mannaro - è dunque in origine la figura di colui che è stato bandito dalla comunità”. Secondo Agamben il lupo mannaro incarna la zona di indifferenza tra ferino e umano, zona instabile che emerge dall’antichità per illuminare con una luce abbagliante le nostre idee di cittadinanza e di esclusione: come la prima sia sempre stata costruita poggiandosi sulla seconda. Un ulteriore argomento alle sue tesi viene dal racconto, citato da Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, della trasformazione temporanea da bestia a uomo del lupo mannaro nel folklore del sud Italia: solo dopo che l’uomo trasformato in lupo ha bussato per tre volte alla porta la moglie può aprire. Solo allora infatti la metamorfosi di ritorno da belva a umano è compiuta, e con essa il ristabilimento dell’ordine civile.
“Quel che è comune all’uomo e al lupo è, per la sua indeterminatezza smisurata, uno spavento - finché una immagine totemica lo trasformerà in una sopportabile adorazione”, scrive Levi nel poco conosciuto Paura della libertà, scritto in esilio in Francia nel 1939, all’immediata vigilia della guerra. E forse proprio qui sta la chiave per comprendere la recente riproposizione che Agamben ha fatto del saggio di Levi, pubblicato per la prima volta nel 1946 a ridosso del più celebre lavoro sull’esperienza del confino in Lucania.
Edito da Neri Pozza e con un’introduzione dello stesso Agamben, Paura della libertà è un libro difficile, inattuale, vero e proprio “poema filosofico” come lo stesso autore lo descrive in un’intervista. Il saggio propone le basi ermeneutiche di un’opera come quella di Levi che non ha mai smesso di interrogarsi sul problema della partecipazione nel vivere associato, mettendo in discussione tutta la tradizione teorica che poggia sull’idea di stato come inderogabile dato di partenza. In Paura della libertà Levi accusa la rigidità assoluta di tale concetto, di cui segnala il ricorrente scivolamento verso quella che chiama l’“idolatria statale”, violentemente esposta nei regimi fascisti. Ma aggiunge che tale concezione ipostatizzata attraversa tutta la modernità e appesantisce come una tara ereditaria anche le ideologie che dell’uomo annunciano l’emancipazione. Levi vede nello stato odierno i segni di una nefasta divinizzazione del politico nonostante l’incipiente secolarizzazione, legge il ritorno del religioso come funzionale ad una repressione che lavora a scapito della sempre possibile autonomia dell’individuo. L’individuo pensato da Levi non è quello borghese o liberale, non è neppure il consumista del capitalismo avanzato. È come egli stesso scrive il “luogo di tutti i rapporti”: di infiniti rapporti.
L’idolatria dello stato, la riduzione del politico a fideismo religioso non è solo presente nelle ataviche rappresentazioni sociali delle epoche che crediamo storiche. Queste concezioni sopravvivono in forme sempre diverse nella “contemporaneità dei tempi” che secondo Levi è il dato di partenza per comprendere la vita associata. Specialmente in Italia dove le proclamate rivoluzioni nazionali, a partire proprio dal fascismo, non hanno fatto che rafforzare l’idolatria dello stato. Uno stato in cui l’individuo non può far altro che trovare rifugio nel “credo” della massa indifferenziata, proprio dallo spavento dello straniero che deve perciò essere sempre espulso. Levi propone così un’interpretazione indelebile del fascismo in cui, come ha scritto in quegli stessi anni Georges Bataille, “l’autorità è stata ridotta a fondarsi su una pretesa rivoluzione, omaggio ipocrita e forzato alla sola autorità che si impone, quella del cambiamento catastrofico”.
Denunciando la riduzione a totem dello spavento che è comune all’uomo e al lupo, Levi non intende escludere quest’ultimo dalla comunità. Nessun “lupo mannaro” verrà da Levi considerato straniero, e dunque sacrificabile e “uccidibile”, come nel gergo filosofico di Agamben. Levi intende invece sottolineare il meccanismo religioso che è inerente alle nostre accettate concezioni della comunità politica. “Qual è il carattere di ogni religione?” si chiede nelle prime pagine del saggio: “mutare il sacro in sacrificale: togliergli il carattere di inesprimibilità, trasformandolo in fatti e in parole: far dei miti, riti”. Nelle concezioni totemiche Levi non avverte nemmeno una ramificata sublimazione del complesso di Edipo, come nel Freud di Totem e tabù, ma la spinta religiosa ad istituzionalizzare, e dunque deprimere, quello che chiama “il contatto dell’individuo con l’universale indifferenziato”, che è secondo lui sorgente inesausta del sacro: “al sacro indistinto la religione sostituisce un nome e una forma divina che ci impediscono di perderci in esso, ci vietano il suicidio e l’anarchia, ci consentono di vivere”.
Diviso in otto parti, dal tema del sacrificio e del padre al significato del sangue per la politica, Paura della libertà era stato concepito come introduzione a un’opera più vasta, a suo modo enciclopedica e mai portata a termine: una teoria della crisi contemporanea che oltre le consuete categorie economiche, politiche e estetiche, facesse dialogare la sociologia di Mauss e Durkheim con la filosofia della storia di Vico e l’interpretazione dei testi biblici fino a San Paolo. È il documento di una cruciale fase intellettuale, aggiungiamo noi, da accostare agli sviluppi del coevo Collège de sociologie specialmente nel versante di Roger Caillois e del suo L’uomo e il sacro, la cui prima edizione è uscita proprio nel 1939.
Tra etnologia, psicanalisi e lirico sguardo sull’abisso della storia Paura della libertà attenta alla supremazia dello stato nelle moderne considerazioni del vivere civile, senza sfociare tuttavia in un anarchismo di maniera. Lo attestano l’attivismo politico del suo autore a sostegno del Partito d’Azione, ma anche la continuità teorica del concetto di autonomia, elaborato insieme all’amico Leone Ginzburg già nel 1932 nei Quaderni di Giustizia e Libertà, e principio attivo in tutto il saggio del 1946 come alternativa allo sciogliersi dell’individuo nella massa indifferenziata dello stato totalitario.
Su questo aspetto è necessario chiedersi se sia possibile rileggere Paura della libertà, non ristampato in volume singolo dal 1964, al di là della testimonianza di un’epoca. Certamente, risponde senza indugi Agamben nella sua prefazione, e proprio per la sua attualità politica. Nelle sue considerazioni iniziali il filosofo riprende un discorso che ritiene colpevolmente interrotto dal pensiero progressista italiano: introduce il volume non solo esplicitando quello che chiama l’ignoranza o la malafede dei recensori negli anni del dopoguerra e oltre, ma premettendo come l’amico Calvino avesse già nel 1967 indicato la via per attraversare l’originalità di Levi.
È da questo “libro raro nella nostra letteratura”, ha sostenuto Calvino, che sarebbe dovuto “cominciare ogni discorso su Levi”. Si tratta di un vero e proprio capovolgimento critico: l’autore che è stato ridotto, prima di tutto nelle scuole, alla testimonianza sofferta della questione meridionale, se non letto come decadente orientalista, si scopre anticipatore dei più recenti dibattiti sulla biopolitica. E proprio con questo libro si rivela uno scrittore di idee, capace di far convergere travaglio storico e speculativo davanti al collasso della civiltà europea, causato dalla violenza e dal parossismo statalista dei totalitarismi. Paura della libertà è dunque anche un manifesto politico, ed è proprio la sua rimozione nella cultura italiana a renderlo oggi più attuale.
DANTE, "L’ALTRA ARGO" (VIRGILIO), E "L’ARCADIA COME PARADIGMA POLITICO" ...*
L’insegnamento politico dell’Arcadia
Per una società felice
di Pietro Pascarelli (Doppiozero, 31.03.2019)
Nell’antichità un popolo di un’impervia regione della Grecia ebbe fama di essere venuto al mondo prima degli astri e della luna, e di aver scoperto le fasi di questa, insieme al calcolo del tempo, rendendo possibile la storia.
Allora gli uomini percepivano nel paesaggio, nelle ombre degli anfratti silvani o nei lucori di improvvise radure, l’aura panica e il fluire irresistibile di eros, la presenza di ninfe e dei.
Paesaggio “ad alta densità mitologica secreta da millenni di convivenza umana” su cui il visitatore, Pausania il Periegeta, gettò nel II secolo d.C. uno sguardo “già archeologico” avvicinandosi alla città di Licosura.
In esso invisibili interstizi fra materia e soffio creatore, fra uomini e cose, accoglievano contrasti e opposizioni entro l’unificazione poetica in un senso superiore e inatteso.
Per intuizione e intelligenza suggerite dal cielo i greci e quel popolo misterioso “in possesso dell’amore del pensiero” riconobbero nel canto degli uccelli, un suono di origine naturale “privo di pensiero e di artificio”, il nomos, il quale corrisponde all’unità di una scansione tipica di note e suoni per ogni specie di uccelli, e a un metro che indica “ogni azione giusta”.
Fu riconosciuta così, come principio teoretico generale, la possibilità di un impulso di conoscenza che dal mondo non umano trapassa come dono impensato in quello umano, a fondarne i principi regolatori che si oppongono alla violenza e alla legge del più forte.
Qualcosa unisce il nomos alla terra, che nutre uomini, piante e animali, e alla musica, sicché con l’aiuto di dike - la Giustizia - venne inaugurato un mondo dispiegato dal mito e dalla poesia.
A dirci qual è questo popolo e a illustrare il suo contributo all’umanità, recuperando fonti storiche e letterarie del mondo antico lungo linee di ricerca ispirate al rigore filologico, è il libro di Monica Ferrando Il regno errante, L’Arcadia come paradigma politico, Neri Pozza 2018, che ci riporta al mito dell’Arcadia e dei suoi abitanti, a quanto si sa di una remota proto-civiltà che dal Peloponneso emerse nel mito e nella storia come modello rilevante di realtà politica, fondato sulla federazione di entità non-statali autoctone “disseminate” di pari rango, accomunate tanto dall’“etnia”, un’etnia “composita” come unità nella reciprocità dei diversi, che da un ideale politico, senza che nessuna dominasse le altre.
Fu Virgilio con le sue Bucoliche, ambientate fra i boschi di quella regione mondana e ultramondana insieme, a tramandare nei secoli con la forza della poesia l’Arcadia come simbolo di una realtà politica ideale, a lungo oggetto di un malinteso che la riduceva a idilliaca e imperturbata oasi di serenità pastorale.
Monica Ferrando si è assunta assai opportunamente il compito, con eleganza e risultati innovatori, di dimostrare che Virgilio adombra, oltre la scena poetica di idilliaci amori agresti, un’eminente organizzazione socio-politica e religiosa, portatrice di principi universali.
L’Arcadia, dove i santuari svolgono una funzione anche politica cruciale, è la terra natale di Ermes, osserva Ferrando, “il dio che mai si farà completamente assimilare dalla religione olimpica ... artefice di ogni singolo dei a possibile varietà di rapporto. ... Affidati a questa figura ... sono i rapporti armonici dei suoni tra loro, espressi dalla lira, e i rapporti psicologici tra parola e azione, i rapporti prodotti dalla parola umana e quelli degli dei tra loro”.
L’Arcadia è anche la terra del regale Pan, dio nomade degli spazi aperti, e simbolo di giustizia cosmica.
Alla concezione di Carl Schmitt di un nomos senza canto e di una dimensione solo letteraria dell’Arcadia virgiliana, Ferrando contrappone, sulla scorta di testi opportunamente vagliati, il nomos cantato e l’Arcadia come idea e nucleo politico germinali rispetto all’organizzazione della vita umana associata, secondo norme derivanti da un principio regolatore che è “uno scarto dalla natura”, cioè il nomos. Esso “riconduce a giustizia la sovranità”, e dunque non legittima ma riconverte la forza, e detta una pratica di vita e una politica dissimile e alternativa rispetto a quella della polis-stato pensata e rappresentata da Atene, potente entità accentrata contrapposta alle disperse poleis arcadiche. Queste erano invece una società modellata come non-polis senza capi, che ricorda un po’ le comunità Guayaki del Paraguay, società “indivise” e “non-Stato” studiate nella seconda metà del Novecento dall’antropologo francese Pierre Clastres, ammiratore di quello stesso Étienne de la Boétie, teorizzatore della pulsione alla servitù volontaria come spiegazione della genesi delle dominazioni, che Ferrando cita in epigrafe alla seconda parte del suo libro.
Mi sembra, alla fine, che l’impostazione di Ferrando inviti a rileggere Virgilio assegnando alla poesia il valore di “unico e autentico compendio dell’umano” e di guida ispirata per convivere in un mondo giusto. E riconoscendo nell’Arcadia la qualità di un nucleo simbolico indistruttibile, destinato a irradiare senza fine il suo insegnamento, in quanto essa “è una realtà topologica” ...paragonabile alle “figure geometriche le cui proprietà non dipendono da quantitativi rapporti di misure, ma dal qualitativo continuum formale che esse consentono”.
In questa realtà si afferma un principio politico materno e di pace, veicolato da Diotima, arcade di Mantinea, che mette al centro l’immagine e il corpo femminile “come simbolo naturale elevato ... scongiurando il sopravvento della logica maschile della forza, ovvero della legge di natura”, e un eros non distorto, non teso al denaro, come ad Atene, che da esso sarà avviata alla decadenza. Un eros invece volto alla sua giusta meta, un bene che coincide con l‘idea stessa del bello, un bello senza immagine, “rifugio di tutte le immagini”, al di là dei corpi concreti, che pone quindi in una regione psichica al di là di ogni seduzione.
Questa nuova interpretazione dell’Arcadia, ben fondata e così necessaria e confortante soprattutto oggi, nelle nostre società in cui il discorso pubblico è sempre più frammentato e povero, ruota intorno al recupero dell’origine poetico-musicale del nomos - poiché era nel canto che si tramandavano le leggi antiche - e del suo rapporto col modo di insediamento umano sulla terra e di distribuzione del nutrimento per uomini e animali, dunque della triplice indissolubile significazione del termine nomos come legge, pascolo, musica.
La legge non si impone con prepotenza né si staglia nel rigore astratto e distante, ma è cantata, e si tramanda con la musica, partecipe di un’armonia cosmica che in tutto si riverbera. Un’armonia in cui si riconosce un ritmo, lo stesso che sta al centro della poesia. Pulsazione che è un battere di piedi sulla terra, o di mani, un risuonare della voce, il respiro, un’intermittenza che segna il passo del cosmo, si ritrova nei metri cantati, nei “piedi” della poesia, e corrisponde all’alternarsi delle stagioni, a momenti dello spostamento nomade, a cicli del raccolto e della riproduzione degli animali.
Perché l’opera di Ferrando, di inesauribile ricchezza di spunti, mi pare importante anche al di là del suo contenuto specifico? Perché essa coglie l’importanza di due cose, la poesia e il mito, capaci di guidare l’umanità, oggi con riferimenti e contenuti diversi, ma sulla scia di metodo e di carisma di quell’antica dottrina, in cui il mito e il canto additano la via per una società non autoritaria, fondata sull’amore (non a caso Diotima, che l’amore illustra nel Simposio platonico, proviene dall’“amorevole” città arcade di Mantinea).
La poesia continua a mantenere una visione unitaria di ciò che i più vedono disgiunto e frammentato: gli uomini separati gli uni dagli altri e dalla natura; l’intelletto disgiunto dalle passioni, il sacro dal profano, l’oblio dalla memoria. Ma è sul tempo che la poesia si dimostra irrinunciabile. Essa dona il futuro quando nell’elaborazione del dolore, che pure ad essa soltanto riesce, sembra incombere assoluto il presente. “Fuori dalla poesia”, suggerisce Ferrando, “il tempo avrebbe totalmente smarrito la sua struttura musicale, cioè la sua forma ritmica, per richiudersi e scadere a quantità numerica senza limite e senza fine. Si sarebbe separato dalla realtà della parola, come scaturigine dei nomi delle cose entro l’accordo fondamentale con physis, che riconosce ad ogni cosa il suo nomos”.
Nella deriva attuale di imbarbarimento, che fa dubitare non di rado che vi possa essere grande udienza per istanze così elevate, anche se preziose adesso più che mai, la nostra società sembra recuperare la natura solo come bene supremo da proteggere (ne va della vita sulla terra) o anche come patrimonio di bellezza, come valore estetico e spirituale. Come qualcosa però di cui fruire, come un bene necessario, più forse che come valore in sé. Come oggetto di scienza, non di contemplazione, e non come sorgente di conoscenza.
Il poeta vede il perdurante rapporto fra uomo e società, natura e mito, senza farsi fuorviare dagli inganni della modernità alienata. Vede senza fumo negli occhi il genuino mito originario come il luogo dove uomo e pensiero tornano per rigenerarsi, e ritrovare e ridire sempre il senso della natura e del sacro, come della propria presenza in essa e fra le cose.
Leonardo Sinisgalli, ispirato dalla sua Arcadia, la Lucania, scrive una poesia, Vidi le Muse, nella raccolta omonima uscita da Mondadori nel 1943:
Sulla collina
Io certo vidi le Muse
Appollaiate tra le foglie.
