Le "regole del gioco" dell’Occidente e il divenire accogliente della mente.
INDICE DEL LIBRO:
Federico La Sala,
LA MENTE ACCOGLIENTE. Tracce per una svolta antropologica
Introduzione: In principio (o, meglio, all’Inizio)
I PARTE - CON NIETZSCHE ...
I. Nietzsche per ipotesi - Prometeico, dionisiaco e apollineo. - Istante, attimo ed Ewigkeit. - Nietzsche, Benjamin e Marx.
II. Nietzsche, ""Columbus novus". - Da dove parla Nietzsche. - Nietzsche e Freud. - Nietzsche e Benjamin. - Nietzsche e Marx.
II PARTE - ... E CON PARMENIDE
I. Fondazione della filosofia e rifondazione della ricerca. Una rilettura del "Perì physeos" di Parmenide.
III. VERSO LA MENTE ACCOGLIENTE
I. Zarathustra, il nano, e la libertà dal destino della necessità.
II.Il punto di svolta. L’indicazione di Fachinelli.
IV. La fanciulla straniera e la civetta hegeliana. Sorte di una metafisica futura che si presenterà come scienza.
V. Un brillante new tono. "Note" per una epistemologia accogliente.
Antonio Pellicani editore, Roma 1991.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
La Redazione (27.01.2019)
"X AGOSTO" (10 AGOSTO): "DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886).
MEMORIA, STORIA E LETTERATURA
Aicune note intorno alla poesia di Giovanni Pascoli:
X Agosto
San Lorenzo, io lo so perchè tanto
di stelle per l’aria tranquilla
arde e cade, perchè sì gran pianto
nel concavo cielo sfavilla.
Ritornava una rondine al tetto:
l’uccisero: cadde tra spini:
ella aveva nel becco un insetto:
la cena de’ suoi rondinini.
Ora è là, come in croce, che tende
quel verme a quel cielo lontano;
e il suo nido è nell’ombra, che attende,
che pigola sempre più piano.
Anche un uomo tornava al suo nido:
l’uccisero: disse: Perdono;
e restò negli aperti occhi un grido:
portava due bambole, in dono...
Ora là, nella casa romita,
lo aspettano, aspettano, in vano:
egli immobile, attonito, addita
le bambole al cielo lontano.
E tu, Cielo, dall’alto dei mondi
sereni, infinito, immortale,
oh! d’un pianto di stelle lo inondi
quest’atomo opaco del Male!
ANTROPOLOGIA CHIASMATICA ("NEXOLOGIA") E COSMOLOGIA:
TERRA E CIELO. Nel suo testo, Pascoli tocca corde molto prossime alle riflessioni di Nietzsche sul tema della cosiddetta "morte di Dio" (e dell’Uomo). La questione appare essere personale, ma si contestualizza in un orizzonte universalmente umano, antropocosmico: la "X", posta davanti ad "Agosto", non richiama solo l’incognita e l’ignoto, ma anche e soprattutto la "X" greca (il "Chi" della relazione, della "nexologia" antropologica e cosmologica.
"DA COPERNICO IN POI L’UOMO ROTOLA VERSO UNA X" (NIETZSCHE, 1886). Con Carducci (v. "Pianto antico": Il testo autografo, legato alla morte del figlioletto Dante avvenuta nel 1870, reca la data giugno 1871) e, con Pascoli (v. "X agosto": il testo fu pubblicato il 9 agosto 1896, ma è legato alla morte del padre Ruggero, ucciso mentre tornava a casa dal mercato in circostanze misteriose il 10 agosto 1867, il giorno in cui si celebra san Lorenzo, quando Pascoli ha appena 12 anni), e, volendo, con Nietzsche, si comprende meglio da una parte il senso dell’euforia tecnologica dell’ inno "A Satana" (Carducci, 1863) e, al contempo, l’allarme di Nietzsche, che, riaggiornando la lezione di Diogene di Sinope, ricorda
e, ancora, dello stesso Pascoli, della incapacità epocale dell’uomo del suo tempo (che annuncia già Kafka) di leggere "sotto le stelle, il libro del mistero" (G. Pascoli, "Il libro", 1907).
Mitologia, Crono (Krónos)-Storia, Psicoanalisi e Antropologia culturale:
"Chissà a cosa starà pensando Zeus... ". Zeus: "a far l’amore" *
RIPETIZIONE O RIPRESA? ZEUS § SUEZ. "A cosa starà pensando" Zeus, il "Cronide", il Figlio di Crono?! Ma, certamente, "a far l’amore", come insegna il "Figlio" Platone, nella "ultima cena" del "Simposio" (o "Convivio") con Socrate e compagni, a cercare, camuffato come un "serpente" marino o un apollineo "delfino", di attraversare il canale di "Suez", con gli espedienti della #tecnica e della cieca #cupidità del suo "cronico" #desiderio "edipico", nonostante la ironica e beffarda #critica di Diotima di Mantinea (utilizzata senza vergogna come sua fideistica propaganda accademica).
Antropologia e Filologia: "L’amore" (K. #Marx, 1845). Per non "neutralizzare" la radicale critica di Diotima di Mantinea e al contempo, della "fanciulla straniera" (Friedrich #Schiller - Karl Marx), mi sia lecito, si cfr. Federico La Sala, "La mente accogliente. Tracce per una #svolta_antropologica", Antonio Pellicani Editore, Roma 1991).
NOTE:
*
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, E TEOLOGIA.
UN PIANETA TERRA DA RIPENSARE E UN IMMAGINARIO DA RISTRUTTURARE: PENSARE L’ EDIPO COMPLETO (S. FREUD). UNA QUESTIONE DI ILLUMINAZIONE (E DI ILLUMINISMO KANTIANO): "NOI ALUNNI DEL SOLE". In memoria di Italo Calvino.
Appunti su un tema del "genere" (il Sole, l’astro del cielo, un dio o una dea?):
A) IL SOLE ("DIE SONNE") DI ZARATHUSTRA (NIETZSCHE):
"Quand’ebbe compiuto il trentesimo anno, Zarathustra lasciò la sua patria e il lago natìo, e si recò su la montagna. Là per dieci anni gioì, senza stancarsene, del suo spirito e della sua solitudine.
Ma al fine il suo cuore si mutò; e un mattino egli si levò con l’aurora, s’avanzò verso il sole e così gli disse:
«Oh grande astro! Che sarebbe della tua felicità, se tu non avessi a chi splendere?
Per dieci anni tu sei venuto alla mia caverna: ti saresti recato a noja la tua luce e il tuo cammino senza di me e del mio serpente.
Ma noi ti attendevamo tutte le mattine, tu ci davi il tuo superfluo e ne avevi ricambio di benedizioni." ("Così parlò #Zarathustra/Parte prima/Prefazione");
B) MITOLOGIA NORRENA ("EDDA DI SNORRI"). LA SIGNORA DEL SOLE ("FRAU SUNNE"):
"Sól era, nella mitologia norrena, la dea del Sole, figlia di Mundilfœri e moglie di Glenr.
Ogni giorno, Sól guida attraverso il cielo il suo carro, tirato da due cavalli, Árvakr e Alsviðr.
Così se ne parla nel Gylfaginning, la prima parte dell’Edda in prosa basso-medievale di Snorri Sturluson (circa 1220 d.C.) [...]
Sól era chiamata anche Sunna e Sunne, e inoltre Frau Sunne (Signora del Sole) [...]" (Sól);
C) AMATERASU ("LA DEA DEL SOLE"):
"Amaterasu-ō-mi-kami (天照大御神 lett. "Grande dea che splende nei cieli"?), generalmente abbreviato in Amaterasu, è la dea del Sole nello shintoismo giapponese. È considerata la mitica antenata diretta della famiglia imperiale giapponese.
Amaterasu è comunemente indicata come di genere femminile, nonostante il Kojiki, il più antico documento scritto della storia nipponica, dia pochi indizi riguardo al suo genere [...]" (Amaterasu);
D) QUESTIONE ANTROPOLOGICA E PSICOANALISI. L’ESISTENZA DEL "COMPLESSO EDIPICO COMPLETO" (S. FREUD, 1923);
"[...] Vedere il caso del Giappone - nella cultura giapponese c’è la Dea in cielo, e l’imperatore sulla terra; ora-oggi!!!, dal momento che alla coppia imperiale è nata una bambina, si parla di cambiare la Costituzione per far sì che Lei possa accedere al trono ... ma il problema è più complesso - come si può ben immaginare - perché ... deve essere cambiata anche la Costituzione celeste dell’Impero del Sol Levante!!! Se no, l’Imperatrice con Chi si ’sposerà’?! Con la Dea?!!
Non è questa forse la ragione nascosta del “disagio della civiltà” dell’Oriente e dell’Occidente ..... e anche della sua fine, se non ci portiamo velocemente fuori da questo orizzonte edipico-capitalistico di peste, di guerra e di morte? [...]" (Costituzione dogmatica della chiesa "cattolica"... e costituzione dell’Impero del Sol Levante).
FILOLOGIA FILOSOFIA STORIA E DIVINA COMMEDIA (DANTE 2021):
QUANTE "NUVOLE" NEL CIELO DELLA "REPUBBLICA"!
UN LETARGO TEOLOGICO-POLITICO ANTROPOLOGICO E COSTITUZIONALE PROFONDO ha mandato in collasso tutte le istituzioni culturali e politiche di tutte le #Città.
Nelle #Università e nelle #Accademie laiche e devote si insegna ancora a credere che #Aristofane scherzasse su #Socrate! #Nietzsche ("#Crepuscolo degli #idoli") aveva ragione: la #filosofia del suo allievo #Platone contiene il segreto sul come rendere forte il discorso debole e debole il discorso forte, e sul come realizzare il #sogno del #sofista #re: egli ha truccato le "regole del gioco" dell’#Occidente e ha insegnato a una "parte" della intera umanità a come mettersi al di sopra di tutte le "parti", a un "partito" come mettersi al di sopra di tutti i "partiti", e a come imporre le proprie "olimpiche" demiurgiche "#Leggi" su tutta la #Fattoria! Un colpodistato più che millenario - al capolinea... #Giornatadellamemoria, #27gennaio 2023.
CARTE D’AMORE /
Dialogo sull’amore con Antonio Prete
di Anna Stefi (Doppiozero, 02 maggio 2022)
“Tutti li miei penser” - scrive Dante Alighieri nella Vita Nuova - “parlan d’Amore”.
Ma come si scrive di amore? Non c’è forse un certo pudore nell’avvicinarsi a questo “paese che non ha confini”, nel cercare di circoscriverlo, raccontarlo al di là di nomi, corpi, ricordi, al di là del “tu” cui ogni amore si rivolge? E ancora: che cosa è questo “tu”? Già Fedro nel Simposio ricordava quanto nessun uomo avesse mai osato celebrare degnamente Eros. Eppure l’amore è esperienza comune.
Carte d’Amore prosegue il cammino di Antonio Prete attorno ai modi del sentire: nostalgia, lontananza, compassione, interiorità. Un cammino che qui si fa figure dell’amore - apparizione, seduzione, tenerezza, e ancora ombra, lettera, gelosia - e paesaggi dell’amore - giardino, mare, strada, corpo. A separare questi due momenti un intermezzo: il Simposio. Sappiamo del banchetto in onore di Eros, sappiamo di Pausania, di Aristofane, sappiamo di Agatone e di Diotima. Antonio Prete in questo nuovo libro procede per indugi e divagazioni: l’amore, sembra raccontare la forma di questo saggio che saggio non è, si può solo provare a dire, nominare qualcosa della sua lingua, affacciarsi, lasciare che “appaia”, che qualcosa si dia a vedere nel tentativo sempre fallito di un’ultima parola, di una verità. Dire dell’amore è sostare nello stesso scacco cui l’esperienza dell’amore ci consegna: una pienezza e il suo vuoto; una necessità e un impossibile; un dappertutto e un sempre altrove.
Partirei da questo ampio intermezzo che dedichi al Simposio e che separa le due sezioni da cui sono composte queste tue carte: figure e paesaggio. Partirei da qui perché l’apertura del Simposio mette in forma il problema che attraversa il tuo libro così come ogni tentativo di portare una parola sull’amore: c’è, all’inizio, il racconto di un racconto, Apollodoro racconta a Glaucone quel che Aristodemo ha riferito circa un lontano convito di Socrate con alcuni suoi amici e discepoli. Non solo: quando è il turno di Socrate, quando il filosofo deve portare la propria parola, anche lui racconta, riporta la parola di un’altra, una donna sapiente e divinatrice, Diotima.
Di fatto la domanda come dire l’amore è all’origine di questo libro. È una domanda che viene da lontano. Nel Simposio questa domanda è messa in scena, come ricordavi, in una forma particolare: racconto di un racconto. E non solo: dentro questo racconto c’è anche la posizione di Socrate, che questa volta non fa esplicitamente il maestro, non usa la maieutica per condurre i discepoli verso il riconoscimento della verità, ma semplicemente riporta sull’amore la parola di una donna. Una parola che ha a che fare con il confine del dire: Diotima è divinatrice, è sapiente, è maga, non ha un ruolo definito. La sua parola sull’amore viene dunque da un luogo autorevole ma senza autorità. Dire dell’amore è avere a che fare con l’indicibile, con il sacro, con il limite della parola stessa. Il femminile circola comunque in tutto il Simposio: è la presenza di una donna che è assente, e sulla cui parola si modula la parola di Socrate. Dire dell’amore è dire di qualcosa di cui non possiamo cogliere mai il confine, è mettere in scena il limite della parola stessa, cioè l’assenza del significato pieno e compiuto. L’amore, in effetti, è, tra i sentimenti, quello che più ha a che fare con la mancanza.
Questo tema della non autorità, del femminile, mi porta all’attraversamento che fai proprio a conclusione dell’Intermezzo dedicato al Simposio. Margine leopardiano, scrivi. Leopardi è occasione di interrogare il fantasma Amore in lotta con il fantasma Verità: Amore, scrivi, vuole affermare il diritto all’illusione e al sogno, “ma questo diritto è insediato dal mostrarsi del ‘vero’”. Se Platone, con il Simposio, ci invita ad allargare il discorso intorno ad Eros, ti chiedo se possiamo intendere questa “non autorità” come la possibilità di un dire non assertivo, un dire che ci invita a uno scarto rispetto all’autorità, alla verità, un dire che suggerisce - penso anche in rapporto al tempo storico che stiamo vivendo - una postura non autoritaria. Non il potere ma l’ospitalità, per riprendere temi a te cari.
Certo, ho messo al margine della lettura del Simposio un altro elogio di Eros, quello che è nella prima delle leopardiane Operette morali: Amore inviato tra gli uomini prima come fantasma poi come dio, con il compito di ridare agli animi che sceglie di abitare “l’infinita speranza e le belle e care immaginazioni degli anni teneri”. Contro la cruda cancellazione del sogno messa in opera dalla Verità, il dio Amore, eternamente fanciullo, richiama quell’assenza di confini, quell’oltrelimite, che era proprio della fanciullezza.
Quanto al “dire non assertivo” che richiami, certo, esso nasce dal fatto che l’amore è esperienza del “tu”, della prossimità. La parola dell’amore trova la sua autenticazione quando pronuncia il “tu”: l’amore è parola che si invera nel “tu”. Non solo il “tu” del dialogo, dell’incontro, ma il “tu” come principio stesso della condizione amorosa, principio che muove il desiderio e lo muove anche nell’assenza dell’altro. L’ospitalità è una figura precipua di questo tu che, accolto, diventa sorgente del riconoscimento di sé. “L’io è il miracolo del tu”, dice un passaggio di Jabès.
Questo “tu”, oltretutto, è figura corporea, fisica, di quell’altro che è il principio della relazione tra gli uomini. Figura, dunque, di un mondo in cui il singolare si mette in rapporto con il molteplice, e l’altro è fondamento per poter riconoscere il vivente, per riconoscersi vivente tra viventi. Il verso che chiude la Commedia, “l’amor che move il sole e l’altre stelle”, ci dice che l’amore non è solo principio della visibilità e presenza dell’altro ma principio che trascorre in tutto l’universo. Per questo movimento che porta l’amore oltre il recinto del soggetto ho dato rilievo nel libro anche al rapporto tra eros e agape. Sia nella linea verticale del rapporto tra l’amore e la mistica (la “noche oscura” di Giovanni della Croce) sia nella linea orizzontale della creaturalità, del rapporto con ogni vivente.
Torniamo dunque a Diotima, al suo rapporto con il sacro. Non accade mai, e per fortuna, quell’incontro di due metà che porta alla completezza, come voleva il mito raccontato da Aristofane; l’altro contiene un segreto, una distanza, anche solo per il fatto di esser sempre necessariamente e inevitabilmente altro da noi. E tuttavia mi pare che sia proprio in questo scacco l’occasione di questo “sacro”, di questo passaggio dal “tu” alla comunità dei viventi. Dunque mi domando, e ti domando, il ruolo dell’immaginazione in questo movimento.
Questa è l’esperienza della letteratura: la narrazione dell’amore, la poesia d’amore, hanno dispiegato meravigliosamente quello che dicevi: una rappresentazione in cui l’immaginazione dell’altro segue tutte le vie della presenza-assenza. Il soggetto innamorato partecipa con la sua sensibilità immaginativa costruendo dei mondi. Pensiamo alla Recherche di Proust: il rapporto di Marcel e Albertine è rapporto raccontato come reale ma al tempo stesso immaginativo, ed è quando Albertine non c’è che il sentimento dell’amore mostra la sua potenza. La letteratura rappresenta dell’amore il tempo e lo spazio in cui il soggetto fa esperienza di una vita interiore, che è tumultuosa, animatissima, interrogativa. È l’universo fantasmatico e sensitivo del desiderio, l’esperienza del suo rapporto con il vuoto, con lo scacco, con la mancanza che lo fonda e agita. La scrittura dell’amore rappresenta con situazioni e personaggi questo grande teatro. L’amore, inoltre, contiene ed evoca le figurazioni di molti altri sentimenti. Per questo è insieme la più universale e la più comune delle passioni.
Tu scrivi a un certo punto che è un rapporto con l’enigma delle cose, con l’interrogare: dialogare con il silenzio dell’altro, con la sua presenza interiore. In questo senso contiene un principio conoscitivo.
Come la propria interiorità, anche l’altro è insondabile: da qui lo stato costante di interrogazione, e dunque di conoscenza. Di una forma particolare della conoscenza, quella che conserva il senso del limite. Una conoscenza che non ha modi prestabiliti. Pensiamo al bellissimo racconto di Musil, Il compimento dell’amore. Dove proprio nell’assoluta lontananza dall’amore si dà conoscenza dell’amore. Del resto Musil in L’uomo senza qualità avrebbe poi mostrato, nella figurazione del rapporto tra fratello e sorella, tra Ulrich e Agathe, quanto insondabile e confinante con l’oltre e con un’inattingibile condizione paradisiaca possa essere la tensione amorosa.
Forse possiamo rintracciare qui la valenza politica dell’amore: quest’elemento di non compimento che è assolutamente estraneo a quello di cui facciamo esperienza, a quello cui tutto sembra invitarci.
Sì, il grande racconto d’amore mostra spesso dell’amore il suo svanire, il suo mancare all’approdo, il suo perdersi. Da Madame Bovary a Anna Karenina le creature romanzesche d’amore fanno esperienza di un vuoto che si spalanca e le consuma, e di una società, con le sue istituzioni dell’amore, che corrode e oltraggia il loro desiderio. Fino a farlo naufragare. Ma il romanzesco dà uno svolgimento drammaturgico e qualche volta tragico a quel che tuttavia è proprio dell’amore: la sua distanza da ogni forma di definizione, di compimento, di realizzazione. L’amore, come il desiderio che è la sua anima, e il suo ritmo, e la sua lingua, vive nell’al di qua del possibile, e del compiuto.
Forse è anche per questo che il solo tu che invera l’amore è il tu dell’interiorità, è l’altro del soggetto, l’altro dell’io.
Sì, in effetti, solo curando l’interiorità, lo spazio interiore, riusciamo a staccarci sia da un io affermativo, egotico, sia da un tu pensato come acquisito una volta per tutte, non più da scoprire e interrogare e conoscere. La narrazione e la poesia ci parlano di un amore che è ricerca, attesa, turbamento, raffigurazione dell’assenza, parvenza. E tutto questo sentire ha al centro il corpo, i suoi sensi.
Questa attenzione all’interiorità parla il linguaggio della tenerezza, e mi pare che la tenerezza attraversi tante di queste stanze, che la cura sia un filo che percorre queste carte. Ci sono alcune pagine in cui scrivi di una stagione della tua vita in cui si è interrogato il rapporto tra eros e philia: “dare un corpo all’amicizia: esperienza, certo, dei confini, facile a disperdersi o a ripiegare nella consuetudine delle distinzioni, che allontanano l’amicizia dall’amore. Ma anche esperienza che allude a quell’immagine utopica di una comunità d’amore in grado di liberare la dualità dell’io e del tu dalla sua separata dimora”. Queste carte mi sembrano attraversate da quello stesso tentativo della tua generazione: un desiderio di intersecare delle immagini dell’amore che si insiste a pensare separate, metterle in rapporto tra loro, farle circolare. Forse quella stagione che racconti in alcuni passaggi dice qualcosa di questo tentativo di non dividere il bene dal male, il tradimento dalla fedeltà, il due dai molti.
Sì, in questo libro, in qualche modo confluiscono due storie: da una parte, la mia personale esperienza didattica, che a più riprese, in corsi e seminari, ha indugiato sulla “lingua dell’amore”, sulle sue figure (la lectio pubblica di congedo dall’Università, e lo stesso ultimo corso, era Poesia d’amore e cosmologia); dall’altra, alcune esperienze della mia generazione, ma anche di una generazione successiva, che tra la fine degli anni Sessanta e tutti gli anni Settanta hanno tentato di smuovere i confini definiti delle istituzioni e dei rapporti tra soggetti, con una tensione certamente utopica, e con annaspamenti ed errori, ma con uno slancio che nell’agire e nel dire immaginava possibile un’altra cultura, un altro ordine di rapporti. Anche le forme di sapere, in quegli anni, interrogavano questi confini, cercavano nuovi statuti e nuovi linguaggi.
Forse è un po’ all’ombra di quel lontano cercare ed esperire che in questo libro sull’amore mi son trovato a dare rilievo sia al “dialogo” tra amicizia e amore sia a un sentire come quello della tenerezza, che è lingua mite della passione, sentimento che unisce desiderio e dolcezza, intimità e cura. E ha la sua forma visibile nella delicatezza. È vero quel che dici: la tenerezza è un po’ la tessitura nascosta di tutto il libro.
CARTE D’AMORE /
Dialogo sull’amore con Antonio Prete
di Anna Stefi (Doppiozero, 02 maggio 2022)
La tenerezza, così mi sembra, è capace di muovere verso l’altro e, al tempo stesso, di custodirne la differenza.
Nella tenerezza la presenza dell’altro richiede una prossimità particolare, dolce, non appropriativa. La tenerezza è anche lentezza: la leopardiana “lenta ginestra” è anche immagine della tenerezza. “Tenero” è il ramo che si piega per dare ombra. Il piegarsi è entrare in dialogo con il vento, curvarsi alla presenza dell’altro attraverso una forma di amore che implica cura, attenzione, protezione. La tenerezza è parola opposta alla parola guerra, richiama la dolcezza. La tradizione poetica occidentale, quella che riconosciamo come la nostra tradizione poetica che muove dai provenzali e dagli stilnovisti, dà un grande rilievo a questa “dolcezza”: il Dolce Stil Novo apre la nostra poesia. La dolcezza attraversa tutta la poesia fino al leopardiano “naufragar m’è dolce”: la lingua della poesia permette di sopravvivere al naufragio del pensiero che non può dire l’infinito, è la lingua della poesia che porta la percezione di un sentire dolce.
Tenerezza e amicizia, dunque, come lingue intime dell’amore. Quanto all’amicizia, forse la sua forza è proprio nel fatto che non domanda il compimento: per questo, credo, mi piace parlare di “legami amorosi”, mi pare che sia un modo di scartare da quella spinta al compimento che l’amore tende sempre ad avere.