Io vidi allora le Muse
Tra le foglie larghe delle querce
Mangiare ghiande e coccole.
Vidi le Muse su una quercia
Secolare che gracchiavano.
Meravigliato il mio cuore
Chiesi al mio cuore meravigliato
Io dissi al mio cuore la meraviglia.
C’è una connessione fra mito genuino, non piegato ai fini del potere, poesia e il farsi della realtà e della nostra vita individuale e collettiva in essa, che la poesia strappa all’estraneità raggelante del reale, all’assenza d’etica, al trionfo inumano e violento delle passioni allo stato originario, non rielaborate da nomos e dike e da un più ampio sistema simbolico di saggezza nella regolazione della vita interiore e pubblica.
E la poesia, che crea e riplasma la realtà agli occhi di tutti, quello slancio dello spirito che con esattezza scopre nel canto degli uccelli la misura, il nomos, che orienta nell’universo delle possibilità e detta in musica celeste principi di comportamento, la poesia, dico, non appartiene solo al verso, è inerente invece a ogni forma d’arte. Particolare importanza ad esempio assume la pittura, in cui, ci avverte Ferrando, trova espressione il favoloso, il mitico, respinto dalla storia.
Citerò ancora solo un poeta, William Carlos Williams, figura di spicco della poesia americana del Novecento.
Paterson, il suo capolavoro, è un grande poema in cinque parti composte in decenni, che in italiano comparve nel 1972 per le edizioni Accademia senza essere mai più ristampato, col sottotitolo Un uomo come una città. L’opera è l’epopea di una città (Paterson) e di un giovane Paese (l’America) che non ha un’antica storia mitica alle spalle e perciò ne reclama e ne inventa una, con un simbolismo che la avvicina a The bridge del grande Hart Crane, inno al ponte di Brooklyn metonimico di una New York avveniristica, e all’immensità dell’America.
Paterson parte da un’identificazione del poeta, dell’uomo, con la città, come sua proiezione nel mito e nella storia, come sogno dell’artista che incarna la realizzazione degli ideali suoi e di generazioni di uomini e donne sperduti in un continente sterminato, dove a mano a mano avviene la conoscenza dell’ambiente naturale e in esso dei suoi insediamenti affettivi e civili, e infine di sé.
La città è come il suo “secondo corpo” (come recita l’epigrafe di Saroyan in testa alla terza parte del poema). In essa e attorno ad essa, il ponte, la diga, la biblioteca, la fabbrica, sono altrettanti nuclei di una saga in cui uomo e natura, uomo e donna, forza generativa originaria, e i loro simboli (città, fiume, cascata, colline) si incontrano, amandosi o lottando corpo a corpo, mentre gli uomini si incontrano all’insegna delle emozioni e del diritto, o dei suoi mancati riconoscimenti.
Willams era ugualmente sensibile al fascino delle acque e dei boschi come agli scioperi operai, che seguì con particolare attenzione e coinvolgimento da poeta e pediatra qual era, in posizione di particolare vicinanza ai bisogni e alle sofferenze delle famiglie più povere. Anche Williams, come chi cantò i miti nell’antichità, trovava ispirazione e riscontro nella pittura, che rappresentava quel mondo in divenire nella sua cruda quotidianità e nel suo bisogno di iscriversi in un tempo sacro, da Bruegel, cui dedicò una raccolta (Immagini da Bruegel e altre poesie), ai contemporanei come Georg Luks, Robert Henri e John Sloan, per esempio, che ci indica Alfredo Rizzardi nella sua Introduzione alla traduzione italiana di Paterson.
La città poetica, la Paterson immaginaria di Williams, ha offerto lo spunto del film omonimo di Jim Jarmusch del 2016, che è un grande omaggio alla poesia, all’incrocio fra persona e terreno in cui vive, come rappresentazione trasfigurante del quotidiano e dell’assoluto sulla terra. Non del mondo, come guida per l’uomo, risuona ovviamente anche nelle cosiddette società “tradizionali”. Ad esempio nella narrazione dei prodigiosi eventi delle origini nella notte dei tempi dei Dogon, appartenenti alla civiltà del Verbo vivente e creatore, fatta dal cieco Ogotemmeli, “gran cacciatore di Ogol-basso”, riportata da Marcel Griaule in Dio d’acqua (1966). Ogotemmeli in trentatré giorni dell’anno 1946 narrò al visitatore europeo come in un tempo immemorabile si era costituita la sua civiltà, secondo una scansione di tappe ed eventi che suggerivano il loro senso profondo entro un complesso sistema simbolico. E spiegò come erano comparse quotidiane opere di lavoro e riflessione, dalla filatura alla classificazione delle cose, dall’enumerazione degli antenati e delle discendenze, e dal riconoscimento della natura divina della parola, alla narrazione di ciò che riguarda la “seconda” e la “terza” parola, alla rammemorazione del “sistema del mondo”, alla devozione per la pittura che ospitando acque e stelle aiuta il mondo a perdurare...
Anche il resoconto di Bruce Chatwin, nel libro Le vie dei canti, dicendo del modo di alcune popolazioni aborigene dell’Australia di descrivere col canto aree di territorio da loro abitate, conferma la centralità del canto e della musica nello sviluppo della civiltà. Ad ogni luogo, ad ogni credenza che ad esso è collegata, ad ogni cosa che si trova o si vede lungo una strada di un loro territorio, si associa una particolarità del canto che attraverso il suo ritmo e la sua intonazione, il suo “andamento melodico” al di là delle parole, descrive con frasi musicali e con la loro successione le caratteristiche del luogo, le distanze percorse, i movimenti dei piedi dell’antenato mitico e gli ostacoli che ha superato e quante volte lo ha fatto. La musica fa trovare la via che si cerca.
Metaforicamente, l’indicazione della via va oltre il terreno, mettendo a frutto i doni del contatto creativo ininterrotto fra umano e non umano.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINCINQUE SECOLI” DI LETARGO: "SE NON RIDIVENTERETE COME I BAMBINI, NON ENTRERETE NEL REGNO DEI CIELI" (Mt. 18, 3).
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.... *
Ma quale Patria? Si chiama Matria ed è la nostra lingua
Dalla nostalgia di Enea per la terra perduta alle radici dell’Europa la vera appartenenza è nell’idioma. Come sapevano bene Dante, Machiavelli e Leopardi. Una dimora che va difesa da chi oggi la vuole ridurre a chiacchiera
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 07.05.2019)
Dove trovare la Patria? Dove porre sede e finalmente cessare di inseguirla? È questa la domanda di Enea da cui si origina l’Europa - domanda forse ormai totalmente dimenticata. Gli dèi hanno decretato che per l’eroe sarà l’Italia questa patria. Ma l’Italia gli fugge sempre. All’eroe fuggitivo risponde l’Italia che fugge. Come agli eroi avvenire fuggirà l’Europa: Dove essa inizia? Dove finisce? Quante nazioni la abitano? Quali radici la sostengono? O il suo demone consiste proprio nel non averle, nel non potersi su nulla radicare? Aveva, sì, Patria Enea, anzi: la Patria, Troia. Ilio sacra è l’immagine della città perfetta, governata dal Re giusto e buono, abitata da chi ritiene massima virtù morire per la sua salvezza.
Enea avrebbe desiderato rimanere sulle sue rovine piuttosto che affrontare il destino di inseguire l’Italia. Anche le macerie di Troia sarebbero state per lui "più" Patria di qualsiasi altra futura. Ma la Patria è stata distrutta dagli Achei, dal potente connubio di astuzia e violenza che ne caratterizza l’esercito, una massa sradicata dai propri paesi, da anni lontana da ogni domestico affetto. Molti di loro non faranno ritorno, il più grande muore esule sotto le mura di Ilio; chi li ha guidati a costo di sacrificare la figlia viene assassinato appena mette piede in quella che pensava essere la propria dimora. Sciagurati eroi.
Con la fine di Ilio quella idea di Patria tramonta per sempre. Enea, tuttavia, fonda la nuova città mosso dalla nostalgia per essa, che lo domina. Senza la forza di tale nostalgia Roma non sarebbe mai sorta. Ma Roma non sarà Ilio, non ne conserverà la lingua, non sarà mai la città compiuta in sé, armoniosamente contenuta nei propri limiti; sarà invece la città-che-cresce, la città che-si-muove, Civitas augescens, Civitas mobilis, la città insaziabile, l’impero sine fine, la urbs che vuol farsi mondo. Anche Roma crolla - e anche di Roma dura la nostalgia, per la sua lingua, per il suo diritto, per le sue arti. Anche Roma diviene la Patria che manca. Come se vere Patrie apparissero sempre i luoghi che abbiamo perduto.
Nessuno ama la Patria più dell’esule da essa. Lo dice il coro delle donne troiane, che la prepotenza del vincitore trascina via schiave. Lo dice l’Ecuba euripidea, la grande accusatrice della follia dei mortali. Nel modo più tremendo lo mostra la straniera, la barbara, Medea. Sono le donne a soffrire inguaribilmente la distruzione o la perdita della Patria. Come se fossero strappate dal proprio stesso grembo. I maschi, invece, Enea, sono costretti a cercare altre terre e a convincersi che la Patria possa rinnovarsi. Ma anche per loro la nostalgia di Patria è tanto più forte e dolorosa quanto più l’avvertono smarrita. Tremendo è quando la nostalgia per la Patria che il destino ci ha rapito si combina con quella per un’altra impossibile. Fortunato Enea che alla fine la raggiunge, per quanto essa sia tale da non poter mai davvero sostituire l’antica. Vi è chi, invece, deve eternamente inseguire l’Italia che fugge.
Sventura tipica, sembra, delle nostre genti. Dante ha perduto la sua Firenze, che tanto più ama quanto più ne disprezza i nuovi padroni e costumi - e anela a un’Italia che sempre più gli appare irrealizzabile. Penoso è quando la terra che ti ha generato è stata distrutta o, peggio, ti è diventata straniera, e un’altra ne immagini, come anche salvezza della prima, continuamente contraddetta dalla realtà, fino ad apparire impossibile. La sorte di Dante si ripete in Machiavelli. E in quanti altri lungo tutta la nostra storia: il luogo della nostra origine è perduto, è divenuto irriconoscibile, oppure (Leopardi) è stato per noi sempre come un esilio, e la Patria, l’Italia, che abbiamo immaginato, sperato, pensato, resta ancora sempre da fare, un avvenire eterno. Ecco, quante volte la sua idea è sembrata realizzarsi, e subito dopo naufragare di nuovo.
Non resta forse altra vera Patria che la lingua. Lo dicono, in fondo, tutti i poeti esuli (Thomas Mann, ad esempio) nel tempo in cui le più grandi miserie si abbattono sui loro paesi. Abitare la lingua con tutta la cura possibile, questo ci è dato, coltivarla, arricchirla nel dialogo con altre, renderla sempre più capace di tradurle in sé. La lingua tanto più è ricca quanto più accoglie.
Cosi dovrebbe essere anche la Patria. Come la Patria non è un mezzo, uno strumento a nostra disposizione per perseguire i nostri, particolari fini, cosi non è un mezzo la lingua per informarci di questo o di quello. È pensiero, storia, cultura, e noi dobbiamo essere coloro che la trasformano custodendola.
La lingua è Matria, però, assai più che Patria; la lingua è materna. Dire che la nostra autentica Patria è la lingua significa affermare che nessuna Patria dovrà più essere a immagine del Padre Potente, della civiltà dominata dalla figura dell’onnipotenza del Padre Padrone. Sì, nella lingua è possibile dimora anche allorché naufraga la Patria.
Tuttavia anch’essa è dimora fragilissima. E, a differenza della Patria, i barbari che la minacciano stanno sempre all’interno dei suoi confini: sono coloro che la parlano facendone strame, che la riducono a frase e a chiacchiera, a strumento facilmente manipolabile, pronto per l’uso. Se resiste la Matria, la Patria non sarà mai impossibile, per quanto possa sempre apparire fuggitiva. Ma se la Madre lingua è perduta, allora la lingua che parleremo sarà comunque straniera e la vita un esilio.
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’OCCUPAZIONE DELLA LEGGE E DELLA LINGUA ITALIANA: L’ITALIA E LA VERGOGNA.
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN: NARCISO E LA MORTE DELL’ITALIA. Il "rimorso di incoscienza"
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. In principio era il Logos ... *
Il sogno della Bellezza
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 30 gennaio 2019)
«Un tempo mi stupivo perché una guerra così lunga/ d’Europa e d’Asia davanti a Pergamo/ fosse stata causata da una donna./ Adesso vi comprendo, siete stati saggi,/ Paride e Menelao, tu a rivolerla, / Paride a non volerla cedere. / Fu così bella che valse la pena// che in suo onore Achille morisse, / e Priamo lodasse le cause della guerra.»
Molteplici le cause delle guerre. Spesso economiche, a volte mascherate da valori civili, patriottici o religiosi. Qui però non ci riferiamo a una delle tante tragiche guerre storiche, ma alla prima, che, anche se realmente avvenuta, diviene mito di fondazione del nostro mondo. Troia esiste e fu assalita e arsa dalla lega dei greci.
Ma pur se storica, quella vicenda è mitica, oltre il tempo della storia e del calendario: un poeta, Properzio, il primo ma non l’unico, intuisce il mistero e il segreto di quella terribile contesa: Elena, moglie di un nobile greco, fuggita con un principe troiano: Elena sarà dell’uno e dell’altro, e mai di nessuno definitivamente. È la bellezza assoluta, irraggiungibile, che nessuno potrà mai definitivamente possedere.
La guerra dei primordi è la perversione di un sogno umanamente comprensibile: ognuno di noi vuole la Bellezza, e non comprende che non può essere solo sua. Ci preesiste.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Capitale europea Cultura
Effetto Matera, l’eterno ritorno della città magica
di Marino Niola (la Repubblica, 16.01.2019)
La storia / Da Pascoli a Carlo Levi. Da Visconti al "Cristo" secondo Pasolini Così la terra dei Sassi, che sabato diventa ufficialmente capitale europea della cultura 2019, ha nutrito il nostro immaginario e le nostre utopie sociali.
Un imbuto di case e grotte simile all’inferno di Dante. Così appare Matera allo sguardo spaesato e spaesante di Carlo Levi. Che di fatto consegna la città dei Sassi all’emblematica politica italiana. Topografia di una società abitata da poveri diavoli. Ma al tempo stesso riepilogo simbolico del mondo contadino, visto in tutta la sua lontananza dalle idee di sviluppo che dopo la guerra vanno per la maggiore nel Paese. È in questo clima che la nuova capitale europea della cultura 2019 - inaugurazione ufficiale sabato prossimo con l’arrivo di Mattarella e Conte diventa, nel male ma anche nel bene, un luogo topico dell’immaginario nazionale. La perfetta sintesi metaforica di un Mezzogiorno geografico e antropologico, economico e poetico, antico e primitivo, visionario e selvaggio. Così per esempio lo definisce Pier Paolo Pasolini, che fa dello scenario lunare dei Sassi la location ideale del suo Calvario all’italiana. Non a caso disdegna la Palestina reale, a suo avviso devastata dalla nuova edilizia, e ambienta Il Vangelo secondo Matteo in quella Terrasanta ancora immune dalla modernizzazione.
Del resto, una sorta di atavismo arcaico, più geologico che storico, impregna da sempre le convenzioni rappresentative della cavea materana. Non a caso Giovanni Pascoli, che dal 1882 al 1884 insegna latino e greco nel liceo locale, definisce balze, calanchi, spelonche e abituri "sinistramente belli" e descrive gli abitanti «nel loro selvatico e antiquato costume "girelloni per la piazza"». E oltre un secolo prima di lui il filosofo inglese George Berkeley parla di un’ellissi di case che precipitano l’una sull’altra, con la vertiginosa verticalità dei palchi di un teatro, con «i morti al di sopra dei vivi». Insomma, per effetto di un secolare incrocio di sguardi e controsguardi, visioni e suggestioni, la città lucana diventa il simbolo di un Sud dell’anima, stretto fra emigrazione e possessione, religione e superstizione.
Memoria remota di un binario morto del progresso. Lontana dalle grandi direttrici dello sviluppo industriale. Residuo inerte di un passato arcaico nel suo abitare e nelle sue abitudini.
Una perturbante archeologia sociale che sopravvive negli usi e costumi di quella corte dei miracoli rimasta prigioniera dei Sassi fino alla metà del Novecento. Come in una tana, dove una storia andata in polvere ha lasciato il posto ad un’anteriorità degradata, fatta di sopravvivenze umane e di relitti culturali. Eppure, proprio in quei relitti culturali e persino in quell’habitat suggestivamente malsano, molti intellettuali del dopoguerra vedono un simbolo di rinascita.