Sì, l’amicizia resta al di qua della domanda di istituzione, è aperta, fluida, esperienza di una fraternità prossima e visibile, figura di una, forse solo sognata, fraternità universale (Montaigne su questa amicizia come fraternità ha pagine bellissime). L’amicizia interroga l’amore, entrando nella sua lingua, animando il suo sentire. Togliendo all’amore il fantasma, appunto, del compimento, e dell’unità del due.
O forse possiamo giocare sul fatto che Carte d’amore contiene lo scarto - écart - e dunque prendere sul serio questa assonanza: la potenza dell’amore - se lo liberiamo da quella prospettiva aristofanea - è generare scarti.
Carte, scarto. Non ci avevo pensato a questa possibile rifrazione del titolo Carte d’amore. Dici: generare scarti. Certo, esperienza del resto, di quel che è sottratto alla pienezza dell’ideale d’amore, anche dell’immaginario d’amore. Scarto anche dal sapere: non c’è un sapere dell’amore, semmai, come mostrava Diotima, una sapienza dell’amore. Per questo il silenzio è la vera anima della lingua d’amore.
Non a caso il silenzio attraversa questo libro. Racconti un episodio molto bello: tu e Mario Luzi alla Galleria Borghese in silenzio davanti a Amor sacro e amor profano di Tiziano.
Visitavamo insieme, un giorno di molti anni fa, la riaperta Galleria Borghese. Con Luzi accadeva che dialogassimo per le strade di Firenze, di Pienza o di Siena, o attraversando in auto i poggi e le piane delle Crete. Quel giorno eravamo dinanzi alle meravigliose opere di Raffaello, di Caravaggio, di Bernini, di Canova... Un’occasione bellissima, per me, poter ascoltare le osservazioni di un poeta, che molto ammiravo, dinanzi alle opere d’arte. Se in ogni sosta dinanzi a un’opera c’era qualche frase, qualche breve considerazione sulla luce, sulle forme, sui particolari, dinanzi a Tiziano, all’amore rappresentato da Tiziano, sopravvenne un silenzio lungo, forte, un silenzio contemplativo. Un silenzio che mostrava la vuota ridondanza di ogni interpretazione, e del linguaggio stesso. Ogni parola sarebbe stata ordinaria, avrebbe come incrinato la bellezza misteriosa dell’opera. Solo uno sguardo silenzioso può corrispondere alla bellezza? L’amore ha a che fare con il silenzio, come con la tenerezza. Ovvero con quel che è al di qua della lingua e in certo senso oltre la lingua.
Nella seconda parte del libro dici del paesaggio d’amore: nelle tue carte i paesaggi parlano, si fanno presenza. L’amore, scrivi, convoca il visibile.
Il paesaggio non è cornice dell’amore, è parte della sua lingua, del suo accadere. Per questo la narrazione e la poesia d’amore contribuiscono a scrivere una storia per dir così intima del paesaggio. Diciamo paesaggio, usando una parola che ci viene dalla pittura del Cinquecento. Il paesaggio insieme contiene l’amore ed è intimo al suo sentire. Pensiamo, tra tanti, al paesaggio dell’amore nei versi di Baudelaire. Gli occhi sono essi stessi cieli, con lampi e tempeste e tramonti e aurore. Allo stesso tempo nella raffigurazione dell’amore si cerca un paesaggio che sia intimo all’amore stesso.
In questo senso - ancora a dire il “sacro” di cui prima parlavamo - il paesaggio forse diviene anche il luogo verso cui andiamo, l’orizzonte entro cui, grazie all’amore, ci proiettiamo.
C’è anche questo, nel paesaggio, la presenza di un’alterità: riconoscere il tu e insieme un’alterità che supera il tu, e cioè la Natura osservata nella sua prossimità a noi. Il visibile, il naturale, ci permette di cogliere la dimensione di alterità inscritta nell’amore stesso. Il paesaggio è poi, nella tradizione letteraria, messo in correlazione fortemente dialogica con il sentire: i sentimenti sono in sintonia con il paesaggio. Ho citato nel libro un racconto di Poe, Eleonora: tutto il sentire della coppia di giovanissimi innamorati è in rapporto profondo con il paesaggio, con il suo mostrarsi e il suo mutare, come se la percezione d’amore dovesse evocare quello che dicevi prima, la necessità di una relazione ulteriore.
Il paesaggio è - oltre il giardino, oltre la selva e la stanza - anche la strada, il treno.
Sì, pensiamo, tra tante situazioni, alla passante di Baudelaire: la strada “assourdissante” è l’avvio ma è anche una presenza che genera lo stacco della figura, il prender campo del suo sguardo, il lampo - l’éclair degli occhi - l’incontro che non avviene ma che è più forte di un incontro realmente accaduto.
Tornerei a dove siamo partiti: il Simposio è anche l’irrompere di Alcibiade sulla scena. Alcibiade che rompe le regole: eccesso, gelosia, corpo, comportamento sconveniente. L’amore è anche un al di là della parola e vorrei che dicessi qualcosa di questo a partire da quel corpo tutto particolare che sono le lacrime.
L’amore nell’immaginario - più che nell’immaginazione - è legato a serenità, gioia, ha a che fare con il piacere. Il racconto d’amore dà invece moltissimo spazio al pianto. Il pianto è la lingua che non può essere più parola o non è ancora parola. Il pianto è un modo corporeo dell’indicibile. C’è un pianto d’amore che è gioia d’amore, riconoscimento, scoperta: è il pianto che descrive Goethe nel Werther, l’abbraccio tra Werther e Carlotta dopo la lettura di Ossian. C’è poi il pianto come mancanza, come attesa. Tutti i sentimenti possono essere detti nel pianto, il pianto raccoglie il sentire in una lingua corporea. Il pianto è anche esperienza dell’impossibilità dell’amore. E c’è anche una strategia del pianto che appartiene alle tecniche della seduzione: non mancano esempi nei Trattati d’amore del Cinquecento, nella tradizione romanzesca libertina.
Quanto a quel che dici su Alcibiade, certo, l’amore si mostra come desiderio che dà al corpo, ai sensi, una forte centralità, ma il discorso socratico sull’amore indica come tutto questo è privo di bellezza e verità se non si misura con quel che è oltre il corpo.
C’è un pudore, una sorta di vergogna, nel dire dell’amore: è solo timore del patetico, di sconfinare nel campo del “banale”? Mi domando quanto questo abbia a che fare con la natura dell’oggetto e quanto invece con quel che dell’amore ne è stato fatto.
Sì, è vero, da una parte è la natura stessa dell’amore, la sua assenza di confini, la sua indicibilità, il suo stesso non sapere, a motivare questo pudore, dall’altra è il timore di implicare la parte più profonda e ignota di sé - “mon coeur mis à nu”, di Poe e Baudelaire! - a trattenere sulla soglia. Ma anche, come dici, quel che dell’amore è pronunciato e vulgato e anche perpetrato: il malinteso, e l’oltraggiato, e l’offeso dell’amore. Siamo ancora nella domanda da cui è nato il libro: Come dire l’amore?
Cosmologia, antropologia, cristianesimo e civiltà.
"IL FIGLIO DELL’UOMO": UNA QUESTIONE ANTROPOLOGICA E FILOLOGICA...
COSMOLOGIA. “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”. Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
ANTROPOLOGIA. Nel 1888 pubblica "Ecce homo. Come si diviene ciò che si è": un Urlo contro la paolina religione del "Vir Dei", una critica radicale della cosmoteandria faraonica, e un aut aut epocale.
LA PUNTA DI UN ICEBERG BIMILLENARIO: PUGLIA (12 FEBBRAIO 2022). "Ecce Vir": il "caso serio" del quadro intitolato "Sabinus vir Dei".
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana
SCIOGLIMENTO DEI GHIACCIAI E RINASCIMENTO, OGGI. Una ristrutturazione epocale e lo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (#cosmo, teologia/ #dio e #andrologia/uomo) è già da tempo in atto: la nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra, è già in cammino: un capovolgimento e una nuova ricapitolazione, una radicale inversione logico-storica!
Federico La Sala
Cosmologia antropologia e civiltà.
“Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una X”.
Così Nietzsche, nel 1886. Ma, per un filosofo nato filologo e, per di più, uno dei grandi maestri del sospetto, contrariamente a quanto si è sempre ripetuto in modo "umano, troppo umano", non è bene tornare a interrogarlo e cercare di avere ulteriori dati sulla destinazione "ignota"?
Tracce per una seconda rivoluzione copernicana!
RINASCIMENTO, OGGI. Siamo solo all’inizio di una ristrutturazione epocale, allo sgretolamento della cosmoteandria tradizionale (cosmo, teologia/ dio e andrologia /uomo) e alla nascita di una antropologia annunciata già da Michelangelo nel suo "Tondo Doni", con le sue due sibille e i suoi due profeti - non "quattro profeti", come vuole la Galleria degli Uffizi, e da Galileo Galilei con il suo "Sidereus Nuncius" (1610), fondata sulla visione del sorgere della Terra: il fondamento di una radicale inversione logico-storica!
Statua di Diogene a Sinope.
Federico La Sala
Roberto Calasso, inimitabile coerenza di editore e autore Aveva 80 anni ed era malato da tempo. Proprio oggi escono i suoi ultimi due libri, Bobi e Meme’ Scianca
di Stefano Salis (Il Sole-24 Ore, 29.07.2021)
Parole, immagini, analogie. Storie, miti, ritorni: su tutto, e per tutto, libri. In questo si è tradotta la vita, molto attiva, di Roberto Calasso, lo scrittore ed editore (in questo ordine di importanza, e so che, su questo, molti storceranno il naso), scomparso ieri a Milano, all’età di 80 anni. Era malato e forse perciò ha avuto, recentemente, una anomala “fretta” di pubblicare: in pochi mesi ecco gli ultimi libri composti. E per uno di quei sinistri giochi del destino, che ama farsi beffe delle nostre esistenze, Calasso è scomparso nel giorno di uscita di due (addirittura) testi di carattere autobiografico.
Due libri che sostanziano una serie di iridescenze che si rifrangono in tutta la sua vita e opera; e la compiono, in qualche modo: Bobi, saggio memorialistico dedicato a Bobi Bazlen, suo maestro di editoria; Memè Scianca, struggente diario dell’infanzia, filtrato con i doni (e i buchi) che, sola, la memoria sa fare: ed è, questo librino, la felice scoperta di un Calasso intimo, e fragile, che rilegge episodi lontani epperò qualificanti, senza paura di scoprire e offrire lati suoi evidentemente più vulnerabili rispetto alla figura di maestosa caratura intellettuale alla quale ci ha abituati.
Era stato, Calasso, protagonista dell’editoria italiana fin dalla creazione dell’Adelphi (su iniziativa di Bazlen e Foà), nel 1962, e dal 1971 la aveva condotta nel mare dei libri, disegnando una traiettoria di coerenza (personale e pubblica) inimitabile e inimitata. Adelphi, grazie al suo intuito, formidabile, di lettore ed editore finissimo (l’ultimo dell’editoria degli editori), aveva, e ha, costituito un “canone alternativo” letterario e grafico nel panorama italiano e internazionale. I libri Adelphi, in libreria, non confluiscono isolatamente, nella saggistica o nella letteratura, sperdendosi nell’ordine alfabetico: formano, al contrario, un blocco uniforme, percepito come un “tutto”, di cui ogni titolo è parte costituente.
Era lo stesso effetto che, coscientemente, Calasso aveva previsto per la sua attività di scrittore. Complesso, magmatico, coraggioso tessitore di analogie senza temere le difficoltà del lettore nell’addentrarsi nei suoi testi, Calasso, dopo un esordio narrativo “erratico” ma seminale come L’impuro folle (1974), ha poi ordito un’Opera che a partire da La rovina di Kasch (1983) si è svolta come un “serpente” di oltre 5.000 pagine che include Le nozze di Cadmo e Armonia (1988), Ka (1996), K. (2002), Il rosa Tiepolo (2006), La Folie Baudelaire (2008), L’ardore (2010), Il cacciatore celeste (2016), L’innominabile attuale (2017), Il libro di tutti i libri (2019) e La Tavoletta dei Destini (2020). Un’opera impossibile (e inutile) da riassumere, un grande affresco che, con i saggi de I quarantanove gradini (1991), La letteratura e gli dèi (2001), Cento lettere a uno sconosciuto (2003), La follia che viene dalle Ninfe (2005), L’impronta dell’editore (2013) e I geroglifici di Sir Thomas Browne (2018, l’argomento della sua tesi di laurea), forma un unicum nella letteratura italiana e mondiale.
La scomparsa di Calasso è uno di quei vuoti che si allargano improvvisamente, e costringe chiunque ad affrontare la perdita in maniera originale e, se possibile, costruttiva. E se per l’Adelphi, chiunque ne prenderà il posto, la sua assenza peserà come un macigno (dato che, comunque, sarà insostituibile), per l’intera cultura italiana invece sarà, nel tempo, un gigante con il quale fare i conti. Come Umberto Eco, Calasso fornirà d’ora in poi un metro di paragone, talmente ampio e solido, nell’editoria e nella letteratura, da risultare paradigmatico. Colmo di un valore esemplare, già classico in alcune sue movenze, il suo lavoro, parole e idee più solide del bronzo, acquisirà, nel tempo, lo statuto di un monito, di un monumento o, meglio, di una profezia, almeno per noi suoi ammiratori. Per gli invidiosi, e meno preparati, il suo catalogo resterà, semplicemente, un miraggio.
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Il ricordo.
Roberto Calasso, la passione della letteratura
Lo scrittore ed editore nelle parole continuava a vedere gli dèi e riportava alla luce concetti che, con lui, acquistavano una dimensione nuova
di Rosita Copioli (Avvenire, venerdì 30 luglio 2021)
La passione della letteratura, dove Roberto Calasso continuava a vedere gli dèi, è qualcosa che tende a spegnersi nelle case editrici, nelle pagine culturali dei giornali, nel cinema, e in ogni campo che dovrebbe esprimerla, farla conoscere, proteggerla, e alimentarla. La letteratura può fiorire dovunque, ma è qualcosa di raro e difficile. L’insieme di “lettere” scritte che comprende tutte le forme, compresa la poesia, brilla solo nella riuscita dell’arte, nella sostanza, non nel magma indifferenziato; né, tanto meno, nelle buone intenzioni, e nelle ideologie. In essa non può non affiorare la forza del “simulacro”, l’ágalma, termine tanto caro a Calasso: ossia la catena simbolica delle immaginazioni che si traducano in visioni, in storie interminabili, nel cui labirinto ognuno di noi è insieme Teseo e Arianna, il Minotauro, la croce, e la rosa.
Per Calasso, nato nel 1941 a Firenze e morto mercoledì sera a Milano, la letteratura è stata la sostanza di se stesso, e dobbiamo tributargli una gratitudine totale. Perché essa ha coinciso con gli anelli di libri che saldavano la sua catena, segmenti di un serpente, frammenti di un libro singolo formato da tutti quelli pubblicati: e qui non indico solo quelli di romanzieri e poeti, ma di storici, di filosofi, di scienziati, di analisti e di ricercatori, tutti in grado di portare una scintilla rivelatrice. Ma quell’inanellamento non ci sarebbe stato, se nella sua opera non ci fosse l’impronta di una catena aurea, proprio quella di Omero pensata da Porfirio - balenante di folgorazioni e connessioni, che è all’origine della civiltà europea. Il vaso spezzato del mondo si ricompone, parzialmente, per ferite e sacrifici, solo nella letteratura, che sostituisce nell’ultima fase, tragica e parodica, come in Kafka, quanto è stato perduto nel mondo moderno, nella metropoli di Baudelaire, dove per sogni, e per corrispondenze, si insegue un Principio, o il Sacro. Una caccia per lampi analogici, seguendo vie diritte o tortuose, che si interrompono nel silenzio e nella tenebra, o nei baratri delle omissioni, è la ricerca di una mitologia finale che la letteratura contiene, perché vi si riversano tutte le storie e le culture, non solo greco-latina, ebraica, ma vedica e cinese, che instancabilmente Calasso collega e investiga.
Sebbene questo proposito sia una necessità evidente, nessuno come Calasso, ha voluto dissimularla, lasciando che fossero gli scrittori a esporre le proprie ragioni, pur unilaterali, soggettive, antitetiche le une alle altre - mentre per se stesso, il “Cacciatore”, abbia voluto più che nasconderla, per non ostentarla, sviarne il nome, sotto la mole della sua conoscenza sterminata, e l’eleganza dell’understatement. Però, in tutti i suoi libri - La rovina di Kash, Le nozze di Cadmo ed Armonia, Ka, Il rosa Tiepolo, La folie Baudelaire, Il cacciatore celeste, Il libro di tutti i libri, fino agli ultimi -, Calasso ha inseguito il proprio pensiero, verso una salita insieme contemplativa e lucidissima, che scopre e non scopre l’ammirazione drammatica per quanto vorrebbe raggiungere, dimenticando se stesso, o fluendo nel punto luminoso e accecante che è il punctum, il sacro inarrivabile della “letteratura assoluta”, che ha sostituito quello delle religioni, imprescindibili.
Nel 2001, nella Letteratura e gli dèi, proclamando la semi-inutilità delle discipline critiche, dichiarava che quasi «soltanto gli scrittori sono in grado di aprirci i loro laboratori», parlandoci di quella «realtà seconda», del «mistero palese» di ogni forma, «parola di Goethe». E mentre enumera queste guide «capricciose ed elusive... gli unici a conoscere passo per passo il terreno », con i loro saggi, scorriamo i nomi che ha pubblicato - Baudelaire, Proust, Hofmannsthal, Benn, Valéry, Auden, Brodskij, Mandel’šam, Cvetaeva, Kraus, Yeats, Montale, Borges, Nabokov, Manganelli, Calvino, Canetti, Kundera.
Tutti, benché diversi, o talora avversi l’uno all’altro, parlano della stessa cosa: ed essa, più che da teorie, si riconosce da «una certa vibrazione o luminescenza». «Quella specie di letteratura è un essere che parla a se stesso», non perché sia autoreferenziale, né affondata nella “realtà”. A quel punto Calasso offre una lunga citazione da Novalis, sulla prodigiosa natura del linguaggio. Esso nasce dalla conversazione, dalla chiacchiera, da se stesso, e, come le formule matematiche, non è un impossessamento delle cose: quando diventa un mistero prodigioso, nel libero gioco di relazioni che le cose assumono rispecchiandovisi, e che ci anima: e quando - quasi all’insaputa di chi lo esprime - è poesia. E allora, chi ne rende comprensibile il mistero non «è uno scrittore per vocazione, poiché uno scrittore è soltanto colui che dal linguaggio è stato entusiasmato?».
Sempre divagando e omettendo, mostrando errori e aberrazioni dei moderni interpreti, filosofi e non, Calasso procede verso le ultime pagine, sul filo dell’incanto libero delle parole di Novalis, con l’Io, il Sé e il Divino, del frammento di coppa attica dove Apollo tende il braccio verso il giovane che scrive, e in mezzo, la testa tagliata di Orfeo. Fermo è il braccio di Apollo che sostiene la letteratura, e il suo sacrificio, su tutta la scena. Personalmente, avevo messo in serbo anche io, uno dei miei riferimenti preferiti di Novalis, quando dice che il centro unificatore del narrare è la poesia. Perché non ci sono risposte al «che cosa è» la letteratura o la poesia stessa, ma Calasso sapeva bene che questo centro esiste, sebbene sia indefinibile, e rarissimo.
Oggi, mentre molti di noi preferiranno percorrere, come è giusto, l’opera così vasta di Calasso, vorrei ricordare il capitolo su Plotino del Cacciatore celeste, che succede al modello delle metamorfosi di Ovidio, e al suo mondo fluido; con Plotino la caccia alla conoscenza approda in quel volo o «fuga del solo verso il solo», l’Uno, non definibile, perché non limitabile, che si può contemplare soltanto tra luce e tenebra, al di sopra e causa della vita. In Plotino, oltre l’arroganza verbale degli gnostici e la tendenza all’anomia, la tradizione greca del Bello coincidente con il Bene da cui discende, e da cui viene la bellezza del mondo, diventano ricerca inarrestabile della mente e dell’anima: nella supremazia del Bene anche il male entra nell’armonia o senso del tutto. Non mi pare proprio che fossero a proposito le parole scritte qualche anno fa, a caccia di roghi, sulle gnosi del male. Non sono le teorie, né la filosofia né le credenze, che vanno cercate in una figura così straordinaria per la cultura e la letteratura, non solo italiane.
Ho conosciuto Calasso nel 1987, quando Giuseppe Pontiggia volle che lo incontrassi per parlare dei saggi di Yeats che avrei pubblicato nel 1988 con Guanda, sotto il titolo di Anima Mundi. Calasso avrebbe voluto che li curassi per la sua casa editrice, ma avevo già contratto. Ben pochi, in quegli anni, sapevano valutarne la bellezza. Mi propose di tradurre le poesie di Thomas Hardy: non lo feci, e sbagliai. Nel 1988 pubblicò il suo primo libro di successo: Le nozze di Cadmo ed Armonia.
Per chi, come me, ambiva con troppo orgoglio a rifare ex novo il mito, sembrò un esercizio di erudizione. Ma era un errore. Quella “fortunata” erudizione contribuiva a riportare l’attenzione su quanto importa, nella nostra cultura e letteratura, ossia alle origini: le racconta, in modo attento, come, diversamente, già dal 1970 aveva cominciato a fare Pietro Citati, con il suo Goethe, mentre fondava la collana di scrittori greci e latini classici e cristiani della Fondazione Valla/ Mondadori. Se non emergevano scoperte o nozioni “originali”, il suo merito era di ricondurre alla luce, di approfondire concetti magari altrui, che acquistavano una dimensione nuova, anche nei riflessi di altri libri.
Penso non solo alle “acque mentali” delle ninfe, e alle loro configurazioni da Warburg. Ma al termine di abrosyne, una sorta di grazia, diversa dal bello, che viene prima di esso, e che riguarda l’estetica di Saffo. Si dirà che sono cose minori. Non lo sono affatto. Sono stili di civiltà, di intere epoche, e della sostanza del divino che è in noi.
Mi capitò, per la mostra che curavo dei libri di Fellini, di chiedere a Calasso di approfondire il rapporto che Fellini aveva avuto con lui, anche quando fu suo tramite per i diritti di Simenon, con l’editore Daniel Keel. Fu in quel momento, che affiorò anche il progetto del film di Fellini sui miti greci. Ora che esce il libro di Calasso in ricordo di Bazlen, Bobi, non posso che rievocare l’intreccio di persone di cui ha scritto, da non tanto, Margherita Pieracci Harwell, mettendo insieme Cristina Campo, Ernst Bernhard, Gianfranco Draghi, tanto più che proprio l’ultima pagina di Bobi, singolare coincidenza, nomina i due libri che per Bernhard, e per Fellini, furono capitali, e che proprio Bernhard aveva donato a Fellini: l’I Ching, e L’abbandono alla Provvidenza divina, di Jean- Pierre de Caussade.
Io, filosofa del postumano, a lezione dagli insetti: «Le api sono superiori»
di Rosi Braidotti *
Adoro gli insetti perché nutrono una sublime indifferenza nei confronti di noi bipedi terrestri umani. Sono proprio l’opposto degli animali domestici, con i quali condividiamo fin troppo volentieri dolori e piaceri. È stupefacente pensare che i milioni di insetti che circolano in terra e per aria, non si curano minimamente di come noi li percepiamo o valutiamo. Non siamo noi il loro punto di riferimento, ma la terra stessa e il sistema cosmico-fisico nel suo insieme. Anche perché, nella stragrande maggioranza dei casi, noi umani non siamo capaci né di vederli né di sentirli, poiché il nostro dispositivo neuronale non ci consente l’udito infrasonoro, la visione microscopica o la recezione delle onde radar. Siamo limitati, a modo nostro. Moltissimi insetti invece, specialmente le api, sanno percepirci perfettamente anche a occhi chiusi, per via olfattiva.
Ignoranza da antropocentrismo culturale
Il nostro antropocentrismo ancestrale genera quindi una specie d’ignoranza collettiva o un deficit relazionale verso le altre specie. Siamo davvero in troppi a condividere la presupposizione - arrogante ed errata - che l’umano è l’apice della scala evolutiva. Le api sono magistrali nelle relazioni diplomatiche con noi: fanno come se la convivenza con gli esseri antropomorfici fosse consensuale e definitiva, invece non è così. Non sono addomesticate, ma collaborano con noi secondo un modello contrattuale relativamente chiaro. Citando Michel Serres lo definirei come un contratto socio-naturale. Lavorano per e con noi, condividendo profitti e rischi, ma tutto a modo loro. E difatti ogni tanto prendono e se ne vanno via in cerca di altre sistemazioni, svuotando le arnie e rompendo ogni legame con noi. Ritrovare gli sciami in fuga e riportarli nella casa predisposta per loro dagli esseri umani è un’operazione di carattere semi magico, frutto di sapienza antica, intuizioni primordiali e saper fare ancestrale. Non è da tutti saper comunicare con una specie cosi profondamente convinta della sua superiorità rispetto a noi. Certo, spesso poi le api ritornano nell’arnia, ma tanto sappiamo tutti che se ne andranno di nuovo, quando e come vorranno loro. A decidere sarà lei, l’ape regina - vero simbolo del femminismo postumano - che comunque è stata prescelta, eletta e nutrita dalle api lavoratrici, operaie qualificate in vari settori e specializzazioni. La vera potenza e forza costituente sono loro, anche se a determinare tempi e modi sarà lei.
Metafora = sfruttamento epistemologico
Noi umani invece siamo affascinati da questi insetti, alternando orrore e passione. La nostra cultura promuove un innamoramento generale specialmente nei confronti delle api. Anche quando le temiamo, o ci fanno ribrezzo, non ci lasciano mai indifferenti. E siamo golosi di miele e di propoli. Loro invece sono molto più attratte dai pistilli succulenti e tentacolari delle specie vegetali, carichi di polline e nutrienti vitali. L’umano in confronto è irsuto e insipido. Il problema però è che quando pensiamo a loro, noi umani precipitiamo in un vero delirio di analogie e metafore - un’overdose quasi infantile di entusiasmo nei loro confronti. La metafora è una forma di sfruttamento epistemologico e letterario, verso la quale dovremmo essere più critici. Prima viene l’ammirazione per la loro carrozzeria, il design visivo incorporato in quegli organismi cosi efficaci, un’estetica industriale avant la lettre capace perfino di sconfiggere la gravità. Non per nulla quelle forme compatte di api e vespe furono immediatamente recuperate dagli ingegneri della Piaggio negli anni Sessanta.
Gli insetti sono metafore viventi
Ma i voli in motorino sono pura metafora della velocità di fuga del capitale, e le loro ruote restano piantate in terra. Poi si scatena tutta la dimensione analogica morale. In un’ottica antropocentrica, gli insetti sono metafore viventi, figure araldiche distinte che evidenziano virtù specifiche alla nostra specie, non alla loro. La letteratura ma anche la filosofia straripano di bestiari moralizzanti, per esempio sulla moltitudine alata o strisciante di insetti come modello del proletariato globale, oppure del populismo organico e delle sue schiere indistinte di seguaci. Così l’ape laboriosa, al servizio della massa, simbolo della classe operaia nella propaganda politica di destra come di sinistra. Ma l’orgia associativa non si ferma: le fiabe, la cultura popolare ed i proverbi celebrano la cicala cialtrona, il calabrone scocciatore, le vespe moleste, le mosche noiose, gli scarafaggi schifosi, i ragni contorsionisti, le larve ributtanti. Per non parlare del miele, definito cibo divino...
Freud e l’esuberanza zoologica
La loro stessa esistenza punzecchia ed interpella la nostra integrità di homo/femina sapiens. «Ma come fanno a esistere, quegli esseri lì?», si diceva a casa mia ogni volta che appariva un insetto mostruoso. Forse la paura della diversità ha davvero radici non umane. La sessualità degli insetti d’altronde affascinava già Plinio il Vecchio e da allora le speculazioni degli umani sulla vita sessuale di questi organismi così radicalmente diversi dagli altri membri del regno animale continua ad accendere scenari fantasmatici torridi. Pensiamo alla mantide così detta religiosa, in realtà ninfomane assassina, le specie di cimici trans, capaci di cambiare e scambiare sesso, i casi di ermafroditismo e la promiscuità strategica dell’ape regina. La stessa rapidità dei cicli di vita e di riproduzione degli insetti, le combinazioni diverse e varie dei loro organi e sistemi sessuali, la mancanza di riferimenti visivi determinanti dell’appartenenza al genere fanno tutto per confondere ma anche eccitare l’immaginazione erotica umana. Loro invece, vanno avanti tranquilli nella loro esuberanza zoologica, infischiandosene di interpretazioni freudiane delle loro microscopiche proboscidi e pelosissime zampette.
La sessualità multi-specie
Minuscole ed impegnatissime, le api sono delle costruzioni morfologiche improbabili ed incomprensibili ibride e nomadi per eccellenza. Davvero inquietanti, questi abitanti del nostro pianeta! Libere e ferocemente affamate di contatti impollinanti, le api praticano quotidianamente una sessualità multi-specie, visitando fiori e piante in quantità industriale. I poteri trasformativi delle metamorfosi larvali, i ritmi delle loro mutazioni, le qualità virali che le contrassegnano intimidiscono e seducono gli umani. La nostra temporalità si avvicina molto di più a quella degli elefanti che ai ritmi di vita e di amore di farfalle, libellule o api. Le api hanno un ritmo esistenziale straordinario, sincronizzato con l’asse terrestre e solare, che permette loro di vivere in un tempo-spazio immenso, un’ecosfera cosmica, che loro contrassegnano con sistemi di riconoscimento in termini di gradi di calore, odore, intensità e profumo. Questa differenza radicale mi interpella. Le api mi sfidano a sviluppar un rapporto non-antropocentrico all’alterità che esse stesse rappresentano nella mia mente fin troppo umana.
Lo sciame digitale
Dovremmo inventarci una maniera non-antropocentrica di rapportarci alle api, che sono una delle forze motrici della Terra, un pianeta che non ci appartiene, come del resto dovremmo fare con tutti gli organismi non-umani. Umanizzarli significa ridurre la loro specificità. Osservare le api e studiarle per me è un apprendistato alla soggettività postumana. Ma non ci si libera dell’antropocentrismo in un batter d’occhio. Avvicinarsi alle api implica un cambiamento corporeo, un divenire-insetto che richiede l’acquisizione di sensi, facoltà e modi di percezione che non fanno parte del patrimonio genetico umano.
L’apicultura, anche come filosofia pratica del divenire, esige duro lavoro. La tecnologia contemporanea offre interessanti possibilità di aumentare le capacità corporee e neuronali umane, inserendo processi di trasformazione postumana. Nel mondo d’oggi, gli insetti e in particolare le api hanno ispirato le immagini dominanti dello sciame digitale, il nugolo di mega-bytes che circola in rete, cioè nel sistema ragnateloso dell’elettronica. Internet insegue ed imita il paradigma dell’insetto come artigiano cosmico. Micro-cellule alate, particelle elementari volanti: non c’è drone che non sogni di poter diventar ape, e difatti i droni stanno diventando piccolissimi.
Entità naturali e culturali, ecologiche e tecnologiche
Per gli umani, le api tracciano dei percorsi di diventare insetto che richiamano questi modelli tecnologici, ma di fatto si appoggiano sul contratto social-naturale che le api hanno saputo perfezionare nel corso di millenni. I soggetti postumani odierni sono entità naturali e culturali, ecologiche e tecnologiche allo stesso tempo. Ciò che li contraddistingue è il fatto di essere immanenti a un territorio, cioè di essere capaci di riconoscere e rispettare le radici materiali e terrestri della loro esistenza. In questo senso, divenire ape è anche un modo di far sparire l’umano nel seno della complessità del nostro pianeta: diventare terreste, divenire impercettibile. Elementari, complesse, atmosferiche e terresti, volanti e caserecce, vagabonde e precise, le api trasportano, traspongono e traducono incessantemente tra gli elementi, le entità, le specie e le cose. Il loro ronzio rende udibile il boato delle alte sfere, la loro attività molto specializzata produce effetti di ibridazione costante. Il loro volo ha il potere di riportarci a terra, di restituire la specie umana all’appartenenza profonda ad un pianeta di cui non sappiamo e non vogliamo aver cura. Imparare dalle api significa anche studiare le radici ecologiche del nostro essere, l’eterogeneità che ci permette di sopravvivere e di prosperare in uno scambio continuo con gli altri, umani e non umani.
L’etica della relazione
L’etica della relazione è il fattore decisivo che ci collega, anche affettivamente, agli altri. Il ronzio cosmico delle api m’interpella davvero e a volte mi spaventa. Scandisce i ritmi di un’etica del divenire collettivo. Ribadisce l’inter-dipendenza a livello molecolare ed ecologico, senza eliminare le differenze. È seduttivo ed esigente al tempo stesso - come può esserlo la materia vivente, nel momento in cui ci rendiamo conto che la vita non ci appartiene e che gli ospiti al banchetto delle dee alate siamo proprio noi.
* SETTE - CORRIERE DELLA SERA, 14.07.2021 (ripresa parziale - senza immagine).
Euro2020, la politica nel pallone
Ci sono manifestazioni sportive che raccontano meglio di qualsiasi opera il proprio tempo. È il caso di questi europei di calcio, rimandati, strani, complicati e in fin dei conti meravigliosi. Sia da vincere sia «da leggere»
di Nicola Pedrazzi (Il Mulino, 12 luglio 2021).
«Quel poco che so della morale l’ho appreso sui campi di calcio e a teatro, le mie vere università». Pare lo abbia detto Albert Camus, ma a prescindere dall’autore l’aforisma è portatore di verità profonde. Lo hanno dimostrato questi Europei 2020, che la Uefa voleva itineranti per festeggiare i sessant’anni della manifestazione, ma che a causa della pandemia si sono svolti un anno più tardi, coinvolgendo undici Paesi di un continente desideroso di assembramento, unito dalla voglia di tornare a dividersi.
Per un mese intero le immagini e le atmosfere provenienti dagli stadi di Azerbaigian, Danimarca, Germania, Inghilterra, Italia, Olanda, Scozia, Spagna, Romania, Russia, Ungheria, hanno rappresentato un’Europa più estesa e complessa dell’attuale Unione europea, hanno raccontato le fratture del nostro spazio geografico, hanno dimostrato perché la «geopolitica del pallone» è divenuta un genere letterario serio e praticato. Il calcio delle nazionali intreccia da sempre relazioni politiche con gli Stati-nazione, il capitalismo, l’immaginario collettivo europeo, ma gli Euro2020 hanno miscelato questi tre ingredienti in un racconto quasi perfetto del nostro tempo. Proviamo a dipanarne le trame.
Calcio e nazione. Ce lo siamo dimenticati, ma a vincere i primi europei di calcio (luglio 1960) fu l’Unione Sovietica di Nikita Krusciov, che piegò ai supplementari la Jugoslavia del maresciallo Tito: due modelli «alternativi» di comunismo, ma soprattutto due grandi Paesi multietnici che oggi non esistono più. È indicativo che la relazione tra calcio e nazione venga spesso indagata a partire dalla dissoluzione della Jugoslavia.
In un libro romantico uscito nel 2016, il giornalista Gigi Riva è arrivato a chiedersi cosa sarebbe accaduto se ai mondiali italiani il capitano jugoslavo Faruk Hadžibegić non avesse sbagliato il rigore decisivo contro l’Argentina di Maradona.
Era il 30 giugno 1990, e l’eliminazione della nazionale jugoslava consumatasi al comunale di Firenze fece da sfondo alla deflagrazione di uno Stato che per spezzettarsi reclutò proprio nel calcio simboli e milizie, facendo nei suoi stadi le prove generali di una battaglia etnica, come avvenuto un mese prima tra tifosi e giocatori della Dinamo Zagabria e della Stella Rossa di Belgrado.
Anche alla vigilia di Euro2020 gli organizzatori paventavano operazioni di nation-building calcistico. Si temevano, ad esempio, le gestualità della Turchia di Erdogan che durante le qualificazioni si era rivolta al pubblico parigino con il saluto militare; si temeva che il tabellone incrociasse Russia e Ucraina, la cui maglia ospitava sul petto una mappa comprensiva di Crimea, la penisola del Mar Nero invasa e poi annessa dalla Russia con un referendum molto contestato nel 2014 - nonché, va ricordato, due slogan terrificanti cuciti sul colletto («Gloria all’Ucraina» e «Gloria agli eroi»), entrambi riconducibili ai gruppi nazionalisti che negli anni Trenta finirono per collaborare con la Germania nazista. Alcuni osservatori avevano caricato di valori politici anche il «derby della Brexit» proposto dal gruppo D, tra l’Inghilterra di «God Save The Queen» e una Scozia in cui nazionalismo, indipendentismo ed europeismo sono tornati ad allinearsi. Particolare attenzione era poi rivolta alla Macedonia del Nord, un Paese che non si era mai qualificato alle fasi finali e che esordiva con un nuovo nome negoziato nel 2019 per porre fine al decennale contenzioso con la Grecia, per la quale la «Macedonia» continua ancora oggi a essere una regione del proprio territorio. Pochi in Italia hanno seguito la vicenda, ma su pressione dei tifosi la federazione macedone ha dovuto ripristinare in fretta e furia la vecchia maglia su cui si staglia il sole rosso di Verghina, un riferimento a un reperto archeologico rinvenuto negli anni Settanta nella Macedonia greca che entrambe le tradizioni nazionali riconducono alla dinastia dell’eroe conteso Alessandro Magno.
Se dinanzi a queste dispute «balcaniche» e «primordiali» abbiamo la tentazione di sorridere è soltanto perché abbiamo rimosso che l’azzurro della nostra maglia è il colore di Casa Savoia (peraltro sopravvissuto nel vessillo della presidenza della Repubblica). Come i testi e le musiche degli inni ripassati in queste settimane ci hanno ricordato, gli Stati-nazione sono un’invenzione dei Risorgimenti europei, e questi non sono ugualmente distanti nel tempo e nella memoria di tutti i Paesi. L’Ucraina in fin dei conti non ha inventato niente: durante le qualificazioni all’europeo del 2016 la partita Serbia-Albania fu sospesa a causa dell’atterraggio sul campo di una bandiera raffigurante la Grande Albania etnica, comprensiva del Kosovo e dei faccioni di Ismail Qemali e Isa Boletini, due patrioti fondatori dello Stato albanese. In quel caso la provocazione sui confini non fu organizzata né avvallata dalla federazione albanese, ma il punto da considerare è che i governi dei piccoli Paesi che popolano l’oltre-Adriatico si trovano a stretto contatto con il momento genetico della loro statualità: sono più bisognosi di nation-building e dunque più propensi a conferire alle sfide calcistiche un valore politico. Problema che in diverse forme può valere anche per le Repubbliche dell’Est Europa, che al fine di «ritrovarsi» sono costrette a risalire a prima dell’Unione Sovietica, e fatalmente a ripescare i nazionalismi e le tradizioni del primo Novecento.
Calcio e capitalismo. Sebbene le insidie locali fossero note, la Uefa ha voluto girovagare per un continente post-pandemico, da Roma a Baku, da Bucarest a San Pietroburgo. Perché? La risposta è innanzitutto economica. Come ben spiegato dal giornalista del «Sole 24 Ore» Marco Bellinazzo durante un dibattito organizzato dalla rivista «Le Grand Continent», il principale interesse dell’istituzione presieduta da Aleksander Čeferin - la Uefa in buona sostanza federa gli interessi della Premier League inglese, della Bundesliga tedesca, della Liga spagnola e della Serie A italiana - è di rimettere l’Europa, o meglio la Uefa stessa, «al centro del pianeta calcio». I vessilli locali, di club e nazionali, sventolano ancora fieri tra i mille campanili del vecchio continente, nel mentre però la Fifa, la Federazione internazionale di cui la Uefa stessa è membro, dopo i mondiali di Russia (2018) sta organizzando le prossime edizioni in Qatar (2022: saranno i primi mondiali a tenersi da novembre a dicembre) e in Canada-Usa-Messico (2026: saranno i primi mondiali a ospitare 48 squadre invece che 32, e a svolgersi spalmati su tre Paesi).
Il progetto, sventato solo pochi mesi fa, di una Superlega dei club europei più blasonati di fatto alternativo alla Champions League (la manifestazione più importante gestita dalla Uefa) ha reso evidente che cosa può accadere quando i bilanci scricchiolanti di società storiche con assetti proprietari sempre più internazionalizzati incontrano i finanziamenti di una banca americana, in un contesto tecnologico che spinge per un calcio-intrattenimento globale e digitale e a cui la pandemia ha tolto per mesi ogni addentellato fisico.
L’insistenza con cui la Uefa ha scelto la formula itinerante e ha invitato i Paesi ospitanti a riempire gli stadi si spiega quindi anche con la necessità di uscire dal virtuale pandemico e di recuperare l’immagine di imprescindibile organizzatore delle passioni del popolo del calcio. Per convergenza di interessi populistici, il più disponibile alla mobilitazione di pubblico e alla recita della rinascita è stato il primo ministro ungherese Victor Orban, che ha concesso il 100% della Puskas Arena di Budapest di recente costruzione; ma persino il governo inglese, fiero di una campagna vaccinale gestita fuori dall’Ue e desideroso dell’appoggio Uefa in vista della sua candidatura per i mondiali del 2030, ha messo da parte tante perplessità sanitarie, concedendo una capienza di circa 60.000 spettatori già a partire dalle semifinali.
Negli ultimi mesi la Uefa è stata vissuta e raccontata alternativamente come un baluardo a difesa degli antichi «valori del calcio», come un organismo cosmopolitico che esporta il politicamente corretto dell’anglosfera, come un’istituzione ambigua, che mette l’arcobaleno nel logo ma strizza l’occhio a regimi e sentimenti nazionalistici; quando se guardata con realismo essa ci appare per quello che è: un attore di primo piano di una sport-industry che attraversa una fase epocale di cambiamento, e che dinanzi alla potenza economica di Usa, Russia, Cina e Paesi del Golfo - Bellinazzo l’ha definitiva la «Yalta del calcio» - cerca di difendere con ogni mezzo il suo posto nel mondo. Proprio come fatto per sventare il progetto della Superlega, quando Čeferin ha saputo giocare di sponda sia con diversi governi europei (Macron e Johnson innanzitutto) che con la ricchissima presidenza qatariota del Paris Saint-Germain, la quale tutto è fuorché locale.
Calcio e immaginario europeo. E veniamo così alla dimensione europea di una manifestazione che nasce per essere tale. Qui entra in gioco un immaginario che travalica gli immaginari nazionali e trascura le realtà economiche, perché ha a che fare con l’impareggiabile capacità del calcio periodico e mediatizzato di sincronizzare le esistenze di pubblici che non hanno nulla in comune. Tra dieci anni solo una minoranza di appassionati italiani sarà in grado di discorrere del goal di Pessina contro l’Austria (senza il quale gli azzurri non avrebbero passato il turno), ma milioni di europei ricorderanno il riscaldamento di Italia-Spagna sulle note di «A far l’amore comincia tu», avranno presente che è proprio in quei giorni che se ne è andata Raffaella Carrà, così come è proprio in quei giorni che ho comprato la macchina, ho mangiato in quel posto, ho festeggiato la maturità, si discuteva di arcobaleni, ci siamo conosciuti e ci siamo innamorati.
Come ricordato a più riprese da Simone Conte nel delizioso Podcast Wembley gli europei e i mondiali di calcio costruiscono un lasso di tempo dentro al quale la vita di un atleta può cambiare per sempre, e per estensione la vita di chiunque si sincronizzi con lo spettacolo. Va inserito qui il dibattito, sconclusionato ma molto interessante, sui gesti simbolici come l’inginocchiamento in solidarietà alla lotta contro il razzismo. Un rito consolidato nel mondo anglosassone - tanto che anche chi è favorevole comincia a denunciare l’usura routinaria del gesto -, ma che una volta europeizzato dalle nazionali britanniche - con l’eccezione del Belgio, le nazionali continentali hanno preferito non aderire - ha scatenato discussioni a non finire non solo sul ruolo dello sport nella lotta a ogni discriminazione, ma sulla libertà di coscienza e il senso dei simboli in un mondo in cui, lo ha ricordato molto bene Daniele Rielli sul «Foglio», il marketing corporate e i social network trasformano i campioni in influencer standardizzati, privando di consapevolezza, gratuità e coraggio gesti il cui impatto solitamente è proporzionale al rischio personale che si corre. Giusto per fare un esempio, durante la presidenza Trump il primo atleta a rimanere seduto all’esecuzione dell’inno è stato il quarterback del San Francisco Colin Kaepernick, che di conseguenza non trova squadra dal 2017 - un’esclusione sportiva profondamente sbagliata, che però non gli ha impedito di diventare testimonial della Nike e protagonista di una serie Netflix, ed ecco di nuovo il corporate.
Un gesto poco mediato intendeva forse essere la richiesta del sindaco di Monaco Dieter Reiter di colorare d’arcobaleno l’Allianz Arena in occasione di Germania-Ungheria, per segnalare la protesta della sua città nei confronti dei recenti provvedimenti del parlamento ungherese volti a evitare la rappresentazione dell’omosessualità nei materiali scolastici e educativi (peraltro all’interno di una legge scritta per combattere la pedofilia). Il no dell’Uefa, che ha distinto tra la fascia arcobaleno del capitano tedesco Neuer (un gesto personale contro l’omofobia e dunque irreprensibile) e l’illuminazione dello stadio ospitante (una presa di posizione ambientale contro uno dei Paesi rappresentato in campo, e dunque non autorizzabile) è stato tempestivo nel rispetto dei regolamenti e scaltro nel lasciare comunque spazio al gesto simbolico, che messo in atto a margine della partita ha bucato l’immaginario europeo altrettanto o forse più che se fosse accaduto durante. Nonostante la sua squadra scintillante, talmente bella da impadronirsi dei cuori delle sue vittime - dei belgi in festa per il successo italiano ne vogliamo parlare? - la Federazione italiana ha per converso dimostrato tutta la sua impreparazione sotto al profilo comunicativo: facendosi cogliere di sorpresa da tematiche internazionali più che prevedibili, e poi fabbricando una contorta interpretazione «di squadra», per cui se si abbraccia un simbolo non lo si fa per il suo significato intrinseco (no al razzismo) ma in solidarietà con la battaglia dell’avversario (?!). Lato italiano è forse questa l’unica occasione persa dell’europeo, ma poco importa quando in finale sei l’unico Paese membro e dalla tua hai persino la presidente della Commissione europea, un’istituzione che per sua natura non fa mai simili professioni di fede nazionali.
In conclusione. Gli europei di calcio sono un afflato europeo che sgorga da contrapposizioni nazionali che non sempre il fatto sportivo riesce a sublimare; la Uefa è un attore economico in difficoltà, che sceglie l’arcobaleno per ragioni di marketing, sa vietarlo per ragioni assennate e dimenticarselo per dissennate convenienze (come riempire lo stadio di Budapest); l’immaginario europeo è un mosaico confuso, diviso e interconnesso, in cui è sempre più difficile distinguere tra l’atleta e il tifoso, perché tra Instagram e Playstation il primo rifruisce sé stesso, in un perfetto cerchio chiaraferragnesco in cui il guardante e il guardato, il milionario e il nullatenente contribuiscono alla reciproca omologazione (è per questo che oggi l’inno non si canta ma si urla, perché i giocatori sono tifosi di loro stessi, non è «colpa» di Pertini, Ciampi o Napolitano). Eppure, persino nelle pieghe meno edificanti di queste contraddizioni, persino nei suoi esiti negativi e paradossali, questo periodico modo di incontrarsi non è mai vano, perché nel confronto dei comportamenti delle proprie squadre e dei propri campioni ognuno è portato a chiedersi, fanciullo o adulto, cosa farebbe lui in quella situazione, e in ultima istanza, chi è, come intende stare e spendersi nel guazzabuglio contemporaneo. La metafora del calcio è politica nella misura in cui accende un’immedesimazione che non conosce classi e culture, sintetizzando in novanta minuti di prato i dilemmi più seri delle vite umane: la fatica, la sofferenza e il sollievo di uscirne in qualche modo tutti insieme. Oltre a una nazionale giocosa come non mai e alla sua meritata coppa europea, è questa morale universale che conviene riportare per un po’ di tempo a Roma.
#EDUCAZIONE CIVICA
#TRAGEDIA
E
#DIVINA COMMEDIA
#oggi.