E perfino una sorta di paradigma comunitario e anti-individualista partorito dalle viscere esauste, ma feconde, della condizione contadina. Un’autentica "filosofia della miseria", come la chiama il sociologo americano Frederick Friedman. Che collabora con Adriano Olivetti nei lavori della Commissione per lo studio della città e dell’agro di Matera. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta e la città diventa per personaggi come Manlio Rossi Doria, Tommaso Fiore, Ludovico Quaroni, Michele Valori e tanti altri, una sollecitazione a ripensare lo sviluppo guardando al Sud, non solo come territorio da modernizzare, ma come depositario di un capitale culturale da impiegare nell’interesse dell’Italia intera.
Un universo di valori soffocati dalla miseria, come dice Carlo Levi, ma pieno di una ricchezza che bisogna riconoscere e conservare. Non per nulla Olivetti sceglie di aprire il primo numero della sua celebre rivista Comunità con un editoriale di Ignazio Silone intitolato Il mondo che nasce. Qualche anno dopo, quando il dibattito sui Sassi è ancora una ferita aperta - vergogna nazionale o modello di omeostasi contadina - Luchino Visconti entra nella questione con Rocco e i suoi fratelli. Il film che racconta il difficile riscatto di una famiglia lucana, combinando il tema biblico di Giuseppe e dei suoi fratelli, rivisto alla luce di Thomas Mann, con il nome di Rocco Scotellaro, il sindaco-poeta simbolo delle lotte contadine nel materano.
Così, nel suo piccolo, Matera diventa una città-mondo in miniatura, un laboratorio sociale in perenne attività. Che esercita un’attrazione irresistibile su intellettuali come Pasolini, che ne fa la scena di un cortocircuito teologico tra Cristo e i poveri cristi. Ed Ernesto de Martino, padre dell’antropologia italiana, che trasforma queste terre nell’erma bifronte di un Meridione ancora immerso nel mondo magico, ma attraversato da fermenti di emancipazione laica. Una duplicità quasi postmoderna, che de Martino individua nella figura di Francesca Armento, madre di Rocco Scotellaro, e soprattutto paladina nei suoi racconti del superamento di antiche pratiche superstiziose come il lamento funebre.
Eppure, giunta a Portici - dove Rocco si era trasferito chiamato a lavorare alla facoltà di Agraria da Manlio Rossi Doria, che poi curerà il suo postumo Contadini del Sud - davanti al figlio sul letto di morte Francesca fa precipitare il suo dolore nel metro luttuoso della nenia tradizionale e strilla: «Figlio mio, che sonno lungo che ti fai, perché non mi rispondi?». In fondo, il riscatto di Matera è l’effetto di un secolare passaggio di testimone tra uomini e donne di grande ingegno e di buona volontà. E forse, con la sfida da capitale europea, per la prima volta è davvero a portata di mano.
Enzo Ciconte ricostruisce le vicende della repressione del banditismo in Italia (Laterza)
Guerra ai briganti, non alle mafie. Una politica scellerata e disastrosa
di Gian Antonio Stella (Corriere della Sera, 06.09.2018)
«C’è un diffuso mercato delle teste. È abituale trovare in vari tribunali ambigui figuri che si aggirano con capienti ceste piene di teste tagliate e messe sotto sale perché si conservino meglio e più a lungo». Gela il sangue il racconto di Enzo Ciconte sui momenti più bui della guerra al brigantaggio. Quando, appunto, era in vigore in vari Stati italiani «la regola che, ucciso un bandito e portata la sua testa al podestà, si aveva diritto a scegliere tra una taglia proporzionata alla nomea della vittima e la cancellazione del bando a carico di un parente, di un amico o di un servitore». La testa di un bandito per la libertà di un altro. Ammesso che il decapitato fosse sul serio un brigante e non un poveretto messo a morte perché spiantato, come un certo Antonio Benaglio che il Consiglio dei Dieci veneziano ordinò ai rettori di Bergamo di arrestare «trattandosi di sogeto di conditione vile et consuetudinario nei delitti li soli inditii bastano per ordinarne la retentione».
Fu spietata e disumana, per secoli, soprattutto nel Mezzogiorno ma non solo, la repressione dei «briganti», criminali o idealisti che fossero, di cui parlerà oggi lo storico calabrese presentando a Mantova il libro La grande mattanza. Storia della guerra al brigantaggio (Laterza). Basti ricordare che quasi tre secoli prima dell’eccidio degli abitanti di Casalduni e Pontelandolfo, il peggior crimine compiuto dalle truppe italiane dopo l’Unità, Papa Sisto V era stato così duro nel «metter ordine» che, scrive la Treccani, «il noto avviso del 18 settembre 1585» ironizzava che «quell’anno erano state esposte più teste di banditi a ponte S. Angelo che meloni al mercato».
«Per distruggere il brigantaggio abbiamo fatto scorrere il sangue a fiumi: ma ai rimedi radicali abbiamo poco pensato», ammonì Paquale Villari. Certo, non tutti furono ciechi. Il deputato milanese Giuseppe Ferrari, raggiunta faticosamente Pontelandolfo, denunciò in Parlamento già nel 1861: «Io vi proposi di fare un’inchiesta affinché una metà della nazione conoscesse appieno l’altra metà, e le due parti della Penisola si unissero fraternamente; mi rispondeste essere l’inchiesta inutile, i mali passeggeri...».Tutti sordi.
E così, spiega Ciconte, «esiste un numero sterminato di libri o articoli che hanno descritto le efferatezze, la crudeltà, gli eccidi, le stragi, gli episodi di gratuita e selvaggia violenza dei briganti» e insieme, per citare Giuseppe Galasso, «pagine e pagine di romanzieri o di storici» che al contrario li descrivono «come eroi, uomini senza paura in grado di tenere testa ai potenti del tempo, giovani affascinanti con un grande sprezzo del pericolo», al punto che «le figure dei briganti e le loro gesta sembrano essere entrate nell’albo d’oro delle memorie locali». Ma «come si conciliano o si spiegano due letture così opposte e divergenti?»
Risposta non facile. A volte i briganti furono davvero dei ribelli che via via combattevano le angherie spagnole, francesi, borboniche, savoiarde... Altre erano disperati oppressi dalla fame, altre ancora criminali calzati e vestiti o un impasto degli uni e degli altri. La grande mattanza si concentra però non sui vinti (torto o ragione che avessero), ma sulla belluina «ferocia di Stato» dei vari repressori. Che dichiaravano d’aver tutti lo stesso obiettivo: «Il Terrore. Seminare il Terrore».
Ed ecco le teste mozzate riposte in piccole gabbie di cui scrive Édouard Gachot parlando di «cinquecento gabbie esposte lungo la strada per Napoli». E l’ordine di Gioacchino Murat: «È una guerra di sterminio che voglio contro questi miserabili!» E l’invettiva del generale Manhès contro gli abitanti di Serra San Bruno: «Vivrete come i lupi delle vostre foreste. Voi donne, genererete figli che vi saranno aspidi!» E la lettera del generale Morozzo Della Rocca a Cavour: «Un po’ di metodo soldatesco è medicina salutare a codesto popolo». E certi messaggi da brivido: «La testa di Palma mi giunse ieri verso le sei e mezzo. È una figura piuttosto distinta e somigliante ad un fabbricante di birra inglese. La testa l’ho fatta mettere in un vaso di cristallo ripieno di spirito...».
Solo le mafie, sostiene l‘autore de La grande mattanza, furono lasciate in pace: «Negli anni cruciali della costruzione dello Stato unitario c’è una guerra spietata ai briganti, ma la stessa durezza non è rivolta a fenomeni criminali e mafiosi noti e conosciuti in Campania, Sicilia e Calabria. Con i moderni agglomerati mafiosi lo Stato sceglie il quieto vivere, la convivenza, la coabitazione...». Una scelta scellerata, «le cui conseguenze arrivano sino a noi».
Libro
Quella libertà che fa paura
Carlo Levi indaga il sentimento che ha generato il fascismo
di Mario Fortunato (l’Espresso, 17.06.2018)
È veramente una sorpresa leggere oggi “Paura della libertà” (Neri Pozza, pp. 154, € 15) di Carlo Levi (1902-1975), “poema filosofico”, secondo il suo stesso autore, scritto fra il 1939 e il 1940 nel nord ovest della Francia, a La Baule - mentre l’Europa cominciava quell’esercizio di autoannientamento definito Seconda guerra mondiale - ma pubblicato solo nel 1946, all’indomani del grande successo di “Cristo si è fermato a Eboli”.
La riscoperta del testo (mai più ristampato come autonomo dal 1964) si deve a Giorgio Agamben che firma un’introduzione di poche e limpide pagine, in cui racconta fra l’altro come a suo tempo il libro sia stato malinteso o forse semplicemente non capito dall’intellighenzia comunista a cui pure Levi fu legato soprattutto negli anni Sessanta.
In effetti, già nel suo tono direi sapienziale, nella scrittura misteriosa e avvolgente, Levi sembra provenire da un altro pianeta, rispetto al dibattito italiano delle idee nell’immediato dopoguerra. Né Gobetti né Gramsci sembrano presiedere a queste pagine, ma casomai (è un suggerimento di Agamben) Mauss e Durkheim. Levi individua nella “paura della libertà” - cioè nel segreto ma essenziale desiderio di schiavitù, che si annida nelle masse soprattutto metropolitane del XX secolo - il sentimento che ha dato luogo al fascismo (oggi, con la crisi del modello della democrazia rappresentativa, siamo a un passo dal medesimo clima emotivo).
Per analizzare tale paura, lo scrittore si cala nei centri nervosi da cui il suddetto sentimento origina, trasformandosi in sistema: l’opposizione tra il sacro e il religioso, l’analisi dello Stato come idolo sociale, il ruolo della guerra quale nucleo originale della massa moderna, il linguaggio e la funzione dell’arte, l’idea della morte.
Allo Stato-idolo, Levi contrappone lo “stato di libertà”: che corrisponde a una sostanziale fuoriuscita dal modello di sviluppo capitalistico che, secondo lui, non può che perpetuare «l’eterno fascismo italiano». La sua è una proposta di “libertà nelle passioni”, che mi pare oggi di un’attualità politica davvero, ma davvero sorprendente.
In un’epoca di incertezza diffusa in cui Amico e Nemico si scambiano continuamente i ruoli, l’unica strada possibile per sottrarsi alla barbarie è riflettere sulla genesi filosofica della parola “conflitto”. Rileggendo Eraclito
La grande illusione della guerra giusta
Oggi è sparita la dimensione politica degli sforzi bellici: non sappiamo nemmeno per quale pace combattiamo
di Massimo Cacciari (la Repubblica, 11.06.2016)
Quando altro non è possibile affermare se non che la forma della guerra si è andata radicalmente modificando e che nessun Sovrano sembra oggi in grado di porla in una qualche forma giuridico-politica, proprio allora, forse, diventa più necessario ritornare a pensare i termini fondamentali del problema. Nulla appare oggi scontato o di per sé evidente; nessun paradigma regge alla esperienza fattuale. Allora tutto dovrebbe reimpo-starsi, appunto, dalle fondamenta. E qui troviamo una parola originaria della nostra civiltà, sul cui sfondo hanno continuato a proiettarsi i diversi e, almeno all’apparenza, contrastanti modi in cui l’Occidente ha detto e fatto la guerra. Essa ritorna per forza propria; noi non facciamo che trarla fuori dal suo “eterno passato”, a farne cioè, letteralmente, esegesi, ogni volta che facciamo la guerra.
Questa parola dice: «Polemos (il Colli non lo traduce; Diano: il conflitto; Marcovich: guerra) è padre di tutte le cose, di tutte è re, e gli uni édeixe (valore gnomico: ha mostrato e sempre mostra) dèi, e gli altri uomini, gli uni epoíese (come prima per édeixe: ha fatto e fa) schiavi, gli altri liberi» (Eraclito). Polemos non “sostituisce” Zeus, ma stabilisce un Principio a tutti gli essenti comune, un Principio cui tutti per necessità obbediscono, anche se non lo sanno, quel Principio che parla nel Logos stesso di Eraclito. Tale Principio è pater, cioè potens, solo esso ha patria potestas effettiva. La sua potenza, cioè, non si manifesta distruggendo, ma ponendo: essa costituisce gli uni come dèi, gli altri come uomini; essa rende gli uni schiavi, gli altri liberi. Il Principio-Polemos genera distinguendo, ovvero tutti accomuna proprio nel costituirli come differenti. Polemos pone gli opposti e tra gli opposti deve esservi contesa, éris. La guerra individua, fa emergere il carattere-dèmone di un individuo contra l’altro, entrambi nel loro opporsi manifestano questo comune: il porsi, cioè, di ciascuno come se stesso nella sua differenza dall’altro.
Nello spasmo in cui si è trasformato e serrato in sé il nostro spazio-tempo, popoli e culture vanno incrociandosi e affastellandosi gli uni con gli altri, eliminando ogni “amicizia” o “prossimità”. Più ci si meticcia semplicemente e meno ci si ospita. Sono movimenti tellurici, zolle di crosta terrestre alla deriva, che oggi danno di cozzo. La guerra perde ogni forma. Dove si svolge? Al centro o alla periferia del “comando”, alle porte di Roma o a Palmira? In qualsiasi punto in cui esploda, il conflitto può farsi catastroficamente centrale. È guerra diffusa, policentrica; ogni esplosione minaccia di travolgere il tutto. L’ordinato gioco tra parte e intero, che ci era apparso nell’idea di Polemos, è travolto. Non solo il concetto di guerra giusta crolla definitivamente, ma la stessa definizione di Nemico si fa ardua. Essa diviene preda dell’occasionalità più nuda.
Amico e Nemico si scambiano i ruoli con “insostenibile leggerezza”, rendendo esercizio di scuola il paradigma schmittiano. L’assenza di limiti della guerra contemporanea si era già imposta con il tramonto dello ius belli; le grandi guerre civili mondiali dell’altro secolo avevano già fatto crollare ogni differenza tra combattenti e non combattenti, avevano già fatto uso di ogni strumento ideologico per demonizzare il nemico e ricorso a ogni mezzo terroristico. (Nulla rende più evidente la confusione che regna oggi in questo campo dello scriteriato uso del termine “terrorismo”, applicato indistintamente a ogni azione che sfugga a una logica classica di affrontamento tra eserciti. Terrorismo significa terrorizzare le popolazioni “innocenti”; i combattenti non sono terrorizzabili per definizione).
Oggi questa assenza di limiti assume una forma diversa, totale: da un lato, tende a sparire il “campo di battaglia”; dall’altro, Amico e Nemico si fanno interscambiabili. Ma soprattutto assenza di limiti viene a significare l’assoluta impotenza a definire la guerra in termini morfogenetici. Per la sua capacità di produrre nuove forme politiche, nella sua dimensione costituente, si era sempre potuto parlare di arte della guerra e di una virtus bellica. Questi timbri erano anche avvertibili nell’arcaico termine Polemos. Oggi è la stessa politicità della guerra (la comune radice di pólemos e pólis) che non riesce più a esprimersi. Quale ordine si intende difendere dal presunto attacco? E quale costituire dopo l’auspicata disfatta dell’aggressore? Insomma: per quale pace si fa la guerra? Se non si sa chi sia il Nemico e dove stia, e tantomeno si conosce chi sia l’alleato, la guerra finirà con l’essere condotta con i mezzi più disparati, e con efficacia scarsa o nulla.
Così Polemos, non più pater, finisce con l’apparire sempre ingiusto. Non sapendo dare più al termine “guerra” un significato, si tenta di rimuoverne l’esistenza stessa derubricandola alla famiglia del “sorvegliare-e-punire”, ad azione di intelligence e di polizia. E si sogna che tra politica e guerra si possa scavare l’abisso. Compaiono spezzoni delle antiche “grandi forme”, dei tradizionali “eroici” tentativi di mettere in forma il Gioco crudele - come relitti sulle nostre spiagge abbandonati dalla colossale risacca dell’ultimo secolo.
Con fiducia particolare ci si abbarbica all’idea di “giusta guerra difensiva”. Ma che significa? Difesa del territorio? E quali ne sono i confini reali? Difesa dell’onore? E come impedire, allora, che essa possa farsi anche preventiva, se entra in gioco l’onore di uno Stato? Defensio innocentium? Ma quale Stato non ha da più di due secoli reso “colpevoli” i suoi cittadini? Quale “scala di valore” può affermare se stessa assoluta? Dove siede il Tribunale dell’Umanità? Spezzoni, frammenti, balbettii che si inseguono nel nostro mondo successivo al crollo della forma politico-militare imposta dai grandi Titani usciti vincitori dalla seconda Grande guerra.
Ripetere frammenti e balbettii non renderà più chiara la visione. Tantomeno se si crederà di uscire da questa fase epimeteica inseguendo di nuovo il sogno del supremo Tribunale, capace di ridurre ogni conflitto a formalismo giuridico e a perseguire come un crimine la guerra. Questo sogno non fa che esprimere l’indisponibilità europea, e ormai sempre più di tutto l’Occidente, ad affrontare la “prova del fuoco”. In Polemos il dissidio, in tutte le sue forme, era concepito e affrontato come segno di Dike, della Necessità, e perciò i distinti nel loro opporsi erano anche sempre visti nel Comune, cui appartengono e il cui Logos è pre-potente rispetto a ogni loro manifestazione di potenza. Questa prospettiva appartiene al nostro linguaggio più originario e non può perciò essere definita utopistica. Forse essa ci indica ancora una non vana, non cieca speranza per conferire un senso costituente, morfogenetico all’attuale tumulto, anche se ignoriamo per quali vie e attraverso quali tragedie essa potrà mai realizzarsi.
di Guido Crainz (la Repubblica, 28.04.2016)
HANNO il significato di un simbolo le scelte dell’Austria sul Brennero, un simbolo che fa inevitabilmente riaffiorare fantasmi del passato. E rende ineludibili i nodi già emersi nei mesi scorsi assieme ai muri eretti in molte forme da differenti Paesi.
ASSIEME a quei muri: la dolente e straziata popolazione dei profughi ha reso solo evidenti questioni più profonde. Certo, sulle decisioni austriache influiscono oggi ragioni e tensioni elettorali ma non è inevitabile che i peggiori nazionalismi facciano vincere le elezioni (né che i socialdemocratici inseguano gli avversari sul loro terreno nel vano tentativo di non perderle): sul perché si è giunti a questo è dunque necessario continuare a interrogarsi.
Non c’è dubbio, l’ipotesi di chiudere il Brennero è una resa dell’Europa, è contro la storia e contro il futuro: non c’è nulla da aggiungere a quel che hanno detto il presidente Renzi e la presidente Boldrini. Quell’ipotesi tocca da vicino il nostro vissuto, ci richiama alla mente il sofferto percorso con cui abbiamo superato lacerazioni drammatiche: la generazione cresciuta negli anni Cinquanta e Sessanta ha ancora memoria viva, ad esempio, delle tensioni connesse al nodo del Sudtirolo, per non evocare più antichi traumi e tragedie.
Abbiamo memoria, anche, della stella polare che ci ha aiutati a superare quelle lacerazioni ed è proprio quella stella polare, l’Europa, ad essere oggi a rischio. Con questo ci stiamo misurando. Poco tempo fa, su Repubblica, Giorgio Napolitano ha ricordato al presidente austriaco le speranze del 1998, quando «da ministro dell’Interno fui al Brennero con il mio omologo ministro austriaco per rimuovere insieme la barriera al confine tra i nostri due Paesi». Non è immaginabile che si torni indietro, ha concluso giustamente Napolitano, ma è proprio l’inimmaginabile a fare paura. Molte altre barriere sono cadute poi in tutta Europa nel dicembre del 2007, superando ferite storiche: sembrava ancor più impossibile tornare indietro eppure sta succedendo. Di questo si tratta e con questo dobbiamo misurarci, assieme all’obbligo di dare al dramma dei profughi la risposta che i Paesi civili sono tenuti a dare.
Toccandoci da vicino, dunque, le scelte che riguardano il Brennero ci precludono definitivamente le rimozioni in cui troppe volte abbiamo cercato rifugio. Destre aggressive e nazionalismi xenofobi erano apparsi già prima di quel gioioso 2007: dall’esplosione del movimento di Jean Marie Le Pen, nel 2002, al diffondersi di movimenti non dissimili in diverse aree europee; dai pronunciamenti referendari della Danimarca e della Svezia contro l’euro a quello della Francia e dei Paesi Bassi contro la Costituzione europea. Ben prima delle dilaganti esplosioni dell’ultimissimo periodo.
Sottovalutammo questi e altri segnali, e sottovalutammo quel che Carlo Azeglio Ciampi aveva annotato nei suoi diari già molto prima, al momento stesso del varo dell’euro: è necessario ora, scriveva, un rinnovamento complessivo capace di investire anche la cultura, i costumi, gli stili di vita. È stato inevitabile, aggiungeva allora Ezio Mauro, avviare l’unificazione «attraverso l’unico comun denominatore oggi possibile, quello della moneta » ma è ormai urgente «dare un contesto istituzionale, culturale e politico a questa moneta. Perché rappresenti l’Europa e non soltanto undici Paesi comandati da una banca».
A questa sfida siamo mancati: è mancata la politica e più ancora - è necessario dirlo - è mancata la cultura: ad essa in primo luogo spettava costruire ponti (lo aveva scritto da sempre Alex Langer), delineare orizzonti e utopie comuni, ragioni di fratellanza e di comunità. Non è successo, o è successo troppo, troppo poco.
Non è responsabilità solo della politica dunque se, lontana ormai la stagione delle speranze, i cittadini europei vivono oggi in una Unione priva di strumenti istituzionali efficaci e in un continente quasi sconosciuto.
Ignari più di prima dei processi in corso al suo interno, esposti alle pulsioni nazionaliste e al tempo stesso incapaci di comprenderne le radici. E incapaci di dare risposte civili ai «dannati della terra» che cercano rifugio in Europa e in Italia. Quell’Italia che in fondo, ci ha ricordato un bel libro di Fabio Finotti, ha il suo mito fondativo nel profugo Enea.
La Patria è mobile Un concetto mutevole nel tempo e nello spazio
Come spiega Fabio Finotti in un saggio che attraversa la storia della cultura italiana, da quella alta alla pop
di Mirella Serri (La Stampa, 14/03/2016)
Carissimo, mi trovo «prigioniero in quela Signora bruta Italia» in «barache, già lo sai anche tu, che sono barache di Italiani internati». Chi scrive, con lessico a dir poco zoppicante, è il signor G., un italiano fedele suddito degli Asburgo durante la Prima guerra mondiale: è finito prigioniero di altri italiani da sempre disprezzati e considerati così fastidiosi che «non lasciano in pace nemmeno le mosche». L’ostilità del detenuto si rafforza dal momento che in quella coabitazione coatta con i connazionali finisce con l’avvertire di essere anche lui un «italiano» ovvero di far parte di quella mala genìa con cui non ha mai voluto aver niente da spartire.
Una percezione analoga (ma di segno opposto, dove il sentirsi italiano assume una valenza positiva) la proverà più di 25 anni dopo un altro internato, nel Lager di Auschwitz: «Lo jiddish era di fatto la seconda lingua del campo (sostituita più tardi dall’ungherese). Non solo non la capivo», spiega Primo Levi, «ma sapevo solo vagamente della sua esistenza... Gli ebrei polacchi, russi, ungheresi erano stupiti che noi italiani non lo parlassimo: eravamo degli ebrei sospetti, da non fidarsene». Non c’è dubbio: gli ebrei provenienti dalla Penisola riescono a comunicare molto di più con gli aguzzini nazisti (è il caso di Levi) che con i correligionari non italiani, proprio perché sono profondamente assimilati e radicati in Italia.
In principio c’è Enea
Nonostante dunque i due reclusi, il signor G. e Primo Levi, provengano da culture e abitudini assai diverse da quelle del resto dello Stivale, entrambi hanno dentro di sé la consapevolezza di un’appartenenza comune. Da dove viene questa certezza quasi subliminale, la scoperta di questo spazio interiore circoscritto dalla parola «patria», uno spazio che quasi non si sa di possedere, che stupisce e coglie di sorpresa tanto l’incolto filo-asburgico quanto il dotto futuro scrittore?
Se lo vogliamo capire, buttiamo a mare le nostre più tradizionali convinzioni: il termine patria non coincide interamente con l’etimo «terra dei padri»: è qualcosa di molto diverso e muta nel tempo e nello spazio. A spiegarci tutte le accezioni di questo singolare e a volte inafferrabile concetto è il bellissimo excursus di Fabio Finotti, che in Italia. L’invenzione della patria (Bompiani, pp. 569, € 28) attraversa tutta la cultura italiana, da quella alta a quella pop, da Dante a Petrarca, da Machiavelli a Manzoni, da Pasolini a Rossellini, dall’iconografia del Vittoriano a quella di miss Italia, da Altiero Spinelli all’avvento dell’era tv.
Docente presso la Pennsylvania University di Philadelphia, dove dirige il Center for Italian Studies, Finotti ci spiega che alle radici dell’immaginario che nutre e definisce la parola «patria» c’è l’avventura di Enea, l’eroe classico che, diversamente da Ulisse, non rientra a casa, non torna a Troia ma porta la casa originaria con sé cercando di ritrovarla e rifondarla altrove. Lo fa proprio approdando sulle coste italiane: la dimora per eccellenza, l’abitazione del cuore e dell’anima per Enea non è dunque un luogo certo, ma è qualcosa che si muove con lui. Scrittori e artisti italiani hanno poi dato forma e concretezza alla nostra mutevole identità, plasmandola e riplasmandola più volte, passando, per esempio, attraverso la nozione di Impero come insieme di diversità propria di Carlo Magno, oppure l’idea romantica di nazione di Foscolo e di Manzoni per arrivare alla «patria viaggiante» delle novecentesche migrazioni cantate da Pascoli.
Le radici in viaggio
I contadini e gli operai che agli inizi del secolo superavano confini e oceani in cerca di fortuna erano pronti a radicarsi nelle nuove terre alla maniera di Enea, portando la patria con sé. Monumenti, architettura, riti e ricette: i nostri emigranti hanno dato vita a tante Little Italy sparse per il mondo. E proprio per la varietà e la molteplicità delle loro esperienze, paradossalmente, hanno sempre coltivato un forte senso delle radici.
La storia della Penisola come patria ha così molto da insegnare all’Europa: in Italia, per esempio, gli ebrei, per secoli, non furono costretti a rinunciare alla loro peculiarità etnico-religiosa ma si sentirono - lo ricordava il poeta Umberto Saba - «figli». Oggi questo senso di appartenenza contraddistingue spesso anche coloro che approdano nel nostro paese: come documentano anche libri e testimonianze, l’Italia è percepita come una «casa» accogliente e composita, un’etnia fatta da stirpi diverse, «un tappeto dai mille colori», tutti racchiusi entro un’unica cornice. In un momento come questo, in cui tutta l’Europa è assediata da imponenti flussi migratori, il libro di Finotti si pone come un fondamentale vademecum: ci incoraggia a rimodellare senza drammi il nostro ruolo e lo stesso concetto di accoglienza e di convivenza proprio ricordandoci la nostra identità multicolore, non stabile ma «mobile» e mutevole nei secoli.
Cristo dimenticato a Eboli.
La rimozione di Carlo Levi. Nell’oblio i 40 anni dalla morte e i 70 del celebre romanzo
di Massimo Novelli (il Fatto Quotidiano, sabato 7 novembre 2015)
Da tempo i giornali, così come le televisioni, propinano con un’abbondanza esagerata i ricordi, per questo o quell’anniversario, di personaggi della cultura, della storia (ma un po’ meno: forse la storia fa riflettere troppo sul presente), della politica, dello spettacolo e dello sport.
Si dà conto del quindicennale della morte o del secolo dalla nascita, dei 500 anni o dei mille; e si organizzano “eventi” non sempre seri e rispettosi, sovente mercificati. In questo mare magnum non tutto fa brodo, per parafrasare un vecchio spot della vecchia tv.
È il caso di Carlo Levi (Torino, 1902 - Roma, 1975), uno dei protagonisti di rilievo della cultura del Novecento. Del pittore, romanziere, saggista e militante dell’antifascismo, ricorrevano nel 2015 tre anniversari significativi: i quarant’anni dalla scomparsa; i settanta dall’uscita da Einaudi nel 1945 di Cristo si è fermato a Eboli; gli ottanta dal confino di polizia che il regime fascista gli impose tra i calanchi di Aliano, in Basilicata, e che fu all’origine della sua scoperta del Mezzogiorno e della scrittura del Cristo. La sua riproposizione, tra l’altro, sarebbe stata più che giustificata dal dibattito apertosi, sia pure per poco, sui disastri del nostro Sud, che Levi comprese, amò e per cui si batté.
Invece né la sua Torino, né Roma, e tantomeno la Lucania e Matera futura capitale della cultura, se ne sono rammentati, perlomeno seriamente. Ci sono state delle eccezioni, alcune positive e meritorie, altre contestate. Tra le prime vanno menzionate quelle del comune di Aliano, dove Levi è sepolto e ricordato con varie iniziative, e una serata a Matera promossa dal Circolo Carlo Levi e dal giornalista Rocco Brancati.
Polemiche e richieste di chiarimenti dal Movimento 5 Stelle hanno accompagnato la scelta del Consiglio regionale del Piemonte di acquistare, per oltre 32 mila euro, le copie di un volume fatto stampare dalla Fondazione Giorgio Amendola di Torino (che ha pure promosso due convegni di scarsa risonanza). Intitolato Il Telero: da Torino un viaggio nella questione meridionale, è stato voluto, dicono, per celebrare il quarantennale della scomparsa di Levi. Forse sarebbe stato più utile, e non troppo costoso, regalare alle scuole i libri di Levi.
A mettere in risalto l’oblio di uno scrittore che, con il Cristo e L’Orologio, ha dato alla letteratura italiana due capolavori, e che ha fatto guardare al Meridione con occhi nuovi, è stato per primo Nicola Filazzola, un artista lucano di valore, che incontrò Levi durante il suo ultimo viaggio ad Aliano.
Sulla rivista Il Colle di Matera ha pubblicato un articolo amaro e critico, poi parzialmente ripreso dalla Gazzetta del Mezzogiorno, in cui sottolinea che in un “clima di così sfacciata irriconoscenza, per l’uomo che scelse di intrecciare la propria esistenza con quella dei contadini di Basilicata, non mi sorprende che, in occasione del quarantesimo anniversario della sua morte, istituzioni come il Polo Museale della Basilicata e la stessa Rai lucana non abbiano preparato un evento, fornito un servizio degni dell’importanza che Levi occupò nella storia della nostra regione”. Filazzola ha proposto di organizzare, per celebrare Levi, “un incontro di tutti i Presidenti delle regioni meridionali, per una riflessione sullo stato del Mezzogiorno a settant’anni dalla pubblicazione del Cristo”. Sta aspettando che qualcuno, nei “Palazzi” del Sud, si faccia vivo.
Se la Lucania delle istituzioni tace, altrettanto fa Torino, la città in cui Levi, oltre a cospirare contro il fascismo e a disegnare la copertina di America primo amore di Mario Soldati, animò il gruppo dei “Sei di Torino”, che, alla fine degli anni Venti, mise assieme pittrici e pittori come Jessie Boswell, Gigi Chessa, Nicola Galante, Francesco Menzio ed Enrico Paulucci. La casa editrice Einaudi, è vero, ha ristampato lodevolmente L’Orologio e Quaderno a cancelli, ma in un sostanziale silenzio dei più, lo stesso che ha contraddistinto i libri editi da Donzelli. E Marco Rossi-Doria su La Stampa del 2 agosto ha invitato “a raccontare le cose del Mezzogiorno di adesso nello spirito con il quale Carlo Levi lo fece allora con acume analitico, parole scelte e ferme e civile passione”. Nessuno, naturalmente, ha raccolto l’invito.
Carlo Levi è stato rimosso dalla memoria della nazione. Lo rammentava Federica Montevecchi già nel 2012, su L’Unità, scrivendo che “non ha meritato un Meridiano (neppure un Antimeridiano)”, “proprio ora che c’è bisogno di lui”, come titolava il giornale. Una rimozione che sembra inconcepibile, assurda, se si pensa all’importanza di Levi nella letteratura, nell’arte figurativa, nel pensiero meridionalista e nell’antifascismo giellista e azionista.
Tuttavia l’oblio si può spiegare benissimo: oltre che con quell’eterno presente che predomina le istituzioni culturali italiane, con il fatto che l’opera dell’autore di Paura della libertà è innervata da valori di giustizia e di libertà, dalla passione civile, dall’impegno per i senza storia, per gli umiliati e offesi, per il riscatto del Mezzogiorno, che sono stati cancellati dalle agende politiche e culturali.
Le parole, per Levi, “sono pietre”; oggi sono di polvere. Per citare il suo Orologio, “mi pareva di essere tornato in un villaggio della Lucania, e di ascoltare i Signori conversare dei loro odî eterni e della eterna noia, seduti sul muretto della piazza, sopra il burrone, davanti alla distesa delle argille coperte”.
Expo, perché non porterei i miei alunni
di Alex Corlazzoli*
Expo sì, Expo no. Alla fine ci sono andato (a moderare un dibattito) e mi sono convinto che non porterei mai una classe di ragazzi all’Esposizione mondiale, la Gardaland di Milano. Chi fa il maestro ha il dovere di chiedersi: cosa voglio insegnare ai ragazzi? Come voglio parlare loro del cibo, della terra, dell’aria? Vogliamo dire la verità ai futuri cittadini o mostrare loro una cartolina patinata del mondo? Ecco, se quest’ultima è la vostra intenzione, allora potete andare a visitare Expo 2015. Troverete un grande gioco: potrete timbrare il vostro “falso” passaporto (5 euro a documento) ad ogni Paese che visitate; divertirvi a fare l’henné sulle mani grazie alle donne ugandesi o della Mauritania; saltare sulle reti elastiche del padiglione del Brasile; fare fotografie seduti in una finta tenda berbera; realizzare il vostro menù greco preferito; scrivere il vostro nome con i chicchi di caffè o comprare braccialetti ricordo fatti con i semi. Ma non chiedetevi chi lavora quel caffè; non domandatevi quanti pozzi sono stati distrutti nei terreni dei territori occupati della Palestina; non azzardatevi a capire chi lavora nei campi del Mozambico o del Burundi; non iniziate a farvi domande sui landgrabbing, i ladri di terra. Expo non è il posto dove farvi questi interrogativi e nemmeno dove trovare risposte.