Dopo #Dante (1321)
e la #rivoluzione delle #sfere celesti
(#Copernico 1543)
e terrestri
(#Giovanni Valverde, #Anatomia 1560),
celebra ancora la
#dotta ignoranza
di
Socrate
e
Niccolò Cusano
"IL GIOCO DELLA PALLA", SECONDO LA LOGICA "ANDROLOGICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO...:
#DANTE2021
E
#ANTROPOLOGIA (#HOMO LUDENS):
IL #GIOCO DELLA #PALLA
(#De ludo globi) DI
#NICCOLO’ CUSANO
riguarda «un gioco scoperto da poco che tutti comprendono facilmente e giocano volentieri»
E
LA #DOCTA IGNORANTIA
"ECCE HOMO" (PONZIO PILATO - NIETZSCHE). Chi ha perduto il filo del messaggio evangelico? ... *
Chi ha perduto il filo del cristianesimo?
Gli orrori del Novecento hanno favorito un nuovo “ateismo”. Occorre ritrovare la forza insostituibile del messaggio di Cristo. Due saggi di Ryrie e De Angelis
di Roberto Righetto (Avvenire, mercoledì 10 febbraio 2021)
«La filosofia hegeliana era stata la forma più compiuta di quella laicizzazione del cristianesimo in cui consiste il pensiero moderno, sì che la sua dissoluzione ha posto un’alternativa, ch’è ancora l’alternativa d’oggi: o condurre sino in fondo la secolarizzazione del cristianesimo verso le forme più radicali di ateismo e di nichilismo, o recuperare il cristianesimo nella sua genuinità religiosa. Insomma, fine o ritrovamento del cristianesimo, questa è l’alternativa d’oggi, e si tratta d’un’alternativa filosofica». Così il filosofo Luigi Pareyson in uno dei suoi ultimi scritti. Una linea radicale che suonava come un verdetto impietoso verso le filosofie contemporanee ridotte all’analisi dei giochi linguistici o alla sudditanza verso la scienza. In questa direzione muovono anche due saggi recenti: Il senso di non credere. Una storia emotiva del dubbio di Alec Ryrie (Utet, pagine 306, euro 23) e Serve ancora Dio? La via di Nietzsche oltre il nichilismo di Massimo De Angelis (Castelvecchi, pagine 288, euro 25).
Partiamo da quest’ultimo, dato che Nietzsche è visto da molti come il sostenitore della "morte di Dio" e l’iniziatore del nichilismo in Occidente. Ma è davvero così? Già il grande antropologo francese René Girard, nel volume Il caso Nietzsche, aveva definito il pensatore tedesco «il preteso distruttore del cristianesimo », anzi «la migliore conferma». Soprattutto negli ultimi tempi, quando firma i suoi aforismi a volte Dioniso a volte Cristo, e a volte entrambi, Nietzsche vuole parteggiare per l’antica divinità pagana e lo oppone a Gesù ma questo suo tremendo sforzo di autoconvincimento lo porterà alla pazzia.
Il saggista De Angelis, già direttore della rivista "Nuova civiltà delle macchine" rileva come la critica del filosofo di Sils Maria al cristianesimo fosse rivolta al suo impianto metafisico e morale, e ricorda l’analisi che fece della malattia il professor Kaftan, secondo cui Nietzsche «non riuscì mai a dimenticare e a superare completamente il cristianesimo, giacché a Dio era destinato e soltanto Dio avrebbe potuto dare una forma grande e armoniosa alla ricca vita spirituale che sgorgava in lui». Tesi contraddette dagli amici più prossimi come Overbeck e Koselitz, ma in un certo senso confermate da Lou Salomé, per la quale l’incontro- scontro con Cristo è rimasto in lui una questione irrisolta e causa di dolore estremo.
La lezione che ci lascia Nietzsche, dopo la demolizione della metafisica e la proclamazione della morte di Dio, è una sfida aperta per un pensiero cristiano che torni alle origini e riscopra la dimensione mistica. Come ha scritto Karl Jaspers: «Nietzsche, continuamente scosso dalla trascendenza che egli nega, prepara la trascendenza che egli non mostra». In questo senso ha ragione ancora Girard a definirlo un «pensatore religioso». Si ritorna al passo di Pareyson citato all’inizio, all’alternativa fra un ateismo nichilista e un cristianesimo genuino, non sentimentale né consolatorio.
E qui ci aiuta l’analisi di Ryrie, pastore anglicano e storico delle religioni. La sua è una difesa di un cristianesimo che non dimentica la sfida del dubbio. Ricostruendo la «storia dell’assassinio filosofico di Dio», a suo parere assai più lontana nel tempo rispetto al cliché consolidato del libertinismo e dell’illuminismo come padri della non credenza, Ryrie prende spunto dal dato di fatto inoppugnabile della crisi della fede oggi in America ed Europa a tutto vantaggio dell’agnosticismo e dell’ateismo. Ma contrasta quanto affermato da Charles Taylor nel suo famoso saggio L’età secolare: «Perché era virtualmente impossibile nella nostra società occidentale non credere in Dio, ad esempio, nel 1500, mentre nel 2000 a molti di noi questa appare come una scelta non solo facile, ma quasi inevitabile?». Secondo Ryrie anche durante i cosiddetti secoli cristiani coloro che avevano una fede vera non erano certo la maggioranza ed esisteva comunque chi si dichiarava ateo. E cita vari casi di rivolta verso la Chiesa già in età medievale, anche se all’epoca non si usava certo la parola "ateismo". Da Federico II a Jacopo Fiammenghi e Thomas Tailour, è lungo l’elenco di quanti espressero risentimento verso Dio e scetticismo sulla vita eterna, oltre che rancore verso vescovi e preti. E’ nel ’500 e ’600 poi soprattutto che la ribellione si fa ideologia, dagli umanisti Sozzini e Harvey ai più noti filosofi Hobbes e Spinoza e ai drammaturghi inglesi Marlowe e Jonson. È un ateismo fatto di rabbia e ansia insieme: rabbia per i tradimenti del cristianesimo commessi dai suoi leader e ansia per non essere all’altezza della fede. Così il poeta John Donne poteva distinguere fra «l’ateo presuntuoso, che non crede in alcun Dio», e «l’ateo pensoso, che crede che Gesù non sia sceso in terra per lui». E oggi?
Secondo il pastore anglicano il cristianesimo è inciampato negli orrori del nazismo. Non solo perché questa efferata ideologia è cresciuta in una terra cristiana, ma perché i suoi orrori hanno stabilito nel corso del ’900 un nuovo ordine morale da non oltrepassare, mettendo da parte la visione cristiana delle cose. ’Umanesimo’ è la nuova dottrina cui anche il cristianesimo si deve piegare. Una nuova struttura etica sempre più diffusa (Chesterton l’avrebbe definita ’umanitarismo’) e il cui sostegno è la sola ragione umana. La fede viene messa in disparte. Secondo Callum Brown, autore di una storia orale della miscredenza moderna (Becoming Atheist), col genocidio nazista il cristianesimo ha subito uno smacco. «Ha fallito - commenta Ryrie - non solo nel senso che molte chiese e moti cristiani erano più o meno collusi con nazismo e fascismo, ma in un senso più ampio: la crisi globale rivelò che le priorità morali del cristianesimo erano sbagliate. Era ormai evidente che crudeltà, discriminazione e omicidio erano espressioni del male in un modo ben diverso da fornicazione, blasfemia ed empietà».
Di fronte a questa sfida quale risposta è possibile? Essendo anglicano, Ryrie non cita la svolta del Concilio Vaticano II e gli ultimi pontificati: è convinto che il passato non può tornare e che bisogna riannodare i fili del dialogo fra un’etica cristiana e un’etica laica umanista. Rinunciando a ogni cedimento ai richiami nazionalistici che oggi subiscono molti cristiani europei ed essendo certi della forza insopprimibile della proposta: «Neanche l’ascesa umanista è una nuova realtà solida. Le strutture morali delle nostre culture sono state sempre mutevoli, e sempre lo saranno. Le nostre credenze, inevitabilmente, seguiranno le loro mutazioni. Il finale di questa storia riguarderà tutti, credenti e miscredenti».
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Sul tema, le pagine dell’uno e dell’altro (con alcune note)
FLS
Internazionale
La politica necrofila di Bolsonaro sta compiendo un genocidio
La lettera. Il teologo, scrittore e politico Frei Betto lancia un grido d’allarme. Bolsonaro sta intenzionalmente lasciando diffondere l’epidemia per sbarazzarsi di anziani e poveri. È in corso un disastro umanitario
di Frei Betto (il manifesto, 19.07.2020)
Cari amici e amiche
In Brasile sta avvenendo un genocidio!
In questo momento che sto scrivendo, 16 luglio, il Covid, presente da febbraio, ha già ucciso 76 mila persone. Vi sono quasi 2 milioni di contagiati. Questa domenica 19/07 arriveremo a 80.0000 vittime. Ed è possibile che quando leggerai questo appello si sia arrivati a 100.000 mila vittime.
Quando ricordo che nella guerra del Vietnam, nel corso di 20 anni di storia, 58.000 militari americani furono scarificati, ho la consapevolezza della gravità della situazione nel mio Paese. E questo orrore causa indignazione e rivolta. E noi sappiamo che le misure di precauzione e restrizione, adottate in tanti altri Paesi, avrebbe potuto evitare un numero così alto di morti.
Questo genocidio è figlio dell’indifferenza del governo Bolsonaro. Si tratta di un genocidio intenzionale. Bolsonaro si compiace dell’altrui morte. Quando era un deputato federale in un’intervista del 1999 aveva dichiarato: “Tramite il voto non vai cambiare questo Paese, assolutamente in niente! Cambierà il Paese se ci sarà una guerra civile e se faremo ciò che la dittatura militare non ha fatto: uccidere 30 milioni di persone!”. Votando per l’impeachment della Presidente Dilma, Bolsonaro offrì il suo voto in memoria del più noto torturatore dell’Esercito, il Colonnello Brilhante Ustra.
Ed è talmente ossessionato dalla morte, che una delle principali politiche del governo è la liberazione del commercio delle armi. Intervistato all’ingresso del Palazzo presidenziale, se non gli importava di tutte le vittime della pandemia, Bolsonaro ha risposto: “Non credo a questi numeri “(7 marzo, 92 morti); “Tutti moriremo un giorno” (29 marzo, 136 morti); “E cosa posso farci?” (28 aprile, 5071 morti).
Perché questa politica “necrofila”? Sin dall’inizio Bolsonaro ha affermato che l’importante era salvare l’economia, non le vite umane. E così ha rifiutato di dichiarare il lockdown, di far proprie le linee guida dell’OMS e non ha importato respiratori e tute di protezione individuale. È stato necessario un pronunciamento del Supremo Tribunale che ha delegato questa responsabilità in materia di sanità ai governatori e ai sindaci. Bolsonaro non ha neppure rispettato l’autorità dei suoi ministri della Salute.
Da febbraio due ministri della Salute sono stati licenziati perché discordavano dalla linea del Presidente. Adesso vi è come ministro della Salute il generale Pazuello che non capisce nulla di sanità. Bolsonaro, inoltre, ha cercato di nascondere il dato delle morti; ha impiegato 38 militari in funzioni importanti ministeriali, senza la necessaria qualifica e ha cancellato tutte le interviste diarie attraverso le quali la popolazione riceveva orientamento.
Sarebbe esaustivo dire che tutte le misure per l’aiuto alle famiglie di reddito basso (cioè più di 100 milioni di brasiliani) non sono mai state eseguite.
Le intenzioni criminose del governo sono chiare. Lasciare morire gli anziani per risparmiare sulla Previdenza. Lasciare morire i portatori di malattie croniche per economizzare sulla spesa mutualistica. Lasciare morire i poveri per risparmiare i soldi del programma di assistenza “Bolsa Familia” e di altri programmi sociali destinati ai 52, 5 milioni di poveri che vivono in povertà e ai 13, 5 milioni che si trovano nella povertà assoluta (secondo i dati dello stesso governo federale).
Non soddisfatto con queste misure, il Presidente ha abrogato con il progetto di legge deliberato il 3 luglio scorso la norma di legge che obbligava all’uso di mascherine nei negozi aperti al pubblico, nelle scuole e nei templi di culto.. Ha vietato le multe previste per chi non ottempera a queste indicazioni e ha liberato il governo dall’obbligo di distribuire mascherine ai più poveri, che sono le principali vittime del Covid e alla popolazione carceraria. In ogni caso questi veti non annullano altre disposizioni di legislazioni locali che impongono l’uso delle mascherine.
L’8 luglio Bolsonaro ha eliminato le norme di legge, approvate dal Senato, che obbligavano il governo a fornire acqua potabile e materiale di igiene e pulizia, istallazione Internet, ceste alimentari, sementi e ferramenta agricole ai villaggi indigeni e ai quilombos (comunità nere, di discendenti africani).
Ha anche “bloccato” i fondi di emergenza destinati alla salute indigena, così pure le facilitazioni previste per gli abitanti dei villaggi indigeni e quilombos per incassare un assegno di 600 reais (100, 120 dollari) per tre mesi. Così pure ha eliminato l’obbligo del governo di fornire più letti ospedalieri e equipaggiamenti sanitari (maschere di ossigeno, ecc) a indios e abitanti dei quilombos.
Indios e quilombos sono stati decimati per la crescente devastazione socio ambientale, specialmente in Amazzonia.
Per favore divulgate questi crimini contro l’umanità! È assolutamente necessario che le denunce di ciò che sta avvenendo in Brasile arrivino ai Vostri governi, alle reti digitali, al Consiglio dei Diritti Umani dell’ONU e al Tribunale dell’Aia, così come a Banche e imprese che fanno affari con il Brasile.
Ancor prima del giornale “The Economist”, nelle reti digitali parlo di Bolsonaro come un nuovo “Nerone”. In quanto Roma brucia, egli suona la lira e fa propaganda per la clorochina, che non ha nessuna efficacia scientifica contro il coronavirus... I suoi produttori sono però alleati del Presidente Bolsonaro!
Ringrazio per la divulgazione di questa lettera. Solo la pressione internazionale potrà fermare il genocidio che devasta il nostro caro e meraviglioso Paese.
Le tre missioni di Nietzsche
di SOSSIO GIAMETTA *
“Ho letto come sempre con piacere il Suo saggio sul Crepuscolo degli idoli di Nietzsche, che non conosco o non ricordo. La Sua scrittura chiara ed efficace mi aiuta, come sempre, a capire. Ma, una volta che ho capito, il pensiero complessivo di Nietzsche mi sfugge. Mi appassiona, mi avvince, ma alla fine mi sfugge.” Così mi scrisse, il 30 aprile 1997, Norberto Bobbio, un faro della cultura italiana, che mi onorava della sua amicizia.
La difficoltà di comprendere Nietzsche è così diffusa, che in Italia è finita in una canzone di un noto cantante pop, “Zucchero” Fornaciari. La canzone si domanda e ripete: “Nietzsche, che dice? Boh, boh!”
Lo strano è che questa difficoltà c’è con Nietzsche, che scrive in modo chiaro, e non con pensatori che scrivono in modo oscuro, come Heidegger, Hegel, Schleiermacher ecc. Si può allora dire anche di lui ciò che egli ha detto dei filosofi tedeschi, che sarebbero tutti degli “Schleiermacher”, cioè facitori di veli? oscuratori?
Certo, questa non era la sua intenzione. Anzi, la sua intenzione era esattamente il contrario. Egli voleva essere un portatore di luce.
Ma allora, dove sta la difficoltà?
La difficoltà sta sia dalla parte degli interpreti, sia dalla parte delle molteplici e intricate missioni di Nietzsche.
Per quanto riguarda gli interpreti, io parlo di solito del “bue squartato”. Cioè ogni interprete si ritaglia dalla carcassa del bue una bella bistecca e se la cucina a modo suo. Così offre sempre qualcosa di sostanzioso. Ma non si preoccupa di tutto quel che lascia. Ciò fa sì che le interpretazioni di Nietzsche siano state finora tutte parziali e tutte diverse tra loro. È mancato cioè uno studio di Nietzsche come problema globale, dentro e fuori della storia della filosofia. E però solo uno studio di tutto Nietzsche, di tutti i suoi aspetti essenziali tra loro collegati, può fornire il criterio per giudicare i suoi aspetti singoli. Solo il significato del tutto determina il significato delle parti. Ma il significato del tutto, appunto, è rimasto finora inesplorato, perché non si è trovato il filo che collega i diversi aspetti. Inoltre, negli interpreti prevale un interesse assimilante, attualizzante, strumentalizzante. Una ricerca puramente interpretativa, storico-critica, è finora mancata.
D’altro lato c’è il contenuto del pensiero di Nietzsche. Esso è così complesso, intricato e plurivalente che molti hanno rinunciato a capirlo nel suo insieme, come a sciogliere i nodi aggrovigliati dei suoi molteplici e contrastanti talenti. Altri predicano addirittura che non si deve neanche tentare di capirlo.
Dice per esempio Rüdiger Safranski: “Di Nietzsche non si può venire a capo. Neanche lui è venuto a capo di se stesso” (“Mit Nietzsche kann man nicht fertig werden. Er ist auch nicht mit sich fertig geworden”).
Per Jaspers “Nietzsche è inesauribile. Non rappresenta un problema che possa essere risolto nella sua interezza”. E per Gottfried Benn, che tale giudizio riporta nell’Introduzione ai Ditirambi di Dioniso,[1] questa è una “frase assai significativa! Con criteri europei moderni in realtà Nietzsche non può essere risolto, egli appartiene alle ‘Parole primordiali’” [Urworte].[2]
Si arrende perfino il grande biografo di Nietzsche, Curt Paul Janz. Egli spiega, più chiaramente, che Nietzsche ha
lasciato un’opera che ci starà sempre davanti come uno stimolo, che nella sua molteplicità offre bensì varie possibilità di accesso e di interpretazione, ma non potrà mai essere abbracciata nella sua totalità da un singolo osservatore, misurata da un singolo rielaboratore. Collocare Nietzsche nella sua epoca e nel fluire dei secoli, nel contesto del suo ambiente e in quello delle correnti spirituali che risalgono fino ai primordi dell’antichità classica, è impresa che fuoriesce dai canoni interpretativi normali.[3]
Insomma, secondo costoro, Nietzsche non si può capire. Ma può la critica dichiarare forfait solo perché un’interpretazione si presenta a prima vista, e magari anche a seconda vista, come “impossibile”, ossia come più difficile di altre? E si può, d’altra parte, sostenere di un qualsiasi autore ciò che Safranski, Jaspers, Benn, Janz e altri sostengono di Nietzsche: che sfugge all’analisi, “échappe à l’analyse”, come disse un critico francese di Beethoven dopo un concerto, quasi che Nietzsche o Beethoven fossero fuori o al di sopra del genere umano? Nel genere umano anche il genio più grande è inscritto con una sua chiara funzione. Il genio è infatti l’estrema risorsa dell’umanità nelle sue crisi più difficili.[4] Dunque la difficoltà di capirlo corrisponde in genere alla difficoltà di capire la crisi stessa a cui il genio è la risposta. Perciò non resta che affrontare questo problema e cercare di risolverlo con i mezzi a nostra disposizione.
Ma per capire l’albero cominciamo dal seme, per capire la quercia cominciamo dalla ghianda, per capire l’opera di Nietzsche, cominciamo dall’uomo. Non si dice, infatti, che lo stile è l’uomo?
Domandiamoci: chi era Nietzsche? Nietzsche era un uomo di animo nobile, un allievo dei classici, per sua natura mite e affettuoso, amante della virtù e della verità, ma che non sopportava, aveva orrore della falsità. La falsità, però, è talmente mescolata in tutte le cose umane, specie nelle grandi, che opporsi ad essa, se l’opposizione è audace, tenace ed efficace, significa scatenare un terremoto. È quello che fece Nietzsche. La sua opera non è, per così dire, un’azione ma una reazione, una reazione alla falsità. Egli diceva di sentire la falsità all’odore e proclamava: “Il mio genio è nelle mie narici”.[5]
Ma che cosa significa ciò? Significa, anzitutto, che l’opera di Nietzsche è una grande ricerca morale, come riconosce Benedetto Croce, che parla del “nobilissimo intento morale dell’opera sua” come “suo intimo impulso”. La lotta contro ogni forma di falsità - contro la menzogna, l’ipocrisia e l’illusione - nei sistemi filosofici e nei costumi, nelle religioni, nelle morali, nelle istituzioni e nelle tradizioni, contraddistingue tutte le manifestazioni di Nietzsche, al punto da costituire il criterio chiave per interpretarle.
Un criterio di interpretazione unitario dunque esiste, come esiste un’unità e una coerenza sotto la ricchezza e la varietà, contro tutto ciò che si dice in contrario.
Ma significa anche un’altra cosa. La medaglia ha il suo rovescio. Nietzsche non era, in senso stretto, un filosofo. Era un moralista applicato alla filosofia. Esistono due categorie di pensatori: i filosofi e i moralisti. In Francia, che è la nazione più ricca di moralisti, questi - Montaigne, Pascal, Diderot ecc. - fanno parte della letteratura e non della filosofia, come invece Descartes, Malebranche e Bergson. Nietzsche stesso fa valere questa fondamentale distinzione in più luoghi della sua opera, ma soprattutto nell’aforisma 5 di Opinioni e sentenze diverse:
In tutti i tempi i filosofi si sono appropriati i detti di coloro che scrutano gli uomini (i moralisti) e li hanno corrotti, - proprio quando credevano di elevarsi in tal modo al di sopra di essi, - col prenderli in senso assoluto e col voler dimostrare come necessario ciò che dai moralisti era inteso solo come indicazione approssimativa o addirittura come verità di un decennio, particolare a un paese o a una città.
Qual è la differenza tra moralismo e filosofia?
Il filosofo si basa sulla logica, sui concetti, sul principio di ragione nelle sue tre forme: principio di identità, principio di non contraddizione e principio del terzo escluso. Questo principio aristotelico serve a dimostrare le proposizioni filosofiche, ma non può dimostrare se stesso, perché ogni tentativo di farlo sfocia in un regresso all’infinito. Il moralista si basa invece sull’esperienza e sull’acutezza del suo senso morale. Nel saggio giovanile, secondo molti mai superato, Su verità e menzogna in senso extramorale, Nietzsche nega la conoscenza in base alla mancanza di ponte tra l’intelletto e la realtà. Per lui i concetti sono immagini, “rappresentazioni”, finzioni, accettate tradizionalmente come verità. La logica è una macchina autoaffermativa che rende pensabile quello che non lo è, cioè la realtà. Essa funziona in base a cose uguali, ma nel mondo non ci sono cose uguali. Ingabbia la realtà ma non la penetra, dunque è incapace di conoscerla.
Al posto della logica Nietzsche pone la psicologia, che, nell’aforisma 23 di Al di là del bene e del male, definisce signora delle scienze, per preparare la quale esistono le altre discipline.
Le verità di Nietzsche sono verità morali, non filosofiche. L’unica grande verità filosofica, il nichilismo, egli la raggiunge non con la logica, ma con la psicologia. Psicologizza prima l’individuo, poi i gruppi, quindi i popoli e infine quel grande individuo che è l’umanità stessa. Così scopre che sia la conoscenza sia la morale hanno un senso intraumano, antropomorfico, non sono valide in assoluto, perché sono al servizio di quello che per lui - come già per Spinoza, da lui eletto a suo “grande precursore” - era l’essenza fondamentale dell’uomo, il conatus suum esse servandi, lo sforzo di conservare il proprio essere.
Ma così facendo, Nietzsche, il filosofo Nietzsche, come anche noi senza difficoltà lo chiamiamo, distrugge la filosofia, non solo in quanto sistema, ma anche in quanto concatenazione concettuale in genere. E questa è appunto la prima delle sue tre missioni fondamentali, corrispondenti ai tre aspetti della crisi europea: 1) crisi della filosofia; 2) crisi della civiltà; 3) crisi della religione.