Girando tra i padiglioni dell’esposizione ho avuto la sensazione di aver fatto qualche errore: forse ho sbagliato, durante le lezioni di scienze, a raccontare ai miei ragazzi che il consumo giornaliero di acqua in Africa è di 30 litri rispetto ai 237 in Italia. Probabilmente ho raccontato una frottola quando ho parlato loro dei conflitti per l’oro blu. Devo aver letto male i dati sul Kenya dove il benessere di pochi (2%), è pagato con la miseria di molti (circa il 50% della popolazione vive sotto il livello di povertà). Devo aver visto un altro film finora perché ad Expo non ho trovato una sola riga, una sola informazione che raccontasse alle migliaia di persone che passano in quei padiglioni, il dramma che vivono le popolazioni africane.
Sono partito dalla Palestina: non un’immagine, una riga, una fotografia dell’occupazione. Ho chiesto come mai e mi è stato risposto che “non era opportuno”. Ho pensato che la scarsità di informazioni riguardasse solo quel Paese. Ho provato ad entrare negli spazi dell’Eritrea, della Giordania, della Mauritania: nulla di più che una sorta di mercatino dei prodotti locali, qualche bandiera, poche fotografie. Zero informazioni. Ho pensato che fosse impossibile ma nemmeno in Algeria ho trovato qualche spiegazione se non una bella esposizione di vasellame e di abiti tradizionali. Mai un solo cenno ai problemi di un Paese. A Expo il mondo è tutto bello: l’importante è non sapere.
Non ho imparato nulla visitando il padiglione del Burundi, del Ruanda, dell’Uganda. Nello Yemen hanno persino tentato, come in ogni mercato, di vendermi tre braccialetti con la tecnica dei venditori di strada: “Provali. Quale ti piace? Ti facciamo uno sconto”. Eppure i bambini e i ragazzi che lavorano nelle piantagioni di cacao africane sarebbero, secondo alcune stime, più di 200mila di età compresa tra i cinque e i quindici anni, vittime di una vera e propria “tratta”. L’ Unicef ricorda che 150 milioni di bambini tra i 5 e i 14 anni nei Paesi in via di sviluppo, circa il 16% di tutti i bambini e i ragazzi in quella fascia di età, sono coinvolti nel lavoro minorile.
A citare i problemi della terra ci ha pensato il Vaticano, presente ad Expo: 330 metri quadrati per dire ai cittadini attraverso una mostra fotografica e un tavolo interattivo che esiste il problema della sete, dell’ingiustizia, della fame. Tutto per slogan, nulla di più. E’ a quel punto che mi è venuta una curiosità, alla fine della rapida spiegazione dell’addetto della Santa Sede: “Scusi, quanto è costata la realizzazione?”. Risposta: “Mi dispiace non lo so”. Cerco la risposta via Twitter all’account del Vaticano (@ExpoSantaSede) che mi rimanda ad un articolo che parla della “sobrietà del padiglione”, secondo le parole del cardinale Gianfranco Ravasi. Viene da fare due conti: un’organizzazione italiana mi ha riferito di aver speso per partecipare a Expo (per organizzare eventi, padiglione, personale) circa 700 mila euro. E il Vaticano quanto avrà sborsato per dire che c’è la fame, la sete e l’ingiustizia? 3 milioni di euro equamente ripartiti tra Santa Sede, Cei, Diocesi di Milano e Cattolica Assicurazioni che ha offerto il suo contributo per l’allestimento delle opere d’arte.
Alle 21, stop. Ho deciso: meglio non portare i bambini a Expo. Che capirebbero del cibo, dello spreco, delle risorse?
Un solo consiglio: se proprio ci andate, vale la pena visitare il padiglione zero e quelli della Svizzera e dei Brunei. Naturalmente non li ho visti tutti, potrebbero essercene altri all’altezza di quest’ultimi. E non ho nemmeno timbrato il passaporto.
Un’ultima osservazione: non cercate un’edicola o una libreria (magari dedicata al cibo) a Expo. In una giornata non le ho trovate. Se le avete viste avvisatemi.
Infine due curiosità. La prima: andata e ritorno Treviglio - Milano Expo con Trenitalia è gratis, nessuno è passato a controllarmi il biglietto. La seconda: arrivato ai tornelli mi sono trovato di fronte delle file chilometriche. Avendo un appuntamento alle 10,30 ho tentato di passare attraverso il passaggio dei media pur non avendo l’accredito ma solo un regolare biglietto. Nessun problema: nessuno ha badato al fatto che avessi o meno il pass. Un abito elegante e una borsa d’ufficio ed è fatta. Fila evitata.
. * Giornalista, ma prima di tutto maestro, è autore di alcuni libri, tra cui Ragazzi di Paolo (Ega 2002), Riprendiamoci la scuola (Altreconomia) e Gita in pianura (Laterza). Da diversi anni promuove NonSoloACrema: un programma di appuntamenti con gli autori per portare la cultura anche in campagna, nei più paesi più piccoli. L’articolo di questa pagina è apparso anche su un blog de ilfattoquotidiano.it e qui con il consenso dell’autore.
La scottante attualità di Fanon
di Raúl Zibechi (Comune-info, 9 settembre 2015)
di Raúl Zibechi
Il pensiero di Frantz Fanon è ritornato. A cinquant’anni dalla morte, i suoi libri tornano ad essere letti nelle università e negli spazi dei settori popolari organizzati. Alcune delle sue riflessioni centrali illuminano aspetti delle nuove realtà e contribuiscono alla comprensione del capitalismo, in questa fase di sangue e di dolore per los de abajo.
La riedizione di alcune delle sue opere come Piel negra, mascaras blancas (Akal 2009) [Pelle nera maschere bianche, Marco Tropea, ndt], con commenti di Immanuel Wallerstein, Samir Amin, Judith Butler, Lewis R. Gordon, Ramón Grosfoguel, Nelson Maldonado-Torres, Sylvia Wynter e Walter Mignolo, ha contribuito alla diffusione del suo pensiero, così come le periodiche ristampe della sua opera principale, I dannati della Terra, con la prefazione di Jean Paul Sartre. Sarebbe necessaria anche la riedizione del suo libro Sociologia di una rivoluzione, pubblicato nel 1966 (in Messico, ndt) dalla Editorial Era (in Italia da Einaudi nel 1963, ndt)
Il rinnovato interesse per Fanon, tuttavia, va ben al di là dei suoi libri e dei suoi scritti. Si tratta, credo, di un interesse epocale, nel duplice significato del periodo attuale che attraversano le nostre società e della nascita di forti movimenti antisistemici che vedono come protagonisti i diversi abajos. Voglio dire che ci troviamo di fronte a un interesse politico più che a una curiosità accademica o letteraria. batalla-argel_principalgaleriaapaisada
A mio parere, ci sono cinque ragioni che spiegano l’attualità di Fanon.
La prima è che nella sua fase attuale, centrata sull’accumulazione per espropriazione (o quarta guerra mondiale), il capitalismo ripropone alcuni aspetti della dominazione coloniale. Alcuni di questi aspetti sono l’occupazione di enclave territoriali da parte di imprese multinazionali e l’occasionale ma importante occupazione militare da parte degli imperialismi di vari paesi con la scusa della guerra contro il terrorismo.
Ci sono però altri aspetti che è necessario quantomeno menzionare. La popolazione è diventata un obiettivo militare, sia per il suo controllo che per la sua eventuale eliminazione, perché è un ostacolo all’accumulazione per espropriazione. La guerra contro le donne, diventata un nuovo bottino della conquista di territori, è un altro degli aspetti del nuovo colonialismo, così come la crescente militarizzazione dei quartieri popolari nelle periferie delle grandi città.
Nella misura in cui accumula rubando i beni comuni di interi popoli, il capitalismo ci permette di dire che ci troviamo di fronte a un neocolonialismo, sebbene, a essere rigorosi, si tratta della fase di decadenza del sistema, che non aspira più ad assorbire le classi dominate bensì, semplicemente, a controllarle e sterminarle nel caso in cui oppongano resistenza.
La seconda [ragione] è che appare sempre più evidente che la società attuale si divide, come dice Grosfoguel basandosi su Fanon, in due zone: la zona dell’essere, dove i diritti delle persone vengono rispettati e dove la violenza è un’eccezione, e la zona del non-essere, dove la violenza è la regola. Il pensiero di Fanon ci aiuta a riflettere su questa realtà che pone la massima distanza tra il capitalismo del XXI secolo e quello dello Stato sociale.
La terza è la critica che Fanon fa ai partiti di sinistra del centro del mondo, nel senso che le loro modalità di azione si rivolgono esclusivamente a un’élite delle classi lavoratrici, lasciando da parte i diversi abajos che nel marxismo sono liquidati come appartenenti al sottoproletariato. Al contrario, Fanon ripone la sua più grande speranza nella gente comune de abajo quale possibile soggetto della sua autoemancipazione o dell’emancipazione tout-court.
In quarto luogo, Fanon non era un intellettuale né un accademico. Metteva la sua conoscenza al servizio di un popolo in lotta come quello algerino, la cui causa ha servito fino al giorno della morte. Questa figura di pensatore-militante, o come si voglia chiamare chi si impegna in modo incondizionato con los de abajo, è un contributo straordinario alla lotta dei settori popolari.
A questo proposito, è bene sottolineare la critica all’eurocentrismo delle sinistre, alla pretesa di trasferire in modo meccanico nel mondo del non-essere, proposte e analisi nate nel mondo dell’essere. La nascita nel continente americano di femminismi indigeni, neri e popolari è una dimostrazione dei limiti di quel primo (e fondamentale) femminismo europeo che, tuttavia, aveva bisogno di essere reinventato tra le donne del colore della terra, in base alle loro specifiche tradizioni e realtà, tra le quali la centralità della famiglia nel mondo femminile latinoamericano. our-reality-laurie-cooper
Sebbene questo breve riassunto trascuri diversi importanti aspetti dell’opera di Fanon, come ad esempio le riflessioni sulla violenza degli oppressi, mi sembra necessario sottolineare un ulteriore aspetto, che ritengo centrale nel pensiero critico attuale. Ci si interroga sulle ragioni per le quali l’uomo nero voglia schiarire la sua pelle, sul perchè la donna nera desideri essere bionda o far parte di una coppia il più bianca possibile. Il dominato, il perseguitato, dice Fanon, non solo cerca di recuperare la tenuta di cui si è appropriato il padrone, ma vuole il posto del padrone. È evidente che, dopo il fallimento della rivoluzione russa e di quella cinese, questa considerazione deve occupare un posto centrale nella lotta anticapitalista.
Non condivido il ruolo che Fanon attribuisce alla violenza de los de abajo nel processo di trasformazione in soggetti delle proprie vite, nel processo di liberazione dall’oppressione. La violenza è necessaria ma non è la soluzione, come rileva giustamente Wallerstein giustamente nel suo commento a Pelle nera, maschere bianche.
Credo che dobbiamo approfondire questa discussione: come fare per non riprodurre la storia nella quale gli oppressi ripetono più volte l’oppressione di cui sono stati vittime. A mio parere, si tratta di creare qualcosa di nuovo, un mondo nuovo o nuove realtà, che non siano la fotocopia del mondo de los de arriba e che siano sufficientemente potenti da dissolvere, dall’immaginario collettivo, il posto centrale che occupa l’oppressore, il padrone, il proprietario. Continuo a credere che l’esperienza delle basi di appoggio dell’EZLN sia un esempio in questa direzione.
Fonte: La Jornada
Traduzione per Comune-info: Daniela Cavallo
Raúl Zibechi, scrittore e giornalista uruguayano dalla parte delle società in movimento è redattore del settimanale Brecha. I suoi articoli vengono pubblicati con puntualità in molti paesi del mondo, a cominciare dal Messico, dove Zibechi scrive regolarmente per la Jornada. In Italia ha collaborato per oltre dieci anni con Carta e ha pubblicato diversi libri: Il paradosso zapatista. La guerriglia antimilitarista nel Chiapas, Eleuthera; Genealogia della rivolta. Argentina. La società in movimento, Luca Sossella Editore; Disperdere il potere. Le comunità aymara oltre lo Stato boliviano, Carta. Territori in resistenza. Periferia urbana in America latina, Nova Delphi. L’edizione italiana del suo ultimo libro, “Alba di mondi altri” è stata stampata in Italia in luglio dalle edizioni Museodei. Molti altri articoli inviati da Zibechi a Comune-info sono qui.
Frantz Fanon e la materia viva dell’oppressione
Nuova edizione e nuova traduzione di «Pelle nera, maschere bianche», l’opera giovanile dello psichiatra martinicano che rivela ancora oggi una forte capacità di interrogare il presente
E che fornisce strumenti per comprendere criticamente il perdurare del diffuso razzismo in Europa e Stati Uniti verso rom, afroamericani, arabi, indigeni
di Roberto Beneduce (il manifesto, 3.12.2015)
L’esplosione è ormai ogni giorno, e continuerà ancora a lungo. Sarebbe stato forse questo l’esordio di Pelle nera, maschere bianche (Ets, pp. 216, euro 20), se Frantz Fanon l’avesse scritto oggi. Perché le esplosioni che egli avvertiva nei muscoli, quando sentiva qualcuno dire «Toh, un negro!» o rivolgerglisi in petit nègre, le esplosioni i cui fuochi già vedeva dalla lontana Fort-de-France, sembrano moltiplicarsi nel nostro presente come un lugubre salmo. Altri corpi, sessant’anni dopo, sono ancora alle prese con quel maledetto «Toh, un negro!»: nelle strade di Los Angeles, a Parma, nella banlieue di Parigi, nei nuovi ghetti in cui il razzismo non cessa di riprodursi.
L’elenco delle circostanze in cui la violenza continua ad affiorare prendendo di mira neri, rom, musulmani, immigrati, insomma quell’umanità «al ribasso», dà al libro di un Fanon allora appena ventisettenne una forza unica, che pochi scritti mantengono allo stesso modo a distanza di oltre sessant’anni. E se ogni epoca rilegge i classici cercandovi risposte ai suoi dubbi, Fanon è un classico indubbiamente atipico: perché è lui che continua a interpellare il nostro presente, e a rendere necessarie nuove traduzioni dei suoi scritti, in grado di estrarre con maggiore adeguatezza idee e argomenti che in quelle precedenti non avevano trovato analoga attenzione. Quella di Silvia Chiletti raggiunge l’obiettivo.
La malta di un pensiero
Oggi Pelle nera, maschere bianche il lettore italiano può assaporarlo finalmente appieno: traduzione meditata, che restituisce la tensione originaria del testo fanoniano e penetra nelle pieghe di uno stile a tratti nervoso, fra parole che vogliono colpire, farsi dardi, proiettili, come lui stesso scriveva in una lettera al fratello Joby, che intendono «provocare», come ricordava il filosofo francese Francis Jeanson nella prefazione del 1952.
Traduzione doppiamente riuscita perché permette di cogliere nella costruzione del testo e nel suo originalissimo linguaggio i materiali e i vocabolari con i quali Fanon costruisce la sua malta: il sistematico procedere hegeliano, la fenomenologia di Merleau-Ponty, l’esistenzialismo di Sartre, e naturalmente la psicoanalisi, quella di Lacan: un autore «contestato come pochi», la cui appassionata difesa dei «diritti della follia» lo interrogano da molti punti di vista, e con il quale a tratti sembra quasi identificarsi («il fatto che i suoi avversari siano di gran lunga più numerosi dei suoi sostenitori, non sembra preoccupare questo logico della follia», aveva scritto l’anno prima nella tesi di specializzazione sull’atassia di Friedreich).
Le traduzioni inglesi che si sono succedute negli anni, da quella del 1967 di Lam Markmann a quella del 2008 di Philcox, passando attraverso l’edizione del 1986 con l’introduzione di Homi Bhabha, hanno conosciuto le stesse incertezze e rivelato come potessero essere riconosciuti, in quello che Mbembe ha definito un «lavoro gigantesco», profili nuovi e aspetti lasciati sino a quel momento in ombra. Per Bhabha, era «il linguaggio psicoanalitico della domanda e del desiderio» l’orizzonte scelto «nell’articolare il problema dell’alienazione culturale nella colonia». Giusto. Nel clima degli studi postcoloniali diventava questo l’orizzonte più significativo. E d’altronde Fanon, nell’esplicitare il suo progetto di dissoluzione del «doppio narcisismo» (quello dei Bianchi e quello dei Neri), scrive sin dalle prime pagine: «In effetti penso che solo un’interpretazione psicoanalitica possa rivelare le anomalie affettive responsabili dell’intero edificio di un tale complesso».
Quel linguaggio costituisce dunque un aspetto certo fondamentale, ma il rischio è quello di dimenticarne altri, altrettanto decisivi, finendo per dare un rilievo eccessivo a quello che è stato il Fanon «postcoloniale». Ogni lettura che voglia però isolare e far prevalere uno solo dei profili a svantaggio del Fanon clinico e militante, o del Fanon lucido analista della dell’apocalisse coloniale e profeta delle sue conseguenze sociali e psichiche, finirebbe col ripetere quel gesto di frammentazione contro il quale aveva protestato Ernesto de Martino quando chiedeva, per sé e per gli altri, che si fosse considerati «persone intere».
Questo rischio deve essere sorvegliato soprattutto al cospetto di una scrittura che si sviluppa con testarda coerenza nel corso degli anni, e non intende trascurare nulla nel realizzare il suo progetto. Se complesso di inferiorità esiste, scrive del resto Fanon, il processo è «economico innanzitutto, di interiorizzazione, o meglio, di epidermizzzione di questa inferiorità, in secondo luogo».
Marx e Merleau-Ponty, dunque, non solo Lacan: perché è dal corpo e dall’esperienza vissuta, dagli sguardi che lo hanno tormentato, che Fanon trae la linfa infinita delle sue riflessioni («non parlo che di cose vissute», questa l’epigrafe, tratta da Nietzsche, posta nella sua tesi di specializzazione).
E soprattutto un’attenzione incessante al tempo e alla storia («l’architettura del presente lavoro si situa nella temporalità»): il colonizzato, il nero che sogna la vendetta nel letto della bianca, l’indocinese nient’affatto docile, il bambino che vede Tarzan, la società antillana nevrotica perché dominata dall’idea del confronto con l’altro. Ciascun soggetto è ancorato al suocontesto, alla storia, e solo da quest’ultima traggono senso la sua esperienza e la sua sofferenza.
La nuova edizione di Pelle nera, maschere bianche, oltre a rispondere a un’attesa diffusa e giungere in un momento in cui la riflessione di Fanon è per più ragioni propizia (il lettore può trovare in italiano ormai tutti i suoi libri, nonché gli scritti psichiatrici, a torto giudicati minori), ha però un altro merito. L’introduzione di Vinzia Fiorino, nell’offrire preziose chiavi di lettura, spinge infatti Fanon a incontrare una riva inconsueta, o meglio «imprevista», come suggerisce la stessa autrice: quella del pensiero femminista italiano in una delle sue espressioni più note, Carla Lonzi.
Oltre le velenose diagnosi
Si tratta di un’operazione doppiamente coraggiosa. In primo luogo perché il dialogo fra Fanon e la donna (antillana, in particolare), individua senza dubbio una delle tensioni più feconde del suo pensiero, ma soprattutto perché in passato a Fanon non sono state risparmiate critiche di ogni genere: omofobo, misogino, sedotto dal mito del guerrigliero algerino con il quale avrebbe tentato di guarire la ferita narcisistica di una mascolinità martinicana ferita e umiliata... A scrivere queste velenose diagnosi, di cui hanno fatto giustizia interpreti rigorosi come Gibson o Sharpley-Whiting, sono state firme prestigiose: da Françoise Vergès a Albert Memmi, quest’ultimo giungendo a sostenere che l’opera di Fanon è essenzialmente motivata da bisogni personali, scandita da un’identificazione con la Francia («con il dominante») e dal «rifiuto di sé». Mediocre psicologismo, ha commentato giustamente Brigitte Riera, adottando un giudizio sin troppo benevolo nei confronti di una critica ingiusta e stizzosa.
Di un libro da leggere e rileggere con pazienza, con passione, devo ricordare almeno un ultimo aspetto, oggi particolarmente saliente. Se per Fanon «inventariare il reale» è «compito colossale», che ci lascia sempre con un senso di incompletezza, se non cessa mai di rivelarsi, nulla nascondendo - a chi sa leggere le sue parole - della propria esperienza, egli chiede (a sé e a noi) l’impegno forse più doloroso, non essere cioè schiavi del passato: «Non ho dunque altro da fare su questa terra che vendicare i Neri del XVII secolo? (...) Io sono il mio proprio fondamento. Ed è superando il dato storico, strumentale, che introduco il ciclo della mia libertà». Domanda sorprendente, affermazione radicale: nasce qui forse l’invito più decisivo di un pensiero che, mai amnesico nei confronti del passato, degli inganni del sapere (quello psichiatrico, in primo luogo), e delle radici oscure dell’alienazione, intende però curare la Storia stessa.
In un momento così difficile per l’Europa, la scelta di ripubblicare Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon (Edizioni ETS, Collana «Studi culturali», pp. 216, euro 20, cura redazionale di Marica Setaro) non è solamente un’operazione culturale meritoria, è un atto politico. L’attualità di questo testo - spiega Vinzia Fiorino nell’introduzione - è del tutto evidente di fronte «ai significativi processi migratori che negli ultimi anni hanno visto riemergere antichi e beceri razzismi, afflati umanitari, inquietanti silenzi e insulsi balbettii».
Il rinnovato interesse per la figura di Fanon è anche contiguo alla ripresa degli studi su altri maestri del pensiero critico come Michel Foucault, Franco Basaglia e Carla Lonzi: una nouvelle vague che si spiega alla luce «delle trasformazioni epocali che nelle regioni del mondo economicamente più avanzate hanno ridisegnato nuove aree di marginalità e definito inedite perdite di status per figure sociali diverse».
La traduzionedi Silvia Chiletti restituisce la forza prorompente del linguaggio di Fanon, impegnato nel decostruire la realtà circostante per svelarne attraverso l’analisi critica dei discorsile contraddizioni socio-culturali. Tra i danni a lungo termine provocati dal colonialismo figura il desiderio di «lattificazione» innestato dalla società bianca occidentale. «Il Nero non è un uomo. (...) Il Nero è un uomo nero», spiega Fanon: «ciò vuol dire che a causa di tutta una serie di aberrazioni affettive egli si colloca all’interno di un universo da cui bisognerà tirarlo fuori». Agli occhi dello psichiatra lo svelamento del desiderio di «bianchezza» si impone dunque in prima istanza come una terapia (militante) per liberare «l’uomo di colore da se stesso».
Dal punto di vista politico, la critica ai sostenitori della «negritudine», che pure aveva attratto originariamente Fanon, allarga l’orizzonte in direzione di una lotta di più ampio raggio. Scrive Francis Jeanson nell’introduzione francese del 1952: «(Per Fanon), il postulare una salvezza futura delle società umane non apporta alcun rimedio alle disgrazie degli uomini di questo tempo. (...) L’uomo che si tratta di salvare non è l’astrazione di un’epoca inesistente, è il negro strappato dal suo villaggio, il fuciliere senegalese (...), esistenze attualmente in questione, di cui ciascuna è unica, insostituibile, vissuta senza ritorno...».
Le dialettiche di Hegel e Marx, ma anche le categorie psicoanalitiche di Freud e Adler, ne escono quindi fortemente ridimensionate e vengono ricondotte alla loro natura occidentale (centrica). Nello stesso tempo, se la «bianchezza» è un marcatore che«definisce la titolarità della sovranità e i confini della cittadinanza», la lotta per salvare il nero non può che divenire rivoluzionaria per l’intero sistema. La pelle e il corpo saranno il campo di battaglia, il «desiderio», una volta rivelata e superata la nevrosi, lo strumento di liberazione. (Alessandro Santagata)
Robinson Crusoe
Chi ha detto che il protagonista di Defoe è un modello positivo?
L’eterna epopea del naufrago eroe capitalista
di Lucio Villari (la Repubblica, 3.12.2015)
La moderna Europa occidentale - quella del benessere, della ricchezza, del capitalismo industriale e finanziario - deve molto agli schiavi neri, provenienti dall’Africa, al loro lavoro, al loro riprodursi e al contributo fondamentale che hanno dato alla nascita degli Stati Uniti sia quando soffrivano nelle piantagioni del Sud sia quando furono liberati, dopo una sanguinosa guerra civile, dalla loro condizione. Liberati, ricordiamolo, grazie anche all’indignazione morale suscitata da un mediocre romanzo apparso nel 1851. Uno dei libri più celebri e più letti in America e in tutto il mondo: La capanna dello zio Tom. La sua autrice, Harriet Elizabeth Beecher Stowe, fu definita da Lincoln “la piccola donna che vinse la guerra civile”.
Un romanzo del genere non sarebbe stato pensabile, ovviamente, in Europa, dove gli schiavi neri (in America, nel 1861, erano quattro milioni) non esistevano, ma forse avrebbe potuto essere scritto dal qualche discendente di imprenditori, commercianti, banchieri, avvocati, faccendieri, investitori in Borsa, vissuti tra il Seicento e il Settecento. Distinti gentiluomini che quei neri avevano portato in America con un flusso regolare e secolare di navi che partivano a pieno carico dalle coste occidentali dell’Africa. Fecero guadagni da capogiro e con i loro investimenti gettarono le basi della rivoluzione industriale europea.
Lo scrisse chiaramente un quasi coetaneo della Beecher Stowe, Karl Marx. In tante parti del Capitale e in particolare nel capitolo del Libro Primo “Genesi del capitalista industriale” attribuì anche alla tratta degli schiavi «uno dei momenti fondamentali dell’accumulazione originaria ». Ecco una sua frase: «La trasformazione dell’Africa in una riserva di caccia commerciale dei neri è tra i segni che contraddistinguono l’aurora dell’era della produzione capitalistica».
Dal punto di vista letterario le tante pagine che Marx ha dedicato al colonialismo e a uno dei suoi plusvalori più redditizi, la tratta degli schiavi, sono forse più efficaci della prosa della Beecher Stowe. Ad esempio: «La funzione preponderante che ebbe allora il sistema coloniale fu il “Dio straniero” che si mise sull’altare accanto ai vecchi idoli dell’Europa e che un bel giorno con una spinta improvvisa li fece ruzzolar via tutti insieme e proclamò che fare del plusvalore era il fine ultimo e unico dell’umanità».
La ricerca storica ha confermato che la Beecher Stowe e Marx avevano colto nel segno. Una recente indagine della nostra Banca d’Italia ha documentato che dall’Africa partirono, incatenati, per l’America 12 milioni e mezzo di persone. Il pensiero corre, evidentemente, alle centinaia di migliaia di profughi, fuggiaschi, esuli, perseguitati, migranti che continuano a solcare il Mediterraneo in cerca di salvezza, facendo però guadagnare milioni di euro a “imprenditori” africani, mediorientali, europei.
Vedremo sul lungo periodo come andrà a finire questa diversa ma singolare “tratta” di esseri umani. Comunque, tra il Seicento e il Settecento altri esseri umani, presi prigionieri e venduti come merce, diedero un reddito enorme ai “negrieri” e agli armatori delle navi negriere.
Che la cosa allora fosse del tutto normale per gli europei lo prova, tra i tanti documenti che conosciamo, un romanzo tra i più affascinanti della letteratura europea: La vita e le straordinarie sorprendenti avventure di Robinson Crusoe di York. L’opera è del 1719 ed ebbe un successo enorme. Robinson, vissuto, come è scritto nel titolo, “ventotto anni tutto solo in un’isola disabitata presso le coste dell’America”, è un’invenzione letteraria sulla quale si è detto tutto.
Ma ancora oggi a qualche lettore forse possono sfuggire alcune singolari pagine di Defoe che svelano alcuni lati inediti di Robinson, la cui vicenda umana e la cui capacità di sopravvivenza sono sempre state lette come simboli, come mito dell’intelligenza pragmatica, della solidità morale, della abilità consapevole. Anche il nostro Marx fu colpito dal fascino sottile del romanzo e, sempre nel Capitale, sottolineò che «tutte le relazioni tra Robinson e le cose che costituiscono la sua ricchezza sono semplici e trasparenti. In esse sono contenute tutte le determinazioni essenziali del valore ».
Ma un lettore più acuto e ironico fu James Joyce che in una conferenza tenuta a Trieste nel 1912 dichiarò: «Tutta l’anima inglese è in Crusoe: l’indipendenza virile, la crudeltà inconscia, l’intelligenza tardiva eppur efficace, l’apatia sessuale, la religiosità pratica, la taciturnità calcolatrice».
Ma né Marx né Joyce si erano accorti che il “marinaio” Robinson non era affatto un marinaio, ma un avventuriero in cerca di fortuna. Non contento di essere divenuto proprietario terriero in Brasile, aveva fiutato nuovi affari più redditizi. Era diventato un trafficante di schiavi. E fu in uno dei suoi viaggi come negriero che era naufragato in un giorno di settembre del 1659. La sua vita di prigioniero su un’isola deserta non cambiò il suo modo di essere e di pensare.
Defoe mostra un uomo la cui struttura morale e culturale resta inalterata nella solitudine di quegli anni, mantenendo i tratti duri e invincibili del proprietario, del padrone (questa è la prima parola che insegna a Venerdì), del colono bianco (nell’isola deserta, oltre all’abitazione fatta all’inizio con duro lavoro manuale «avevo la mia residenza di campagna; e anche lì, possedevo ora una discreta colonia»).
Tutto questo fa parte della struttura portante del racconto di Defoe, ma c’è in lui una strana consapevolezza nel far muovere, nel romanzo, il suo straordinario personaggio che, nonostante tutto, tende alla mediocrità opportunista più che, dopo quell’esperienza eccezionale, a significati e valori alti. Infatti, uscito vivo dalla prigionia, Defoe fa ritornare Robinson sull’isola, dove intanto si erano insediati degli scampati da altri naufragi e loschi figuri d’ogni genere. Torna con intenzioni precise: «suddivisi l’isola tra loro riservandomene la proprietà ». Anche da qui cominciava “l’accumulazione originaria”.
Frantz Fanon, un’anatomia del razzismo
di Valeria Ribeiro Corossacz (Alfadeta-2, 17 marzo 2016)
Da tempo introvabile nelle librerie italiane (lo aveva pubblicato Tropea vent’anni fa), la riedizione di Pelle nera, maschere bianche di Frantz Fanon è una scelta editoriale quanto mai opportuna. Leggere, o rileggere, questo testo classico scritto nel 1952 è infatti l’occasione per riflettere sulle radici del nostro razzismo, che non nasce con i flussi migratori, e sulle nostre esperienze coloniali, questioni che sembrano non riguardarci e che troppo spesso consideriamo sconnesse dalla nostra attualità.
Questo testo non è solo un documento storico, ma uno strumento per capire e smontare ciò che abbiamo imparato a considerare come inevitabile ed eterno: l’atteggiamento razzista che porta al semplice pensiero «Toh, un negro!», al quale si accompagna l’inferiorizzazione dei neri e la valorizzazione dei bianchi.
Uno dei punti più pregnanti dell’analisi di Fanon è proprio l’articolazione di una visione della realtà sociale in cui neri e bianchi esistono nella relazione che li definisce come tali, e non in sé. Quello che intende operare Fanon è, scrive, «un tentativo di comprensione del rapporto Nero-Bianco». È questo certamente il motivo per cui la sua opera è stata ampiamente ripresa dagli studi sulla bianchezza, un campo in crescita anche in Italia. Quando Fanon scrive che il «problema nero» non è unicamente dei neri, non solo vuol dire che è possibile (e necessario) che «un’esperienza soggettiva possa essere compresa dall’altro», ma anche affermare l’urgenza di studiare la posizione dei bianchi nel razzismo e così realizzare quel nuovo umanesimo che difende (su questo è utile rimandare alla lettura di Paul Gilroy).
Pelle nera, maschere bianche mette a nudo quei processi di invisibilizzazione del razzismo che portano a non vedere come i corpi, i loro movimenti e il posto che occupano siano costantemente modellati, e come questo addomesticamento dei corpi costituisca la forma più efficace e profonda di apprendimento del razzismo, sia per i bianchi sia per i neri. Prima della parola (anche forzatamente gentile, infantilizzante) e dell’atto violento, il razzismo è gesto, sguardo. Fanon parla proprio di «epidermizzazione» di questa inferiorità, qualcosa che va oltre l’interiorizzazione dello sguardo inferiorizzante del bianco da parte del nero, e che struttura il proprio sé attraverso il corpo.
Pelle nera, maschere bianche non solo ci parla degli aspetti più nevrotizzati di questo processo, oggetto dello sguardo clinico, ma analizza come il razzismo penetri in tutte e tutti noi. Non dobbiamo tacere questo aspetto del razzismo, ma anzi affrontarlo, anche se può sembrare difficile da cogliere, da oggettivare: se sono imprescindibili i dati statistici che quantificano il razzismo, altrettanto irrinunciabile è studiarlo nelle vite, nei corpi e nelle parole degli individui.