La distruzione della filosofia a favore del moralismo, cioè la sostituzione dello studio della realtà di cui l’uomo è parte con lo studio dell’uomo sull’uomo immerso in ciò che è diverso dall’uomo, è una rivoluzione copernicana. Nietzsche la esprime appunto così: “Da Copernico in poi l’uomo rotola dal centro verso una x”.[6]
Così la realtà è diventata una “x”. Cioè è inafferrabile, impensabile. Anzi non esiste come una qualunque stabile costituzione delle cose. È semplicemente l’altro dall’uomo, che si può per comodità anche chiamare “accadimento”. Se però non esiste la realtà, “una realtà”, non esiste neanche la verità. Perché la verità è ciò che corrisponde alla realtà. Che cos’è allora quella che chiamiamo verità? “La verità è la specie di errore senza di cui una determinata specie di esseri viventi non potrebbe vivere”.[7] Ecco, questa è la verità per Nietzsche. “Ciò che decide da ultimo - egli dice - è il valore per la vita”. La verità, cioè, è ciò che favorisce il nostro sforzo di conservare il nostro essere, dunque è qualcosa di strumentale, un’utilità. Inoltre, poiché nel conservare è incluso il potenziare, e anzi lo sforzo del potenziamento prevale, secondo Nietzsche, su quello della conservazione, egli teorizza la Volontà di potenza al di sopra della Volontà di vivere di Schopenhauer e della Volontà di conservarsi di Spinoza.
Ma se la verità non è più il criterio della filosofia, quale sarà allora il criterio della sua validità? Nietzsche non esita: è valida quella filosofia che aiuta i forti nella lotta contro i mediocri. In questa lotta i forti, secondo lui, sono destinati a soccombere, perché i mediocri hanno dalla loro la forza del numero.
In corrispondenza con la negazione della conoscenza e della morale, cioè della Verità e del Bene, Nietzsche afferma la visione dionisiaca.
Dioniso è il dio della pura esistenza, della pluralità contraddittoria senza aspirazioni di redenzione, senza giustificazioni fondate su valori originari; è il dio del libero gioco delle forze naturali, dei contrasti irriducibili, non componibili in un senso superiore, delle infinite metamorfosi, della creazione e della distruzione, senza origine, fine, identità, essenza, verità. Ogni presunta origine, fine, identità, essenza, verità, riconduce a forze che non hanno origine, fine, identità, essenza, verità; tutto ciò che è ritenuto stabile e provvisto di senso, si rivela fluido e insensato, ogni supporto viene meno.
Tutti i tentativi di redenzione della finitezza e limitatezza umana sfociano in altrettante negazioni della vita. Nel teatro della vita tutto è maschera. Tutte le verità affermate nella storia sono altrettante maschere che nessuna verità fondante può smascherare. Perché non c’è nessuna verità che porti a un fondamento primo, a una pienezza, che possa inibire il godimento temporaneo e occasionale del dominio delle forze primarie, attive, sulle forze secondarie, reattive. Le prime, nobili, affermano la vita aggredendo, assoggettando, dominando; le seconde, basse, si oppongono a tutto ciò che esse non sono, si adattano alle prime, congiurano contro di loro e, con la forza del numero, le separano da “ciò che può”, ossia le esautorano e le dominano; ma non come azione, bensì come reazione, come sottrazione del loro potere. Questo è ciò che accade nel cristianesimo, in cui la morale degli schiavi diventa creativa, mette in campo per risentimento i concetti di buoni e cattivi, di colpa e cattiva coscienza, e scalza la morale aristocratica dei forti.
Queste idee sono confermate negli aforismi 230, 257 e 259 di Al di là del bene e del male. In essi si afferma rispettivamente 1) la ri-naturalizzazione dell’uomo, cioè la liberazione o ripulitura del “terribile testo di base homo-natura” dalle “molte vanitose e fantasiose interpretazioni e significazioni aggiuntive che sono state finora scarabocchiate e spennellate” su di esso; 2) la necessità di una casta aristocratica, violenta e barbarica, per ogni elevazione del tipo “uomo”; la necessità della gerarchia e del pathos della distanza, ossia di un fossato tra la casta e il popolo, e la necessità della schiavitù. Ciò perché 3) “La vita stessa è essenzialmente appropriazione, offesa, sopraffazione di ciò che è estraneo e più debole, oppressione, durezza, imposizione di forme proprie, incorporazione e perlomeno, nel caso più moderato, sfruttamento”.
Se a tutto questo aggiungiamo la negazione della libertà del volere e quindi della responsabilità:
l’uomo non è da tenere responsabile per niente, né per il suo essere, né per i suoi motivi, né per le sue azioni, né per i suoi effetti;
Nessuno è responsabile per le sue azioni, nessuno per il suo essere; giudicare equivale a essere ingiusti.[8]
nonché la “trasvalutazione di tutti i valori”, che traduce e riduce tutti i valori spirituali a valori naturali, fisici, esaltando “le splendide creature sotto il sole cocente: tigri, palme e serpenti a sonagli”, vale a dire la belluinità, l’animalità selvaggia, bisogna dar ragione a Croce, che pure fa parte dei suoi ammiratori, quando dice che Nietzsche “depresse valori spirituali ed espresse ideali di rapacità e di ferocia”.
Fu questa la conseguenza di un indebito sviluppo sistematico di quella che era stata una grande intuizione demistificante (la trasvalutazione), da parte di un pensatore che non era un filosofo in senso stretto, capace di sviluppi sistematici, ma un moralista. Con ciò comunque egli contravveniva alle legge da lui stesso proclamata nel citato aforisma 5 di Opinioni e sentenze diverse, e dimenticava il patere legem quam ipse tulisti.
Fece come “fa il viandante che vuole sapere quanto sono alte le torri di una città: abbandona la città”.[9] Per soppesare, da moralista, il valore sostanziale della filosofia, che è la sua forza, Nietzsche abbandonò la città. Ma una volta uscito dalle mura, non poté più rientrarvi. E quando filosofò sistematicamente, tentazione alla quale non seppe resistere, perduto com’era nel sogno del capodopera, dell’ Hauptwerk, fece disastri.
Le tre missioni di Nietzsche [...] *
[...] Ora, è strano notare come i risultati di questo percorso strettamente filosofico, strettamente personale, avulso da ogni politica, di uno scrittore che non fu mai uno scrittore politico ed ebbe sempre in disdegno la politica, coincidano puntualmente con i disvalori innescati dalla crisi di civiltà (negazione della realtà, della verità, della moralità, della libertà del volere, della responsabilità ecc.), che maturò nella seconda metà dell’Ottocento. Questi disvalori sarebbero poi scesi nel popolo, si sarebbero coagulati in correnti politiche e sarebbero sfociati, una prima volta dopo trent’anni e una seconda dopo cinquanta anni, in due spaventose guerre mondiali, che avrebbero segnato la fine del primato europeo nel mondo.
Una così puntuale coincidenza di un percorso strettamente individuale con il corso della crisi di una civiltà e di un continente sembra un miracolo. Ma naturalmente non si tratta di un miracolo. Si tratta del fatto che la crisi storica investiva allora tutte le attività umane, si irradiava nella morale, nell’arte, nella politica, nella filosofia eccetera, sicché, senza rendersene conto, Nietzsche, che si vantava di essere lo spirito più indipendente dell’epoca e il più inattuale, si trovava ad essere una creatura della crisi e il più attuale degli attuali; e la sua filosofia, tendente a valorizzare un neopaganesimo nutrito di valori antichi: la virtù, la gara, la guerra, la gerarchia, la patria e il sangue, si sarebbe scontrata con la filosofia e l’azione di Marx, che raccoglieva nel comunismo i valori opposti, i valori nuovi portati dal cristianesimo: la solidarietà, l’uguaglianza, la dignità di tutti, l’amore, la pace, l’internazionalismo.
Dunque da un lato Nietzsche, come pensatore-poeta, fece quello che fanno in ogni epoca i pensatori e i poeti, cioè trasfigurò la crisi storica in poesia e filosofia tragica: e questo fu il frutto del suo libero genio; dall’altro, trascinato inconsciamente dalla corrente dominante, conferì corpo spirituale alla crisi (di autodistruzione) della civiltà cristiana, la legittimò e l’accelerò, costruendo quello che alla fine sarebbe diventato, grazie a tutte le sue negazioni e affermazioni, il cuore spirituale del fascismo.
Questa fu, in questo senso duplice, la sua seconda missione.
Nietzsche ne compì però anche una terza. Essa si collega alla stessa crisi e riguarda il suo aspetto più spirituale: la religione.
Con i rivolgimenti causati dal risveglio dei valori antichi e dalla nuova scienza nell’umanesimo e nel Rinascimento, il cristianesimo, che era giunto alla sua massima realizzazione ed era ormai incamminato sulla strada della corruzione, come è di tutti gli organismi invecchiati, cominciò a ritirarsi dalle coscienze europee. Subì poi il duro colpo della Riforma di Lutero e il suo posto fu preso sempre più, nei secoli che seguirono, dalle tendenze secolarizzanti. Nel suo rapporto con la laicità si creò quello che Spinoza dice che avviene con la teologia e la filosofia: quanto più si alza il piatto della bilancia della filosofia, tanto più si abbassa quello della teologia, e viceversa.
Dette tendenze laicizzanti, però, senza l’ausilio della fede e del Dio padre, del Dio provvidente, avevano grande difficoltà a sostituire la religione, della quale l’uomo ha un naturale bisogno. Perché facevano appello all’intelletto e non all’anima. Questo processo laicizzante, consistente nel sostituire Dio con la natura, si sviluppò dunque da allora oscillando in due direzioni parallele: una negativa, scettica, pessimistica, e una positiva, affermatrice, ottimistica, non senza ripetuti tentativi da parte dell’una di incorporare l’altra.
I protagonisti di questi due rami della laicizzazione dell’Europa sono i protagonisti della cultura (Kultur) europea: Nicola Cusano, Erasmo da Rotterdam, Lutero, Giordano Bruno, Giulio Cesare Vanini, Montaigne, Descartes, Pascal, Hume, Kant, Hegel, Stirner eccetera eccetera, fino al picco della tendenza negativa con Schopenhauer e la sua scuola, Philipp Mainländer, Julius Bahnsen e Eduard von Hartmann. Questi ultimi furono l’ultima grande provocazione in senso negativo, ed è ad essa, a Schopenhauer in particolare, suo “perfetto antipode”, che Nietzsche più immediatamente risponde con la sua tendenza affermatrice, rappresentata soprattutto da Così parlò Zarathustra.
Schopenhauer e i suoi discepoli si erano essi stessi opposti a quella che era stata l’ultima grande provocazione in senso contrario. Dopo il tentativo di Cartesio di “portare il cristianesimo a compiuta efficacia innalzando la ‘coscienza scientifica’ alla sola coscienza vera e valida”,[10] il tentativo di Pascal di ri-saltare con una “scommessa” dal campo laico a quello cristiano, dopo il tentativo di Leibniz di fare ingoiare all’uomo il male del mondo come una purga sgradevole ma benefica, e il tentativo di Hamann di rovesciare l’illuminismo col ricorso al cristianesimo profondo, c’era stato il grandioso tentativo di Hegel di divinizzare il mondo portando la filosofia al cristianesimo, invece che il cristianesimo alla filosofia.[11]
Con lo Zarathustra, in cui si esprime con la massima forza la tendenza affermatrice che è la caratteristica principale del suo genio, Nietzsche fonda la religione laica. Questa passa attraverso la radicalizzazione del pessimismo schopenhaueriano, fondato sull’ineluttabile dipendenza dell’uomo dalle sue condizioni di esistenza, come parte infinitesimale di un immenso organismo, l’universo, alle cui leggi è sottoposto (religione dunque dell’umiltà e non della superbia, come sostiene Benedetto XVI), e l’affermazione dell’essenza divina della vita, di cui tutti gli esseri sono partecipi. L’essenza sublime e beatificante della vita non può essere negata, ma solo oscurata o impedita dalle circostanze o condizioni di esistenza. Dunque slancio, passione, entusiasmo, amore della vita sono giustificati nonostante tutti i possibili orrori e tragedie dell’esistenza. Questa è la grande novità predicata in sostanza da Nietzsche.
Come tale la religione laica di Nietzsche-Zarathustra supera quella predicata da Spinoza, da Nietzsche eletto a suo “grande precursore”. Al desensualizzato amor dei intellectualis spinoziano, infatti, Nietzsche contesta la mancanza della passione, dell’ardore, del “sangue” (quanto a lui, dice: “io amo il sangue”). Può darsi che Spinoza intendesse questo amor dei intellectualis in maniera calda e non fredda, e si limitasse a usare un’espressione fredda per coerenza con l’“odine geometrico” (scientifico) impresso al suo capolavoro, L’Etica dimostrata secondo l’ordine geometrico. Egli ha infatti anche un’altra espressione che appare fredda, ma che potrebbe essere intesa nel senso più caldo, specialmente da coloro che considerano Spinoza un mistico, come, in Italia, Giorgio Colli, Piero Martinetti e Luigi Pareyson: “L’uomo conosce l’eterna e infinita essenza di Dio”. Sta di fatto però che amor e intellectualis sembrano cozzare e Nietzsche critica Spinoza, nell’aforisma 198 di Al di là del bene e del male, per la sua fede nella “distruzione delle passioni per mezzo della loro analisi e vivisezione”, mentre nell’aforisma 372 della Gaia scienza definisce l’amor dei intellectualis uno “scricchiolio”.
Quando, composto il primo Zarathustra, Nietzsche non sapeva quale valore, quale senso esso potesse avere, e lo domandava agli amici oltre che a se stesso, Peter Gast sentenziò: “È una sacra scrittura”. Ciò lo illuminò, lo aiutò a capire se stesso, finché non ebbe più dubbi. Parlò allora dello Zarathustra come “la Bibbia del futuro, la massima esplosione del genio umano, in cui è racchiuso il destino dell’umanità”.[12]
Ciò nonostante, in seguito si fece riassorbire dallo Zeitgeist e dai dibattiti dell’epoca, agitata dai venti selvaggi della reazione alla decadenza e impegnata soprattutto nello scalzare gli ostacolanti valori cristiani. Come suprema antenna e strumento dell’epoca, Nietzsche si distaccò pian piano dalla sua più grande e gloriosa conquista, celebrata nello Zarathustra appunto, per tornare a combattere il cristianesimo non più con l’eccellenza, con la divinità della vita concepita laicamente, ma con la lotta corpo a corpo, con lo scontro aperto. Ma ciò vuol dire che il suo genio si oscurò. Da Al di là del bene e del male in poi, attraverso la Genealogia della morale, il Crepuscolo degli idoli, L’Anticristo e Ecce homo, egli precipitò in una specie di monomania, si dedicò a uno scontro personalissimo col cristianesimo dai toni stridenti, esagerati e in definitiva grotteschi.
Nietzsche era stato sempre agitato dal genio religioso. Questo cercò di venire in luce in tutti i modi, anche per vie traverse: nell’adolescenza come adesione appassionata al cristianesimo, che però, per la sua stessa radicalità, sfociò nella negazione; poi con la teoria dell’Eterno Ritorno, che egli concepì appunto come religione e di cui si pensava, sia pure con raccapriccio, destinato ad essere il maestro.
Ma l’Eterno Ritorno era contraddittorio. Pensato come stimolo a una vita degna, di cui ci si potesse compiacere per l’eternità, dunque come incitamento morale, guardava al futuro ma saltava il passato. Se l’Eterno Ritorno è veramente eterno, la nostra vita attuale non è che la pedissequa ripetizione di quella che è dall’eternità e tale sarà per l’eternità, immutabilmente. Dunque nessuno sforzo per il suo miglioramento è possibile e ha senso. In tal modo il progettato incitamento morale si capovolge in deprimente fatalismo. Pertanto l’Eterno Ritorno, come religione, non funzionava.
Funzionava invece quello che egli, in opposizione a Schopenhauer, chiamava il “pessimismo dionisiaco” o pessimismo della forza. A patto però di distinguere i due elementi che erano in esso intrecciati. Il dualismo in filosofia è di solito un problema. Ma qui esso sarebbe stato la soluzione. Il dualismo ha in effetti due corni: l’essenza divina e beatificante della vita e le condizioni di esistenza, che possono essere ostacolanti e impedienti fino all’orrore. Nella vita le due cose si fondono e confondono, ma sono diverse e vanno distinte.
Nietzsche esemplificò in Goethe il grande vessillifero di questa nuova religione. Oggi se ne può aggiungere un altro che c’è stato dopo: Bertrand Russell. Questi, in particolare nel suo libro On God and Religion, si manifesta seguace della religione laica, senza esservi stato spinto da Nietzsche ma, evidentemente, per la maturità dei tempi. Ma già prima di Russell c’era stato in Italia Croce, che in particolare col suo saggio Perché non possiamo non dirci cristiani, propugnò la religione laica, a sua volta non spinto a ciò da Nietzsche.
Ma se per proclamare questa religione nella sua chiarezza c’è bisogno dei filosofi in veste di profeti religiosi, per seguirla non c’è bisogno di filosofia, di teoria: la potenza, la bellezza e la divinità della vita, cioè l’eterna e infinita essenza di Dio, come dice Spinoza, le sentono tutti, come pure, d’altro lato, le terribili condizioni d’esistenza.
Come fondatore della religione laica, Nietzsche raggiunge dunque Lutero, non soltanto come genio linguistico, quale è da tutti riconosciuto, ma anche come genio religioso.
In conclusione due immagini che possono dare una chiarezza intuitiva:
1) L’opera di Nietzsche è come il globo terrestre, con una superficie fredda e rigida e con un nucleo infuocato, magmatico, che preme verso l’esterno. Il cuore di questo nucleo è il genio religioso, che solo sporadicamente trova vie di sfoogo.
2) Così parlò Zarathustra illumina le opere precedenti e susseguenti come il sole i suoi pianeti, dove è da notare che il sole è immensamente più grande dei pianeti. Questi sono le opere scettiche, in funzione di difesa e di offesa, che spazzano via tutte le false credenze per far posto all’alto e sereno tempio dello Zarathustra. Questo si può anche configurare come un sacro monte, attorniato alla base dalle opere scettiche (la “filosofia” di Nietzsche).
[...]
* IL RASOIO DI OCCAM - MICROMEGA, 17 aprile 2013 (ripresa parziale, senza note).
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE .... *
Occidente in ritiro, compito della Chiesa.
Per dare più voce al futuro
di Agostino Giovagnoli (Avvenire, mercoledì 30 ottobre 2019)
Mentre i turchi cacciano i curdi dal Nord della Siria, la Gran Bretagna è agitata dalle convulsioni della Brexit e Hong Kong è attraversata da una protesta sempre più radicale. Tre vicende molto diverse tra loro. Ma tutt’e tre rimandano a una progressiva smobilitazione dell’Occidente.
Con la decisione di far cessare una presenza militare americana in Siria settentrionale - strategica anzitutto sotto il profilo simbolico - Trump ha abbandonato alleati verso cui gli occidentali hanno molti debiti: l’impegno dei curdi contro il Daesh è stato infatti decisivo. Le sorti di questi dipendono oggi interamente da altri attori: oltre alla Turchia, la Russia di Putin e il governo di Assad. Per la prima volta, intanto, la Camera dei Comuni ha approvato una mozione a favore della Brexit, pur imponendone un ulteriore rinvio: un altro passo verso l’uscita di Londra dall’Unione Europea. L’anima anglosassone-marittima dell’Europa e quella continentale-terrestre sembrano destinate a separarsi radicalmente: è una frattura grave all’interno del grande edificio che chiamiamo Occidente. Infine a Hong Kong è sempre più in difficoltà il modello "un Paese, due Sistemi" che aveva l’ambizione di conciliare cultura cinese e metodi occidentali. Anche qui l’influenza dell’Occidente si sta riducendo.
L’ex colonia britannica, collocata in una posizione strategica rispetto a tutta l’Asia, è stata per molto tempo uno dei primi porti del mondo e un mercato finanziario di importanza globale. Al momento del passaggio sotto la sovranità cinese nel 1997, era la seconda area del mondo per reddito pro capite, settima per quantità di riserve valutarie straniere e terza per esportazione di indumenti. La formula "un Paese due Sistemi", creata da Deng Xiaoping, sembrava fotografare una situazione destinata a permanere a lungo: se Hong Kong fosse rimasta uno spazio di incontro tra crescita cinese e sistemi occidentali, non sarebbe convenuto a nessuno mettere in crisi questa simbiosi così originale. Ma con lo sviluppo di aree economiche speciali nella regione limitrofa e il declino degli interessi occidentali per il "Porto dei profumi" questa funzione si è gradualmente ridotta.
Intanto, i sistemi politici occidentali - in discussione anche in tradizionali patrie della democrazia come Stati Uniti e Gran Bretagna - hanno perso progressivamente appeal in tutto il mondo, man mano che altri sistemi politici - in primo luogo quello cinese - si rivelavano compatibili con ritmi di sviluppo economico-sociale molto intensi. Infine, il crescente protezionismo occidentale - di cui la guerra dei dazi dichiarata da Trump è l’espressione più emblematica - ha rovesciato le posizioni: ora è la Cina il principale sostenitore della globalizzazione.
Nell’immaginario collettivo, l’iniziativa cinese della One Belt One Road (o Nuova Via della Seta) dall’Asia centrale all’Europa orientale passando per l’Africa, ha preso il posto di quell’iniziativa occidentale in Asia che per quasi due secoli ha avuto in Hong Kong il suo luogo più emblematico.
Nella storia tutto è opera dell’uomo, anche le nazioni e gli Stati non sono nati per caso ma sono stati immaginati, voluti, costruiti. Vale anche per l’Occidente, uno straordinario progetto storico immaginato, voluto, costruito per secoli dagli europei, cui si sono poi aggiunti i nordamericani. Oggi però gli uni e gli altri non sembrano più credere a tale progetto come in passato. Lo mostrano le lacerazioni tra le varie aree dell’Occidente e l’assenza degli occidentali da tanti scenari importanti del mondo contemporaneo. Quando qualcosa tramonta ne vediamo meglio meriti e grandezza e oggi siamo in grado di capire che quello occidentale è stato uno dei più grandi progetti della storia capace di unire ispirazione religiosa, valori morali, sistemi economici, modelli politici ecc.
Ma che fare se oggi gli occidentali sembrano credere sempre di meno al progetto Occidente? Tutto questo lascia la Chiesa più sola e accresce la sua responsabilità di portatrice di un messaggio universale e di annunciatrice di salvezza ai popoli.
A Hong Kong, come la maggioranza dei suoi abitanti, anche molti cattolici hanno partecipato a manifestazioni che esprimono nostalgia del passato e paura del futuro. Ma le proteste non possono rimuovere le cause profonde per cui è in crisi la formula ’un Paese, due Sistemi’. Il loro sbocco appare oggi molto incerto. È probabile che nelle prossime settimane aumentino da un lato l’estremismo e dall’altro la repressione, contrapposti in una spirale che alimenta entrambe. C’è chi vorrebbe che la Santa Sede prendesse posizione su quanto sta avvenendo nell’ex colonia britannica, ma non è nelle sue possibilità fermare un ritiro dell’Occidente, da questa come da altre aree del mondo, che rende poco sincere tante dichiarazioni di principio su libertà e diritti.
È proprio questo ritiro che ha spinto negli ultimi anni la Santa Sede a cercare un dialogo diretto e senza protezioni con il governo di Pechino. Molte voci critiche si sono levate, non a caso, da Hong Kong per criticare tale tentativo, ma quanto sta avvenendo ora nella ex colonia britannica ne conferma la necessità.