Fanon ci spinge a osare, a pensare che la relazione bianco-nero può e deve essere sovvertita, e lo fa parlando a neri e bianchi. Non solo. Fanon è capace di osservare le differenze di classe che attraversano il razzismo, e di porre la questione della solidarietà, una questione di estrema attualità: «Spesso mi sono fatto fermare in pieno giorno da ispettori di polizia che mi prendevano per un arabo e quando scoprivano la mia origine s’affrettavano a scusarsi: “Sappiamo bene che un martinicano è diverso da un arabo”. Protestavo con veemenza».
La nuova edizione di Pelle nera, maschere bianche è accompagnata da un’introduzione di Vinzia Fiorino, i cui pregi sono molteplici: restituirci alcuni percorsi di lettura che fanno di quest’opera una lettura attuale, offrire un percorso della sua ricezione e circolazione in Italia, e mettere in luce come essa si presti a diverse appropriazioni e accostamenti che attraversano le lotte dei gruppi dominati. Un accostamento in particolare ci viene proposto, quello tra Fanon e Carla Lonzi, che può apparire spiazzante.
Secondo Fiorino, non si tratta di guardare all’analogia tra donne e neri in quanto gruppi di oppressi, ma di soffermarsi su un comune modo di procedere di Fanon e Lonzi - basato anche sul loro, seppur diverso, dialogo con Hegel - nell’analisi della realtà dell’oppressione che porta a «una rottura senza continuità», e che spinge i soggetti dominanti a pensarsi a partire da sé: «la mia coscienza negra non si dà come mancanza».
L’accostamento tra Fanon e Lonzi apre anche ad altri scenari che ci segnalano conflitti e trasformazioni. Esso ci permette di osservare un momento dell’esperienza politica di Lonzi, e del femminismo italiano, rappresentato dall’incontro con Elvira Banotti nel gruppo «Rivolta». La figura di Banotti ci riporta proprio a quei meccanismi di rimozione del nostro passato coloniale, a come essi abbiano alimentato il nostro razzismo attuale, e come essi interroghino ancora oggi le pratiche femministe.
La sessualità come terreno sociale è un altro possibile tema comune a Fanon e Lonzi. Si tratta di un campo che è stato oggetto di un lavoro collettivo di decostruzione da parte del femminismo, che ha svelato il carattere non naturale dell’eterosessualità, e come la sessualità della donna sia condizionata dai rapporti di potere tra i sessi. I due capitoli «La donna di colore e il Bianco» e «L’uomo di colore e la Bianca» descrivono alcuni dei meccanismi di quello che poi sarà analizzato dal femminismo come l’intreccio di razzismo e sessismo.
Tuttavia in Fanon ritroviamo inevitabilmente una concezione della sessualità il cui perimetro rimane l’eterosessualità come dato indiscusso. Sarà il femminismo a nominare, e oltrepassare, questo perimetro.
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Frantz Fanon
Pelle nera, maschere bianche
traduzione di Silvia Chiletti, introduzione di Vinzia Fiorino
ETS, 2015, 216 pp., € 20
Brasillach come Dante. Dalla parte di Virgilio
Nella tesi universitaria dello scrittore francese l’ammirazione per l’universalità del poeta di fronte al quale "Goethe impallidisce"
di Stenio Solinas ("Il Giornale", Gio, 27/08/2015)
Negli anni Trenta del secolo scorso, l’avvicinarsi del bimillenario virgiliano offrì a un ventenne studente francese l’occasione per una tesina universitaria sull’autore dell’ Eneide . In Francia, Virgilio era per i seguaci dell’Action Française di Charles Maurras una figura emblematica: «Il poeta dell’ordine, il poeta dello Stato e della nazione, il poeta dell’Impero» e si doveva a un maurrassiano come André Bellesort un saggio, Virgile. Son oeuvre et son temps , che resta fra le opere fondamentali in materia. Bellesort era stato anche insegnante di liceo del giovane studente in questione, le simpatie del quale verso il movimento di Maurras completavano il cerchio ideologico-intellettuale. Presence de Virgile fu infatti il titolo scelto per la dissertazione che nel 1931 apparve in volume per le edizioni Redier, avendo per fascetta pubblicitaria la frase «Virgilio scampato alla Sorbona»... Lo studente stava per compiere ventidue anni e si chiamava Robert Brasillach.
Nel tempo, critici ostili e critici favorevoli al suo autore si sono trovati d’accordo nel definire Presence de Virgile una sorta di autobiografia, il che è giusto, ma fuorviante, nel senso che l’empatia fra lo scrittore e il suo soggetto serve a illuminare il secondo, non a far brillare il primo, è uno strumento, anche stilistico, per renderlo con maggior nitidezza. A vent’anni, Brasillach ha già le sottigliezze di uno scrittore sicuro di sé. Del resto, lo stesso titolo si muove sull’onda di una contemporaneità che rifugge il romanzo storico e privilegia il presente. Adesso che il libro appare per la prima volta in italiano, in una veste grafica elegante e criticamente ben curata ( Presenza di Virgilio , introduzione di Attilio Cucchi, traduzione e note di Claudio Mutti, fotografie di Cristina Gregolin, Edizioni all’insegna del Veltro, pagg. 251, euro 22) quella «contemporaneità» merita qualche spiegazione, non foss’altro perché, a settanta e passa anni da allora, l’inattualità di Virgilio è, per dirla con Piero Buscaroli, più nicciana che mai, facendo cioè parte di quei mondi e paesaggi intellettuali dove gli imperi scomparsi, sottratti e purificati dalle necessità della storia, vivono nella nostalgia di pochi e in una memoria che solo amore e pietà rendono senza fine, eterna e quindi possibile.
Fra le due guerre, al contrario, imperi vecchi e nuovi si fronteggiano e con essi visioni del mondo, richiami ideali e identificazioni retoriche, esaltazioni nazionali e nuovi innesti all’interno di tradizioni sentite come vitali, opzioni politiche ancora si contrappongono e tutto ancora sembra possibile... Quando Brasillach esalta «l’universalità di Virgilio», di fronte alla quale «Goethe impallidisce», rientra nello spirito del tempo che dieci anni dopo vedrà Thomas Stearns Eliot definire Virgilio «il classico supremo, centro della civiltà europea, in una posizione che nessun altro poeta può condividere o usurpare. L’Impero romano e la lingua latina non erano un impero e una lingua qualsiasi: avevano un destino straordinario nei nostri confronti. Il poeta nel quale quell’impero e quella lingua raggiunsero piena coscienza e piena espressione è perciò un poeta dal destino eccezionale».
In Presenza di Virgilio , Brasillach traccia per lo scrittore latino parallelismi con il francese Maurice Barrès e l’italiano d’Annunzio, «il sentimento poetico di una unione con la terra e con i morti» del primo, «l’orgoglio e l’entusiasmo pagano» del secondo. Ma, aggiunge, «aveva anche, più di questi due, una tenerezza e un’umanità insuperate» e questo è, senza saperlo, un calco della definizione leopardiana di Virgilio come «sommo conoscitore de’ cuori ed esperto delle passioni». Perché, scrive ancora Brasillach, «aveva ammirato la forza, volendo che fosse pietosa e giusta. Era stato immensamente tenero, senza cadere quasi mai nell’utopia e scambiare i sogni per la realtà. Seppe conservare ai suoi incantesimi una potenza che non fosse nefasta».
Presenza di Virgilio è pieno di osservazioni così, accompagnate da un pensiero irrazionale che dava a questo Virgilio immaginato pensieri per nulla immaginari: «Ciò che noi comprendiamo non può costituire tutto quanto l’universo. E gli Orientali gli avevano insegnato che intorno alle cose che noi comprendiamo, c’è come un alone luminoso nel quale non penetreremo mai, e che questo alone è il segno e il fascino della vita». Spirito né pedante né accademico, Brasillach coglie in Virgilio «il necessario clima della giovinezza, che è un clima di amicizia. Come quasi tutti i grandi scrittori, Virgilio apparteneva a un gruppo. Non si pensi che gli appassionati di storia letteraria abbiano l’ultima parola. Essi sono incapaci di trovare ciò che è essenziale: l’atmosfera generale del gruppo, il fatto che certe parole, canzoni, inflessioni di voce sono diventate parole d’ordine, segni di riconoscimento. In un giro di frase, ci si sente parte del medesimo universo. Ogni grande scrittore è innanzitutto una famiglia morta, poi è una squadra».
Anche l’identificazione di Virgilio con l’Impero, offre a Brasillach spunti interessanti: «Nel suo intimo, ben ancorata a un patriottismo duro come una roccia, c’era forse l’idea che la letteratura, se è solo letteratura, è un gioco. Ciò non gli impediva di adorare le complicate regole di questo gioco, di giocare coscienziosamente e di scrivere ben altro che volantini di propaganda». Ecco liquidata, con un tocco felice, quell’idea dell’ Eneide come tributo adulatorio, serbatoio ideologico dell’imperialismo romano che ha avuto i suoi stupidi seguaci. Al contrario, significava comprendere come una grande potenza poetica arrivasse a misurarsi con un grande argomento: l’impero trovava il cantore capace di cantarlo. Celebrazione imperiale e compassione, pietà dei caduti, ansie e presagi, e insomma « parcere subiectis et debellare superbos », piegare gli orgogliosi e risparmiare i vinti, nel racconto di chi, come proprio epitaffio, vorrà scritto « cecini pascue, rure, duci », cantai i pascoli, i campi, i duci.
Giustamente, nell’introduzione Virgilio Cucchi scrive che nel sottolineare l’idea, «molto sentita in Virgilio, della creazione di un’indispensabile classe media, del ristabilimento delle tradizioni, come del recupero della religione nazionale e del nuovo insediamento dei contadini nei campi abbandonati», Brasillach non facesse altro che mettere sotto gli occhi del lettore «alcune posizioni della stessa Action Française, come indica il ricorso al lessico politico moderno quando si sostiene che il poeta proponesse al politico la monarchia tradizionalista». Del resto, Tarmo Kunnas, in La tentazione fascista (Akropolis editore), utilizza più volte Presence de Virgile per analizzare la visone del mondo di Brasillach. Anche questo aiuta a capire perché quello che fu il più contemporaneo degli scrittori della sua generazione, al punto di scrivere le proprie memorie già a trent’anni, sia oggi quasi dimenticato. Era troppo ingenuo, troppo ottimista, troppo pieno di gioia di vivere per sopravvivere alla sconfitta del suo mondo, alle colpe e agli orrori di cui era co-responsabile, alla punizione per aver troppo creduto e poco dubitato. Il riscatto di Brasillach si annida nella pietas virgiliana del suo esordio di scrittore.
L’altro sud di Aliano vota la poesia
Paesologia. Il festival «La luna e i calanchi» ideato da Franco Arminio
di Angelo Mastrandrea (il manifesto, 26.08.2015)
Alla sua terza edizione (o quarta se si guarda pure al «numero zero» del 2011), il festival della paesologia di Aliano «La luna e i calanchi» non solo regge ma si allarga, nel tempo e nello spazio. Sei giorni filati (dal 22 al 27 agosto), giorno e notte senza soste, di passeggiate comunitarie, poesie al chiaro di luna, improvvisazioni letterarie, attraversamenti in bici dell’Italia dell’osso, dall’Irpinia d’Oriente ai calanchi lucani, parlamenti comunitari dove l’importante è parlarsi piuttosto che decidere. Insomma il maggiore evento poetico-politico del Mezzogiorno d’Italia (con tutto il rispetto per le notti della taranta e le decine di festival pur interessanti che intasano la stagione turistica a sud di Napoli), nella suggestiva «Gagliano» di Carlo Levi, in piena terra del rimorso e del confino fascista.
«Nel paese descritto da Carlo Levi nel suo Cristo si è fermato a Eboli si radunano lietezze operose e inoperose, affanni, tremori, tentativi di seminare qualcosa nella miseria spirituale dilagante. Aliano è lontana, non arrivano masse distratte, ma casi singoli, anime spaiate, gente che non appartiene al consorzio dei furbi e degli ingordi. Aliano è un’isola, un altrove dentro l’Italia, un luogo in cui anche la desolazione diventa beatitudine: è l’eros dell’orlo, l’oreficeria del vuoto. Il paesaggio inoperoso dei calanchi, una volta considerato emblema del disagio, oggi diventa lirico, solenne. Ciò che stava dietro si fa avanti. Il margine diventa fecondo. La festa della paesologia contiene l’idea che nei luoghi dell’Italia interna può nascere qualche germoglio di una nuova civiltà che ci piace chiamare umanesimo delle montagne», scrive Franco Arminio, che del festival è ideatore e deus ex machina, instancabile animatore e spina dorsale.
Lasciamo che sia lui a spiegare di cosa si tratti: «Non è un festival del cinema, della letteratura, della musica, ma una comunità provvisoria che intreccia gli abitanti del paese, le persone invitate e i visitatori. Per sei giorni e sei notti si legge, si canta, si suona, si discute in un cantiere che è una serena obiezione all’autismo corale. Il futuro è in chi crede alla terra e alla sua sacralità, non in chi pensa solo a saccheggiarla. Il futuro è in chi non guarda il Sud con la vecchia lente sviluppista, è in chi lavora con scrupolo e utopia, in chi tiene assieme il computer e il pero selvatico». Insomma, spiega Arminio «la festa della paesologia non propone un divertimento estivo, ma una nuova militanza, poetica e politica. Chi viene ad Aliano sceglie una visione, partecipa a una lotta. La luna e i calanchi fa parte di un movimento più ampio sulle aree interne».
Chi è stato da queste parti almeno una volta capisce cosa voglia dire ascoltare un reading poetico alle tre del mattino o vedere giovani globalizzati e anziani del paese ascoltare un monologo teatrale in una piazzetta altrimenti deserta di un paese suggestivo ma, come centinaia di altri nel Mezzogiorno d’Italia, abbandonato da vecchie e nuove emigrazioni.
Chissà cosa ne avrebbe pensato Carlo Levi che qui è sepolto, e pure Rocco Scotellaro, nel riascoltare i suoi versi tra i figli e nipoti di quella civiltà contadina sconfitta dalla modernità, nel vedere che è ancora possibile riempire le piazze con la poesia.
(Il programma è su www.lalunaeicalanchi.it)
I semi, il suolo e i piccoli agricoltori sono vitali per la rinascita della Grecia
di Vandana Shiva (L’Huffington Post, 29/07/2015)
Sono in Nigeria, in occasione del 20° anniversario dell’esecuzione del leader ambientalista nigeriano Ken Saro Wiwa, per visitare l’Ogoniland, che è stata devastata dalla Shell.
La rovina del fertile delta del Niger, causata dalla cupidigia e dall’irresponsabilità dell’industria petrolifera ha forti parallelismi con la rovina della Grecia causata dalla cupidigia e dall’irresponsabilità delle banche e delle istituzioni finanziarie.
Ken lavorava per proteggere la sua terra e la vita del suo popolo e per questo è stato punito con la morte, mentre gli inquinatori e la Shell, che stavano commettendo crimini contro la natura e contro le persone, restano liberi. La Shell sta adesso espandendo le sue trivellazioni nell’Artico, dove il ghiaccio si scioglie a causa del cambiamento climatico, al quale la stessa società ha contribuito in modo significativo.
I cittadini della Grecia hanno votato un chiaro "no" nel recente referendum sull’austerità, ma sono stati puniti con ulteriori misure di austerità, mentre le banche che hanno concesso cattivi prestiti, sono state salvate dalle istituzioni finanziarie pubbliche.
Questo, che viene definito piano di salvataggio della Grecia, non è che la perpetuazione di un modello economico che non funziona e che deve essere superato, come ha detto chiaramente Papa Francesco nella sua Enciclica.
In tempo di crisi, sono le piccole aziende agricole della Grecia a dare lavoro ai giovani disoccupati. Sono gli orti nei giardini e sui balconi che hanno permesso di mangiare alla gente di Atene, mentre le banche erano chiuse e i pensionati ridotti sul lastrico. E Peliti, nostro partner nell’Alleanza Globale per la Libertà dei Semi, ha visto aumentare la richiesta di sementi, considerato che il popolo, per poter sopravvivere a questa guerra finanziaria contro la Grecia, deve coltivarsi il proprio cibo, così come i "Giardini della vittoria" permisero ai cittadini americani ed europei di sopravvivere durante la Seconda Guerra Mondiale .
Eppure le banche europee vogliono distruggere proprio le aziende agricole. Un articolo del Financial Times del 22 luglio afferma che l’aumento delle tasse per gli agricoltori è un elemento del nuovo pacchetto di misure di austerità. Il coltivatore di grano Panos Karambelas dalla regione di Larissa dice: "Ci sono pochi produttori nella nostra regione che possono permettersi di pagare tasse per un ammontare quadruplo rispetto allo scorso anno".