A Roma, c’è comunque viva partecipazione alle sofferenze del popolo hongkonghese e nella grande città asiatica la saggia voce del cardinal John Tong si è espressa fin dall’inizio in modo pacato e fermo chiedendo giustizia, ma condannando la violenza. Un legame profondo, infatti, lega spesso violenza e disperazione ed entrambe finiscono sempre per alimentare la rassegnazione. L’anziano amministratore apostolico ha ricordato che la violenza «provoca solo ferite sempre più profonde» e ha richiamato la lezione pacifica di Gandhi e di Mandela. Ha espresso inoltre «profondo dolore nel vedere i giovani ansiosi e preoccupati a causa dell’attuale situazione sociale» ed esortato a una speranza che non è facile avere oggi ad Hong Kong, ma di cui c’è molto bisogno. È inutile continuare a credersi parte di un mondo che non c’è più, decisiva appare invece la capacità di guardare al futuro: solo la speranza, infatti, è in grado di sostenere gli animi quando la realtà delle cose mostra un volto sgradito e il cammino si prospetta lungo. Se all’inizio la voce di Tong è apparsa isolata, man mano si sono uniti alla sua altre voci, tra gli stessi cattolici, nel mondo protestante, in quello musulmano e in tutta la città.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
RIPENSARE L’EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO". Per la rinascita dell’EUROPA, e dell’ITALIA. La buona-esortazione del BRASILE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE. Tracce per una svolta antropologica ... *
NELLA DIMENSIONE CHE ESIGE ERACLITO
di Federica Montevecchi (su: Alias, 17/07/2010)
Martin Heidegger volle che la sentenza di Eraclito, «il fulmine governa ogni cosa», fosse incisa sull’architrave della porta della sua baita a Todnauberg nella Selva Nera. Le stesse parole, che costituiscono il frammento 64 dell’edizione Diels-Kranz, aprono il celebre colloquio seminariale, su Eraclito appunto, che si svolse nel semestre invernale 1966/67 all’Università di Friburgo fra Martin Heidegger e Eugen Fink. Il testo del seminario fu pubblicato in italiano nel 1992 da Coliseum, nella versione di Mauro Nobile introdotta da Mario Ruggenini, con il titolo Dialogo intorno a Eraclito. A circa venti anni di distanza da questa prima edizione, esaurita da qualche tempo, il colloquio fra Heidegger e Fink è ripresentato - corredato dalle annotazioni di Heidegger - dall’editore Laterza, nella collana «I Libri dell’Ascolto» diretta da Vittorio Tamaro, con il titolo Eraclito (a cura di Adriano Ardovino, pp. 234, € 20,00).
Il seminario, suggerito da Fink, che voleva mettere alla prova la propria interpretazione di Eraclito, fu l’ultima attività didattica di Heidegger e avrebbe dovuto includere, stando al progetto iniziale, anche una lettura dei frammenti di Parmenide. Nei fatti, invece, non fu completata neppure la lettura dei frammenti di Eraclito, tanto che Fink, nel 1970, presentando l’edizione del seminario, affermerà che il testo dato alle stampe è «un torso, un frammento su frammenti».
Le tredici sessioni in cui si articolò la discussione, alla quale parteciparono tredici persone fra studenti e invitati, vennero trascritte volta per volta, senza l’ausilio di alcun registratore, letteralmente e integralmente.
Il risultato non è tanto un confronto fra due diversi interpreti, ma, dice Heidegger, un ‘parlare con Eraclito’ e, attraverso di lui, con un’intera tradizione che, già dall’antichità, non si è sottratta alla provocazione rappresentata dai Greci. Esempi degli interrogativi di fondo dell’esistenza e dell’enigma riguardante la nascita della ragione, i pensatori greci più antichi - Presocratici o sapienti, a seconda che si voglia adottare le espressioni rispettivamente di Hermann Diels o di Giorgio Colli - sono specchi: quanto più ci avviciniamo a loro tanto più vediamo il nostro riflesso. A seconda della ‘storia razionale’ nella quale li integriamo - e questo accade già a partire da Aristotele - essi assumeranno significati molteplici, restando comunque sempre altro da ciò che di loro possiamo dire: essi costituiscono il momento inaugurale del pensiero della civiltà occidentale, nel quale la ‘verità’ della nostra origine diventa inscindibile dall’origine della nostra ‘verità’, l’ambito del conoscere non facilmente distinguibile dalla sfera del riconoscere, cioè della proiezione retrospettiva.
Tutto ciò vale particolarmente per Eraclito le cui parole, stando a Diogene Laerzio, avrebbero fatto dire a Socrate che ci sarebbe voluto un tuffatore delio per poterle riportare alla luce dalle oscure profondità. E su queste parole si sono cimentati, nei secoli, in molti: basti pensare, fra gli altri, a Platone - che nel Sofista annovera Eraclito fra quelle Muse ioniche capaci di mostrare la connessione fra l’uno e i molti -, a Hegel - che nelle Lezioni sulla storia della filosofia afferma: «non c’è proposizione di Eraclito che io non abbia accolto nella mia Logica» -, a Hölderlin - che, attraverso Eraclito, legge l’inscindibilità di unione e separazione -, e ancora, a Nietzsche - che nei frammenti eraclitei vede l’espressione della visione tragica del mondo, del conflitto sotteso a ogni creazione e allo stesso logos.
Va da sé che pure Heidegger e Fink, in sintonia con la tradizione filosofica tedesca, che affronta il pensiero più antico proiettando nella Grecia anzitutto se stessa, la propria specificità filosofica, accolgono la sfida di Eraclito ben prima di questo seminario. L’eco eraclitea, infatti, è costante nell’opera di entrambi e si mostra, ad esempio, nell’idea heideggeriana dell’intermittenza di qualcosa che apparendo come mondo al tempo stesso si nasconde come senso. Se in questa idea è implicita la nota sentenza eraclitea «la natura ama nascondersi», nella metafora di Fink del gioco che gioca con l’uomo e il mondo, ossia con coloro che lo stanno giocando, sono evidentemente sottintese le parole di Eraclito «il tempo è un fanciullo che gioca spostando i dadi: il regno di un fanciullo».
Queste rispettive posizioni filosofiche si riflettono naturalmente nel seminario, dove Heidegger e Fink, tuttavia, cercano di assumere ruoli ben definiti. È lo stesso Fink a caratterizzare il ruolo di Heidegger nei termini di una ‘direzione spirituale’, che si declina in interventi brevi, chiarificatori, interrogativi, ma anche ammonitori rispetto a tutto ciò che potrebbe limitare la possibilità di giungere «nella dimensione che esige Eraclito», come ad esempio approcci di tipo esclusivamente filologico e storiografico, oppure l’uso di termini ritenuti troppo risonanti, quali diradamento e tempo, se non ormai inadeguati, come il temine essere. Fink, invece, assume il compito di presentare una provvisoria interpretazione dei frammenti eraclitei che garantisca una base di discussione e possa essere idonea a collocare i partecipanti al seminario «entro una certa comunione nel linguaggio interrogante». E tuttavia il tentativo di recuperare Eraclito è destinato a fare i conti con una distanza storica e ontologica abissale, come mostrano le frequenti domande di Heidegger - destinate a contenere, nei partecipanti, le cristallizzazioni concettuali, che sono da ricondursi, come viene ricordato, alla filosofia successiva di Aristotele -, oppure l’affermazione che nel seminario si sta presentando un’interpretazione non più metafisica di testi non ancora metafisici: fra il ‘non più’ e il ‘non ancora’ è tuttavia possibile sentire l’eco dell’esperienza di pensiero di Eraclito, che obbliga continuamente a riflettere sui criteri attraverso i quali si è articolato il pensiero occidentale, quindi a considerare la possibilità di pensare in altro modo.
L’andamento del seminario è scandito soprattutto dal tema dell’unità fra opposti, che ricorre in tutti i frammenti eraclitei e rimanda al problema fondamentale dell’appartenenza (Verhältnis) di uno e molti-tutto, en e panta. I numerosi esempi di fenomeni descritti da Eraclito - come pace e guerra, fame e sazietà, giovani e vecchi, mortali e immortali - mostrano a un tempo l’opposizione fra diversi e la loro unità, e cioè il fatto che lo stesso sia anche altro, i molti-tutto siano anche uno: «la difficoltà - dice Heidegger - consiste nello scorgere in che modo lo en mostri all’improvviso un altro carattere», nel capire come Eraclito possa vedere, nell’esperienza comune a tutti basata sull’opposizione e sulla distinzione, sempre l’uno e un unico logos.
Detto altrimenti, la convivenza degli opposti, che caratterizza l’universo greco più antico già a partire dalle prime cosmologie fino ad arrivare all’opposizione delle proposizioni nell’argomentazione dialettica, rilancia costantemente l’enigma della polarità o, stando al seminario, l’enigma di come il determinato sia ad un tempo «l’unità che riunisce».
La risposta di Heidegger e Fink si concentra sul legame fra l’uno e i molti-tutto, legame che viene inteso appunto come Verhältnis, giustamente tradotto con appartenenza, intendendo con tale termine non una relazione di possesso fra due oggetti né un rapporto di reciprocità, ma il trattenersi dell’uno e dei molti-tutto nella «stabilità dell’apertura», la «tenuta (Verhalt) dell’essere e del mondo». È la stessa cosa infatti che, nella separazione da se stessa, si tiene unita e si custodisce perché - viene precisato nella sessione undicesima - appartenere e tenere «significano in primo luogo il custodire, tenere in serbo e accordare nel senso più ampio»: questo è del resto il logos nel suo significato proprio di raccolta e di presenza di ciò che è stato raccolto. E evidente che tutto ciò permette di aprire lo spazio a un pensare che contrasti la concezione ingenua secondo la quale l’uno viene pensato come un contenitore in cui sono racchiusi i molti-tutto e soprattutto l’idea, che diventerà una delle matrici del pensiero occidentale, secondo la quale il molteplice è un dispiegarsi e un decadere del semplice.
Nell’ultima sessione del seminario Heidegger chiede a Fink qual era il senso dell’affermazione con cui aveva aperto il loro colloquio comune con Eraclito, e cioè che i Greci «significano per noi un’immane provocazione». Fink risponde che si tratta della provocazione «a capovolgere, una buona volta, l’orientamento del nostro pensiero», a disfarsi di tutto l’apparato concettuale costruito sul bisogno, che Hegel ha incarnato in maniera paradigmatica, del pacificante appagamento di ciò che è pensato e conciliato per tornare a pensare, vale a dire a sentire, secondo Heidegger, «l’assillo dell’impensato nel pensato» e, come esorta Periandro di Corinto, ad avere cura del tutto in quanto tutto.
* SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
COME IL "PADRE" E’ ALL’ORIGINE ("URSPRUNG") DEL BAMBINO, COSI’ IL "POLEMOS" E’ ALL’ORIGINE DI TUTTE LE COSE?!: HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?!
LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE E IL DIVENIRE ACCOGLIENTE DELLA MENTE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
"CHI" SIAMO NOI, IN REALTÀ. RELAZIONI CHIASMATICHE E CIVILTÀ: UN NUOVO PARADIGMA.
Federico La Sala
L’EUROPA, “SOCRATE E ARISTOFANE", E “LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE ... *
Leo Strauss, i classici greci per capire il rapporto tra filosofia e politica
di Matteo Moca (Alfabeta-2, 14.07.2019)
«La nostra Grande Tradizione include la filosofia politica e perciò sembra garantirne la possibilità e la necessità. Secondo la medesima tradizione, la filosofia politica è stata fondata da Socrate. Dal momento che Socrate non ha scritto libri o discorsi, la nostra conoscenza delle circostanze in cui, o delle ragioni per cui, la filosofia politica è stata fondata, dipende interamente dai resoconti di altri uomini». Così, squadernando una questione di grande importanza e difficile soluzione, si apre l’introduzione che Leo Strauss scrisse per il suo Socrate e Aristofane, pubblicato adesso come primo volume - curato e introdotto da Marco Menon - della nuova importante collana “Straussiana” delle Edizioni ETS, diretta da Carlo Altini, Raimondo Cubeddu e Giovanni Giorgini, una collana che si propone, anche scorrendo i titoli che risultano in preparazione, di dare un nuovo e maggiore spazio editoriale a uno dei pensatori più importanti del Novecento. Socrate e Aristofane rappresenta certamente una summa del pensiero filosofico di Strauss, e dunque una privilegiata porta di accesso alla sua filosofia, per molteplici motivi: innanzitutto per l’andamento e la forma precisa e minuziosa dell’interrogazione del testo antico, che pare assecondare quel dialogo con gli autori che deve precedere la lettura dell’opera, ma anche perché l’analisi del testo di Aristofane mette in gioco i temi principali della sua riflessione, ovviamente riscontrabili nelle altre sue opere, come la relazione tra la filosofia e la politica, l’analisi della religione e il rapporto tra la politica e l’arte.
L’interesse per Aristofane e per i classici greci nell’orizzonte della ricerca sulla filosofia politica, come ricostruisce precisamente nella prefazione Marco Menon, diventa per Strauss sostanzioso a partire dalla fine degli anni Trenta: questa attenzione prende la direzione dell’analisi del rapporto tra Aristofane, Senofonte e Platone, come testimonia chiaramente una lettera di Strauss del 1947 che fa bene intendere su cosa si stia assestando la sua ricerca: «Sto studiando ancora la Repubblica. Penso che la querelle tra filosofia e poesia possa essere intesa nei termini di Platone; filosofia significa la ricerca della verità; [...] poesia significa qualcos’altro, ad esempio, nel migliore dei casi, la ricerca di un tipo particolare di verità». All’interno di questa discussione emerge la centralità della figura di Aristofane, perché Strauss rintraccia come il suo attacco a Socrate, rintracciabile non solo nelle Nuvole ma in molte delle sue commedie, si concentri proprio sulla questione della superiorità della filosofia o della poesia. Tentare di comprendere la centralità di Socrate nella filosofia politica, come emerge anche dal passo dell’Introduzione precedentemente citato, implica la lettura di Aristofane: via privilegiata per comprendere la vera natura di Socrate sarà il confronto tra il ritratto platonico e quello aristofaneo, l’autore del Simposio ammirava Socrate, Aristofane no, (l’attenzione di Strauss si concentra anche su Senofonte, che insieme a Platone e Aristofane conobbe Socrate di persona): si tratta però di uno studio che sottende un discorso al presente e non si limita solo allo studio dell’antichità. Su questo punto è preciso Strauss quando scrive di come, dopo gli attacchi di Nietzsche a Platone e a Socrate, il suo ritorno alle origini «è diventato necessario a causa della radicale messa in discussione di quella tradizione».
Socrate e Aristofane viene concluso da Strauss, dopo una lunga fase preparatoria e di studio, nel 1965, ma la sua pubblicazione è accolta con freddezza anche da parte dei suoi corrispondenti più stretti (Karl Löwith per esempio, a cui Strauss scriverà dopo aver ricevuto uno stringato commento: «La sua frase sul mio capitolo sulle Nuvole mi ha rallegrato molto: è quasi l’unica parola di incoraggiamento che ho sentito da molti anni! Ma non vorrebbe leggere anche gli altri capitoli?»), nonostante questo testo si concentri, come sottolinea Menon, sulla questione fondamentale della differenza tra physis e nomos, «che riveste un ruolo costruttivo per la filosofia stessa» e trascenda ben presto, pur nell’organicità della lettura, i testi di Aristofane per addentrarsi tra i sentieri speculativi a lui più cari, come la natura del teatro drammatico e il suo ruolo edificante, la dualità tra illuminismo e tradizionalismo, la vita nella città o l’imprescindibile ruolo della politica. -Strauss espone come le fonti platoniche e aristofanee su Socrate siano divergenti (Senofonte è invece considerato da Strauss come un testimone più solido in quanto continuatore delle storie di Tucidide): nei dialoghi del primo, Socrate è idealizzato ed è molto difficile distinguere nettamente ciò che Socrate ha pensato e quello che gli viene attribuito da Platone, utilizzando invece le Nuvole di Aristofane è possibile conoscere il Socrate presocratico, e cioè analizzare il passaggio dalla filosofia stricto sensu alla filosofia politica e dunque, ancora, andare a ricercare nei territori che sono alla base della disciplina filosofica.
La lettura di Strauss si articola in numerosi capitoli, ognuno dedicato a una delle commedie di Aristofane: attraverso una lettura filologica, in queste testi emergono alcuni temi centrali della filosofia di Strauss, come il discorso sugli dei, già precedentemente evocato, nella lettura di Uccelli, Rane e Pluto, dove Aristofane solleva problematiche centrali per la definizione della divinità, oppure la riflessione sul rapporto tra Atene e Gerusalemme, nome di uno dei suoi libri più importanti ma soprattutto metafora della scelta tra filosofia e Bibbia, tra due città sacre.
Lo spazio maggiore è dedicato a Nuvole, nonostante comunque ognuna delle commedie venga messa in relazione da Strauss con le altre, costruendo un vero e proprio studio organico sull’opera di Aristofane, perché Nuvole rappresenta il luogo centrale per l’indagine sul giudizio aristofaneo su Socrate. Attraverso questa dettagliata analisi, Strauss arriva alla conclusione, se di giudizi definitivi si può in questi casi parlare, che Aristofane si credeva superiore a Socrate, «in virtù della sua conoscenza di sé e della sua prudenza»: infatti, scrive Strauss, «se da una parte Socrate è totalmente indifferente nei confronti della città che lo mantiene, dall’altra Aristofane si occupa molto della città» e, ancora, se Socrate «non rispetta le necessità fondamentali della città, o non vi si attiene, dall’altra Aristofane lo fa».
La saggezza di Aristofane assume la sua forma attraverso la parola del poeta, sia esso comico o tragico: le sue commedie sono «il vero Discorso Giusto» che tratta le cose comicamente (questa la chiave utilizzata da Strauss, che anche in un lettera a Kojéve scrive di come il suo libro potesse divertire un filosofo: «Ho appena finito di dettare un libro, Socrate e Aristofane. Credo che qua e là le strapperà un sorriso, e non solo per le battute di Aristofane e le mie parafrasi vittoriane») e che, «presentando come ridicoli non solo gli ingiusti ma anche i giusti, riesce a far sì che la sua commedia sia totale». Solo in questa maniera e attraverso questo filtro a lui congeniale, è possibile tratteggiare ciò che altrimenti sfuggirebbe o trascenderebbe ogni possibilità.
* NOTA
LA LEZIONE DI NIETZSCHE - E DI DIOTIMA. Con Socrate ha inizio l’avventura dell’Occidente! Leo Strauss condivide con Nietzsche l’analisi, ma non riesce a portarsi oltre e a risalire la corrente! E la filosofia è ancora immersa, come denunciava Kant, nel suo profondo “sonno dogmatico” (cfr. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN)!
“NeÌla sua cecità e protervia, l’uomo Platone è l’incarnazione più propria del sogno “diabolico” di Adamo e della sua donna Eva: diventare “come Dio”. contro Dio stesso. I Greci sapevano. Platone sa di ciò che è avvenuto in tempi remotissimi, ma non ha la mente come da una sua battuta contro il grande Diogene di Sinope per comprendere (...) Il racconto è di Aristofane, nel Simposio, e, come si può vedere, ricalca abbastanza fedelmente il racconto biblico relativamente al prima e al dopo del peccato originale, e indica anche la via ... per restaurare I’antica natura. L’indicazione del Commediografo è più che chiara e non è affatto (non fraintenderlo, “non volgerlo al comico”, egli ripete a chi ascolta il suo discorso - noi abbiamo sempre sottovalutato le sue Nuvole, ma egli aveva visto molto bene che cosa Socrate stava preparando) una boutade. Platone non comprende nulla, stravolge e continua, con il suo Eros (avido, cieco e saettante) e con lasua filosofia, sulla strada del padre. Titanicamente, come Zeus, spaccato tutto in due, tenterà di rimettere insieme i cocci, con la forza - una storia di steminata e “incurabile” follia. Aristofane parla della nostra mente, della nostra anima e della nostra vita e Platone taglia e ricuce - a specchio, “divinamente” (...) (Cfr. L’EUROPA, LE “REGOLE DEL GIOCO” DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE).
Federico La Sala
L’ordine dei discorsi
Il gesto filosofico di Agamben
di Felice Cimatti (fatamorganaweb, 10 Giugno 2019)
Ogni filosofo, e come è sempre più evidente non basta insegnare filosofia in una università per essere un filosofo, incarna un gesto peculiare. Un gesto che è il suo gesto, solo suo, inconfondibile (per converso, un filosofo privo di un simile gesto non è propriamente un filosofo). Un gesto del genere, la cui imperscrutabile origine si colloca al di qua della scelta soggettiva perché ha a che fare più con lo stile e il carattere che con la volontà, rende quell’essere umano un filosofo. Cioè qualcuno che, proprio con quel gesto, ci mostra la possibilità di un’azione che, prima di quello stesso gesto, nessuno immaginava fosse praticabile. In effetti quello che rimane, di un filosofo (ma anche di un artista, e in fondo di ogni essere umano che abbia fatto della sua esistenza un campo di sperimentazione), è proprio quel gesto.
In questo senso la storia della filosofia non è propriamente la storia delle idee di questo o quel filosofo: è piuttosto una scuola in cui si impara a muovere il corpo/pensiero in un modo particolare. Precisiamo questo punto, perché spesso si pensa che la filosofia sia un fatto prevalentemente, se non esclusivamente, cerebrale. Prendiamo, ad esempio, il caso delle tecniche yoga. Si tratta di imparare ad assumere posizioni apparentemente “innaturali”, come quella che si può vedere nell’immagine del celebre maestro indiano Iyengar. Tuttavia, una volta che tendini e muscoli hanno esplorato questa possibilità, è tutto il corpo/mente che acquista una elasticità che prima era semplicemente impensabile. Il gesto filosofico, come una posizione yoga, rende esplorabile un campo d’azione che, prima di quel gesto, non esisteva. O meglio, quel campo era da sempre virtualmente disponibile, tuttavia nessuno l’aveva ancora esplorato né tantomeno credeva che ci fosse ancora qualcosa da esplorare. Quindi di fatto era come se non ci fosse. In questo senso la filosofia rende liberi, perché ci mostra che laddove pensavamo pigramente che non ci fosse niente da fare, ebbene anche in quel caso c’è una azione possibile. Basta cercarla, e se non la troviamo, allora occorre inventarsela.
Il gesto filosofico, pertanto, è gesto in quanto contemporaneamente pensiero e azione; proprio per questo è filosofico. È quindi anche un gesto potenzialmente politico, benché non nel senso che propone una esplicita azione politica, piuttosto perché è un gesto che offre al corpo un’inaspettata opportunità di movimento. Perché pensare significa agire. Wittgenstein, nel § 11 della prima parte delle Ricerche Filosofiche, propone al riguardo un paragone divenuto celebre: «Pensa agli strumenti che si trovano in una cassetta di utensili, c’è un martello, una tenaglia, una sega, un cacciavite, un metro, un pentolino per la colla, la colla, chiodi e viti. - Quanto differenti sono le funzioni di questi oggetti, tanto differenti sono le funzioni delle parole. (E ci sono somiglianze qui e là)». Ogni parola del linguaggio, cioè ogni operazione concettuale, dischiude un campo d’azione, che senza quella parola non sarebbe possibile. Ogni gesto filosofico è uno di quegli strumenti, cioè una di quelle possibilità di azione.
È importante sottolineare un punto, che una erronea rappresentazione dalla filosofia oggigiorno porta spesso a trascurare. Un falegname usa tutti quegli strumenti, anche se avrà una particolare predilezione per uno in particolare. Questo significa, per essere più espliciti, che un filosofo non smette mai di pensare insieme ad Aristotele e Platone, ad esempio, anche se non è uno specialista della filosofia aristotelica o platonica. Così come per un falegname il martello è sempre attuale, così per un filosofo Aristotele è sempre attuale. Questo significa che il filosofo, cioè chi propone gesti filosofici, non lavora come uno scienziato, per il quale, invece, una teoria scientifica antica è inutilizzabile.
In questo senso quello filosofico ha a che fare più con il gesto di un falegname, o di un pittore, che con quello di un neurologo che studi le connessioni cerebrali all’interno di una particolare area della neocorteccia. Ma solo “in un certo senso”, perché spesso il neurologo, che crede di avere a che fare solo con fatti, non si accorge che i fatti di cui si occupa sono impregnati di impensati gesti filosofici. Si pensi, per fare un solo esempio, a quegli scienziati che cercano nel cervello quella che chiamano la “base materiale” delle attività mentali. Ma siamo così sicuri che le “attività mentali” esistano davvero? La mente è un fatto, o un pregiudizio metafisico? Vale lo stesso per il corpo, ovviamente, che non è che l’altra faccia dello stesso dualismo originario.
Se ora ci chiediamo qual è il gesto filosofico di Giorgio Agamben, il gesto che ha consegnato alla filosofia, e che d’ora in poi nessun filosofo potrà ignorare, potremmo indicarlo nella paziente e tenace operazione con cui torna alle cesure fondamentali del pensiero (quelle che formano la nostra tradizione metafisica), come appunto quella fra mente e corpo, cercando di mostrarne le impensate possibilità di azione che ancora ci offrono. Ogni dualismo costringe il pensiero, e quindi il corpo, a scegliere fra opzioni precostituite, e quindi comunque insoddisfacenti. Perché ogni dualismo costringe a muoversi o così o così. Il dualismo pensa e agisce per noi.