Questo al di là dell’austerità, è un genocidio. Si tratta di qualcosa che va oltre l’economia, è la paura di tutto ciò che è vivo e libero e a causa di questa crescente paura nasce il bisogno di sopprimere la libertà e la vita. L’assalto ai piccoli agricoltori della Grecia, 300.000 contadini indiani spinti al suicidio, sono i sintomi di questa guerra contro la vita basata sulla paura.
La nostra risposta deve essere un amore appassionato per la vita e per la libertà. È per questo che dobbiamo difendere i semi della libertà e conservare i nostri semi, dobbiamo difendere la nostra libertà alimentare e coltivare il nostro cibo. Nel 2014, la Commissione europea è stata costretta a tornare indietro sulle proposte di legge sui semi che avrebbero costretto la Grecia alla totale sudditanza in campo sementiero. La nuova "ricetta" che prevede l’aumento delle imposte agli agricoltori è un tentativo di costringere la Grecia alla sudditanza alimentare e finanziaria.
L’Europa deve essere indotta a recedere da questa impostazione. E come abbiamo scritto nel nostro Manifesto Terra Viva [ http://www.navdanyainternational.it/attachments/article/202/Manifesto%20italiano.pdf] è il momento di dare vita ad una nuova economia e ad una nuova democrazia che abbiano al centro dell’impresa umana la vita e la libertà delle persone, al posto della distruzione della vita, dell’avidità delle aziende, e di governi che minano le basi della democrazia.
* http://www.huffingtonpost.it/vandana-shiva/semi-suolo-agricoltori-rinascita-grecia_b_7888156.html?utm_hp_ref=italy
CRISTO SI É FERMATO A OVEST
RISPONDE Umberto Galimberti (La Repubblica - D, 24.07.2015)
Molte sono le ragioni storiche che hanno fatto dell’Occidente la culla della religione cristiana. E una è la conseguenza: un destino comune
Le ragioni per cui il cristianesimo è nato nell’area mediterranea che possiamo considerare la culla dell’Occidente sono diverse e tra loro convergenti:
1. La prima è che il cristianesimo è una variante dell’ebraismo. Come dice più esplicitamente Nietzsche, un’«eresia ebraica». Con tale matrice il cristianesimo rimane confuso, agli occhi di Roma, almeno fino al 111 d. C. quando Plinio il Giovane, in qualità di Governatore di Bitinia e Ponto, chiede all’imperatore Traiano come si deve comportare nei confronti di una setta che non si definisce ebrea, ma cristiana. Quindi anche tutte le persecuzioni che prima di quella data i cristiani si attribuiscono, sono in realtà persecuzioni degli ebrei, la cui religione, accanto a quella ellenico-romana, era la più diffusa nel Mediterraneo.
2. Il cristianesimo si allargò oltre l’ebraismo, nel mondo pagano, dopo l’accesa contesa al Concilio di Gerusalemme verso il 50 d.C., tra Paolo di Tarso e Pietro che, contro il parere del primo, voleva estendere ai pagani convertiti l’applicazione della legge mosaica. Paolo, che parlava ebraico, greco e latino, fu il primo, con le lettere, a gettare le basi teologiche del cristianesimo e secondo Nietzsche - e non solo - fu il vero fondatore del cristianesimo, che altrimenti si sarebbe estinto con la morte dei discepoli di Gesù.
3. Sempre nella culla del Mediterraneo si era diffusa la religione gnostica, che fondeva in una visione tragico-nichilista di un Dio dimentico delle sue creature motivi delle religioni misteriche e dello zoroastrismo e credenze religiose pre-cristiane e giudaiche, successivamente composte con la filosofia platonica e neoplatonica. La gnosi, con le sue scuole, i suoi maestri, le sue accademie, l’ultima delle quali fu chiusa nel 529 da Giustiniano, era diffusa nell’area che va dalla Persia all’Egitto, passando per le terre babilonesi, turche, siriache, greche.
4. Per combattere la Gnosi i Padri della Chiesa ritennero di dover dare un fondamento teologico al cristianesimo, almeno altrettanto solido quanto quello di cui disponeva la Gnosi. E allo scopo adottarono la filosofia di Platone, che per la sua concezione dualistica di un cielo iperuranico e un mondo sensibile che a quel cielo doveva adeguarsi, meglio si prestava alla concezione cristiana che prevedeva una città terrena e una celeste (come vuole l’opera di Agostino d’Ippona, che spostò l’asse della filosofia di Platone dal registro della conoscenza al registro della salvezza). Il recupero della filosofia di Aristotele avvenne mille anni dopo con Tommaso d’Aquino e ancora oggi la teologia cristiana è ricalcata sul modello della filosofia platonico-aristotelica che non ha alcuna relazione col messaggio evangelico che parla d’amore e carità.
5. Il resto è storia nota. Nel 391, con Teodosio, il Cristianesimo diventa religione di Stato, e nel 476, quando l’Impero Romano d’Occidente cade definitivamente, la Chiesa cristiana, che nel frattempo aveva ereditato la cultura giuridica e amministrativa dell’Impero Romano, prende a governare materialmente e spiritualmente l’Occidente, diffondendo quei valori di libertà («non devono più esserci né schiavi né padroni»), di uguaglianza («siamo tutti figli di Dio») e di fraternità («ama il prossimo tuo come te stesso»), mai attuati nella storia governata dalla Chiesa, ma riproposti in versione laica dalla Rivoluzione francese e tuttora in via di faticosa attuazione. Possiamo allora concludere con Baget Bozzo che Occidente e cristianesimo, per essere nati l’uno con l’altro, avranno ineluttabilmente lo stesso destino.
Basilicata tra le Regioni più povere d’Italia. Il petrolio arricchisce solo gli altri
di Maria Rita D’Orsogna
Fisico, docente universitario, attivista ambientale *
Come sempre, i numeri non possono mentire. Il rapporto Istat sulla povertà in Italia, pubblicato il 15 luglio 2015 con i dati relativi al 2014, vede in cima alla lista la Calabria con il 26,9% delle famiglie in stato di povertà. Seguono la Basilicata con l’indice di povertà familiare al 25,5% e la Sicilia al 25,2%.
Ma come può essere? La Basilicata, la regione petrolizzata per antonomasia da quasi venti anni, è una delle più povere d’Italia? Ma, non doveva il petrolio portare ricchezza e benessere e sviluppo? E dove sono andati a finire?
Analizzando tutte le annate messe in rete dall’Istat dal 2003 al 2014, viene fuori che ad eccetto che nel 2012, la Basilicata è sempre stata fra le prime tre regioni più povere d’Italia, alternandosi con Sicilia e Calabria. In più tranne che nel 2011, la Basilicata è sempre stata più povera della media delle altre regioni del sud Italia. Per la serie: il petrolio porta ricchezza agli altri.
Nel 2010 addirittura, la Caritas, nel suo rapporto “Povertà ed esclusione” scriveva: “La situazione appare particolarmente negativa in Basilicata”. Segno che il più grande giacimento petrolifero d’Europa tutta questa ricchezza non l’ha portata e non la porterà.
E così, nonostante le trivelle abbiano ingoiato buona parte del territorio lucano, nonostante le roboanti promesse di royalties, progesso e sviluppo che l’Istituto Luce non potrebbe far meglio, nonostante addirittura la scuola del petrolio Assoil - “Advanced Skills for Services in Oil and Gas” - un quarto dei lucani vive in povertà. Secondo l’Istat e non secondo la D’Orsogna. Ecco qui, tutti i dati dai rapporti Istat online dal 2003 ad oggi. Il numero in parentesi indica il posto nella classifica delle regioni.
2003: Basilicata (1): 25.6% - Sud-Italia: 21.6%
2004: Basilicata (2): 28.5% - Sud-Italia: 25.0%
2005: Basilicata (3): 24.5% - Sud-Italia: 24.0%
2006: Basilicata (3): 23.0% - Sud-Italia: 22.6%
2007: Basilicata (2): 26.3% - Sud-Italia: 22.5%
2008: Basilicata (1): 28.8% - Sud Italia: 23.8%
2009: Basilicata (2): 25.1% - Sud-Italia: 22.7%
2010: Basilicata (1): 28.3% - Sud-Italia: 23.0%
2011: Basilicata (3): 23.3% - Sud-Italia: 23.3%
2012: Basilicata (5): 24.5% - Sud Italia: 26.2%
2013: Basilicata (2): 24.3% - Sud-Italia: 21.4%
2014: Basilicata (2): 25.5% - Sud Italia: 21.1%
La media nazionale è del 10,3% di famiglie in povertà. In Basilicata siamo a più del doppio. Proprio il Texas d’Italia.
Chissà se il governatore Marcello Pittella voglia prendere atto di questi dati, chiedere scusa e chiedersi se continuare a fare buchi, centro oli, oleodotti e raddoppi sia proprio la cosa saggia per la sua gente. Ammesso che gli interessi la sua gente.
Qui Assoil, la scuola del petrolio, per addolcire la pillola ai lucani
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di Maria Rita D’Orsogna (Il Fatto, 16 luglio 2015 - ripresa parziale)
PIETAS e CHARITAS. La pia ipocrisia di Enea eroe di regime...
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST").Una storia di lunga durata...
MURATORI, BENEDETTO XVI, E "UNO SPROPOSITO MAIUSCOLO": LA LEZIONE DI VICO.
SULL’USCITA DALLO STATO DI MINORITÀ E SULLO SPIRITO CRITICO, OGGI: "X"- FILOSOFIA. LA FIGURA DEL "CHI": IL NUOVO PARADIGMA. (fls)
La pia ipocrisia di Enea eroe di regime
Una rilettura del personaggio virgiliano dall’abbandono di Didone al mito di Augusto
di Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 14.05.2015)
SIAMO sinceri! Enea non ci piace. Se dovessimo fare una graduatoria tra i personaggi dell’epopea troiana, in cima metteremmo probabilmente non lo spocchioso Achille, ma “il domator di cavalli Ettorre” dell’ Iliade. In fondo alla graduatoria, metteremmo proprio Enea il “pio”. In mezzo, l’astuto e inquieto Ulisse. Questo nostro atteggiamento ci dice che sono mutati i paradigmi. Ciò che piaceva allora, oggi infastidisce. E, in primo luogo, non ci piace la poesia al servizio del potere. Neppure Virgilio, infatti, ci è mai troppo piaciuto, perché fece della sua arte strumento di persuasione politica. Scrive bene, è levigato. Ma non riusciamo a dimenticare che è stato un poeta di regime, stipendiato dal committente interessato a farsi tessere panegirici «di natura quasi mussoliniana» (Canfora). Il suo eroe letterario è Enea, ma l’eroe politico è Augusto, il destinatario del mito. Instauratore il primo; restauratore, il secondo, dopo i torbidi delle guerre civili e il disfacimento della Repubblica. Non una poesia civile, ma una poesia interessata, dunque, e, perciò malsana.
“Pio” è Enea, anzi di più: la pietas è la ragione della sua esistenza. Questa pietas è ciò che Virgilio propone come la virtù del principe. Gli Dei sono sensibili alle prove di pietas e rispondono con due prodigi archetipici, il fuoco che non brucia e la stella cometa. Entrambi riguardano il piccolo Ascanio e lo consacrano come il capostipite della gens di Augusto. Dentro Ascanio c’è dunque il futuro di Roma.
Ma, sulla strada accidentata verso la nuova patria, Enea incontra la contraddizione maggiore: eros. Eros e pietas sono nemici. Eros impone la sosta; pietas , la partenza. È la storia con Didone, cui è attribuito uno spazio capitale nell’architettura del poema. Anche Ulisse, nel ritorno verso la “petrosa Itaca”, incontra l’amore. È la storia di Calipso. Dopo la caduta di Troia, tutti e due hanno una missione, ma molto diversa: il ritorno alla casa di Itaca; la fondazione di un regno nel Lazio. La differenza è grande.
L’ Odissea è l’epopea delle radici; l’Eneide, della potenza politica. Odisseo deve ritornare per ricostruire la sua casa e trovare la sua pace. Il disegno di Enea è fondare un regno guerriero, sulle rovine d’altri regni. Di più: il ritorno a Itaca è il compito che Ulisse dà a se stesso da se stesso. Per Enea è diverso: egli, “profugo del fato”, ma salvato dagli Dei, è portatore d’un destino che gli è imposto dalla sentenza di Zeus. La sua pietas è la soggezione fedele a questo destino. Basta mettere a confronto l’Ulisse nell’isola di Calipso e l’Enea nella città di Didone. Dopo sette anni di amori, Ulisse è preso dalla nostalgia della sua casa che Calipso non era riuscita a fargli dimenticare. Una forza irresistibile nasce dentro di sé, che lo chiama alla partenza. “Dentro di sé”: Ulisse è artefice delle sue proprie fortune e sfortune. Piange, Ulisse, in preda a vivo dolore, come quando la scelta sembra impossibile.
Ben diverso il distacco tragico e lacerante dell’eroe da Didone. Enea è costretto a lasciare Cartagine e la fuga, che a Didone appare come la crudele ricompensa del bene ricevuto, non può che essere da lei tacciata di perfidia: «La lealtà non è più al sicuro», dice la regina. Ma Virgilio ci fa sentire anche la voce di Enea; e lo fa in un verso emblematico: «Arde di andarsene via e di lasciare quelle amate regioni». Nella prima metà del verso vediamo Enea con gli occhi di Didone: un uomo che non vede l’ora di andarsene; nella seconda metà del verso, vediamo invece Enea con gli occhi di Enea stesso: ne è spia un aggettivo, «amate ( dulcis) regioni», che Virgilio usa tutte le volte che deve esprimere lo strazio dell’abbandono. Partire, dunque, non è la sua vera volontà, e l’Italia, checché ne dicano gli Dei, potrà essere la sua nuova patria, ma non sarà mai veramente il suo amor. E qui sta la pietas come virtù che sacrifica il singolo e i suoi sentimenti. Il desiderio di Enea sarebbe un altro, però, e lo dice, cercando di giustificarsi con Didone viva («non inseguo di mia volontà l’Italia») e con Didone morta: nell’ultimo e impossibile dialogo con l’ombra della regina, Enea dirà: «Dalla tua terra, regina, sono partito contro la mia volontà».
Aleggia, su questa storia, l’ombra dell’ipocrisia. In verità, Enea è dipinto con i tratti del codardo, al quale importa soltanto di salvare la faccia: vuole consolare “con giuste parole”, mostra grande amore, dice che non è colpa sua. Non segue di sua volontà l’Italia. Però, di nascosto fa preparare la flotta per partire. Sarà pure per evitare ch’ella faccia bruciare le navi: resta il fatto che è Didone che lo affronta e, forse, se non l’avesse fatto, se ne sarebbe andato alla chetichella.
La dedizione totale al fato si accompagna al cinismo verso chi ama. Piacerebbe poter pensare che nell’episodio di Didone sia nascosto un messaggio a non esagerare nella pietas spietata di cui Enea è campione: un messaggio rivolto ai potenti dell’Impero.
Didone è solo la prima vittima di una lunga serie di ammazzamenti. Il progetto della Roma fondata dai discendenti dei Troiani si scontra con l’ordine dei Latini, ed è la guerra; una guerra che, in certo senso, è una guerra civile ante litteram, perché i due popoli sono destinati a fondersi. Il poema si chiude con l’uccisione di Turno, il re dei Rutuli, rivale di Enea. Turno, vicino a essere ucciso, ricorda a Enea il suo vecchio padre Anchise. Ed Enea sembra quasi rinunciare a sferrare il colpo fatale: Turno, infatti, è subiectus, sottomesso; e l’indicazione che Enea ha ricevuto da Anchise è di «avere pietà di chi si sottomette». Poi però qualcosa trasforma Enea: l’ultima immagine che ne riceviamo è quella di lui che, «infiammato di rabbia furibonda» per avere visto il bàlteo, la cintura di cuoio che era stata di Pallante, il suo alleato, pendere dalla spalla del suo nemico, l’uccide. Il pio Enea non rifugge dalla vendetta, dall’inutile crudeltà.
Alla fine, siamo dunque consapevoli del potenziale di violenza che la fedeltà assoluta alla propria patria, ai propri dei, ai propri penati implica: una pietas empia per chi sta fuori di quelle cerchie. E che l’apologeta cristiano del III secolo Lattanzio rimprovera senza mezzi termini a Virgilio: «Non sapevi che cosa fosse la pietas, e hai ritenuto che proprio ciò che quello ha compiuto in modo disumano e odioso fosse un dovere imposto dalla pietà. Chi potrebbe dunque attribuire a Enea anche un briciolo di valore, lui che si è acceso di rabbia come paglia dimenticando lo spirito del padre, nel cui nome veniva supplicato, non è stato capace di tenere a freno l’ira? Non è affatto pius chi uccide qualcuno che non solo ha deposto le armi, ma gli rivolge una preghiera. La pietas è quella di chi non conosce guerre, di chi è in armonia con tutti, di chi è amico anche dei propri nemici, di chi ama tutti gli uomini come fratelli». Così, entriamo in un nuovo mondo segnato dalla fratellanza universale, un mondo in cui alla pietas imperiale si contrappone la charitas cristiana.