Agamben non cerca di mostrare che il dualismo è sbagliato, o che è superabile scegliendo uno dei due versanti contrapposti, come il materialista che trascura la mente, o l’idealista che privilegia la mente. Cerca piuttosto di trovare in quel dualismo una via di fuga che finora non avevamo scorto. Una via di fuga che non avevamo intravista proprio perché noi siamo il prodotto di quel dualismo. Tuttavia in quello stesso dualismo è implicito un movimento di pensiero che non abbiamo ancora esplorato. Il gesto filosofico di Agamben consiste allora nel disattivare quel dualismo, cioè nell’impedirgli di pensare al posto nostro.
Pensiamo al dualismo che esplora nel suo ultimo libro, Il Regno e il Giardino. Il regno è il Regno di Dio, che ci aspetta alla fine dei tempi. Il giardino è quello del Paradiso terrestre che, come non facciamo che stancamente ripetere, è definitivamente perduto. La nostra condizione, così vuole il dualismo in cui siamo intrappolati, è sospesa fra un passato per sempre passato, ed un futuro per sempre futuro. In mezzo siamo noi, fra rimpianto e speranza, fra memoria e desiderio, fra una inattualità svanita e un’inattualità a venire. Agamben torna a questo dualismo, e attraverso un lavoro come sempre minuzioso e appassionante, ne mostra non solo i vicoli ciechi, ma anche e soprattutto le vie inesplorate che ancora contiene. Che ha sempre contenuto.
In questo senso si può leggere Agamben a partire dalla sesta tesi de Sul concetto di storia di Benjamin, quando scrive che si tratta di «riattizzare nel passato la scintilla della speranza» (Benjamin 1997, p. 27). Perché la speranza, l’unica speranza effettivamente praticabile, è nel passato, non nell’inesistente futuro. Un passato che continua ad essere operativo nel presente, perché determina il nostro modo di agire e di pensare, e che tuttavia non è mai chiuso in modo definitivo. «Il pensatore rivoluzionario», scrive Benjamin, lavora sul «potere delle chiavi che un attimo» presente «possiede su una ben determinata stanza del passato, fino ad allora chiusa» (ivi, p. 55). Agamben, nei suoi libri, così come un bravo fabbro, tira fuori dalla sua cassetta degli attrezzi delle chiavi di cui ignoravamo l’esistenza (i fabbri più bravi sono anche un po’ scassinatori), chiavi con cui possiamo aprire stanze del passato che non sapevamo di poter aprire.
Vediamo intanto, prima di entrare nel merito della proposta di Agamben, di capire qual sia la posta in gioco discussa ne Il Regno e il Giardino. Nell’alternativa fra regno e paradiso si perde la possibilità di una esistenza “felice” in questo mondo. Se infatti la beatitudine è possibile solo nel Regno di Dio, allora sicuramente non è possibile in questa esistenza. Vale lo stesso per il Paradiso, la cui felicità è perduta per sempre. Quindi, anche in questo caso è esclusa dal presente. Stretto in questo dualismo si pone la questione di come pensare una vita felice che non sia costretta fra un ieri che trapassa senza fine in un domani, e viceversa, senza mai soffermarsi in un oggi. La posta in gioco, allora, è «la scissione fra “natura e grazia”» (Agamben 2019, p. 87); quindi, o natura o grazia, o vita o salvezza, o corpo o spirito.
Agamben articola la sua operazione di disattivazione lavorando sulla nozione di peccato, che - da Agostino in poi - è stato considerato come l’evento che ha determinato la cacciata dell’umano dal paradiso: «In ogni caso, se il fattore decisivo del dispositivo è il peccato, si può dire allora che il vero senso della dottrina del peccato originale è quello di scindere la natura umana e di impedire che in essa natura e grazia possano mai coincidere in questa vita» (ivi, p. 96). A partire da questa scissione si determina un destino, anche politico, come quello alla base del fallimento disastroso dell’utopia comunista nel secolo scorso, che da un lato rinviava indefinitamente la realizzazione della società senza classi, dall’altro condannava ad una esistenza sotto un paranoico controllo poliziesco. Giorgio Agamben
Ma cos’è allora il paradiso? È davvero contemporaneamente perduto e rimandato, oppure è ancora misteriosamente operativo nelle nostre esistenze? «Il paradiso», scrive Agamben, «è ciò a cui l’uomo deve far ritorno senza esservi mai veramente stato. D’altra parte, il ritorno non va inteso in senso temporale, ma ha già sempre avuto luogo, in modo che uscita e ritorno siano compresenti» (ivi, p. 61). Il dualismo vorrebbe che o si è nel paradiso, o se ne è fuori. Si tratta invece di lavorare sulla possibilità di “abitare” entrambe le situazioni nello stesso tempo. Fare della vita un paradiso, ma anche fare del paradiso una vita. Ossia, per usare l’alternativa discussa più sopra, disattivare la distinzione fra grazia e natura. Questo significa, tornando a Benjamin, che in ogni momento c’è «una chance rivoluzionaria», ossia, c’è una via di fuga.
Agamben, contro il coro disfattista del nostro tempo, mostra come c’è sempre qualcosa da inventare, una mossa inattesa, uno scarto che può rovesciare la situazione. Il Regno non è domani, il Regno c’è sempre stato (il Paradiso era già il Regno); bisogna sempre di nuovo offrirgli una occasione per presentarsi. Bisogna stare nel presente come se ci si trovasse alla fine dei tempi, e quindi non si trattasse più di un presente cronologico. Stare nel tempo senza starci, così come stanno nel tempo un animale, una nuvola oppure un angelo. Riuscire a fare della vita un paradiso, cioè un luogo di grazia, senza tuttavia smettere d’essere un luogo vivente, terreno, qui ed ora:
Il paradiso non è altrove, e non è nemmeno in quella natura “incontaminata” che cercano i palati squisiti dell’ambientalismo. L’antropocene è paradisiaco così come la foresta amazzonica prima dell’arrivo dei conquistadores, o quanto l’immensa discarica che ci travolge nell’immagine seguente. Il paradiso - se c’è - c’è sempre stato. La sfida, immensa come quella discarica, è trovare il paradiso anche là dentro, oltre ogni ingenua idea di purezza, di natura e di bellezza. Perché la grazia non illumina il paradiso perché questo è un luogo meraviglioso; al contrario, è la grazia che rende paradisiaco qualunque luogo, anche e soprattutto una discarica. Ma che cos’è la grazia se non la capacità di vivere una discarica come se fosse un paradiso?
Il gesto filosofico di Agamben, in definitiva, non risolve il dualismo, piuttosto lo scioglie al suo stesso interno. Un gesto che, come scrive Wittgenstein nella Conferenza sull’etica (contenuta all’interno del libro Lezioni e conversazioni), ci offre la possibilità di vedere il mondo come un “miracolo”. E che cos’è un miracolo se non appunto il collasso della distinzione fra Giardino (dell’Eden) e Regno? Il “miracolo” appare quando si diventa capaci di abitare nella congiunzione che unisce e separa allo stesso tempo il giardino e il regno. Nel “miracolo”, il Paradiso è ora, ma questo significa che siamo infine nel Regno; ma siccome il Regno è alla fine dei tempi, quello del “miracolo” non è un tempo cronologico, un tempo misurabile. Al contrario, è un tempo, scrive Agamben sulla scorta di Benjamin, “messianico”, cioè appunto quel momento del tempo in cui si disattiva il tempo cronologico, quello della memoria e della speranza. Il tempo “messianico”, quindi, è il tempo della coincidenza di vita e grazia:
Torniamo, infine, alla discarica: se il Giardino è questa discarica, allora il Regno è questa stessa discarica. Ma questo significa che non è più semplicemente una discarica, perché è illuminata dalla grazia. Vederla come miracoloso apparire del Regno vuol dire infatti destituirla dalla condizione di puro evento del mondo. Così la grazia salva la discarica, ma allo stesso tempo la discarica permette alla grazia di mostrarsi: «Solo il regno dà accesso al Giardino, ma solo il Giardino rende pensabile il Regno» (ivi, p. 120).
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Il Regno e il Giardino, Neri Pozza, Milano 2019.
W. Benjamin, Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
I sommersi e i salvati. Una nuova edizione per le scuole
di Martina Mengoni - Roberta Mori (Il Mulino, 06 giugno 2019)
Nel 1973 Primo Levi pubblicò un’edizione scolastica di Se questo è un uomo all’interno della collana einaudiana “Letture per la scuola media”. Si inseriva in una serie di edizioni commentate per le scuole che Levi curava personalmente: La tregua (1965), Il sistema periodico (1979), La chiave a stella (nel 1983, con commento di Gian Luigi Beccaria supervisionato dallo stesso Levi). Per Se questo è un uomo lo scrittore aveva progettato, oltre alle note, una serie di strumenti allo scopo di fornire ai giovani lettori informazioni sui Lager nazisti e sulla geografia e la storia europee tra il 1918 e il 1945: una prefazione, due carte geografiche dei campi di concentramento e sterminio europei, una bibliografia essenziale e un apparato di esercizi di comprensione e analisi.
Nel proporre agli studenti delle scuole superiori la prima edizione scolastica de I sommersi e i salvati, a oltre trent’anni dalla sua pubblicazione (1986), abbiamo provato a fare tesoro delle indicazioni provenienti dal lavoro di autocommento e curatela svolto da Levi, cercando di adattarle alla didattica e alla scuola odierna.
L’introduzione offre un resoconto, sintetico ma non semplificato, delle ultime ricerche sulla genesi, la struttura, gli stili e l’impianto retorico de I sommersi e i salvati. Il volume è ricondotto innanzitutto alla sua prima gestazione, negli anni Sessanta, quando Levi aveva uno scambio vivo e diretto con i suoi lettori tedeschi. Al contempo il libro non avrebbe visto la luce senza il dialogo ininterrotto con gli studenti delle scuole medie inferiori e superiori, di cui la prefazione dà conto. “Sono stato in più di centotrenta scuole”, scrive l’autore nel 1979.
Gli studenti sono dunque il destinatario ideale de I sommersi e i salvati; è per loro l’ultimo e forse il più importante lascito analitico di Primo Levi, ed è questa la chiave per comprendere le scelte retoriche e argomentative del libro: un testo che fonde l’impianto saggistico con l’andamento narrativo, ricco di “figure” memorabili e insieme inesauribili, che rilanciano gli interrogativi filosofici, morali e storici posti dall’autore; un libro dal carattere socratico, concepito come un tentativo di ripristinare la complessità di una vicenda storica, sociale, culturale. “Una segnaletica di problemi”, come lo ha definito la storica Anna Bravo.
Nella progettazione e nella messa a punto dell’apparato di note si è cercato di trovare una sintesi tra due esigenze di segno opposto: da un lato l’aspirazione a trasmettere informazioni esaustive, dall’altro la necessità di non appesantire la pagina con note troppo lunghe e impegnative. Abbiamo optato per una notazione di servizio, agile e poco invadente, il cui scopo è quello di chiarire ogni riferimento non immediatamente presente nel bagaglio di conoscenze degli studenti delle scuole medie e superiori: traduzione di termini stranieri e spiegazione di termini specialistici, di derivazione colta e letteraria, di uso raro; note storiche e storico-biografiche, che coprono un arco cronologico che si estende dalla Prima guerra mondiale fino agli anni Ottanta del Novecento; spiegazione delle citazioni esplicite, dei riferimenti culturali, letterari, artistici.
Del tutto assenti in questa edizione sono invece le note di tipo critico-interpretativo. Il senso di questa scelta è alla base dell’intera operazione editoriale: proporre agli studenti un testo di cui fare un uso attivo, in classe, con il docente, nei lavori di gruppo, evitando di sovrapporre la nostra voce di curatrici a quella dell’autore. Non ci interessava intervenire nel dialogo fra autore e lettore suggerendo un’interpretazione preconfezionata (e, visto lo spazio a disposizione, per forza incompleta); abbiamo preferito lasciare alle note il compito di sciogliere eventuali ambiguità e di mettere a disposizione informazioni essenziali alla comprensione del testo.
Ciò non significa rinunciare alla funzione critica, che è piuttosto affidata agli esercizi presenti nel volume. Ci siamo chieste se fosse possibile costruire un eserciziario che accompagnasse gli studenti stessi, in autonomia, a individuare i maggiori nodi critici e argomentativi della pagina leviana, a esplorare l’uso della lingua e le ibridazioni che Levi sperimenta, la tendenza all’ossimoro e al paradosso che attraversa il libro. Chiedendo ai giovani lettori di misurarsi con l’analisi sintattica e con le etimologie del lessico leviano, giustapponendo di fronte a loro la pagina dei Sommersi con alcuni testi della tradizione letteraria e filosofica che Levi stesso chiama, esplicitamente o implicitamente, in causa, costruendo piccoli percorsi di ricerca bibliografica guidata: in tutti questi modi ci è sembrato di mettere i destinatari di questo lavoro nelle condizioni non soltanto di orientarsi nel testo, ma di coglierne le unicità e le tensioni interne, la potenza, le fonti, le aporie.
Al volume annotato de I sommersi e i salvati, che chiunque può trovare in libreria, si accompagna un fascicolo omaggio riservato agli insegnanti. Il fascicolo si compone di tre sezioni: 1) una serie di percorsi di apprendimento cooperativo, cinque in tutto, su alcuni temi chiave del libro; 2) undici percorsi di analisi guidata di testi di Primo Levi, sul modello delle prove di tipologia A e B dell’Esame di Stato; 3) una ricognizione bibliografica e sitografica sulla figura di Primo Levi, sulla storia della Resistenza e della deportazione e sulla didattica della Shoah.
Sono in particolare le prime due sezioni a costituire una novità a tutti gli effetti, un aggiornamento e un potenziamento rispetto agli apparati didattici delle edizioni einaudiane per le scuole medie che hanno ispirato questo progetto.
I sommersi e i salvati è il libro dello scrittore maturo Levi, che per tutta la vita si è interrogato sull’esperienza concentrazionaria, e al contempo ha sperimentato differenti forme di scrittura, frequentando generi e destinatari diversi. -Una guida per gli insegnanti doveva innanzitutto, a nostro avviso, rilanciare la poliedricità dello scrittore Levi, proponendo testi normalmente meno letti e frequentati dagli studenti delle scuole superiori; e in secondo luogo esplorare le possibili diramazioni culturali, scientifiche, filosofiche di alcuni temi cardine dei Sommersi come la memoria, la zona grigia, gli stereotipi della prigionia.
Alla prima esigenza rispondono le proposte di analisi del testo: undici brani tratti dal Sistema periodico, da La chiave a stella, da Racconti e saggi e dall’Appendice all’edizione scolastica di Se questo è un uomo sfatano il mito monolitico di Levi testimone e allargano lo sguardo sul ben più sfaccettato e complesso universo del Levi scrittore, che si muove tra la chimica, con le sue vittorie e sconfitte, il lavoro manuale, la giovinezza, la formazione intellettuale e quella morale, la Resistenza, il rapporto con i tedeschi, le radici dell’intolleranza razziale e la manipolazione dell’informazione durante il Terzo Reich. Nella selezione di testi che proponiamo, questi temi sono spesso affrontati con lo sguardo di un Levi-personaggio liceale e poco più che ventenne, nel tentativo di stimolare un dialogo e un confronto generazionale.
I sommersi e i salvati è anche un libro che combina otto saggi tematici; ciascuno di questi temi (memoria, zona grigia, vergogna, comunicazione, violenza inutile, essere un intellettuale ad Auschwitz, dialogo con i tedeschi) si dirama in molte ed eterogenee direzioni. Uno dei modi possibili per far confluire le ricerche leviane degli ultimi anni in un apparato adatto agli studenti di scuola superiore era quello di costruire percorsi di apprendimento cooperativo interdisciplinari che, a partire dai temi discussi da Levi, toccassero altri testi letterari (Montale, Borges, Shakespeare, Dostoevskij), filosofici (Platone, Cicerone, Agostino, Bergson, Freud, Arendt), scientifici (Alexander Lurija) e storico-memorialistici (Massimo Mila, Luciana Nissim) con incursioni nel fumetto (Maus di Art Spiegelman, ma anche le vignette di prigionia di Ernesto Rossi), nelle arti figurative (il memoriale di Berlino, le Stolpersteine), nelle serie tv (Prison Break, Black Mirror). I percorsi sono pensati come attività di apprendimento di gruppo. Tre di essi sono incentrati sulla memoria, in tre differenti accezioni (memoria biologica, memoria collettiva, metafore della memoria); uno è dedicato alla zona grigia; l’altro allo stereotipo del prigioniero.
Prendiamo come esempio quest’ultimo: il percorso è costruito a partire dalle considerazioni del capitolo Stereotipi. Levi riflette sul progressivo sfaldamento dell’immaginazione storica degli studenti, non solo per quanto riguarda i grandi eventi, ma anche e soprattutto per quel che concerne la condizione di chi veniva fatto prigioniero nei campi: un progressivo sfaldamento psicologico e morale, un annientamento del corpo che andava di pari passo con quello del soggetto pensante. Niente di più lontano dal mito del prigioniero che “spezza le catene”, coltivato dalla letteratura e dal cinema.
Per il nostro percorso di apprendimento cooperativo, abbiamo affiancato a un testo tratto da Il sistema periodico (Oro) in cui Levi racconta la sua prigionia in Valle d’Aosta, un brano tratto da Memorie dalla casa dei morti di Luciana Nissim Momigliano sulla “morte interiore” dei prigionieri; insieme ad essi, abbiamo proposto un estratto da Le loro prigioni di Massimo Mila (in “Il Ponte”, n. 3, marzo 1949), in cui l’intellettuale antifascista racconta - con una certa disincantata ironia - il periodo di prigionia a Regina Coeli, la difficoltà nello scrivere lettere che eludessero la censura, la noia, la lettura, le conversazioni, l’avidità di notizie sul presente. Il testo è accompagnato da una vignetta di Ernesto Rossi, che con Mila condivideva la cella in quegli anni.
A questi testi si aggiunge una proposta eterodossa: quella di analizzare e commentare un film che Levi cita nel capitolo, Io sono un evaso (1932), accostandolo a un altro film sullo stesso filone, uscito negli anni Settanta, Fuga da Alcatraz (1979), e a una serie tv recente, Prison Break (2005-2017). Tutti e tre insistono in modi diversi - ma con un’iconografia simile, già individuabile nelle locandine - sullo stereotipo del prigioniero forte e padrone di sé, che riesce a liberarsi e a fuggire, spezzando i propri vincoli con lucidità pianificata e senza l’aiuto esterno. Far reagire i testi di Levi, Nissim, Mila e i disegni di Rossi con film che rappresentano il loro contraltare narrativo ci è sembrato utile per illuminare, attraverso un’attività didattica concreta, costruita sul lavoro a gruppi, il contenuto del capitolo dei Sommersi.
È improbabile che uno studente nato negli anni Duemila conosca Io sono un evaso o abbia letto a scuola gli Scritti civili di Massimo Mila; ma è possibile che abbia visto almeno una puntata di Prison Break, ed è quasi certo che sia familiare con la sua estetica e con la sua simbologia.
Un percorso di apprendimento cooperativo che colleghi questi contenuti potrebbe avere il merito di allenare lo sguardo degli studenti a riconoscere non solo gli stereotipi storici, ma anche i tic narrativi più frequenti; un esercizio di analisi e straniamento utile alla lettura e all’interpretazione delle costruzioni simboliche e dei miti letterari che popolano l’immaginario e la mitologia contemporanea.
Levi ha costruito I sommersi e i salvati esattamente con questo spirito: una galleria di esercizi mentali sul passato e sul presente, estremi e necessari. Noi proviamo a rilanciarli.
PIANETA TERRA. LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.... *
I compiti delle Nazioni
di Roberto Mussapi (Avvenire, sabato 9 febbraio 2019)
«Spesso si è discussa l’utilità delle spedizioni polari. Se si considera solo il vantaggio morale che si ricava da tali spedizioni, io lo credo sufficiente a compensare i sacrifici che per esse si fanno. Come gli uomini, che nelle lotte quotidiane, col superare le difficoltà, si sentono più forti per affrontarne delle maggiori, così è delle Nazioni, che dai successi riportati dai propri figli si devono sentire maggiormente incoraggiate e spinte a perseverare nei loro sforzi per la propria grandezza e prosperità».
Luigi Amedeo di Savoia, Duca degli Abruzzi, tra il 1899 e il 1900 guida una spedizione, Stella Polare, con lo scopo di portarsi con una nave lungo una terra il più a settentrione possibile, e dal sito di sverno procedere con le slitte verso il Polo. La meta non fu raggiunta, ma lo scopo fu conseguito. Lo scopo della sua e di ogni altra spedizione, scrive Amedeo di Savoia, è di offrire un conforto e un modello all’uomo che nelle sue «lotte quotidiane», col superare le difficoltà si sente più forte per affrontarne altre maggiori. Così devono fare le Nazioni, «che dai successi riportati ai propri figli si devono sentire maggiormente incoraggiate.» Figli non mandati in guerra, ma all’avventura della conoscenza del mondo.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL "SIDEREUS NUNCIUS": UNO SHOCK, IERI E (ANCORA) OGGI. L’annuncio stellare (1610) di Galileo Galilei, l’alba di una nuova visione del mondo.
PIANETA TERRA. Fine della Storia o della "Preistoria"? "Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere" (M. Serres, Distacco, 1986). Tracce per una svolta antropologica
OCCIDENTE, AGONISMO TRAGICO, E MENTE ACCOGLIENTE.
Federico La Sala
A cento anni da La politica come professione di Max Weber /
L’ultimo eroe. Conversazione con Massimo Cacciari
di Francesco Bellusci (Doppiozero, 28.01.2019)
Cento anni fa, il 28 gennaio del 1919, nelle aule dell’università di Monaco di Baviera, un anno prima della morte, Max Weber tenne una delle sue più celebri conferenze: La politica come professione. In occasione dell’anniversario, la Mondadori ha da poco ristampato l’edizione che contiene questa conferenza e quella tenuta due anni prima, nella stessa università, La scienza come professione, con il titolo: Il lavoro intellettuale come professione, a cura e con l’introduzione di Massimo Cacciari. Il politico vero, secondo Weber, è chi, con perseveranza, senza mai scoraggiarsi, tenta di conciliare vocazione, dedizione alla causa, adesione convinta a determinati valori, con spirito progettuale, professionismo, responsabilità rispetto ai fini, previsione dei mezzi adeguati alla loro realizzazione e delle conseguenze dell’azione. Un traguardo originale che Weber indica agli studenti e ai giovani che lo ascoltano, in un momento storico drammatico per la Germania, nel passaggio dalla monarchia alla repubblica, e per la città stessa di Monaco, scossa da agitazioni rivoluzionarie, consapevole di come l’agire politico, nel contesto della società di massa, possa generare tanto democrazie mature quanto avventure totalitarie o populismi. Di questa straordinaria attualità della lezione del sociologo tedesco abbiamo parlato con Massimo Cacciari.
Francesco Bellusci: Professor Cacciari, lei ha sempre sostenuto l’importanza di questa conferenza di Weber, presentandola come una lezione propedeutica a ogni corso di formazione politica, soprattutto se rivolto ai giovani. Comincio col chiederle: perché conciliare etica dei principi ed etica della responsabilità è però sempre difficile, forse impossibile, e tuttavia l’agire politico non può e non deve ridursi mai all’uno o all’altro, pena il suo snaturamento?
Massimo Cacciari: Il politico di Weber è un "tipo", non la descrizione di qualche "contingenza"; aiuta a far ordine, a comprendere macro-tendenze generali. La realtà è sempre poi una commistione di "tipi". E ogni commistione è poi storicamente relativa. Il "tipo ideale" del politico è chi formula fini "economicamente" raggiungibili, chi si distingue dal profeta e dal demagogo, chi dispone, sì, di un carisma, ma collegato alla sua Zweckrationalität. Si tratta di un ibrido già in sé - ma la maionese impazzisce se c’entrano altri elementi!
Già in L’Arcipelago (Adelphi, Milano 1997), lei rifletteva sull’“ultimo eroe” weberiano. Eroico perché accetta la possibilità che i propri progetti s’infrangano o si ridimensionino sullo scoglio della macchina burocratica e, nello stesso tempo vede, in questa il mezzo indispensabile per la realizzazione di quei progetti. Ma lei insiste anche sul fatto che la vocazione del politico è una “chiamata” che, nel tempo della “morte di Dio” e della “svalorizzazione” dei valori trascendenti (Weber è uno dei primi che apprende a fondo la lezione di Nietzsche), non proviene più da un’autorità extra-umana o da un ordine necessario. Allora: chi “chiama” il politico, a questo compito nella sua vita?
Massimo Cacciari: Chi chiama il politico? Nessuno - la voce del silenzio - la sua "voglia" di rispondere, cioè la sua responsabilità nei confronti di una situazione che intende mutare. Oppure (e anche qui ecco il "doppio") la sua volontà di potere - senza la quale non esiste politico, comunque. Il "tipo" del politico che Weber propone si distacca nettamente da ogni sfondo religioso.
Sono passati più di dieci anni dall’edizione che lei ha curato delle due conferenze. Rispetto ad allora, si sono accentuate alcune tendenze che segnalano la crisi della democrazia rappresentativa. Oggi, il “demagogo” populista prende di mira ora i partiti tradizionali, ora la burocrazia, additandoli come un ostacolo o addirittura una specie di nemico interno per i suoi progetti, presentati come specchio fedele degli interessi popolari. Cioè, prende di mira i due cardini dello Stato democratico moderno per Weber, intesi rispettivamente come la fucina dei “politici di professione” e dei “funzionari specializzati”. È ancora valido il modello di Weber?
Massimo Cacciari: Ciò riguarda la democrazia in generale. Il processo di democratizzazione non era concepibile per Weber senza partiti. Partiti e Stato democratico costituivano un insieme inscindibile. Eppure nient’affatto pacifico - poiché il partito (parte) tende naturalmente a farsi Stato, e cioè a rovinare la democrazia. Bisognava mantenere il rapporto in una "equilibrata tensione" - ecco di nuovo l’eroismo del vero politico!
Adesso, le chiederei qual è il nesso con la conferenza che Weber tiene due anni prima, nel 1917, La scienza come professione. Come si configura per Weber il rapporto tra l’uomo di scienza e l’uomo di azione? In che senso egli considera la scienza e la prassi politica come due forme del lavoro intellettuale? Lo scetticismo su scoperte e applicazioni scientifiche, introdotto nel dibattito pubblico, dimostra come la scienza e la razionalità scientifica, in quanto “valori” e “decisioni” dell’Occidente moderno, non si possano sottrarre al dramma inestinguibile del conflitto di valori. Un aspetto che lei sottolinea nelle prime pagine dell’Introduzione, quando, interpretando anche il Weber metodologo delle scienze storico-sociali, ci dice che la scienza verrebbe meno al suo stesso rigore se avanzasse il suo primato sugli altri saperi, perché - scrive - “la scienza è relativa in quanto all’origine”, ma - aggiunge - “non è relativistica in quanto al suo metodo e al suo rapporto con la realtà che intende comprendere”.
Massimo Cacciari: Scienza e politica formano insieme la "geistige Arbeit" - devono funzionare insieme. Non vi è Stato moderno senza lavoro scientifico, senza rapporto con la Tecnica. E non vi è Tecnica se non sia intrinseca allo Stato. Eppure anche qui si tratta di Due e non di Uno! Ecco il politico di nuovo: che conosce l’essenzialità del lavoro scientifico e in uno conserva l’autonomia delle proprie decisioni. La "politica al comando" è altrettanto utopistica di una "scienza autonoma". Il capitalismo è essenzialmente il sistema che le unifica nel loro stesso contraddirsi.
Si può dire che l’“ultimo eroe”, cioè il politico di vocazione, fosse per Weber l’antidoto agli “ultimi uomini” di cui parla Nietzsche nello Zarathustra e che egli menziona nelle celebri pagine finali dell’Etica protestante e lo spirito del capitalismo? È nel Berufspolitker che Weber confida, per contrastare il destino di un mondo sociale totalmente amministrato e burocratizzato che intravede nel futuro dell’Occidente?
Massimo Cacciari: Weber cita esplicitamente Nietzsche a proposito degli "ultimi uomini" - sono gli "impiegati" senza spirito e i gaudenti (coloro che si godono il proprio benessere) senza cuore. Sono gli invidiosi, gli egoisti, Aristotele avrebbe detto i rappresentanti della pleonexia. Il sistema capitalistico li genera e rigenera - vi sarà un politico in grado di governarli? Weber alla fine della vita ne era disperato.
Weber vedeva, al suo tempo, l’imprenditore industriale moderno come indisponibile alla carriera del “politico di professione”, in quanto inesorabilmente assorbito dalla gestione razionale della sua impresa. Da Berlusconi a Trump, ormai anche il tycoon sembra proporsi come capo politico. Come spiega questo fenomeno? Espone sempre al rischio di una commistione o di una confusione tra l’“impresa politica” e l’“impresa economica”?
Massimo Cacciari: La commistione tra politica e economia genera il capitalismo politico - politica diviene mero attributo. Credo che sia proprio questa la fase che attraversiamo. Non se ne esce regressivamente, nella nostalgia di un "metti la politica al comando" - ma con politici in grado di contra-dire l’economico, di esserne potenti interlocutori - e cioè politici di vocazione dotati di strutture tecnico-organizzative adeguate. Siamo tanto lontani da questa situazione da avvertire l’idea come un’astratta utopia... e questo la dice tutta.
Per Weber, la vanità condanna un politico sempre all’insuccesso o al tramonto o, comunque, ne pregiudica la performance. È d’accordo?
Massimo Cacciari: La vanità è l’opposto della volontà di potenza. quest’ultima sa che cosa deve avere per funzionare e sa calcolare i propri obbiettivi per riuscire. La vanità crede di potere tutto. È esattamente ciò che rovina il politico di professione.
TROIA, L’OCCIDENTE, E IL PIANETA TERRA. In principio era il Logos ... *
Il sogno della Bellezza
di Roberto Mussapi (Avvenire, mercoledì 30 gennaio 2019)
«Un tempo mi stupivo perché una guerra così lunga/ d’Europa e d’Asia davanti a Pergamo/ fosse stata causata da una donna./ Adesso vi comprendo, siete stati saggi,/ Paride e Menelao, tu a rivolerla, / Paride a non volerla cedere. / Fu così bella che valse la pena// che in suo onore Achille morisse, / e Priamo lodasse le cause della guerra.»
Molteplici le cause delle guerre. Spesso economiche, a volte mascherate da valori civili, patriottici o religiosi. Qui però non ci riferiamo a una delle tante tragiche guerre storiche, ma alla prima, che, anche se realmente avvenuta, diviene mito di fondazione del nostro mondo. Troia esiste e fu assalita e arsa dalla lega dei greci.
Ma pur se storica, quella vicenda è mitica, oltre il tempo della storia e del calendario: un poeta, Properzio, il primo ma non l’unico, intuisce il mistero e il segreto di quella terribile contesa: Elena, moglie di un nobile greco, fuggita con un principe troiano: Elena sarà dell’uno e dell’altro, e mai di nessuno definitivamente. È la bellezza assoluta, irraggiungibile, che nessuno potrà mai definitivamente possedere.
La guerra dei primordi è la perversione di un sogno umanamente comprensibile: ognuno di noi vuole la Bellezza, e non comprende che non può essere solo sua. Ci preesiste.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’EUROPA, LE "REGOLE DEL GIOCO" DELL’OCCIDENTE, E LA LEZIONE DI NIETZSCHE.
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Federico La Sala
Politica e inoperosità
di Dario Gentili (Alfabeta-2, 27.01.2019)
L’edizione integrale pubblicata da Quodlibet rappresenta di Homo sacer, per usare i termini dello stesso Giorgio Agamben, l’edizione «definitiva, aumentata e corretta». Per quanto Agamben abbia in più occasioni precisato che il progetto ventennale di Homo sacer sia da considerare concluso in quanto «abbandonato», ciò non toglie che l’edizione Quodlibet è definitiva quantomeno poiché consente di considerare l’opera nella sua unitarietà. È invece ancora presto per dire quale contributo specifico questa edizione possa apportare alla ricezione di Homo sacer, che, nei più di vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del primo libro del progetto (col sottotitolo Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi 1995), ha già una propria storia. Infatti, le figure di pensiero di Homo sacer - solo per nominarne alcune: la nuda vita, lo stato d’eccezione, la teologia economica, la forma di vita, l’uso - hanno caratterizzato già diverse fasi della sua ricezione. Fasi diverse per quanto diversa era la congiuntura storica, politica ed economica su cui ognuno dei nove volumi del progetto è intervenuto, portandola a «leggibilità». Insomma, difficile se non impossibile è stabilire ora come un’edizione definitiva possa configurare ed eventualmente modificare o spingere a riconsiderare la storia della ricezione di Homo sacer. Per questo, ci sarà tempo - un tempo che, come un’edizione definitiva esige, non può essere esclusivamente quello della congiuntura attuale. Preferibile è allora soffermarsi sull’altro termine con cui Agamben contraddistingue questa edizione: «aumentata».
Due sono le integrazioni che l’edizione Quodlibet di Homo sacer presenta: la nota in conclusione di L’uso dei corpi (l’ultimo volume del progetto: IV, 2) e il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico, che diventa l’ultimo di Stasis. La guerra civile come paradigma politico (II, 2). È su quest’ultima integrazione che intendo soffermarmi, non soltanto perché è la più corposa, ma anche perché può rappresentare un approfondimento che concerne gli esiti filosofici dell’intero progetto (vale la pena rammentare che, sebbene L’uso dei corpi sia l’ultimo volume di Homo sacer, tuttavia è Stasis a essere stato pubblicato per ultimo; da Bollati Boringhieri un anno dopo, nel 2015). Inoltre, a riprova di ciò sta il fatto che il capitolo tratta del ben noto «criterio del politico» quale relazione conflittuale tra amico e nemico, teorizzato da Carl Schmitt, uno degli autori in assoluto più ricorrenti di tutto Homo sacer (basti consultare l’Indice dei nomi, che con i Riferimenti bibliografici compone l’utilissima sezione di apparati posta alla fine dell’edizione integrale).
L’analisi di Agamben delle pagine schmittiane si basa sull’implicarsi reciproco di inimicizia e guerra nella definizione del politico. L’argomentazione di Schmitt infatti oscilla nel fare una volta del nemico e un’altra della guerra il presupposto della relazione costitutiva che determina il concetto di politico: se il nemico assume una preminenza «politica» rispetto all’amico, è tuttavia nella «possibilità reale dell’uccisione fisica», cioè nella guerra, che ciò viene definitivamente a manifestazione.
L’opposizione amico-nemico quale criterio del politico svolgerebbe dunque la funzione di celare o mitigare la crudezza del fondamento ultimo della politica, la guerra, facendo così dell’inimicizia la protagonista unilaterale della politica. È a partire da qui, dalla massima stringenza del dispositivo schmittiano, che Agamben procede per disattivarlo. Non procede pertanto dal suo interno, dal concetto di amicizia (come in fondo ha fatto Jacques Derrida in Politiche dell’amicizia), sostanzialmente catturato e neutralizzato dal primato dell’inimicizia nel caso - decisivo per determinare la situazione politica - della guerra.
Agamben procede invece dal concetto di guerra che Schmitt assume, ovvero da ciò che un ambito del politico definito dalla guerra effettivamente «esclude». Si ribadisce così quella che è la modalità propria di pensiero di Agamben in Homo sacer: è l’esclusione - ad esempio della «nuda vita» e della «vita sacra» nel primo volume dell’opera - a consentire, fin dalle origini della tradizione occidentale, la costituzione dell’ambito - o, detto altrimenti, del «campo» - della politica. Nel caso della guerra, a essere escluso dall’ambito della politica è il «gioco».
Agamben riprende la critica che Leo Strauss mosse nel 1932 al Concetto del politico, mettendo l’accento sul «divertimento» che, tra le altre cose, per Schmitt caratterizzerebbe il mondo qualora venisse meno la distinzione tra amico e nemico - e, con essa, la politica stessa. Nella riedizione del 1963 dello scritto, Schmitt risponde alla critica di Strauss, precisando che, per «divertimento», bisognerebbe intendere appunto «gioco». La politica è una cosa seria, come «serio» è il caso di eccezione in cui la sovranità è chiamata a «decidere».
Agamben prende molto sul serio l’avversione di Schmitt nei confronti del gioco - o, meglio, della riduzione della politica a gioco - e vi riconosce la vera posta in palio della politica in quanto tale. Per Agamben, infatti, non soltanto il gioco corrisponde a ciò che una politica per costituirsi come guerra deve escludere, ma rappresenta anche la possibilità di un concetto alternativo di politica. Alternativo come è quello configurato, in Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo 2015), dalla forma-di-vita di Pulcinella, che «annuncia ed esige un’altra politica»: una politica della commedia piuttosto che quella della tragedia cara a Schmitt. E, in effetti, come la commedia è più antica della tragedia, così lo è il gioco rispetto alla guerra quale forma e dinamica del conflitto.
Prendendo le mosse da Homo ludens di Huizinga, Agamben riconduce il conflitto all’ambito greco dell’agon, più prossimo alla sfera del gioco, piuttosto che all’ambito, bellico, del polemos. Diverse sono le fonti a cui Agamben fa riferimento per asserire l’originarietà del conflitto agonale nella Grecia antica, fino a sostenere con Vernant l’«intima solidarietà fra il conflitto e l’associazione», che - aggiungo io sulla scorta di Nicole Loraux - si può riscontrare addirittura nell’etimo di agorà, lo spazio per eccellenza del confronto politico nella polis. È dunque come agon che il conflitto sposta sull’amicizia il fuoco del criterio del politico: «possiamo allora proporre l’ipotesi - opposta a quella formulata da Schmitt - che in origine la guerra sia un aspetto della funzione agonale-giocosa, consustanziale alla convivenza fra gli uomini, attraverso la quale vengono costruiti rapporti di integrazione e di philía fra gruppi estranei o, all’interno della stessa comunità, fra diverse classi di età».
Per dirla con i termini che appartengono al lessico dell’intero Homo sacer: se la guerra è la messa in opera del conflitto, il gioco è l’inoperosità del conflitto. E tuttavia, pur sempre di politica si tratta - è per questo che il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico getta una luce significativa sulla portata politica dell’intero progetto di Homo sacer, spesso tacciato di impoliticità quanto agli esiti che categorie come «potenza destituente» e, appunto, «inoperosità» sembrano profilare.
Di altro segno rispetto alla deriva impolitica è invece la problematicità che intendo qui rilevare. Pur tenendo ferma la distinzione tra conflitto e guerra, tale che il gioco apre a un uso politico del conflitto - legato all’associazione e all’integrazione dello straniero nella comunità - alternativo a quello bellico, bisogna tuttavia ricordare come l’agorà non è solo «piazza politica», ma è anche «mercato». Non a caso, nella Nota, si cita la definizione che Vernant fornisce di agon: «competizione organizzata». È un gioco, infatti, anche quello che ha luogo sul mercato: il gioco instaurato dallo scambio e dal commercio. Ed è un gioco che prevede la sospensione dell’inimicizia politica, razziale, religiosa, accogliendo così lo straniero in quanto partner commerciale (per secoli, infatti, il mercato è stato uno spazio ex lege). Ne è ben consapevole Friedrich von Hayek, uno dei pensatori di riferimento del neoliberalismo, quando definisce catallassi la sua concezione dell’ordine spontaneo del mercato, a cui attribuisce una evidente funzione politica, anch’essa alternativa al criterio del politico di Schmitt: «Propongo di chiamare questo ordine spontaneo di mercato catallassi, in analogia con il termine “catallattica”, che è stato spesso proposto come sostituto del termine “economia” (entrambe le espressioni, “catallassi” e “catallattica”, derivano dall’antico verbo greco Katallattein che, significativamente, vuol dire non solo “barattare” e “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare amici da nemici”)».
Certo, anche Hayek presuppone il nemico; ma il suo non è il nemico politico in guerra come per Schmitt, bensì il concorrente sul mercato, con il quale si possono stringere, seppur temporaneamente, accordi di amicizia. C’è allora da chiedersi se non sia stato proprio il gioco del mercato ad aver soppiantato la seriosa politica della guerra di Schmitt. Homo sacer provvede a delineare dell’economia la genealogia teologica (in Oikonomia, nuovo titolo del Regno e la Gloria nell’edizione Quodlibet); ma si potrebbe risalire a un’altra e complementare genealogia dell’economico, lungo un’ulteriore linea di ricerca che potrebbe aprirsi oggi da una rilettura, magari contropelo, di Homo sacer: una linea di ricerca genealogica, altrettanto contrassegnata da quelle ambivalenze che Agamben magistralmente ci ha insegnato a rintracciare, che faccia emergere una economia politica dell’inoperosità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I SEGNI DEI TEMPI. L’ECONOMIA DELLA SALVEZZA ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8) E L’ECONOMIA DELLA RICCHEZZA, DI "MAMMONA" E "MAMMASANTISSIMA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006): UNA TENSIONE SPEZZATA ...
"IL TEMPO CHE RESTA": UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO.
VERITA’ E VERIDIZIONE: PAROLE PER UNA NUOVA POLITICA. Agamben fa un passo innanzi con Foucault, ma cento passi indietro senza Kant.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
METAFISICA. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.... *
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella (il manifesto, 27.01.2019)
Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni - Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia». Per Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente». Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione - aggiunge - non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che - con una mossa inaspettata - Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi - in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo - viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai - dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto - Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO.... *
Lou von Salomé
Esplorò la forza dell’eros
L’incontro imponderabile che unisce due estraneità
Bellissima e spregiudicata visse l’amore con trasporto fisico e con slancio intellettuale seducendo Rilke e Nietzsche
Cruciale il suo apporto alla picoanalisi con lo studio del narcisismo
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, La Lettura, 27.01.2019)
L’amore è stato il filo della sua esistenza turbolenta e frammentata, scandita da innumerevoli legami appassionati e drammatici, dai quali lei sembrava ogni volta uscire quasi illesa. Non si contano invece le vittime, più o meno consenzienti, di quei rapporti. Intellettuali, pittori, filosofi, poeti: da Friedrich Nietzsche a Rainer Maria Rilke.
Bellissima e piena di fascino, tenera e volitiva, eccentrica e indomabile, Lou (diminuitivo di Louise) von Salomé rappresenta una figura emblematica che si staglia nell’orizzonte del Novecento europeo agitato da rivolgimenti politici ed esistenziali. Qualsiasi giudizio si voglia emettere su questa donna spregiudicata e anticonformista, certo è che a lei toccò in sorte di esplorare, nei suoi meandri più oscuri, non tanto l’anima della donna, quanto la passione erotica femminile.
Nata a San Pietroburgo nel 1861, trascorse gran parte della sua vita in Germania, nella piccola città universitaria di Gottinga, dove morì nel 1937, in tempo per osservare da vicino la catastrofe. Poco tempo dopo la sua scomparsa, gli agenti della Gestapo ne confiscarono la biblioteca. Ai loro occhi quella specie di strega aveva più di una colpa: soprattutto si era occupata di psicoanalisi, la «scienza ebraica» per eccellenza. Non l’aveva forse escogitata Sigmund Freud?
Pur considerando la scrittura un’attività quasi secondaria, che accompagnava la sua sete di vivere, la sua curiosità intellettuale, il fervore con cui si abbandonava ai rapporti umani, Lou Salomè ha lasciato venti libri e oltre cento saggi, articoli, recensioni. Potrebbe essere definita una scrittrice, se non fosse che ciò che ne contraddistingue il lascito sono proprio gli scritti di stampo psicoanalitico, in cui le esperienze biografiche si coniugano con una introspezione originale.
Con il titolo La materia erotica. Scritti di psicoanalisi, la casa editrice Mimesis ha pubblicato di recente una raccolta, curata da Jutta Prasse. L’arco di tempo va dal 1900, data d’uscita del primo saggio Riflessioni sul problema dell’amore, al 1921, anno a cui risale Il narcisismo come doppio orientamento, dove non è difficile scorgere le tracce del dialogo serrato con Freud.
Perché quell’interesse proprio per la scuola di Freud e non, ad esempio, per l’indirizzo rappresentato da Gustav Jung? La risposta sta nel valore che la psicoanalisi attribuiva alla pulsione sessuale. Lou vedeva così confermata un’idea di cui si era andata convincendo già prima di conoscere personalmente Freud a Weimar, nel 1911, nel Congresso della Società psicoanalitica Internazionale. Quell’incontro fu per lei decisivo perché le fornì i mezzi per sbrogliare l’intrigo della materia erotica che la teneva avvinghiata sin dalla giovinezza.
La forza misteriosa dell’amore era sconvolgente, inebriante, ma anche demoniaca e distruttiva. Affine alla creazione artistica del genio, poteva innalzare a vette supreme o spingere negli abissi più meschini. Di questo aveva già narrato la grande letteratura ottocentesca immortalando i ritratti di Emma Bovary e Anna Karenina, eroine tragiche le cui storie avrebbero dovuto provare l’impossibilità di conciliare amore sessuale e serenità coniugale. Per Lou era tempo di cercare una terza via, senza rinunciare al rifugio di un compagno, ma senza neppure abdicare alla rigenerazione dell’amore. Il che non voleva dire abbandonarsi ad una facile promiscuità, consegnarsi all’avventura fortuita e banale.
Proprio perché scorgeva nell’amore la forza vitale per eccellenza, scelse di viverlo fino in fondo, con trasporto fisico, ma anche con slancio intellettuale, consapevole della transitorietà di quell’energia che cessava inspiegabilmente, così come nascostamente era sgorgata. Occorreva solo essere pronti e prendere a piene mani la felicità nell’attimo, senza arrovellarsi troppo sul dopo. Pretendere di dare durata a quella passione avrebbe significato essere del tutto irrealistici. Non si può promettere di essere fedeli quando è in gioco l’amore. Di questo aveva discusso a lungo con Nietzsche, che per anni aveva eletto a maestro. Si intuisce perché quella sua irrequieta disinvoltura disorientava i partner, conducendoli talvolta a gesti estremi, in taluni casi teatrali.
Nonostante i conflitti interiori, quello in particolare tra un cuore impulsivo e una volontà imperiosa, Lou superò una dopo l’altra anche le rotture più drammatiche, persuasa della necessità di addentrarsi nel mistero della vita, di esplorarne le vie tortuose, fino ad elevare quella sfera sepolta dell’inconscio alla dignità della coscienza. Quasi in un estenuante esperimento, amava come viveva, viveva come amava. Con spontaneità, ma anche con serietà.
In questa indagine dell’eros, nel suo significato più ampio e profondo, Lou non poteva non votarsi alla vita altrui, perché l’amore è anzitutto il bisogno impellente dell’altro. Si interrogò perciò anche sulla modalità e il valore della fusione, che nell’uomo, in cerca di un’identità rafforzata, rischia di diventare esigenza di possesso, smania di appropriazione, volontà di sottomissione. Questo non avviene nella donna, che - osserva nel saggio Il tipo femmina - sperimenta già sempre l’altro in sé, che è sempre già duale e divisa in sé stessa, laddove «il maschio permane univocamente aggressivo». Forse si può dire che il suo contributo più rilevante alla psicoanalisi sia lo studio sul narcisismo, che è senza dubbio amore di sé, egocentrismo spinto all’estremo, capace di cancellare del tutto l’altro, ma che a ben guardare ha mille sfaccettature spesso trascurate. Il narcisismo può comprendere persino la sottomissione.
Se qualche decennio fa i testi di Lou von Salomé, con le sue osservazioni provocatorie e talvolta parossistiche, hanno avuto un effetto dirompente, scardinando vecchi luoghi comuni e stimolando il pensiero femminista, oggi non possono non essere lette con occhi diversi. Resta, però, l’originalità della sua riflessione e di quel suo modo di considerare il rapporto erotico non come l’eterna inimicizia tra i sessi, bensì come l’incontro imponderabile tra due estraneità. Ed è proprio ciò che spinge all’unione.
L’amore, forma intermedia tra l’ipseità del singolo e la fraternizzazione comunitaria dei molti, tra egoismo e altruismo, dischiude dunque una sfera che ciascuno è chiamato a esplorare, ma che in nessun modo può essere sottovalutata, ritenuta inferiore, cancellata nell’esistenza umana.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89).
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala