IL CRISTIANESIMO E IL CATTOLICESIMO CATTOLICO-COSTANTINIANO. COME IL “TU DEVI”, SENZA L’ASCOLTO DELLA VOCE SOTTILE DELL’ “IO SONO” (IL “SENTIMENTO DI UN’ESISTENZA”), RIDIVENTA LA LEGGE MORALE FALSA E BUGIARDA DEL FARAONE, DEL NEMICO DELL’UMANITA’, E REALIZZA "LA (INVERSA) FINE DI TUTTE LE COSE". Alcune pagine dallo scritto di Kant, La fine di tutte le cose (1794)
a c. di Federico La Sala*
[...] mi sia permesso, di notare modestamente non tanto quel che essi [uomini dallo spirito grande o almeno intraprendente, fls] avrebbero da fare, quanto quel che dovrebbero evitare di urtare, per non agire contro la propria intenzione (e fosse questa anche la migliore).
Il cristianesimo ha, oltre il grandissimo rispetto, inspirato irresistibilmente dalla santità delle sue leggi, anche qualcosa di benigno, in sé. (Non intendo qui la benignità della Persona, che ce lo ha acquistato con grandi sacrifici, ma della cosa stessa: ossia della costituzione morale, che Egli fondò; poiché quella si può desumere solo da questa).
Il rispetto senza dubbio è la prima cosa, poiché senza di esso non vi può essere alcun vero amore, sebbene anche senza amore si possa nutrire grande rispetto per qualcheduno. Ma, se si viene non soltanto alla presentazione del dovere ma anche all’esecuzione del dovere, se si chiede del motivo subiettivo delle azioni, dal quale solo, se lo si può prevedere, c’è da aspettarsi quello che l’uomo farà, e non del motivo obiettivo, di quel che deve fare: allora l’amore come libero accoglimento della volontà di un altro tra le proprie massime, è indispensabile complemento all’imperfezione della natura umana (di dover essere obbligata a quello, che la ragione prescrive con la legge): perché, quel che uno fa malvolentieri, lo fa così stentatamente, ed anche con sofistiche scappatoie dal comandamento del dovere, che non si può contare molto sul dovere, come motivo delle azioni, senza l’intervento dell’amore.
Se ora, per farlo proprio buono, si aggiunge al Cristianesimo un’autorità (sia anche essa divina), possa anche la sua intenzione essere retta e lo scopo realmente buono, allora però la benignità di esso sparisce, perché è una contraddizione comandare a qualcuno, che egli non solo faccia qualche cosa, ma la faccia anche volentieri.
Il Cristianesimo ha per intenzione quella di promuovere amore alla osservanza del proprio dovere, e lo produce anche: perché il suo fondatore non parla nella qualità di un comandante, che esprime la sua volontà richiedente ubbidienza, ma in quella di un amico dell’uomo, che mette nel cuore dei suoi fratelli la loro propria bene-intesa volontà, secondo la quale essi agirebbero da se stessi volontariamente, se si saggiassero come si conviene.
È dunque il modo di pensare liberale - egualmente lontano dallo spirito servile e dallo sfrenato - quello da cui il Cristianesimo attende l’effetto per la sua dottrina e mediante cui guadagna i cuori degli uomini, dei quali la mente sia stata già illuminata dalla legge del dovere. Sebbene dunque il Maestro del Cristianesimo annunzi anche pene, pure ciò non è da intendersi così, almeno non è conforme all’intima costituzione del Cristianesimo lo spiegarlo così, come se quelle pene dovessero divenire i motivi, per eseguire i suoi comandamenti: perché allora il Cristianesimo cesserebbe di essere benigno.
Si deve quindi interpretare ciò solo come un avviso amorevole, scaturito dalla benevolenza del legislatore, per guardarsi dal danno, che inevitabilmente sorgerebbe dalla violazione della legge (lex est res surda et inesorabilis, Livius): perché qui allora, non il Cristianesimo quale massima di vita volontariamente assunta, ma la legge minaccia: la quale, come ordine immutabile della natura delle cose, non lascia neanche allo stesso creatore l’arbitrio, di decidere le conseguenze in un senso od in un altro.
Se il Cristianesimo indice ricompense (p. es.: “Siate contenti e consolati, perché in cielo vi sarà tutto compensato”): ciò non deve essere interpretato, secondo modo di pensane liberale, come se fosse un’offerta, per attirare gli uomini alla buona condotta: perché allora il Cristianesimo sarebbe di nuovo da sé stesso non benigno. Solo l’esigenza di azioni, che scaturiscono da motivi non egoistici, può inspirare nell’uomo rispetto verso chi lo esige: ma senza rispetto non v’è vero amore.
Quindi a quella promessa non si deve dare il senso, come se le ricompense debbano essere considerate quali i motivi delle azioni. L’amore, con cui il modo di pensare liberale è avvinto al suo benefattore, non è diretto verso il bene, che il bisogno riceve, ma verso la bontà del volere di colui, che è disposto a parteciparlo: se anche non sia in grado di farlo, o ne sia impedito nell’esecuzione da altri motivi, che porta con sé la considerazione del bene generale del mondo.
Questa è la benignità morale, che il Cristianesimo porta con sé la quale ancor sempre traspare attraverso le molte costrizioni impostegli col frequente mutare delle opinioni e lo ha preservato dall’avversione, che altrimenti avrebbe dovuto colpirlo; in modo da farlo apparire (il che è notevole) in luce tanto più chiara anche nell’epoca della maggiore illuminazione [Aufklarung], che vi sia mai stata tra gli uomini.
Se al Cristianesimo dovesse una volta avvenire che cessasse di esser benigno (il che potrebbe accadere, se si armasse di autorità imperativa, invece del suo spirito mite), allora, siccome nelle cose morali non v’è neutralità (o tanto meno coalizione di opposti principi), un’avversione od opposizione contro di esso dovrebbe divenire il modo dominante degli uomini; e l’anticristo, che anche senza di ciò è ritenuto quale il precursore dell’ultimo giorno, avrebbe il suo regno, se anche di breve durata, fondato presumibilmente sulla paura e sull’egoismo: ma subito dopo, siccome il Cristianesimo invero è destinato ad essere religione universale, ma dal destino non sarebbe stato aiutato a divenirlo, avverrebbe, sotto l’aspetto morale la (inversa) fine di tutte le cose.
* Cfr. I. Kant, La fine di tutte le cose [1794], trad. di G. De Lorenzo, in: Giuseppe De Lorenzo, Scienza d’Occidente e Sapienza d’Oriente, Ricciardi Editore, Milano-Napoli 1953, pp. 18-20
PLATONE, PLATONISMO PER IL POPOLO, E CROLLO DELLA MENTE DELL’UOMO TEORETICO ...
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!
Hans Blumenberg e l’autodistruzione del cristianesimo: La genesi del suo pensiero: da Agostino a Nietzsche(Ludovico Battista, Viella, Roma 2021).
MESSAGGIO EVANGELICO E ILLUMINISMO, OGGI: "SAPERE AUDE! LA PAURA DI PENSARE E LA PARABOLA DEI TALENTI. Perché chiudere la nostra vita in una scatola? Una riflessione di Angelo Casati
LA RISATA DI KANT: SCHOPENHAUER (COME RATZINGER) A SCUOLA DEL VISIONARIO SWEDENBORG.
Federico La Sala
FILOSOFIA, FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA, POLITICA, E RELIGIONE E STORIA E LETTERATURA:
LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL.
Una nota *
Il tramonto della cristianità
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 18 Settembre 2023)
La crisi della Chiesa è sotto gli occhi di tutti. Naturalmente preoccupa soprattutto i cristiani, ma non riguarda soltanto loro perché essa è l’effetto di una crisi sottostante, quella della civiltà cristiana che è la base delle nostre società. Per questo non riguarda soltanto la fede cristiana, ma la società contemporanea nel suo insieme.
In che modo e con quali conseguenze è l’argomento di un breve e interessante saggio della filosofa politica francese Chantal Delsol dal titolo esplicito, La fine della cristianità e il ritorno del paganesimo (ed. Cantagalli). Il punto di partenza della sua analisi è la constatazione che stiamo assistendo al tramonto della cristianità, la civiltà fondata sul cristianesimo che ha dominato l’Europa e il mondo Occidentale per sedici secoli. Il suo declino è certamente provocato «dal cedimento della base che ne sosteneva l’esistenza: la fede in una verità trascendente, in questo caso quella in un Dio unico venuto nel mondo», tuttavia non comporta necessariamente la fine del cristianesimo. Una religione, infatti, resta viva anche quando raccoglie un piccolo numero di credenti. Quanti e fino a quando, impossibile dirlo e, a questo punto, viene inevitabilmente alla memoria la frase forse più sconcertante pronunciata da Gesù, riportata nel Vangelo di Luca (18,8): «Quando il Figlio dell’uomo verrà, troverà la fede sulla terra?»
La civiltà cristiana, invece, scrive Delsol, come tutte le costruzioni umane è «effimera, soggetta ai tempi e alle mode, ed eminentemente fragile, mortale». È del tutto ragionevole pensare che possa finire. Il suo inizio è convenzionalmente stabilito dagli storici nel 394 d.C., data della battaglia del fiume Frigido e della definitiva sconfitta del paganesimo. Da quel momento ha preso il sopravvento una civiltà nuova «ispirata, ordinata e guidata dalla Chiesa», con un nuovo «modo di vivere» e una nuova concezione del bene e del male. Il suo declino inizia molti secoli dopo, con il movimento culturale dell’Illuminismo e la Rivoluzione Francese che cercò di fare piazza pulita della Chiesa con abbondante uso della ghigliottina contro chierici e fedeli laici. Poi divenne sempre più rapido, fino ad assomigliare a una vera débâcle culturale a partire dagli anni Sessanta del Novecento, quando i movimenti della contestazione giovanile in tutto il mondo occidentale scompaginarono la società cambiando i costumi e affossando le tradizioni, e gettarono le basi del mondo odierno. Chantal Delsol pensa che quegli anni rappresentino il punto di non ritorno della crisi e che oggi all’orizzonte, a vista d’uomo, sia impossibile immaginare una rinascita della cristianità.
Già nel 1969 Joseph Ratzinger, allora giovane teologo e professore universitario, fece questa previsione sul futuro della Chiesa: «Diventerà piccola e dovrà ripartire più o meno dagli inizi... Poiché il numero dei suoi fedeli diminuirà, perderà anche gran parte dei privilegi sociali, ... non si arrogherà un mandato politico flirtando ora con la sinistra e ora con la destra» e diventerà più spirituale.
Il futuro papa immaginava che un processo lungo e difficile ma positivo l’avrebbe condotta a liberarsi della mondanità, della pomposità e del settarismo permettendole di essere di nuovo, come all’origine, l’assemblea (questo è il significato della parola chiesa) dei ‘piccoli’, termine con cui il linguaggio biblico chiama coloro che non cercano potere, riconoscimenti o ricchezze ma Dio, e a lui si affidano con semplicità e fiducia. Purificata dalla zavorra accumulata lungo i secoli del suo predominio, dopo grandi sommovimenti e una lunga crisi che, a suo parere, era appena cominciata sarebbe rimasta «non la Chiesa del culto politico, che è già morto, ma la Chiesa della fede... Conoscerà una nuova fioritura e apparirà come la casa dell’uomo, dove trovare vita e speranza oltre la morte» (Cfr. La profezia dimenticata di Ratzinger sul futuro della Chiesa, reperibile on line o nel libro Faith and Future, Ignatius Press, 2009). Una Chiesa nuova e antica capace di annunciare sempre lo stesso messaggio di speranza affidatole duemila anni fa. Per quale altro scopo se non per conoscerlo la gente dovrebbe avvicinarsi alla Chiesa, si domanda senza tergiversare il filosofo polacco Kolakowski in un breve saggio incompiuto solo ora tradotto in italiano: «Se non è Dio e Gesù che la gente cerca nella Chiesa, la Chiesa non ha alcun compito specifico da realizzare...è Dio che tutti vorrebbero trovare nel cristianesimo», non un’ideologia o una lobby politica (L. Kolakowski, Gesù. Saggio apologetico e scettico, ed. Le Lettere).
Fine del cristianesimo, dunque, fine della morale e trionfo dell’ateismo? Tutt’altro. Se il XXI secolo vedrà la fine della cristianità, scrive Delsol, non vedrà però la fine della moralità, come paventano alcuni cristiani convinti che i principi morali derivino solo dalla religione. Lo dimostrano le società pagane la cui moralità era determinata dai costumi, dalle leggi e dalle tradizioni. Allo stesso modo la società post-cristiana segue una morale che rispecchia i costumi condivisi dalla maggioranza dei cittadini e confermata dalle leggi dello Stato il quale provvede anche alle sanzioni a sua tutela non più affidate alla Chiesa.
Per quanto riguarda l’ateismo, Delsol è certa che non trionferà perché non ha presa sull’animo umano, portato piuttosto a riempire il vuoto provocato dalla fine del trascendente con altre forme di sacro. Le religioni e le filosofie orientali rispondono perfettamente alle nuove esigenze di spiritualità, perché «non brandiscono alcun Dio, alcun dogma, alcun obbligo» e il loro «sforzo per eliminare la sofferenza è molto simile alle sessioni di sviluppo personale, ed è proprio quello che i nostri contemporanei cercano». Anche l’ecologismo è perfetto per l’uomo di oggi. Egli non riconosce più gerarchie e separazioni tra uomo e natura, e nella ricerca di una sacralità senza divinità rigetta ogni monoteismo avvicinandosi piuttosto all’antico animismo; la sua visione è una sorta di cosmo-teismo «preoccupato più dello spazio che del tempo» perché non immagina niente al di sopra del mondo. La fede ecologista, inoltre, bilancia almeno in parte l’individualismo esasperato reintroducendo il concetto di responsabilità personale verso il futuro del pianeta e di chi lo abiterà. Forse, prospetta prendendo a prestito le riflessioni del filosofo tedesco Odo Marquard, dopo il regno di Dio e dopo quello dell’uomo è giunto il regno della natura.
Dall’analisi della Delsol, dalle parole di Ratzinger, dalle considerazioni di Kolakowski emergono pensieri convergenti, non pessimisti, che indicano una via percorribile per il futuro. La Chiesa può sopravvivere tornando all’essenza della sua missione, alla sua originaria ragione d’essere: l’annuncio e la testimonianza del messaggio di Gesù, semplicemente così come lo raccontano i Vangeli. La speranza di un amore che va oltre la morte, oltre le nostre fragilità, gli errori, le mancanze. La consapevolezza di condividere un destino che dovrebbe farci sentire responsabili gli uni degli altri e tutti del mondo. La perdita del potere politico, del riconoscimento sociale, della ricchezza potrebbe essere un beneficio piuttosto che una catastrofe, argomenta Chantal Delsol. Forse non deve essere la cristianità a lasciarci, ma potrebbero essere i cristiani ad abbandonarla rinunciando alla forza e all’ideologizzazione per tornare ad essere quello che devono essere: testimoni. «Non possiamo inventare un altro modo di essere se non quello dell’egemonia? La missione dev’essere necessariamente sinonimo di conquista?» E conclude: «Probabilmente sarebbe meglio se rimanessimo solamente dei testimoni silenziosi e, in fondo, degli agenti segreti di Dio».
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LA DIAGNOSI HAMLETICA DI SHAKESPEARE E LA DIALETTICA "NAPOLEONICA" DELLO SPIRITO DI HEGEL:
Nonostante Hegel sapesse che "The time is out of joint" (Shakespeare, "Hamlet", I.2), la visione COSMOTEANDRICA di Napoleone a cavallo a Jena (1806) in parte lo accecò e non poté più portarsi fuori dalla DIALETTICA della "strada di Damasco" (e "protestante" e "cattolica"). Con Amleto (e Marx), tuttavia non si può non ripetere: "Ben detto, vecchia talpa!" (I.5).
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, TECNOCRAZIA, E COSMOTEANDRIA: IL"NOVUM ORGANUM" (BACONE). L’ AVANZATA DEL GIGANTE, ormai, con i suoi stivali dalle sette leghe, è diventata inarrestabile: è un "golem-antico" progresso sulla strada aperta dal demiurgico sogno tragico dell’Accademia platonico-socratica, paolina, baconiana-hobbesiana, e schmittiana. "Il parto maschio del tempo ovvero la grande instaurazione del dominio dell’uomo sull’universo" è ormai a "buon" punto.
ANTROPOLOGIA, FILOLOGIA, RICERCA § INSEGNAMENTO: UNA QUESTIONE #HAMLETICA (DI SALUTE E SALVEZZA) EPOCALE.
Che cosa significa orientarsi nel pensiero...
«In verità si è soliti dire che un potere superiore può privarci della libertà di parlare o di scrivere, ma non di pensare. Ma quanto, e quanto correttamente penseremmo, se non pensassimo per così dire in comune con altri a cui comunichiamo i nostri pensieri, e che ci comunicano i loro? Quindi si può ben dire che quel potere esterno che strappa agli uomini la libertà di comunicare pubblicamente i loro pensieri li priva anche della libertà di pensare, cioè dell’unico tesoro rimastoci in mezzo a tutte le imposizioni sociali, il solo che ancora può consentirci di trovare rimedio ai mali di questa condizione». [...]" (I. KANT).
"SÀPERE AUDE!" (Immanuel Kant, Koenigsberg 1784).
Una nota per un "nuovo" orientamento nel pensiero e nella realtà.
SENSIBILITÀ E INTELLETTO, OGGI. Per dirla diversamente (generalizzando e utilizzando una "vecchia" idea di #Kant: "I concetti senza le intuizioni sono vuoti, le intuizioni senza concetti sono cieche"), "la ricerca ha bisogno per ampliare e trovare nuove soluzioni e per non esaurirsi, altrettanto, di un #insegnamento che sappia mantenere aperto il rapporto e il legame tra il sapere acquisito (i risultati delle ricerche compiute) e quello da acquisire proprio in rapporto alla ricerca relativa ai nuovi problemi e alle situazioni inedite. Senza un insegnamento vivo la ricerca muore, così come l’insegnamento senza ricerca viva: solo un circolo virtuoso rende possibile la vita all’uno e all’altra e, al contempo, permette di uscire dall’inferno epistemologico, impedisce di ri-cadere in un claustrofilico circolo vizioso, e, infine, apre la via alla nascita di un insegnamento e di una ricerca all’altezza dell’intera umanità e dell’intero Pianta Terra.
UNA "MONARCHIA" DI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E "IL SILENZIO DEI TEOLOGI" (PAOLO PRODI). PER NON PERDERE LA BUSSOLA DEFINITIVAMENTE, FORSE, DATA LA PORTATA DECISIVA DELLA QUESTIONE ANTROPOLOGICA SU TUTTE LE ALTRE PROBLEMATICHE DELLA INTERA SOCIETÀ, IN ANALOGIA, VALE LA PENA TENER CONTO DI UNA RIFLESSIONE DI PAOLO PRODI SUL RAPPORTO TEOLOGIA E POLITICA: "una politica laica ha bisogno per vivere anche di una teologia che faccia il suo mestiere". (cfr. P. Prodi, "Il silenzio dei teologi", l’Unità, 07.01.2007).
Sul tema, per eventuali approfondimenti, si cfr.:
KANT, FREUD, E LA BANALITA’ DEL MALE
fls
FILOLOGIA, ANTROPOLOGIA (CRISTOLOGIA), COSMOTEANDRIA, E STORIOGRAFIA.
"PARADISO PERDUTO" E SCOMPENSI EPOCALI DI CUORE: "SÀPERE AUDE!" (ORAZIO -> KANT).
CARDIOCENTRISMO, CARDIOPATIE, E MEDICINA. Forse, oggi, è proprio giunto il tempo di riprendere il filo e rievocare la memoria del giardino (paradiso perduto) e sollecitare un ripensamento della questione antropologica (della cristologia e del "corpus domini", del "corpo del signore" - ateo e/o devoto).
Se è vero. come è vero da sempre, che il cuore è l’organo dell’intelligenza spirituale, dell’intelligenza-che-ama o intelletto d’amore e, come ha chiarito Dante, è l’amore ("CHARITAS") che muove il sole e le altre stelle, non è ora di uscire dal letargo (Pd. XXXIII, 94), e rendere praticabile il cammino ad ogni essere umano (cristo- logica-mente, non "paolinamente") sì che ognuno e ognuna, "dal suo proprio grembo [ἐκ τῆς κοιλίας αὐτοῦ]", possa far sgorgare "fiumi di acqua viva" (Gv 7, 38-39)?! E, finalmente, ammirare il sorgere della Terra , "della Terra, il brillante colore"?
P. S. - DANTE, MILTON, E FREUD. Alla fidanzata Martha, il 7 agosto 1882, Sigmund Freud scrive che, nel "Paradiso perduto" (John Milton, 1667), «ancora di recente, in un momento in cui non mi sono sentito sicuro del tuo amore, ho trovato consolazione e conforto».
Federico La Sala
FILOLOGIA FILOSOFIA PSICOANALISI
"ABBRACCIATEVI, MOLTITUDINI" (F. SCHILLER, "INNO ALLA GIOIA", 1785): "INTERPRETAZIONE DEI SOGNI" (S. FREUD, 1899) DEI NIPOTINI E DELLE NIPOTINE DI PLATONE...
«Che cos’è, o uomini ["anthropoi"], che volete ottenere l’uno dall’altro? [...] Forse è questo che volete: diventare la medesima cosa l’uno con l’altro, in modo che non vi dobbiate lasciare né giorno, né notte? Se è questo che desiderate, io voglio fondervi e unirvi insieme nella medesima cosa, in modo che diventiate da #due che siete #uno solo, e finché vivrete, in quanto venite ad essere in questo modo uno solo viviate insieme la vita, e quando morirete, anche laggiù nell’Ade, invece di due siate ancora uno, uniti insieme anche nella morte. Orsù vedete se è questo che volete e se vi farebbe lieti ottenerlo...» (Platone, "Simposio", 192 d-e)
PLATONISMO E TECNOCRAZIA. Dopo interi millenni di letargo, non è meglio svegliarsi e capire che l’intenzione di "Platone" (e di Efesto) è pure lodevole, ma molto, molto artigianale (demiurgica), il suo amore è avido e cieco (Cupìdo) e il suo fare "di due che siete uno solo" sembra voler correggere la divisione fatta da Zeus, ma alla fine fa tutto all’incontrario e fa solo un campo di sterminio, un deserto. All’altezza del 2023, come scriveva Nietzsche, siamo ancora ignoti a noi (stessi e stesse).
MATEMATICA E ANTROPOLOGIA. Forse conviene riprendere il filo da ELEUSI (quest’anno è una delle capitali europee della cultura: Eleusis2023) e cercare di capire il segreto dei misteri eleusini, come nascono i bambini, e, finalmente, scoprire (immergendosi, battesimalmente, nel) l’acqua calda, che ognuno e ognuna è già uno, una, in due; ripartire da sé e riprendere il cammino: "Sàpere aude! (Kant, 1784 - Michel Foucault, 1984). Ricominciare a contare da due, non da uno (dei due, che fa il furbo): "un uomo più una donna ha prodotto, per secoli, un uomo" (Franca Ongaro Basaglia). In principio era il Logos - non il logo di una "fattoria degli animali"!
Sotto gli occhi dell’Agnello
“L’uomo secolare non sa cosa pensare”, scrive Calasso all’inizio di Sotto gli occhi dell’agnello, libro postumo, non so se più sorprendente o più incandescente. Non sa pensare rispetto alle molteplici denominazioni elaborate dalle varie religioni per indicare il divino, cioè il senso ultimo del mondo. In realtà però Calasso, riflettendo sull’Apocalisse e sul Polittico di Gand che riprende la figura dell’Agnello mistico, seppe bene cosa pensare e chiunque legge queste sue pagine solenni e severe è indotto a farlo a sua volta.
Apocalisse letteralmente significa “rivelazione”, prima ancora “smascheramento” (il significato base di apokalupto è “denudare”). Qual è lo smascheramento operato dall’Apocalisse? Leggendo gli alti e allusivi pensieri di Calasso si può individuare al riguardo un triplice processo.
Dapprima vi è lo smascheramento della Storia e della sua logica dominatrice, il Potere. Nell’Apocalisse c’è un termine che compare spesso (38 volte ricorda Calasso), theríon, bestia: “Theríon è il Grande Predatore... se riaffiora dalla terra, si torna vicini all’origine - o alla fine”. Nei secoli passati furono in molti a rintracciare il Grande Predatore in questo o quel tiranno e anche oggi qualcuno lo potrebbe identificare con chi comanda al Cremlino. Ma ben più che identificarsi in un uomo, esso simboleggia una logica: theríon cioè rimanda a una teoria, al segreto con cui acquisire e mantenere il potere, segreto che consiste nell’oppressione, fino allo sgozzamento, degli innocenti. Nella violenza ...
Dopo la Storia, è la volta della Natura. L’Apocalisse afferma che l’Agnello viene immolato apò katabolês kósmou (13,8), espressione che dalle versioni bibliche più autorevoli (tra cui Vulgata, Lutero, King James) viene intesa in senso temporale e causale: “immolato fin dalla creazione del mondo”, “immolato a causa della creazione del mondo”. Perché il mondo possa esserci l’Agnello deve morire. Perché? Come spiegare il legame tra uccisione dell’Agnello e creazione? Calasso pone la domanda che egli stesso definisce “ultima”: “Chi lo sgozza?”. Ricorda che l’Agnello è prefigurato da Abele, prima vittima della storia; poi dal Servo di Isaia che è “come agnello condotto al macello”; infine trova compimento in Gesù, indicato dal Battista come “l’Agnello di Dio che toglie il peccato del mondo”, l’Agnus Dei della liturgia. Ma Calasso non si ferma alle prefigurazioni e pone la questione di chi volle lo sgozzamento dell’Agnello fin dall’inizio del mondo e la sua risposta è: “Yahwé ha voluto che l’agnello venisse anche ucciso. Altrimenti la macchina del mondo non si sarebbe messa in moto”. Il carburante della macchina del mondo è il sangue innocente, perché la vita si nutre di vita producendo inevitabilmente morte: ecco il secondo svelamento. Capendo questo, avvertendone il peso oppressivo fino a sentirsi colpevoli per il solo fatto di esistere, si può giungere a non sopportare più la vita e a voler “restituire il biglietto”, per riprendere l’espressione posta da Dostoevskij sulle labbra di Ivan Karamazov. È quanto fecero Carlo Michelstaedter, Cesare Pavese, Guido Morselli, Alexander Langer, per fare solo alcuni nomi tra i molti spiriti sensibili che si tolsero la vita non potendo più sopportare di vivere “sotto gli occhi dell’Agnello”.
Il terzo smascheramento non è voluto dall’autore dell’Apocalisse ma è colto con acutezza da Calasso e riguarda il cristianesimo e il suo destino. Se è vero infatti che la Bestia sarà sconfitta, lo sarà con le sue stesse armi: la violenza e la guerra. È quindi impossibile non chiedersi: si tratta veramente di vittoria dell’Agnello o è piuttosto la sua definitiva sconfitta? Se l’Agnello per vincere deve ricorrere ai metodi del Drago, non è diventato egli stesso Drago? Calasso sostiene di sì, scrive che l’Apocalisse è “antitetica a ogni parola di Gesù” e che, collocata a conclusione del Nuovo Testamento, lo ha “sfigurato”. Conclude quindi che l’Apocalisse (da lui definita “libro di vendetta”, che “ignora i dubbi”, il cui autore “era un uomo astioso”, la cui lingua grezza è “un’offesa al greco”) è “l’autodistruzione del cristianesimo”.
È davvero così, l’Apocalisse è un tradimento del messaggio di Gesù? Sì, ma con questo opera un ulteriore smascheramento che riguarda proprio Gesù, su cui Calasso non si sofferma ma che a me preme chiarire. Gesù era convinto che il mondo sarebbe stato presto visitato da un evento che l’avrebbe radicalmente cambiato rendendolo di nuovo dominio di Dio e non più di Satana da lui chiamato “il principe di questo mondo”: annunciando l’imminente venuta del regno di Dio, Gesù aveva in mente questa totale trasformazione della storia. Il mondo però ha proseguito incurante il suo cammino continuando a esigere l’immolazione di tanti altri agnelli indifesi, dopo di lui. Con la sua violenza l’Apocalisse tradisce il messaggio di Gesù ma ne svela al contempo l’infondatezza storica e l’impraticabilità concreta. Il risultato di tale aporia si manifesta nel modo più evidente ai nostri giorni nella mente dell’uomo secolare, che per questo, ormai, “non sa cosa pensare”.
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Religioni e civiltà.
Il silenzio degli agnelli
L’autore dedicò le sue ultime riflessioni all’animale che rappresenta la potenza del sacrificio di Cristo. Spiegato attraverso il contrasto con i temi e i toni dell’Apocalisse
di Antonio Gnoli (la Repubblica, 14 Aprile 2022)
Il libro Sotto gli occhi dell’Agnello di Roberto Calasso (Adelphi, pagg. 107, euro 13)
Nelle ultime settimane che gli restavano Roberto Calasso rilesse l’Apocalisse. Quel testo, chiuso tra catastrofe e rivelazione, gli si rivelò in una forma inaspettata. Lesse quelle pagine, spesso oscure, immaginifiche, terrificanti avendo negli occhi l’immagine nitida e folgorante del Polittico di Gand, un dipinto, oggi diremmo hollywoodiano, di scene sacre di Jan van Eyck (con la collaborazione del fratello Hubert). Al centro vi è la figura dell’agnello, l’animale più mite e misterioso che l’iconografia religiosa ci abbia consegnato. Tanto da suggerire a Calasso il titolo del nuovo libro: Sotto gli occhi dell’Agnello.
Cosa intercetta l’autore in quello sguardo che improvvisamente diviene imprescindibile per la storia che sta per raccontare? La prima cosa che mi è venuta in mente è La finestra sul cortile di Alfred Hitchcock. Non perché la relazione sia immediata, ma perché, molti anni prima, dedicando alcune pagine al film di Hitchcock e ai Veda, Calasso rimarcava la centralità dell’occhio del fotografo, interpretato da James Stewart. Con questa differenza: l’occhio dell’Agnello mistico, cioè del Cristo, sembra osservarci con sovrana e remota indifferenza, indotta da un cristianesimo che ha tradito le aspettative e si è ridotto a uno stanco rituale liturgico. Mentre lo sguardo "immobile" del fotografo inviterebbe (nella lettura di Calasso) a uscire dal cristianesimo, per incrociare quel mondo vedico le cui dottrine aprono varchi interessanti nell’Occidente ampiamente secolarizzato.
Ad alcuni potrà risultare arbitrario il passaggio fulmineo dalla dottrina vedantica a Hitchcock. Ma nel ridisegnare - con la sua opera - il grande affresco delle civiltà, e le relative religioni che lo sostengono, Calasso forza i confini spazio-temporali e rigetta la concezione lineare della storia. Credo che una tale impostazione valga anche per la lettura dell’Apocalisse, per il modo diretto e spiazzante con cui interviene sulle cesure e le articolazioni del testo. Fino a farne la chiave (o almeno una delle chiavi) per comprendere il nostro debole e rinunciatario rapporto con il sacro. Niente di quello che i numerosi commenti hanno offerto, tra l’allegorico e il liturgico, si ritrova qui. Volutamente si ignora la tenace fortuna che il testo avrà nei secoli, fino a imporsi come il "Libro" al quale ricorrere ogni qualvolta un mondo, una civiltà, una storia sembrano destinati al dissolvimento e alla distruzione (quanto cinema e quanta letteratura si sono nutriti dei suoi effetti speciali e terrificanti!).
Movimenti millenaristici di ogni epoca e latitudine hanno interpretato l’Apocalisse come se quei fatti che vi sono raccontati fossero veri. Come se davvero Dio abbia stabilito un inizio traumatico (la caduta) e una fine contraddistinta dal trionfo e dalla salvezza dei giusti.
La lettura di Calasso si discosta dalla visione escatologica e rigetta l’idea che il testo di Giovanni (o più probabilmente di qualche allievo) sia la prosecuzione e il compimento dei Vangeli. Al contrario, come già sospettava Lutero, ne rappresenta la rottura. Il messaggio che l’Apocalisse diffonde sarebbe dunque il tentativo del cristianesimo di autodistruggersi. Ma perché mai una religione ancora giovane, erede della tensione giudaica e già proiettata a riscriverne la visione, compirebbe un gesto così autolesionistico? Cosa nasconde e poi rivela quel testo che sembra scritto da un dinamitardo?
Nell’Apocalisse cristiana - diversamente da quella giudaica - il Messia è giunto. La sua presenza nel mondo, descritta dalla dolcezza dei Vangeli, non ha tuttavia prodotto i risultati sperati. Egli ha fallito il compito di far coincidere il cambiamento annunciato con il trionfo della salvezza. Precarietà e delusione circolano nelle prime comunità cristiane. Gesù stesso è consapevole che il nuovo che comincia a farsi imperiosamente strada sta prendendo una direzione sbagliata. Invoca un successore, un altro messia, un "consolatore" in grado di rimettere l’umanità sulla retta via.
Ma dov’è un successore che sappia portare a termine il compito escatologico? Dal ruggito dell’Apocalisse si può dedurre solo che un essere molto potente in grado di domare il nuovo stia arrivando: "Quel demone del nuovo che usualmente viene attribuito al mondo secolare e alla scienza che lo innerva ha un’origine cristiana o più precisamente paolina".
Paolo prepara il futuro al culto della novità, ne sposa i segni della rivoluzione più che della rivelazione. È il depositario di una sapere antico e di un ordine nuovo. Fornito di un pensiero militante, si pone alla testa di una rivoluzione che nel nome della novitas liquida l’intero mondo antico: "Nessun Lenin del futuro avrebbe saputo parlare (e agire) con altrettanta concisione e vigore", commenta con lieve sarcasmo l’autore. Il nuovo che avanza travolgente non ha più bisogno del cosmo e delle sue storie. E se, per avventura, fa appello a qualcosa di remoto, tende a sfigurarlo e a tradirne la legittimità.
Sotto gli occhi dell’Agnello prende spunto da un’immagine potente dove la distanza dello sguardo animale sembra ignorare che qualcuno l’ha trafitto e che una lunga storia sacra - cominciata prima di Abele e giunta fino a Gesù - lo riguarda. Davanti a quella immagine si può solo constatare che senza quel sacrificio la potente macchina del mondo non si sarebbe più messa in moto. Ma le scritture non dicono a quale folle velocità essa è lanciata. Niente prefigura davvero cosa accade dopo che "l’innominabile attuale", sotto il cui segno il nuovo agisce, ha preso il sopravvento.
Sotto gli occhi dell’Agnello non appartiene all’oggi, ma al passato che convive col domani. Alcuni versi dell’Apocalisse sigillano il finale, ma l’autore li fa precedere da un preciso richiamo al senso intimo, starei per dire sacro, del leggere: quasi un’identificazione genetica tra chi scrive e l’idea stessa del libro: "Leggere è qualcosa che si misura con le potenze del mondo".
Cosa c’è di più commovente e rischioso di questa frase? Che cosa può frenare il dissolversi dell’esperienza artistica e religiosa se non il libro? Per tutta la vita Roberto Calasso ha cercato di dare un nome, o meglio ancora un libro, all’innominabile attuale. Quel libro - dove poter ammassare, avrebbe detto Baudelaire, le proprie collere - non è il mondo, così come l’Apocalisse non ne è la fine. È una grande finestra spalancata sul fluire della vita e sulle decisioni da prendere anche quando è giunto il tempo di congedarsi. Un tempo non già scandito dalla rassegnazione ma dallo scegliere da che parte stare, perché le battaglie celesti non finiscono mai.
L’AMORE UNIVERSALE E UN’APPROPRIAZIONE INDEBITA: LA MEMORIA DI MOSÈ E IL CAMMINO DI SIGMUND FREUD
PSICOANALISI CATTOLICESIMO E "DISAGIO NELLA CIVILTÀ" ("Das Unbehagen in der Kultur"). Un’appropriazione indebita dell’amore universale e "L’infelicità nella civiltà" ("Das Ungluck in der Kultur"):
"[...] Poi che l’apostolo Paolo ebbe posto l’amore universale tra gli uomini a fondamento della sua comunità critiana, era inevitabile sorgesse l’estrema intolleranza della Cristianità contro coloro che rimanevano al di fuori; i Romani, che non avevano fondato la loro collettività statale sull’amore, non conobbero l’intolleranza religiosa, benché per loro la religione fosse un affare di Stato e lo stato fosse imbevuto di religione. Non fu un puro caso che il sogno germanico del dominio del mondo facesse appello all’antisemitismo come a suo complemento, e non è inconcepibile che il tentativo di stabilire una nuova civiltà comunista in Russia trovi il suo sostegno psicologico nella persecuzione della borghesia. Ci si chiede soltanto, con apprensione, che cosa si metteranno a fare i Sovieti, dopo che avranno sterminato la loro borghesia [...]".
“[...] mi manca il coraggio di erigermi a profeta di fronte ai miei simili e accetto il rimprovero di non saper portare loro nessuna consolazione, perché in fondo questo è ciò che tutti chiedono, i più fieri rivoluzionari non meno appassionatamente dei più virtuosi credenti. Il problema fondamentale del destino della specie umana a me sembra sia questo: se, e fino a che punto, l’evoluzione civile riuscirà a padroneggiare i turbamenti della vita collettiva provocati dalla pulsione aggressiva e auto distruttrice degli uomini. In questo aspetto proprio il tempo presentemerita forse particolare interesse. Gli uomini adesso hanno esteso talmente il proprio potere sulle forze naturali, che giovandosi di esse sarebbe facile sterminarsi a vicenda fino all’ultimo uomo. Lo sanno, donde buona parte della loro presente inquietudine, infelicità, apprensione. E ora c’è da aspettarsi che l’altra delle due potenze celesti, l’Eros eterno farà uno sforzo per affermarsi nella lotta contro il suo avversario parimenti immortale. Ma chi può prevedere se avrà successo e quale sarà l’esito?”(#SigmundFreud, "Il disagio della civiltà", 1929).
Per "orientarsi nel pensiero" (Kant), rileggere le note di Franca Ongaro Basaglia su "Così parlò Edipo a Cuernavaca" ("PM-Panorama Mese", novembre 1982) e ricordare il legame della "Interpretazione dei Sogni" (1900) con l’Eneide (VII, 312: "Flectere si nequeo Superos, Acheronta movebo") di Virgilio e "L’uomo Mosè e la religione monoteistica"(1938) con il tema dell’«In exitu Isräel de Aegypto» della Divina Commedia (Pg. II, 46-48) di Dante Alighieri.
Federico La Sala
UNA "GALLERIA DI PAPI", LA "DONAZIONE DI COSTANTINO", E "IL GRANDE ROMANZO DEI PAPI" ... *
“Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro” di Riccardo Ferrigato. Intervista ...
di Letture*
Dott. Riccardo Ferrigato, Lei è autore del libro Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro edito da Newton Compton: in che modo la storia dell’umanità si è intrecciata con quella millenaria di una delle più influenti istituzioni che l’umanità abbia creato, il papato?
Il grande romanzo dei papi. La storia della Santa Sede attraverso le vite dei successori di san Pietro, Riccardo FerrigatoFare riferimento alla “storia dell’umanità” è forse eccessivo, ma di certo il papato è stato elemento di notevole influenza per la storia europea e, in maniera più limitata e differenziata, per quella di alcune aree extraeuropee in cui il cattolicesimo ha avuto una significativa diffusione. In che modo lo ha fatto? Secondo registri completamente differenti, cioè mutando, modificandosi, adeguandosi ai tempi: non credo sia possibile che un’istituzione sopravviva altrimenti per un così lungo periodo.
Il vescovo di Roma ha maturato nei secoli, per gradi, un ruolo preminente all’interno della Chiesa - ruolo che, almeno nel primo millennio della sua storia, era tutt’altro che incontestato - e contemporaneamente ha giocato un ruolo politico in continuo divenire, con fasi di crescita e altre di declino, guadagnando il proprio spazio di manovra tra imperi, regni e repubbliche. Difficile sintetizzare in poche righe la parabola di questo percorso, ma direi così: finché il potere politico di un re o un imperatore ha avuto bisogno di giustificare la propria autorità attraverso il trascendente, il papa è stato un riferimento indispensabile. Questo, in realtà, ha determinato spesso la sottomissione della cattedra di Pietro ai bisogni di questa o quella corona, ma anche la crescita, lasciando persino spazio al sogno, mai realizzato, di mettere il vicario di Cristo al vertice dell’intero occidente.
In che modo da un modesto pescatore di Galilea si è giunti a fare del vescovo di Roma un monarca?
Il pescatore di Galilea, Pietro, primo tra gli apostoli di Gesù di Nazaret, non immaginava una chiesa strutturata in maniera verticista, probabilmente non pensava a figure assimilabili a quelle dei vescovi e lontanissima da lui era l’idea di una singola persona a capo di tutti i cristiani. Da ebreo qual era, immaginava piuttosto i fedeli riuniti secondo le modalità con cui la religione del suo popolo si organizzava da sempre, in piccole comunità collegate ma indipendenti, pronte all’imminente parusia, la venuta di Gesù alla fine dei tempi. Figuriamoci se può mai aver immaginato un vescovo che diviene monarca, cioè che assume su di sé anche un potere temporale!
In estrema sintesi, questo è stato possibile grazie a tre passaggi. Il primo è stato frutto dell’azione di Costantino, che ha dato alla chiesa una struttura affine a quella del potere imperiale, affiancando alle strutture di governo civile quelle ecclesiastiche. In secondo luogo, con la caduta dell’impero romano d’Occidente, la chiesa ha rafforzato la propria funzione politica, con i vescovi, a Roma e altrove, che divennero custodi - si pensi a Leone e Gregorio Magno - dei propri territori di influenza. Infine, l’alleanza con i Franchi di Pipino il Breve: nell’VIII secolo questo sovrano in cerca di una sacra investitura (Pipino non era re per diritto di nascita) conquistò al papa i territori di quello che divenne lo Stato della Chiesa. Di fatto Pipino e Stefano II, il papa dell’epoca, si legittimarono sul trono a vicenda.
Come è stato possibile che santi e martiri abbiano condiviso il medesimo scranno dei dissoluti papi del Rinascimento?
I papi sono stati 266 e questa gran massa di uomini rappresenta un completo campionario dell’animo umano: ogni passione - ma anche ogni vizio, ogni virtù - è stata incarnata. D’altra parte la cattedra di Pietro è un luogo di potere e il potere ha un effetto determinante sugli esseri umani, ne porta alla luce e ne inasprisce i tratti dell’animo.
La maggior parte degli uomini e delle donne possono permettersi di trascorrere una vita all’insegna di una tranquilla mediocritas: né troppo buoni né troppo malvagi, non ci è richiesto di dimostrare grande coraggio o eccezionali doti. Per un sovrano è diverso: nessuna via di mezzo per chi porta la corona, egli sarà vile o temperante, magnanimo o malvagio, perché il potere nelle sue mani è determinante per la vita o la morte di comunità intere.
Nel caso specifico del pontefice, poi, la tensione tra il potere politico e quello spirituale ha determinato spesso una vera iattura. Di norma ci riferiamo ai papi dissoluti del Rinascimento come a coloro che hanno umiliato la cattedra di Pietro - concubinari, nepotisti, festaioli, rivestiti di pietre e tessuti preziosi - ma alcuni di loro, con trame e strategie raffinate, hanno salvato la Chiesa del loro tempo. Al contrario, sant’uomini e personaggi di specchiata moralità, poiché sprovvisti di astuzia politica, hanno talvolta determinato la rovina dell’istituzione di cui erano a capo. Essere insieme re e sommi sacerdoti è come essere servi di due padroni e raccapezzarcisi non è semplice. Per questo Paolo VI poté dichiarare che era stata la Divina provvidenza, nel 1870, a togliere al papa l’incombenza di una corona da sovrano.
Quali sono state le figure di pontefici che maggiormente hanno inciso sulla storia del papato? La lista sarebbe lunghissima e, alla fine, non potrebbe risultare esaustiva. Tante e tali sono le rivoluzioni in questa storia di venti secoli, e tanti i frangenti sui quali un pontefice risulta determinante, che classifiche del genere sono davvero impossibili. In tempi recenti, però, non c’è alcun dubbio: la vera rivoluzione è stata quella di Giovanni XXIII e Paolo VI, grazie al coraggio del primo - quello di inaugurare un concilio, un vero concilio, aperto alla discussione e senza esiti predeterminati - e alla tenacia del secondo, che quell’assemblea ha condotto felicemente in porto. Un esito tutt’altro che scontato. Si tratta di una vicenda esemplare di come due pastori profondamente diversi per temperamento, per estrazione sociale, per esperienze pregresse, uniti quasi solo dalle comuni radici lombarde, abbiano governato la Chiesa con stili diversi, ma siano stati capaci di guardare nella medesima direzione. Purtroppo, però, il modello di una Chiesa maggiormente assembleare si è dovuto poi scontrare con un pontificato, quello di Giovanni Paolo II, fortemente accentratore. La Chiesa è così: si muove lentamente e, anche se talvolta subisce accelerazioni improvvise, la resistenza al cambiamento - la resilienza delle sue strutture secolari - rimane uno dei suoi caratteri distintivi.
Come è destinata a cambiare nel futuro, a Suo avviso, questa istituzione?
Previsioni di questo genere sono destinate a rivelarsi sempre inaccurate e, nel caso della Chiesa cattolica, è particolarmente difficile districarsi tra le tante correnti che spingono la barca di Pietro in diverse direzioni. Inoltre, la Chiesa è una struttura gerarchica, verticista, dove ogni cambio di pontefice può generare rivolgimenti prima impensati, tanto quanto le reazioni conseguenti. Bergoglio ha dato un’impronta, in questi anni, ma nessuno garantisce che il successore vorrà seguire il suo stesso percorso.
Su almeno un punto, però, la direzione è chiara poiché si tratta di un cambiamento ormai duraturo e inarrestabile: la Chiesa sta divenendo sempre più “cattolica”, vale a dire universale. Paesi un tempo marginali oggi guadagnano di importanza; cattedre vescovili prima considerate irrilevanti oggi si fanno centrali, mentre da decenni si parla di un’Europa scristianizzata. La Chiesa, da questo punto di vista, sta mutando lentamente ma inesorabilmente e anche il papato ne risentirà. Se si vuole un metro di giudizio, basti pensare a coloro che oggi entrerebbero in un immaginario conclave. Gli arcivescovi di città come Milano o Parigi rimarrebbero nei loro palazzi, dato che non sono cardinali; lo sono invece quelli di Kigali, in Ruanda, o di Bangui nella Repubblica centrafricana. E questi sono solo alcuni dei tanti che potrei riportare.
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Fonte: Letture.org
NOTE:
A) - [LA "GALLERIA DEI PAPI"]: CELEBRANDOSI #OGGI [10.11.2020] LA FIGURA DI PAPA #LEONEMAGNO (https://it.wikipedia.org/wiki/Incontro_di_Leone_Magno_con_Attila ), SUL FILO DELLA #MEMORIA DI #RAFFAELLO E #GIULIOII, è BENE RICORDARE DI FARE QUANTO PRIMA UNA VISITA ALLA #GALLERIADEIPAPI DI #PALAZZOALTIERI AD #ORIOLOROMANO...
B) - #Rinascimento e #filologia:"#Erasmo non ha ancora scritto il suo #Elogiodellafollia [pubblicato nel 1511], #Lutero non ha ancora affisso le sue #tesi" [rese pubbliche nel 1517], #AntonioFerrariis, il #Galateo, dona nel 1510 a #GiulioII un esemplare greco della #DonazionediCostantino.
C) - #DANTE2021 #RINASCIMENTO #OGGI. Svegliarsi dal #sonnodogmatico, accogliere l’analisi di #LorenzoValla (https://it.wikipedia.org/wiki/Donazione_di_Costantino) e l’indicazione antropologico-politica dei #DueSoli
Federico La Sala
PLATONE, KANT, E I SOGNI DI UN VISIONARIO....
Il Bene e il conveniente sono ciò che lega e tiene insieme l’universo. Platone (Tweet Filosofici)
Ma perché questa #idea, questa #novella (il "#Bene...tiene insieme l’#universo") possa essere e intendersi come una novella-buona, è necessario #verificare se non è una #FakeNews: se no, la #buona-novella (εὐ-αγγέλιον) può #velare il contrario, che #Tutto "Va-(i)n-gelo"! O no?! (Federico La Sala)
fls
Papa Francesco: non valido battesimo con formula ’noi battezziamo’
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti
di Redazione ANSA *
CITTA DEL VATICANO.
La Congregazione per la Dottrina della Fede interviene dunque per fermare la ’creatività’ di alcuni sacerdoti che cambiano le formule dei riti dei sacramenti pensando di migliorarle.
"Recentemente vi sono state celebrazioni del Sacramento del Battesimo amministrato con le parole: ’A nome del papà e della mamma, del padrino e della madrina, dei nonni, dei familiari, degli amici, a nome della comunità noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’. A quanto sembra, la deliberata modifica della formula sacramentale - riferisce la Congregazione per la Dottrina della Fede - è stata introdotta per sottolineare il valore comunitario del Battesimo, per esprimere la partecipazione della famiglia e dei presenti e per evitare l’idea della concentrazione di un potere sacrale nel sacerdote a discapito dei genitori e della comunità".
Ma l’"io", che il sacerdote deve pronunciare ha un valore dottrinale ben preciso: "segno-presenza dell’azione stessa di Cristo". "Nel caso specifico del Sacramento del Battesimo, il ministro non solo non ha l’autorità di disporre a suo piacimento della formula sacramentale, per i motivi di natura cristologica ed ecclesiologica sopra esposti, ma non può nemmeno dichiarare di agire a nome dei genitori, dei padrini, dei familiari o degli amici, e nemmeno a nome della stessa assemblea radunata per la celebrazione", spiega la Congregazione per la Dottrina della Fede.
Ora si apre la questione dei battesimi celebrati con questo rito errato. Al quesito "Coloro per i quali è stato celebrato il Battesimo con la suddetta formula devono essere battezzati in forma assoluta?", la risposta del Vaticano è: "affermativamente". "Negativamente" è la risposta che si dà al quesito principale: "È valido il Battesimo conferito con la formula: ’Noi ti battezziamo nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo’?".
In pratica i battesimi con la formula ’noi’ è come se non fossero mai stati fatti. Anche se comunque nel Catechismo della Chiesa Cattolica - secondo quanto spiegato da esperti in Vaticano - potrebbe trovarsi una via d’uscita per evitare il ’ripetersi’ del sacramento. Anche perché senza il Battesimo, a cascata non sono validi neanche gli altri sacramenti, dalla Cresima alla Comunione, dal Matrimonio alla Confessione. Nel Catechismo si stabilisce infatti che "Dio ha legato la salvezza al sacramento del Battesimo, tuttavia egli non è legato ai suoi sacramenti". Sempre nel Catechismo ci sono aperture per i non battezzati: "Ogni uomo che, pur ignorando il Vangelo di Cristo e la sua Chiesa, cerca la verità e compie la volontà di Dio come la conosce, può essere salvato". (ANSA).
DOPO I “VENTICINQUE SECOLI” DI DANTE, I "TREMILA ANNI" DI GOETHE, E I "MILLE ANNI DOPO DAVIDE E GIONATA" .. *
Idee.
Se gli amici fanno le ali della storia
La philia e l’eros dell’antica Grecia acquistano una diversa ricchezza di significato alla luce dell’agape evangelica. Il libro di Pietro Del Soldà
di Luigino Bruni (Avvenire, giovedì 9 aprile 2020)
Uno degli effetti collaterali del covid19 è la ri-scoperta (o scoperta) della semantica dell’amicizia. Ci stiamo abituando a lezioni online, riunioni di lavoro via zoom, videochiamate, tesi di laurea online con il vestito buono e applauso dei genitori commossi e nascosti dietro la camera; ma ogni volta che terminiamo queste sessioni telematiche ci nasce, troppo spesso, una forte nostalgia per i nostri studenti, per i colleghi, per genitori e amici, per il bar dove andavamo per “consumare” prima la chiacchierata poi il caffé. Gli incontri che stanno continuando ad accadere in questa lunga quarantena non sono solo semplicemente incontri “virtuali” (parola che morirà con la fine della pandemia), sono comunque incontri ai quali mancano alcune dimensioni fondamentali, e tra queste il corpo. Ci sono voluti migliaia di anni per imparare a stare vicini a meno di un metro di distanza, a dare la mano allo sconosciuto per dirgli che su quella mano non c’era un pugnale, e poi ad abbracciare e baciare gli amici.
Ci sono voluti troppi millenni per apprendere l’arte delle distanze brevi per poter pensare di poterle dimenticare in pochi mesi. L’amicizia è l’arte delle distanze brevi. Distanze affettive, ma anche distanze fisiche, geografiche, spaziali. Perché se i verbi dell’amicizia sono quelli del tempo (fedeltà, durata, resilienza), anche i tempi dello spazio sono importanti: se non si va dall’amico o l’amicizia si è indebolita o c’è un ostacolo all’incontro o c’è solo un grande desiderio, come quello immenso che sta crescendo giorno dopo giorno. E mentre le distanze tra di noi sono cresciute, la lotta col virus si gioca sulla capacità di cura di medici e infermieri, che è anche talento delle mani, che devono toccare senza contaminare e contaminarsi.
L’ambivalenza della vita, la danza di communitas e immunitas, che ogni tanto diventa danza macabra. L’amore è uno, ma gli amori sono molti. Amiamo molte persone e molte cose, siamo amati da molti e in modi diversi. Amiamo i genitori, i figli, le fidanzate, le mogli e i mariti, fratelli e sorelle, maestre, colleghi, nonni e cugini, poeti e artisti. E amiamo, moltissimo, gli amici e le amiche.
Il mondo greco per dire amore aveva due parole principali, eros e philia, due parole che non esaurivano le molte forme dell’amore ma che offrivano un registro semantico più ricco del nostro per declinare questa parola fondamentale della vita. Un lessico che era capace di distinguere il «ti voglio bene» detto alla donna amata dal «ti voglio bene detto» detto a un amico, e allo stesso tempo riconoscere che erano anche uguali. Il cristianesimo, poi, ha aggiunto una terza parola greca per dire un’altra tonalità dello stesso amore, un tono già presente nella Bibbia ebraica e, soprattutto, già presente nella vita.
Questa terza, stupenda, parola è agape, l’amore che sa amare chi non è desiderabile e il non-amico. Il cristianesimo non ha inventato l’agape lo ha semplicemente visto ed esaltato. Tre dimensioni dell’amore che, spesso, si trovano insieme nei rapporti veri e importanti. Certamente sono tutti presenti nell’amicizia, che non è solo philia. Non dobbiamo, infatti, commettere l’errore di pensare che l’amicizia sia espressa dalla sola parola philia. No. Perché anche nel mondo greco la philia non è mai sola, è la philia la prima ad avere bisogno di amici.
La philia è sempre accompagnata dal desiderio-passione per l’amico ed è irrorata dall’agape che le consente di poter risorgere da fallimenti e fragilità. La philia poi lega l’eros e l’agape tra di loro e li affratella. In quelle pochissime amicizie che ci accompagnano per lunghi tratti di vita, a volte fino alla fine, la philia racchiude in sé anche i colori e i sapori dell’eros e dell’agape. Sono quegli amici che abbiamo abbracciato, baciato come e diversamente da altri abbracci e da altri baci. Pochi dolori sono più grandi di quello per la morte di un amico - in quel giorno, un pezzo di cuore smette di battere. Non c’è soltanto una lotta radicale tra eros e tanatos; ce n’è un’altra, simile e diversa, tra philia e tanatos.
Il bel libro di Pietro del Soldà, noto conduttore di Radio3 e filosofo, dal titolo suggestivo Sulle ali degli amici. Una filosofia dell’incontro (Marsilio, pagine 152, euro 16), ci offre una occasione propizia per riflettere, oggi, sull’amicizia. Del Soldà lo fa a partire dalla filosofia e dal mondo greco. Questa mia pagina lo fa prendendo le mosse dalla Bibbia, una seconda radice profonda dell’Umanesimo occidentale. La Bibbia non parla molto di amicizia. Ma ne parla, e in alcuni libri le ha dato un posto centrale.
A partire dall’Adam, l’essere umano, che è anche amico di Dio, prima di essere amico della donna e degli altri uomini. E non certamente a caso in uno degli ultimi episodi dell’ultimo vangelo, quello di Giovanni, troviamo un bellissimo dialogo sull’amicizia: «Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [agape]? - Sì, Signore, ti amo [philia]. Pietro, tu mi ami [philia]?» ( Vangelo di Giovanni 21,15-17). Un gioco di parole e di verbi che si perde nelle lingue moderne, ma chiarissimo nell’originale greco.
Il libro di Giobbe, ad esempio, è composto essenzialmente di dialoghi con i suoi amici: «Tre amici di Giobbe vennero a sapere di tutte le disgrazie che si erano abbattute su di lui. Partirono, ciascuno dalla sua contrada, Elifaz di Teman, Bildad di Suach e Sofar di Naamà, e si accordarono per andare a condividere il suo dolore e a consolarlo. Levarono la loro voce e si misero a piangere » (Giobbe 2,11-12).
Dal contesto si capisce che questi uomini che si recano presso il mucchio di letame di Giobbe siano amici veri: vengono a sapere della sua sventura, lo vanno a trovare, siedono e piangono con lui. Ma lo sviluppo dei dialoghi di Giobbe ci mostrerà che quei quattro uomini che lo vanno a trovare non sono, in realtà, amici di Giobbe ma difensori di astratte teologie che si riveleranno nemiche dell’uomo e di quel Dio che volevano difendere. Le grandi prove della vita sono anche test che distinguono il grano degli amici dalla zizzania dei finti amici. Ecco perché tra i canti più belli di Giobbe c’è una un’amara e stupenda riflessione sull’amicizia e sull’esistere: «I miei amici sono incostanti come un torrente, come l’alveo dei torrenti che scompaiono: sono torbidi per il disgelo, si gonfiano allo sciogliersi della neve, ma al tempo della siccità svaniscono e all’arsura scompaiono dai loro letti» (6,14-19).
Molti amici svaniscono nel tempo della sventura, e svanendo ci dicono che non erano amici. Ma è con Gionata, figlio di re Saul, che l’amicizia fa il suo grande ingresso nella Bibbia. Gionata è principe, è guerriero, ma è soprattutto l’amico. Questa amicizia prende le forme di un patto solenne, forse un “patto di sale”, dove la non corruzione del sale diceva simbolicamente il “per sempre”.
La Bibbia sa cos’è un patto- Alleanza, e se ricorre a questa parola per parlarci di un’amicizia, allora sta dicendo qualcosa di importante. Nell’Alleanza con Abramo, Dio passò in mezzo agli animali squarciati. Nei grandi patti d’amicizia, Dio passa “in mezzo” agli amici (Matteo 18,20). È quindi un patto che buca spazio e tempo. Coinvolge le nostre discendenze, i nostri figli che abbiamo e che avremo, genitori e nonni. I patti di amicizia, diversamente dai patti nuziali, non vengono in genere celebrati con la parola. Quasi sempre sono patti muti, non vengono pronunciati in pubblico. Qualche volta, però, in una amicizia che matura ci possono essere anche dei patti espliciti, celebrati anche con la parola. Sono, ad esempio, quei patti di amicizia alla base di nuove comunità e movimenti, civili o religiosi, generati da due o più amici che si dicono parole speciali in un momento speciale. Una grande amicizia biblica è quella tra Davide e Gionata, che prende la forma di un patto sacro, di un’alleanza solenne, di una vera e propria fraternità spirituale: la fraternità è una forma di amicizia. Un giorno Gionata, quando ormai infuriava la guerra civile tra suo padre Saul e Davide, aveva detto al suo amico Davide: «Andiamo ai campi» (20,11).
La Bibbia conosce molto bene questa frase. Era stata quella di Caino (4,8). L’amico è l’anti-Caino, qualcuno che ti invita ad andare nei campi non per ucciderci ma per salvarci. Sulla terra gli inviti di Caino, il fratricida, e quelli di Gionata, l’amico, coesistono, vivono l’uno accanto all’altro, si incrociano. Qualche volta scopriamo che l’altro non è Gionata ma Caino solo quando, arrivati nei campi, vediamo la sua mano diventare diversa. E sono i giorni più tristi. Altre volte scopriamo che chi pensavamo fosse Caino era in realtà Gionata. L’umanità continua la sua storia perché gli inviti di Gionata sono più numerosi degli inviti di Caino, perché le mani degli amici sono di più di quelle degli assassini.
Mille anni dopo Davide e Gionata, un altro amico dell’uomo, fondatore di una comunità di amici («non vi chiamo più servi ma amici»), fu messo su una croce da un’altra mano fratricida. Sotto la croce c’erano le donne, e un amico. Quella volta le donne e l’amico non riuscirono a salvarlo. Ma noi, suoi amici, continuiamo ad attenderlo, in compagnia di Abele e di tutte le vittime della storia. Lo aspettiamo perché ci ha promesso che tornerà, e perché la promessa dell’amico è vera.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO : IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
STORIA E MITO. GIASONE, "L’OMBRA D’ARGO", E “VENTICINQUE SECOLI” DI LETARGO...
DANTE, ERNST R. CURTIUS E LA CRISI DELL’EUROPA. Note per una riflessione storiografica
Federico La Sala
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT. Nota ... *
* Nota:
LA SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL “VIRUS”, LA “PACE PERPETUA”, E LA RISATA DI KANT...
CONSIDERATO, PURTROPPO, CHE ” Le riflessioni” di Agamben non riguardano l’epidemia del CORONAVIRUS, “ma ciò che possiamo capire dalle reazioni degli uomini ad essa”, ACCOLTA “L’ipotesi [...] che in qualche modo, sia pure inconsapevolmente, la peste c’era già [...]”
E CONDIVISA L’IDEA CHE BISOGNA RIFLETTERE SUL “[...] bisogno di religione che la situazione fa apparire. Ne è indizio, nel discorso martellante dei media, la terminologia presa in prestito dal vocabolario escatologico che, per descrivere il fenomeno, ricorre ossessivamente, soprattutto sulla stampa americana, alla parola «apocalisse» e evoca, spesso esplicitamente, la fine del mondo [...]”
E, ANCORA, CHE “come sempre in questi casi, alcuni esperti o sedicenti tali riescono ad assicurarsi il favore del monarca, che, come ai tempi delle dispute religiose che dividevano la cristianità, prende partito secondo i propri interessi per una corrente o per l’altra e impone le sue misure. [....] sulla paura di perdere la vita si può fondare solo una tirannia, solo il mostruoso Leviatano con la sua spada sguainata” (cf. G. Agamben, “Riflessioni...” : https://www.quodlibet.it/giorgio-agamben-riflessioni-sulla-peste),
PER NON PERDERE IL “FILO” DI “SOFIA” E, CON ESSA, ANCHE LA VITA E LA “SOVRANITA’ (LA “CORONA”) DEL SUO “SAPERE AUDE!”, IO RIPRENDEREI IL DISCORSO dalla citazione evangelica, utilizzata anche dallo stesso Agamben in “Pilato e Gesù” (nottetempo 2013), relativa al problema dell’ ECCE HOMO (cfr. RITORNARE A SCUOLA DA PONZIO PILATO ... http://www.leparoleelecose.it/?p=37854#comment-426632) e dalla LEZIONE DI KANT sull’UOMO SUPREMO DI EMANUEL SWEDENBORG (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5028) E SULLA “fine di tutte le cose” (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5026). O no?! Boh e bah?!
Federico La Sala
L’ORAZIONE SULLA DIGNITA’ DELL’UOMO - A UNA DIMENSIONE.
Da Giovanni Pico della Mirandola* a Herbert Marcuse** e ...
CARO ARMANDO, PER IMPARARE "a vivere meglio senza lasciarci condizionare dalla paura della morte, cioè dalla religione, qualunque essa sia", CREDO CHE SIA NECESSARIO riconsiderare il problema di "come nascono i bambini" (a tutti i livelli)! Hai ragione: "Non possiamo permetterci, con le Sibille, Maria Vergine, Cristo come dio, Maometto ed altre favolette l’illusione di un altro Messia"! Ci siamo addormentati nella tradizione cattolico-costantiniana e illuministica acritica (contro Kant), e abbiamo finito per "concepire" noi stessi e noi stesse secondo la bio-logia e l’andro-logia “unidimensionale” dell’omuncolo!
L’«ECCE HOMO» di Ponzio Pilato, al contrario!, ci dice proprio questo - la fine delle "favolette" e di ogni "illusione di un altro Messia". Il discorso è di diritto e di fatto, romanamente universale, vale a dire, antropologico (non limitato all’«omuncolo» di qualche "uomo supremo" o “superuomo”!):
SE SIAMO ANCORA CAPACI DI LEGGERE, COSA VA SIGNIFICANDO NEL TEMPO LA LEZIONE DI PONZIO PILATO?! Non è una lezione critica contro i "sovranisti" laici e religiosi di ieri e di oggi?!
Che vogliamo fare? Continuare a riportare noi stessi e noi stesse davanti a Pilato e ripetere da scemi e da sceme la stessa scena, riascoltare il suo "Ecce Homo" e non capire una "H" (acca)?!
P.S. - RICORDANDO ... GLI ARCADI DI TERRA D’OTRANTO, VIRGILIO, E IL “VECCHIO DI CORICO”. A SOLLECITAZIONE E CONFORTO DELL’IMPRESA.
USCIRE DALL’INFERNO EPISTEMOLOGICO. Amore (Charitas) o Mammona (Caritas)?! Il "principle of charity", il «principio di carità» ("caritas"!), un assunzione di tipo «imperialistico» (Robert Nozick, "The Nature of Rationality", 1993) *
CAPIRE IL COMPORTAMENTO UMANO.
di Antonio Rainone *
Carità o empatia?
Esiste una tematica nella filosofia del linguaggio e nell’epistemologia di W.
V. Quine che può apparire per molti versi atipica o sorprendente a chi abbia
del celebre filosofo statunitense un’immagine limitata alle sue concezioni
fisicalistiche e comportamentistiche, per non dire “scientistiche”, non
di rado considerate le più caratteristiche della sua produzione filosofica. Si
tratta della tematica dell’empatia, cioè della capacità di avanzare spiegazioni
o interpretazioni del comportamento (linguistico e non) di altri soggetti
“mettendosi nei loro panni” o “simulandone” la situazione cognitiva o,
ancora, assumendone immaginativamente il ruolo.
L’empatia - anche indipendentemente
da Quine - ha peraltro suscitato una particolare attenzione
nella filosofia della mente degli ultimi trent’anni, dove ha dato vita a
un ampio dibattito sul cosiddetto mindreading, incontrandosi inoltre con
la teoria neuroscientifica dei cosiddetti neuroni specchio 1. I più recenti lavori
sulla filosofia del linguaggio di Quine dedicano una particolare attenzione
a tale tematica 2, anche perché Quine, pur accennandovi in Word and Object
(1960), ne ha proposto una esplicita teorizzazione solo nella sua produzione
più tarda.
A partire dagli anni Settanta, ma più esplicitamente negli anni Novanta, Quine ha considerato il metodo dell’empatia come il metodo fondamentale di traduzione nel celebre Gedankenexperiment della traduzione radicale (ovvero la traduzione di una lingua completamente sconosciuta), ma anche come una capacità naturale ai fini dell’acquisizione del linguaggio e dell’attribuzione di stati mentali intenzionali (ossia percezioni, credenze, desideri ecc.) ad altri. In effetti, l’empatia ha acquisito un rilievo così crescente in Quine che nei suoi due ultimi lavori sistematici, Pursuit of Truth (1992) e From Stimulus to Science (1995), essa appare come un nucleo centrale della sua filosofia del linguaggio e della mente.
È stato del resto lo stesso Quine a sottolineare la rilevanza dell’empatia nella sua filosofia del linguaggio, “retrodatandone”, per così dire, la teorizzazione agli anni Cinquanta. Così Quine si esprime in uno dei suoi ultimi interventi sulla questione:
Il brano qui citato da Quine, ripreso dall’importante The Problem of Meaning in Linguistics (1951b, p. 63) - una notevole anticipazione della problematica della traduzione radicale - non è privo di una certa ambiguità, prestandosi a una duplice lettura. È forse vero che in Word and Object alcune affermazioni di Quine potrebbero essere interpretate come la proposta di un metodo empatico, sostenuto comunque in modo non del tutto esplicito (cfr. Rainone, 1995), ma possono essere avanzati dei dubbi circa la difesa di tale metodo nel saggio del 1951. Se da un lato il concetto di proiezione sembra proporre il metodo dell’empatia nell’attività di traduzione di una lingua completamente sconosciuta da parte di un etnolinguista, dall’altro sembra in effetti riferirsi non tanto al metodo empatico, quanto, piuttosto, a quello che, grazie allo stesso Quine, e in seguito a Donald Davidson (cfr. Davidson, 1984), sarebbe diventato noto come «principio di carità» (principle of charity). Il linguista - asseriva infatti Quine - proietta sé stesso con la sua Weltanschauung nei panni del nativo che usa una lingua sconosciuta, presupponendo (o ipotizzando) così che il suo informatore si conformi ai suoi principi logici e abbia le sue stesse credenze (ritenute vere) riguardo alla realtà (sono questi, grosso modo, i principali tenet del principio di carità, che presuppone una comune natura razionale tra interprete/ traduttore e interpretato/parlante).
In Word and Object Quine avrebbe esplicitamente utilizzato - e teorizzato - il principio di carità riguardo alla traduzione dei connettivi logici e degli enunciati “ovvi”. L’esempio più pertinente, in merito, è rappresentato dal «caso estremo» di qualche nativo che accetti come veri enunciati traducibili nella forma “p e non-p” (per esempio, “piove e non piove”), una forma enunciativa che, violando il principio di non contraddizione, deporrebbe per Quine non a favore dell’irrazionalità dei parlanti - come riteneva Lévy-Bruhl con la sua teoria della «mentalità prelogica» - ma contro la correttezza della traduzione (Quine, 1960, p. 58).
Il medesimo argomento varrebbe inoltre per la traduzione di enunciati ovvi: una risposta negativa da parte del nativo alla domanda (nella lingua nativa) “sta piovendo?” fatta sotto la pioggia costituirebbe una prova di cattiva traduzione nella lingua nativa, non del fatto che il nativo non condivida con il traduttore la credenza in qualcosa di così evidente. In generale, nota Quine in un famoso passo di Word and Object, «quanto più assurde o esotiche sono le credenze attribuite a una persona tanto più sospetti abbiamo il diritto di essere nei confronti delle traduzioni; il mito dei popoli prelogici segna solo il caso estremo» (ivi, p. 68).
Difficilmente, pertanto, la «proiezione» del linguista nei «sandali»
del nativo di cui Quine parlava nel saggio del 1951 potrebbe apparire come
una forma di metodo empatico, dal momento che essa “imporrebbe” al
nativo uno «schema concettuale» (quello del linguista) che, per quanto
il linguista può saperne, potrebbe essergli del tutto estraneo. Questo è, in
fondo, il problema sottostante a tutto il celebre secondo capitolo di Word
and Object3. Non vi sarebbe alcuna garanzia, infatti, secondo Quine, che i
nativi condividano lo stesso schema concettuale (la stessa Weltanschauung)
del linguista. Ma il linguista non può, d’altro canto, che fare affidamento
sul proprio linguaggio (o schema concettuale), data la scarsa evidenza empirica
di cui dispone nel tradurre la lingua sconosciuta. Basarsi sul proprio
schema concettuale, proiettandolo sul «linguaggio della giungla», è una
necessità pratica, che - asseriva Quine in Word and Object - investirebbe
soprattutto l’elaborazione delle «ipotesi analitiche», ovvero le ipotetiche
correlazioni tra le emissioni verbali olofrastiche dei nativi e le loro possibili
traduzioni mediante cui il linguista deve stabilire quali frammenti di enunciati
andranno considerati termini (singolari e generali), quali congiunzioni,
quali articoli, quali desinenze per il plurale e quali pronomi, sulla cui
base individuare un insieme plausibile di credenze ontologiche ed epistemiche. La scelta delle ipotesi analitiche, infatti, non è altro che un modo di
«catapultarsi nel linguaggio della giungla utilizzando i propri modelli linguistici
» (ivi, p. 70).
Per ricordare il celebre esempio di Quine, la traduzione
del proferimento di “gavagai” con “coniglio” (invece che con alternative
bizzarre quali “stadi di coniglio” o “sta conigliando”, per quanto ammissibili
sulla base dell’evidenza osservativa) equipara l’emissione verbale nativa
a un termine generale del linguaggio del linguista, ma nulla esclude che i
nativi possano essere privi di un termine referenziale generale per designare
i conigli, anche se il linguista ritiene ciò “caritatevolmente” improbabile.
Utilizzare i modelli del proprio linguaggio per tradurre un linguaggio alieno non equivale quindi ad applicare un metodo empatico di comprensione, trattandosi al massimo di un’ulteriore e più ampia applicazione del principio di carità. L’empatia sembra in realtà qualcosa di diverso dalla carità: a differenza di quest’ultima, l’empatia non presuppone necessariamente una condivisione di significati e stati cognitivi (credenze). Forse l’assunzione di un’analogia di stati cognitivi tra interprete e interpretato - il «ritrovamento dell’io nel tu», secondo la celebre formula di Wilhelm Dilthey (1927, trad. it. p. 293) - può apparire inevitabile ed efficace riguardo alle risposte verbali fenomenologiche direttamente connesse a stimolazioni elementari provenienti da eventi osservativi intersoggettivi del mondo esterno (la pioggia, il colore rosso, il caldo e il freddo ecc.): ci si aspetta infatti che i nativi, che presentano una conformazione neurofisiologica e neuropsicologica analoga alla nostra, non abbiano percezioni di tipo diverso dalle nostre, rispondendo linguisticamente a tali percezioni in modo analogo a come risponderemmo noi; in tal caso l’empatia sembrerebbe indistinguibile dalla carità interpretativa, in quanto fondata sull’assunzione dell’esistenza di meccanismi percettivi comuni ai soggetti coinvolti. Ma difficilmente tale analogia potrebbe essere presupposta allorché si tratti di tradurre il linguaggio o spiegare il comportamento di soggetti appartenenti a una cultura del tutto estranea a quella dell’interprete. In questo caso l’interprete dovrà in qualche modo “entrare”, per così dire, nella “mente” dei soggetti da interpretare per comprendere il loro peculiare punto di vista, le loro credenze sulla realtà e i significati delle loro parole.
In definitiva, la differenza tra carità ed empatia può essere intesa come la differenza tra imporre il proprio punto di vista all’altro e assumere il punto di vista dell’altro. La differenza è particolarmente rilevante nei casi di interpretazione di soggetti appartenenti a “mondi” radicalmente diversi da quello dell’interprete. Se così non fosse, difficilmente gli etnoantropologi avrebbero potuto attribuire credenze animistiche o culti religiosi atipici (come i celebri cargo cults) alle popolazioni studiate (in entrambi i casi si dovrebbe trattare, secondo un’interpretazione caritatevole, di errori di traduzione o interpretazione).
Non dovrebbe costituire motivo di sorpresa, allora, che David K. Lewis, in un saggio dedicato alla problematica davidsoniana dell’«interpretazione radicale», avesse dato una definizione del principio di carità che ingloba, per così dire, anche il procedimento empatico: un soggetto di interpretazione, asseriva Lewis, «dovrebbe credere ciò che crediamo noi, o forse ciò che avremmo creduto noi al suo posto; e dovrebbe desiderare ciò che desideriamo noi, o forse ciò che avremmo desiderato noi al suo posto» (Lewis, 1974, p. 336; corsivi aggiunti). In pratica, secondo questa definizione del principio di carità, si tratterebbe di assumere empaticamente il punto di vista dei soggetti interpretati, tenendo conto delle loro credenze (eventualmente false o strane) e della loro cultura di appartenenza, attribuendo a essi non le credenze e i desideri dell’interprete, ma le credenze e i desideri che l’interprete avrebbe se fosse “nei loro panni”. Si può aggiungere, a tale proposito, che l’empatia rappresenta una sorta di “correttivo” del principio di carità, tenendo conto del punto di vista dell’altro.
Ma forse c’è ancora qualcosa da dire: mentre la carità impone dei vincoli normativi sulla razionalità dei soggetti da interpretare - vincoli a priori basati sui principi logici e sulle norme di razionalità epistemica e pratica dell’interprete, ritenuti universali 4 -, l’empatia sembrerebbe invece un metodo descrittivo ed empirico, essendo subordinata all’acquisizione di un’ampia gamma di informazioni relative alle credenze, alla cultura e alle esperienze passate dei soggetti da interpretare (inutile aggiungere che non c’è accordo su quest’ultimo punto).
4. Si può ricordare, riguardo a questa presunta universalità, che Robert Nozick ha contestato il principio di carità in quanto assunzione di tipo «imperialistico», conferendo tale principio «un peso indebito alla posizione che accade di occupare a noi, alle nostre credenze e alle nostre preferenze» (Nozick, 1993, p. 153). Giustamente, Nozick fa notare che difficilmente questa sarebbe l’assunzione di un antropologo relativamente alle cosiddette società “primitive” (ivi, p. 154).
* Cfr. Antonio Rainone, "Capire il comportamento umano. Azione, razionalità, empatia", Carocci editore, Roma, 2019, pp. 55-59, ripresa parziale.
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Simone Weil: la forza, la grazia
di Matteo Marchesini (Doppiozero, 23.10.2019)
«Non resta / che far torto, o patirlo», diceva l’Adelchi morente di Manzoni. Aggiungendo subito, a chiosa, che «Una feroce / forza il mondo possiede, e fa nomarsi / dritto». Il «mondo» rifiutato da Cristo è interamente sottoposto alle leggi della sopraffazione. Niente e nessuno ne è immune, e chi si illude di esserlo sta tirando una coperta ideologica sulla nuda realtà dei fatti. Il massimo che possiamo fare è sospendere a tratti il dominio di questa fisica bruta, trovare un geometrico equilibrio tra le forze e tenere ferme le tensioni contrarie in un’ascesi contemplativa. Non si può cancellare la ferocia che ci governa, solo esercitarsi ad arrestarne provvisoriamente l’azione. Ma la sua natura è così travolgente che anche per fare questo occorre un miracolo. Bisogna venire investiti dalla grazia. La forza, la grazia: sono i due poli intorno a cui ruotano i saggi più importanti di Simone Weil. Qualche mese fa, sotto il titolo Il libro del potere e con una nota di Mauro Bonazzi, Chiarelettere ne ha riuniti tre: L’Iliade o il poema della forza, Non ricominciamo la guerra di Troia, L’ispirazione occitana.
Succede spesso, negli ultimi anni, che editori più o meno piccoli ripropongano queste pagine scarne e perentorie composte subito prima e subito dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale; e non penso sia un caso. Da quando è sfumata la speranza diffusa in una palingenesi sociale (e non importa qui discutere la sua fondatezza, negata dalla Weil con argomenti decisivi), ci ritroviamo davanti a un puro potere che può mostrarsi senza pudori, ma al tempo stesso fingere che il suo ordine coincida con la giustizia. Siccome tutti, nessuno escluso, siamo condizionati dalle credenze che la vita comune infonde giorno per giorno in ognuno, questa pedagogia priva di alternative ci persuade col suo ghigno che al di là dell’esistente restano appena velleità, fantasmi, chiacchiere. Così, come sappiamo da mezzo secolo, meno sembra possibile una rivoluzione o un mutamento radicale, più la Storia si traveste da immodificabile Natura. E allora, chi alle leve del potere è più vicino si convince che se è in quella posizione non lo deve anche a un intreccio di combinazioni imperscrutabile, ma soltanto ad alcune caratteristiche eccezionali che lo distinguono, appunto per natura, da chi si trova in basso ed è schiacciato dalla sventura; la quale a sua volta, per usare le parole weiliane, apparirà non il frutto di una serie di casi e di fatalità mai del tutto riconducibili a progetti o a doti umane, bensì qualcosa di molto simile a una «vocazione innata». In una società che, non importa quanto fantasiosamente, ritiene possibile un altro mondo storico, chi in quello presente non riesce a integrarsi può essere considerato come un’avanguardia, una prefigurazione monca del futuro; in una società dove questa fiducia evapora è solo uno sfigato - termine in cui, significativamente, la sfortuna diventa una qualità negativa del soggetto che la subisce.
Vivere sottoposti al regno della forza implica prima di tutto rimuovere verità del genere. Se infatti questo regno è così potente, è anche perché in fasi storiche come la nostra accorrono a fornirgli giustificazioni ideologiche molte delle intelligenze migliori, più attendibili e più scrupolose; mentre a ricordare che esiste uno iato, sebbene quasi invisibile, tra le differenze di natura e le differenze imposte dal potere, rimangono o un pugno di acrobati della dialettica o una vasta platea di retori davvero velleitari, di chiacchieroni e utopisti da bar o da tastiera. Questo però, come sapevano qualche decennio fa a Francoforte, contrariamente a ciò che si crede non dice nulla sulla legittimità dell’esigenza che balena nella loro oratoria degradata, perché la sua apparenza ridicola e deforme è la veste nella quale sempre vengono imprigionate le istanze sconfitte. Quando la pressione della forza è enorme, chi in quel momento è portato in alto dalla sua onda può scegliersi l’avversario a sua immagine, e sconciarlo fino a farne un relitto kitsch o un involontario comico da sagra. Ma specularmente, intanto, le intelligenze impegnate a ripeterci i loro inesauribili “se è così c’è una ragione, sveglia!”, non possono non rivelare al fondo l’ingenuità propria di tutti i cinici, che si illudono di poter calcolare e controllare ciò che non si controlla e non si calcola: cioè la realtà, che per definizione coincide con l’imprevedibile, con l’inatteso, e che prima o poi li prende in contropiede (sotto il cuscino dei perdenti si scopre spesso una copia del Principe, diceva Brancati).
Capire perché le cose stanno come stanno è bene, e sfuggire a questa comprensione è segno di infantilismo; ma tessere l’apologia di ciò a cui va reso solo l’onore di riconoscergli che “è ciò che è”, trasformandolo in un “è perché deve essere”, asseconda un bisogno di rassicurazione altrettanto infantile. Chi vuole far tornare i conti con uno stridulo Gott mit uns dimentica quello che, secondo la Weil, il poeta dell’Iliade ha espresso nel modo più puro descrivendo la guerra, la situazione per eccellenza in cui il potere si mostra nella sua aperta crudeltà: ossia il fatto che nessuna diversità essenziale separa vincitori e vinti. La forza, anche quando li rende simili a tempeste in apparenza inarrestabili, non è mai un possesso dei guerrieri, ma una corrente che passa dal campo troiano a quello acheo, e viceversa, svilendo gli uomini a «cose» - fulmini gli uni, tronchi mozzati gli altri. E quando agli eroi capita la parte del tronco, della preda, «tremano» tutti, persino il grande Ettore. Eppure basta che la forza torni a sollevarli, ed ecco che la sua droga cancella dalla loro mente questo dato elementare. Allora si sentono di nuovo invulnerabili, oltrepassano il limite della tracotanza e sono punti dalla Nemesi - un concetto che, osserva la Weil, l’Occidente moderno non ha nemmeno più parole per esprimere.
Dunque lo sguardo omerico è supremamente equo perché non veste di ragioni ciò che non lo merita. Nel poema, l’efferatezza di chi sta vincendo una battaglia non è mai soffusa di una luce apologetica, e nel lamento disperato di chi soccombe non si vede mai il tratto distintivo di un «essere spregevole». Come poi la tragedia attica, e come la cultura occitana (provenzale, romanica, catara) spazzata via nel XIII secolo dalle crociate, l’Iliade ci mostra secondo la Weil una civiltà eccezionalmente consapevole del dominio della forza, e insieme indisponibile a identificare questo dominio con la giustizia. «Solo se si conosce l’imperio della forza e se si è capaci di non rispettarlo è possibile amare» ed essere giusti, conclude la pensatrice francese. Il contrario della forza è l’amore, che nei versi omerici avvolge tutto ciò che è vulnerabile e minacciato dall’annientamento. Ma accedere a questa forma di amore, come si è detto, richiede una capacità sovrumana: appunto perché il mondo umano appartiene alla forza, che quando ci innalza ci acceca, additandoci il miraggio di una realtà senza ostacoli e illudendoci di essere onnipotenti, mentre quando ci schiaccia giù a terra, in una servitù da cui sembra impossibile immaginare una liberazione, ci strappa la «vita interiore» e cancella in noi ogni sentimento.
In questi saggi la Weil si sofferma anche su un altro punto cruciale, che riguarda proprio la copertura ideologica dei rapporti di forza. Siccome il potere si posa sull’uno o sull’altro uomo con un’ampia dose di arbitrio, rendendo radicalmente diversi i destini di individui radicalmente simili, chi vuole mantenerlo senza suscitare rivolte deve saper occultare questo arbitrio e razionalizzarlo. È così che intorno alla forza, fingendosi sua causa, si diffonde l’aura illusoria del «prestigio», che gli uomini scambiano per qualità innata mentre è l’effetto di un contesto determinato, di un provvisorio gioco di luci i cui riflessi tendono però a moltiplicarsi illimitatamente. Qui forse non è inutile ricordare la nazionalità di Simone Weil, dato che la Francia è stata nel mondo moderno il paese più socializzato, quello dove i fantasmi impalpabili ma pervasivi delle identità pubbliche sono penetrati in ogni spiffero dell’esistenza. Né è certo un caso che sia stato un altro francese, pochi anni prima di lei, a eternare letterariamente questi fantasmi nella mappa più ramificata e ricca d’implicazioni che ci sia mai stata fornita. «Solo chi è incapace di scomporre, nella percezione, ciò che a prima vista sembra indivisibile, crede che la situazione faccia corpo con la persona», ha scritto Marcel Proust, che attraverso i molti strati della sua Recherche avvicina all’esperienza quotidiana le essenze platoniche weiliane.
L’analisi dello snobismo, cioè, secondo il critico americano Lionel Trilling, dell’«orgoglio a disagio» di chi non è mai sicuro della propria identità, è appunto l’analisi degli equivoci creati dal «prestigio». In un universo come quello borghese, dove non esistono più ruoli fissi e garantiti da ordini aristocratici o da fedi soprannaturali, questa precarietà è fisiologica; e il romanzo, col suo dinamismo, è nato per rappresentarla. Ma di solito i romanzieri, anche i più estremisti, portano gli equivoci a uno scioglimento: o sotto la loro superficie abbagliante si rivela una certezza solida, inconfutabile, oppure questa superficie diventa il segno di una metafisica, arcana indecifrabilità, cioè in fondo di un’altra certezza, seppure di segno negativo. Proust, invece, dimostra che l’equivoco è la sostanza stessa, la stoffa onirica e fantastica di cui è fatta la pretesa identità di ognuno: una sagoma destinata inevitabilmente a variare a seconda delle luci che il luogo, ma soprattutto il tempo, l’immaginazione e i sentimenti personali o collettivi le proiettano sopra. L’ambiguità, in questo senso, è senza fine. La magia dei nomi trasfigura di continuo la materia, e la materia fa cadere a un tratto il sipario di una convenzione, di una magia effimera. La gelosia stabilisce ragnatele finissime, e non si sa mai se abbia occhi straordinariamente acuti o se straveda. Ogni gesto, ogni parola, ogni episodio racchiudono un gomitolo di equivoci che si intrecciano e si divaricano nel tempo. Volgarità e finezza, bontà e perfidia, onorabilità e impresentabilità, prosaicità e fascino esclusivo, provincialismo grottesco e talento supremo, filisteismo e regalità si scambiano ovunque le parti, e toccano tutti i principali caratteri di questo romanzo di romanzi: Saint-Loup, i Verdurin, Morel, Charlus, Swann, i Guermantes, Rachel, Odette, Bergotte, Albertine, Vinteuil, Cottard, Elstir... e ovviamente il narratore.
Col prestigio, col potere e con i ruoli di vittime e carnefici, questi personaggi cambiano la loro stessa pelle. Ma se è così, non hanno ragione i lodatori di ciò che appare, di ciò che è in quanto s’impone? Non basta, per approvarli senza riserve, imprimere un po’ di mobilità eraclitea al loro troppo statico sistema panglossiano, al loro hegelismo mummificato e andato a male? Quale identità nuda o profonda ci resterebbe in mano da difendere, al di là delle mutevoli maschere sociali? Esiste forse là dietro un volto, un noumeno che non sia un’astratta, umanistica petizione di principio? Difficile crederci: soprattutto oggi che siamo tutti più socializzati dei vecchi francesi, essendo social e tendendo a una assai più totalitaria indistinzione di intimità e pubblicità.
In quel vorticoso primo Novecento, tra Proust e Weil, un altro francese ha messo in bocca a un suo personaggio teatrale una risposta disinvoltamente contraddittoria. «Non state confondendo la gloria e l’amore? Amereste Giocasta se non regnasse?», chiede Tiresia a Edipo nella Macchina infernale di Cocteau. «Domanda stupida e ripetuta mille volte», ribatte il marito e figlio della regina di Tebe. «Giocasta mi amerebbe se fossi vecchio, brutto, se non sbucassi dall’ignoto? Credete che non ci si possa buscare il mal d’amore toccando l’oro e la porpora?». Ma poi aggiunge che «I privilegi di cui parlate non sono la sostanza stessa di Giocasta e aggrovigliati così strettamente ai suoi organi da non poterli disunire». La scena è interessante anche perché qui, come altrimenti in Proust, la politica, cioè il campo per eccellenza del potere, fa tutt’uno con l’amore.
Ma non è, s’intende, l’amore soprannaturale che per la Weil sta sull’altro piatto della bilancia rispetto alla forza. Eppure anche di questo amore è fatto l’amore umano. Chi, che cosa amiamo dunque davvero? È il nostro amore separabile dal prestigio? All’alba della modernità, in una Russia infranciosata, il romantico e ironico Aleksandr Puškin ha lasciato nell’Onegin una immagine memorabile della divaricazione tra società e verità su cui è fiorita la nostra cultura. «In quel tempo, in quel deserto, / Lontano dal pettegolezzo, / Io non vi piacqui: questo è certo... / E dunque mi inseguite adesso? / Che cosa a voi mi pone in vista? / Non forse il fatto ch’io apparisca / Per il mio rango in società; / L’esser di ricca nobiltà; / O il marito che in guerra è stato / Ferito e alla corte è in favore? / Non forse che il mio disonore / Da tutti sarebbe osservato, / A voi nel bel mondo recando / Un lusinghevole vanto?», domanda malinconicamente Tatiana a Eugenio verso la fine del poema, dopo che lui l’ha prima tenuta affettuosamente a distanza, moderando il suo dongiovannismo, quando era una semplice ragazza di campagna, e poi l’ha ardentemente corteggiata quando l’ha vista muoversi da dama impeccabile tra i ricevimenti pietroburghesi.
Non so chi potrebbe rispondere alla domanda di Tatiana. Quanto è grande, specie in un mondo più che mai socializzato, la dose di desiderio mimetico che ci entra in circolo? Quanto influisce sui nostri atti il prestigio, questo vestito imperiale della forza? Se esistessero confini visibili o palpabili tra un’essenza e un’apparenza, combattere sotto l’insegna di una delle due riuscirebbe relativamente facile. Sarebbe lecito pensare a una lotta di princìpi, confidare in un mutamento progressivo che a poco a poco conduca a esiliare dal mondo la forza magnetica e menzognera del prestigio contrabbandato per cosa salda. Invece il mondo è strutturalmente suo. Perciò una tale etica è ritenuta insufficiente dalla platonica Simone Weil, e contemporaneamente anche dalla sensuale Etty Hillesum. Solo il riconoscimento di questa realtà, la sua accettazione senza risarcimenti e la contemplazione della forza possono sospenderla, tenere in miracoloso equilibrio la bilancia.
E sì: noi siamo anche i nostri privilegi, gli ori e le porpore di cui non potremmo mai dire, senza apparire tracotanti di fronte al fato, di esserceli guadagnati da soli. Eppure, c’è chi alle origini della nostra civiltà ci ha mostrato uomini spogliati di tutto ciò: uomini ridotti a cose passive, resi schiavi o annientati da uomini ridotti a cose ciecamente attive come catastrofi naturali. Chi amerà questi nudi? Chi rimarrà vicino a un corpo, a una voce, a un volto totalmente privati di prestigio e di potere? Chi sopporterà di stringere esseri che basta un soffio a cancellare dalla scena, e che non sembrano avere più alcuna dignità umana? Noi tendiamo a immaginare la sventura in chiave eroico-hollywoodiana, a incastonarla in una sequenza in cui lo sconfitto mantiene intatto il suo fascino, la sua forma socializzabile di uomo. Ma proviamo a immaginare invece la vera sventura, cioè una condizione in cui tutte le nostre coordinate vacillano come nel Vangelo vacillarono i discepoli durante la Passione. Immaginiamo una situazione dove ogni circostanza sembra dare ragione al mondo che umilia lo sventurato. Immaginiamo il momento in cui la sventura arriva a toccare l’ultimo strato dell’identità della persona che diciamo di amare - il momento in cui, senza che questa persona si sia inconfutabilmente macchiata di una colpa, le sue attrattive si mutano in un motivo di imbarazzo, di smarrimento o di nausea, in una specie di vergogna senza nome. Immaginiamo tutto questo, e la domanda ci farà tremare.
Forse di una tale figura nuda, senza protezioni sociali e senza neppure il marchio di una minoranza esclusa ma riconosciuta, non si può predicare nulla. Forse si può dire solo che l’uomo è più di tutto il suo prestigio, di tutte le qualità in cui i «privilegi» si mescolano ambiguamente agli «organi». Ma questo più non si può descrivere. Come l’anima, si può cogliere solo con un atto di fede. E proprio dalla fessura che lascia tra sé e il resto passa la grazia. È da lì che soffia l’amore trascendente, incondizionato, assoluto: l’amore senza il quale, diceva Denis De Rougemont occupandosi dei provenzali negli anni della Weil e in modi per molti versi opposti, siamo destinati a cadere in un romanticismo calcolatore che non troverà mai un oggetto su cui fermarsi, perché ci sarà sempre qualcosa di più attraente a meritare l’innamoramento.
Solo una decisione mai giustificabile, che è poi il contrario di una facoltà d’opzione, può arrestare questa fuga nell’illimitato. Un decennio prima, montando le tessere del suo discorso sulle Affinità elettive e il matrimonio, Walter Benjamin lasciava intravedere una prospettiva molto simile.
Credo che il saggio della Weil sull’Iliade sia uno dei due massimi capolavori della saggistica filosofica del Novecento. L’altro, non unilaterale e spoglio ma tormentosamente dialettico, va sotto il titolo di Minima moralia. Negli aforismi della raccolta adorniana si trova una frase che può stare accanto alla conclusione weiliana: «Sei amato solo dove puoi mostrarti debole senza provocare in risposta la forza». Il mondo, però, ci consegna un’ingiustizia ulteriore. Di solito si aderisce alla forza là dove la pressione collettiva è troppo intensa rispetto alle convinzioni che potrebbero farci resistere alla sua piena: cioè quando a propria volta, come carnefici, ci si trova in una condizione di debolezza, quando non si è abbastanza sicuri della propria comprensione delle cose da poter rimanere saldi in mezzo alla tempesta insieme a chi è rimasto nudo (la pressione consiste spesso in un sottile gioco di suggestioni atmosferiche incrociate, ma chi voglia vederne rappresentati i tratti più elementari e irresistibili può pensare al Bube di Cassola spinto a picchiare il prete Ciolfi, o al giovane ufficiale Eric Blair, alias George Orwell, accerchiato dalla folla birmana che esige di vederlo abbattere un elefante). Non è questa l’ultima ragione per cui il mondo ci chiude la bocca impedendoci di dire a ogni passo “non è giusto”, e quasi assimilando il nostro comportamento a un fatto di natura. Ma appunto, quasi. Resta quella fessura. Di cui nessuno si può appropriare senza tradirla, ma che nessuna forza può ridurre a sé.
Profezia è storia / 14.
E Dio imparò a sussurrare
di Luigino Bruni (Avvenire, sabato 7 settembre 2019)
Le crisi, le stanchezze, le depressioni non sono tutte uguali. La Bibbia ci dice che esistono anche le depressioni spirituali, non rare nella vita dei profeti. Queste arrivano, in genere nella fase adulta della vita, alle persone che hanno ricevuto una chiamata e un compito. La depressione spirituale va distinta dalla depressione psichica, cosa non facile perché i segni sono molto simili. La storia di Elia ci svela una grammatica per riconoscere queste depressioni e, magari, per cercare di superarle.
«Acab riferì a Gezabele tutto quello che Elia aveva fatto e che aveva ucciso di spada tutti i profeti» (1 Re 19,1). Nonostante la grande teofania del Monte Carmelo, il re Acab resta ambivalente e non si mostra convertito interamente a YHWH. È difficile che le conversioni vere del cuore derivino da eventi spettacolari e dalla violenza. La regina, la sterminatrice dei profeti di YHWH, continua la sua guerra: «Gezabele inviò un messaggero a Elia per dirgli: "Gli dèi mi facciano questo e anche di peggio, se domani a quest’ora non avrò reso la tua vita come la vita di uno di loro"» (19,2).
L’orizzonte del cielo di Elia si incupisce: «Elia, impaurito, si alzò e se ne andò per salvarsi» (19,3). Questa volta Elia parte non per la voce di Dio ma per la voce di Gezabele. Anche i profeti, qualche volta, partono semplicemente perché hanno paura. Elia non ha avuto paura nell’affrontare, da solo, quattrocentocinquanta profeti di Baal, ma ora è terrorizzato da questa minaccia. E fugge. Il testo ci fa entrare nell’animo di Elia: «S’inoltrò nel deserto una giornata di cammino e andò a sedersi sotto una ginestra. Desideroso di morire, disse: "Ora basta, Signore! Prendi la mia vita, perché io non sono migliore dei miei padri". Si coricò e si addormentò sotto la ginestra» (19,3-5).
La minaccia di Gezabele scatena in Elia una vera e propria depressione spirituale. Elia è desideroso di morire. Eppure è reduce da una sbalorditiva vittoria pubblica, ha sconfitto e ucciso da solo tutti i profeti di Baal. Ora quei successi non ci sono più. Resta solo la paura e il desiderio di ritirarsi nel deserto, e lì morire.
In questa fuga in cerca della morte rivediamo Mosè, Geremia, Giobbe, Giona e il suo albero di Kikajon, Francesco, e molti profeti di ieri e di oggi che al culmine della loro storia spirituale attraversano la "tappa della ginestra" - come non pensare agli immensi versi del canto di Giacomo Leopardi?: «Odorata ginestra, contenta dei deserti». Elia chiede di morire, e invece Dio gli invia un altro messaggero: «Ma ecco che un angelo lo toccò e gli disse: "Àlzati, mangia!". Egli guardò e vide vicino alla sua testa una focaccia, cotta su pietre roventi, e un orcio d’acqua» (19,5-6). L’angelo lo toccò. In certe prove, la voce non basta: occorre che l’angelo ci tocchi, tocchi la carne e ci svegli per urto. In questi sonni profondi, il senso dell’udito è insufficiente. L’angelo deve raggiungere il corpo, l’umanità intera.
Dio gli manda ancora pane e acqua. Il bisogno primario è soddisfatto. Ma Elia, dopo aver mangiato, «di nuovo si coricò» (19,6). In queste depressioni non basta mangiare e bere per rimettersi in cammino. Qui si muore anche sazi e dissetati. Per lasciare l’ombra di morte della ginestra e risorgere c’è bisogno di qualcosa di diverso: «Tornò per la seconda volta l’angelo del Signore, lo toccò e gli disse: "Àlzati, mangia, perché è troppo lungo per te il cammino". Si alzò, mangiò e bevve. Con la forza di quel cibo camminò per quaranta giorni e quaranta notti fino al monte di Dio, l’Oreb» (19,7-8). Torna l’angelo, lo tocca una seconda volta. Ora però non gli dice semplicemente "mangia"; gli dice di mangiare in vista di un cammino, e gli nomina un nome che è un messaggio: il monte Oreb.
Per uscire da queste depressioni spirituali c’è bisogno di una nuova strada, di un nuovo senso, di una direzione. L’angelo gli fa capire che quel cibo non era per sopravvivere, ma era per camminare. Il profeta rivive, ritrovando il cammino, quando vede sulla linea dell’orizzonte un monte da raggiungere in fondo alla strada. I profeti non guariscono con pane e acqua. Li possiamo riempire di cibo, ma restano malati finché non si apre davanti a loro un nuovo percorso.
Giunto sull’Oreb, il monte di Mosè e dell’Alleanza, capiamo meglio la stanchezza profetica di Elia: «Là entrò in una caverna per passarvi la notte, quand’ecco gli fu rivolta la parola di YHWH in questi termini: "Che cosa fai qui, Elia?". Egli rispose: "Sono geloso di gelosia per YHWH poiché gli Israeliti hanno abbandonato la tua alleanza, hanno demolito i tuoi altari, hanno ucciso di spada i tuoi profeti. Sono rimasto solo ed essi cercano di togliermi la vita"» (19,9-10). Dio ed Elia dialogano. Mi sorprendono sempre i dialoghi tra Dio e gli uomini che troviamo nella Bibbia. La parola, divenuta carne, ha generato in Europa e nel mondo poesia, arte, libertà, democrazia, che è la lode della non-unanimità, perché quella parola incarnata era già un dialogo, perché quel logos era dia-logos.
YHWH, nel dialogo, dice: cosa fai qui Elia? Una domanda strana, visto che era stato un suo angelo a chiedere a Elia di andare sul monte Oreb. Elia arriva, e lì Dio gli chiede: che ci fai qui? Nella vita dei profeti queste domande strane sono molto frequenti. Si riceve un nuovo comando, si obbedisce, si parte, si arriva, e una volta arrivato si sente dire da chi lo ha chiamato: che ci fai qui? Domande sempre impreviste e tremende, che spesso amplificano la prova spirituale.
La risposta di Elia ci dice chiaramente che la sua depressione dipendeva dalla solitudine in cui si è venuto a trovare ("sono rimasto solo"). Ma la solitudine può essere solo una ragione delle crisi profonde dei profeti, ma non è mai la prima ragione - i profeti sanno convivere con molte solitudini, sono un loro ambiente spirituale co-essenziale come quello comunitario. Le ragioni più radicali sono altre. Elia soffre per vedere rinnegata e cancellata nel popolo la fede nel suo Dio. Usa lo stesso verbo che la Bibbia usa in genere per Dio - «sono geloso di gelosia» per YHWH. Elia è depresso perché il Dio che lo ha chiamato è profanato, ma anche perché sono stati uccisi i suoi profeti - esiste una grande solidarietà tra i profeti: quando un profeta è ucciso, tutti i profeti muoiono in lui.
Queste ragioni si aggiungono alla prima causa di sofferenza, forse quella più lancinante e indicibile, che Elia aveva pronunciato nella sua prima risposta nel dialogo con Dio: «Io non sono migliore dei miei padri». Qui entriamo nel cuore della crisi di Elia - e dei suoi fratelli profeti. Una frase misteriosa, di non facile esegesi. I "padri" di Elia sono Abramo, Isacco, Giacobbe, Mosè, Saul, Davide, Salomone. Padri tutti segnati dal limite, dal peccato, e sempre dall’insuccesso. La storia dei suoi padri era stata uno spettacolo di fallimenti, della piccolezza che risaltava forte se confrontata con la grandezza della promessa. Sotto quella ginestra, Elia si sentì stretto in «social catena» alla ferita antropologica dei suoi padri, si sentì esattamente come loro. Una tappa fondamentale che vivono, in vari modi, tutti i profeti, quando un giorno si sentono esattamente come tutti gli uomini e le donne che li hanno preceduti; come tutti, come i peggiori. Si era partiti da casa e subito i miracoli, morti che risorgono, nemici sconfitti e grandi successi pubblici. Poi un evento - una calunnia, una persecuzione, una malattia... - ci fa capire che tutte quelle conquiste e frutti erano solo vanitas, fumo, paglia. Scompare tutto, ci si ritrova nel deserto sotto una ginestra, e ci si sente veramente come i nostri genitori e parenti che avevamo lasciato per un compito e una vocazione che sentivamo infinitamente diversi e migliori. Qualche volta sentire questa uguaglianza è una grande benedizione; altre volte ci deprime perché ci parla solo di fallimento.
Questa tappa può segnare la fine di una vocazione; ma, se superata, può essere la morte che prepara una autentica resurrezione. Come accadde a Elia. Sull’Oreb, infatti, con la sua anima schiacciata dalla "notte oscura", è dove si compie una delle teofanie più belle, celebri e misteriose della Bibbia. Gustiamocela senza parole di introduzione: «Dio gli disse: "Esci e férmati sul monte alla presenza di YHWH". Ed ecco che YHWH passò. Ci fu un vento impetuoso e gagliardo da spaccare i monti e spezzare le rocce davanti a YHWH, ma YHWH non era nel vento. Dopo il vento, un terremoto, ma YHWH non era nel terremoto. Dopo il terremoto, un fuoco, ma YHWH non era nel fuoco. Dopo il fuoco, il sussurro di una brezza leggera. Come l’udì, Elia si coprì il volto con il mantello, uscì e si fermò all’ingresso della caverna» (19,11-13). Forte è il contrasto con la scena del Monte Carmelo, dove Dio si era manifestato, con tutta la sua potenza, nel fuoco. Ora Elia è depresso e scoraggiato, e Dio non gli parla più nella potenza della natura. Qui non abbiamo solo la fine della fase religiosa primitiva che vedeva la presenza di Dio negli eventi naturali eccezionali, e la scoperta che Dio è spirito e soffio.
C’è qualcosa di più. Quella splendida espressione - qol demana daqqa -, che gli esegeti e i poeti hanno tradotto in molti modi (un suono dolce e sommesso, la voce del silenzio, il sibilo di una leggera brezza, il dolce sussurro di una voce...), ci dice che Dio deve imparare a sussurrare se vuole parlarci quando il dolore ci ha tappato le orecchie dell’anima. Dentro le grotte spirituali le parole danno solo fastidio - quante volte constatiamo il disagio che provocano le parole, inclusa la parola di Dio, in chi vive questo tipo di prove. Per risorgere da certe morti, la parola deve smettere di parlare e tornare sola voce, sussurro, tornare a quella fase originaria quando il suono non si era ancora articolato in parola. Come quando, in un’altra grotta, divenne vagito di bambino. Come quando, in un altro monte, divenne solo grido. Come alla fine, quando tutte le parole che abbiamo detto diventeranno solo un sussurro, tutte racchiuse in un unico ultimo sospiro. Nelle depressioni spirituali riusciamo a riconoscere Dio se è capace di abbassare la voce, se impara a sussurrare. Se queste cose le sappiamo fare noi, le deve saper fare anche Dio.
Riflessione.
Una nuova scommessa per la Chiesa di oggi
di Chiara Giaccardi e Mauro Magatti (Avvenire, giovedì 22 agosto 2019)
Duemila anni di storia, un miliardo e trecento milioni di fedeli in continua crescita grazie alla spinta demografica dei paesi del Sud del mondo. Da un certo punto di vista, la Chiesa cattolica gode di ottima salute. Eppure, dietro la facciata rassicurante dei numeri, si odono scricchiolii allarmanti che non possono essere sottovalutati. Crollo della partecipazione religiosa nelle società più avanzate; difficoltà particolarmente forti tra i giovani e i ceti più istruiti; sensibile riduzione delle vocazioni. Sintomi eloquenti, ai quali si aggiunge la perdita di reputazione causata dagli scandali finanziari e dagli abusi sessuali.
Lo spostamento del baricentro in aree economicamente, politicamente e socialmente più arretrate è dunque una buona notizia solo a metà. In quei paesi - dove il livello istituzionale è meno evoluto e il rapporto con le persone più diretto - la Chiesa gioca su un terreno che le è più congeniale. Ma il timore è che le cose siano destinate a cambiare rapidamente anche in quei contesti. Difficile immaginare un futuro se la Chiesa rinuncia a dialogare con la parte più avanzata del mondo.
Almeno in Europa la Chiesa si trova di fronte a uno snodo generazionale senza precedenti: nella popolazione che ha meno di 30 anni, coloro che non credono semplicemente perché si sentono del tutto indifferenti e apatici rispetto alla «questione Dio» (i cosiddetti nones) sono netta maggioranza. Come se la cosa non li riguardasse, come se non riuscissero neppure a cogliere il senso della domanda: credi tu? Di Dio sembra proprio non sentirsi la necessità.
Oggetto di un discorso ormai superato, residuo di tradizioni che sconfinano nella superstizione o bandiera di fondamentalismi che sfociano nella violenza: è questo il registro in cui la questione della fede viene oggi rubricata in Europa da buona parte della popolazione, specie giovanile. Quando la generazione di chi oggi ha 70 anni e più passerà, la Chiesa europea, già assottigliata, si ritroverà con un numero assai esiguo di fedeli. C’è una questione organizzativa: la struttura della Chiesa - burocratizzata e gerarchica - appare inadatta a stare al passo con un mondo diventato veloce e plurale. Manca la consapevolezza che non è più possibile parlare dell’esperienza religiosa oggi usando lo stesso discorso di quando la fede era un’evidenza sociale.
Occorrerebbero, piuttosto, parole in cammino, che cerchino di dare voce e forma al diffuso senso di precarietà. Parole capaci di trasmettere l’esperienza della fede dove, con Michel de Certeau, «la sola stabilità è spingere il pellegrinaggio più in là», alla ricerca di nuove vie di presenza e narrazione. Ma sembra difficile, quasi impossibile, trovarle. C’è ancora spazio per la «buona novella» cristiana nel mondo di oggi? Ci può essere ancora una domanda che non trova risposta in ciò che già c’è, o nelle promesse di un progresso della scienza, della tecnica, dell’economia nel quale si ripongono ormai tutte le speranze di salvezza?
Facciamo un passo indietro. Se il messaggio del Vangelo, la buona notizia dell’amore che salva e vince la morte, è arrivato fino a noi è perché ha saputo parlare al profondo del cuore degli uomini e delle donne lungo i venti secoli che ci hanno preceduti. Riuscendo così a ispirare il modo di pensare e di vivere di intere società. Questa forza che ha attraversato la storia si è fondata su almeno tre pilastri, che sono però oggi tutti soggetti a una profonda erosione, sotto la spinta di cambiamenti storico-culturali di enorme portata.
Il primo pilastro ha a che fare con lo spinosissimo nodo dell’onnipotenza. Prendendo le distanze dalle religioni che l’avevano preceduta - nelle quali la potenza del sacro si manifestava al di là di qualunque limite -, quella cristiana è sempre stata molto attenta a evitare di farsi schiacciare dall’onnipotenza di Dio. In questo modo, essa ha potuto garantire una scansione tra ordine religioso e ordine politico, aprendo una dialettica che nel corso della storia si è rivelata straordinariamente fruttuosa. È per il fatto impensabile di essere una religione in cui è Dio che si sacrifica per l’uomo - e non viceversa - che quella cristiana ha potuto essere grembo per l’affermazione della soggettività moderna. Persino Nietzsche ha riconosciuto che proprio «grazie al cristianesimo l’individuo acquistò un’importanza così grande, fu posto in modo così assoluto, che non lo si poté più sacrificare».
E tuttavia, come in altre epoche, anche oggi - dentro e fuori la Chiesa - questo «scandalo» evangelico fatica a trovare ascolto: come far capire all’uomo contemporaneo - affascinato dai miti dell’efficienza, della performance, della (onni) potenza tecnica o all’opposto attratto da una divinità a cui semplicemente sottomettersi - il significato liberatorio di un Dio che, con le parole di Hölderlin, «crea l’uomo come il mare la terra: ritirandosi»?
E che mostra la propria «potenza» incarnandosi in un bambino e facendosi appendere a una croce? Il secondo pilastro riguarda la salvezza personale, tema essenziale per ogni grande religione. Dio salva la vita di ciascuno. Nella storia del cristianesimo ci sono state, come è naturale, molte oscillazioni attorno a questo tema, in una continua tensione fra terra e cielo, corpo e anima. Con la modernità, come sappiamo, sul piano culturale il baricentro si è spostato dalla salvezza eterna al successo mondano, dalla cura dell’anima al benessere materiale. Di quale salvezza si può dunque parlare oggi, quando la tecnica arriva addirittura a immaginare di poter promettere l’«immortalità»? Il terzo pilastro tocca il tema della universalità.
La Chiesa ha sempre riconosciuto e coltivato la propria vocazione universale, consapevole della necessità di parlare a tutti. Condizione per essere chiesa, appunto, anziché setta, piccolo gruppo di duri e puri ripiegati su sé stessi e separati dal resto del mondo. Sappiamo che la relazione tra fede e ragione, ereditata dalla tradizione greca e latina, è stata di enorme importanza. Sin dall’inizio la Chiesa ha intuito che il proprio destino sarebbe stato legato a quello della ragione. Ma il problema è che nel corso degli ultimi secoli si sono modificati i termini stessi della questione. Da una parte, il restringimento alla sola dimensione strumentale (vero è ciò che è certo, e dunque ciò che funziona e realizza rapidamente le promesse) ha di molto diminuito la capacità della ragione di essere guida sicura all’agire umano. Diventata tecnica, l’ambito principio in cui la ragione sembra applicarsi è il problem solving e il suo obiettivo il superamento del limite, di ogni limite.
Così, ciò che oggi sembra unificare il mondo è il grande sistema tecno/economico che, con la sua neutralità etica e le sue pretese di controllo, vorrebbe rendere superflua la stessa questione religiosa. Ma è realistico un tale progetto? Dall’altra parte, se oggi, come dicono le stime dell’autorevole Pew Research Institute, su dieci abitanti della terra tre sono cristiani, cosa vuol dire pensarsi come «universali »? In un pianeta diventato piccolo, senza più terre da esplorare, ma dove le diverse tradizioni religiose - che pure si delocalizzano e si innestano un po’ dappertutto - hanno sedimenti ormai consolidati, come sviluppare il dialogo interreligioso?
Questione che a maggior ragione investe l’ecumenismo: quale ruolo il cattolicesimo romano può e deve giocare rispetto alle altre confessioni cristiane, numericamente più deboli ma custodi di ricchezze da rimettere in gioco, a vantaggio dei cattolici stessi e del mondo intero? In questa cornice, all’inizio del XXI secolo, la scommessa cattolica non è allora né quella di rincorrere qualcosa che starebbe davanti - la piena affermazione della modernità, con tutti i suoi successi - né di inseguire un sogno di restaurazione e rinnovata centralità - cullandosi nella nostalgia di un passato ormai perduto. Si tratta, piuttosto, di muovere i primi passi di una via nuova, recuperando la consapevolezza di avere qualcosa di inaudito da dire. Qualcosa che manca a questo tempo. Qualcosa di prezioso per il nostro futuro comune.
Giampiero Comolli
La malinconia meravigliosa
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 19 luglio 2019)
La malinconia di cui parla Giampiero Comolli - giornalista, scrittore, presidente del Centro Culturale Protestante di Milano - nel saggio La malinconia meravigliosa (ed. Claudiana) è quella che pervade i discepoli di Siddharta Gautama della nobile famiglia dei Sakya, il primo Buddha, e di Gesù di Nazareth al momento del loro commiato in prossimità della morte. L’autore ripercorre i loro ultimi discorsi per cogliere attraverso di essi, i punti in cui le vie indicate dai maestri paiono avvicinarsi e quelli in cui decisamente divergono e lo fa utilizzando Il grande discorso del nirvana definitivo, per quanto riguarda il Buddha (i testi più antichi su cui si fonda la tradizione buddista sono raccolti nel canone Pali scritto attorno al 1° sec. a.C., pubblicati in italiano col titolo La rivelazione del Buddha. I testi antichi, Mondadori 2001) e i capitoli dal 14 al 17 del Vangelo di Giovanni, la cui formulazione definitiva risale alla fine del 1° sec. d.C.
I primi capitoli sono dedicati dall’autore a una breve e necessaria sintesi della vita di Siddharta Gautama e del pensiero buddista - a chi volesse saperne di più suggerirei di leggere Il cuore dell’insegnamento del Buddha (ed. Neri Pozza) di Thich Nhat Hanh, monaco vietnamita di tradizione Zen Rinzai che ne offre una dissertazione approfondita e molto chiara - e poi prosegue con un’attenta disamina degli atteggiamenti dei due maestri e delle rispettive visioni della realtà che, non solo nelle parole, ma appunto anche negli atteggiamenti e nei gesti, si riveleranno radicalmente differenti.
Perché anche laddove sembra esserci una certa sintonia, tra le due vie in realtà c’è una strutturale inconciliabilità, chiaramente sottolineata dal Dalai Lama al quale fu chiesto, racconta Comolli, se in una stessa persona potrebbero convivere cristianesimo e buddismo visto che quest’ultimo è più propriamente una filosofia che una religione. Egli rispose che ciò sarebbe possibile, ma solo a un livello molto superficiale, perché nei loro elementi profondi e sostanziali si tratta di due visioni della realtà incompatibili. Cerchiamo di riassumerne le ragioni.
Per Buddha il risveglio inizia quando si comincia a comprendere che la vera natura del mondo sensibile è l’impermanenza. L’intero universo, materiale e immateriale è impermanente cioè, per così dire, fluido, mobile; le infinite forme assunte dalla materia - animali, vegetali, minerali - sono soltanto apparenza, perché la sostanza è una sola e sempre la stessa. Ciò che noi avvertiamo come cambiamento, compresa la morte, è semplicemente il passaggio da una forma a un’altra dell’unica sostanza. In questo processo continuo di trasformazione da uno stato a un altro, ciò che cambia non viene distrutto, ma appunto trasformato. In ogni elemento della realtà fisica è contenuto tutto ciò che esiste (nel fiore, ad esempio, è contenuta la terra da cui proviene, l’acqua e il sole che l’hanno nutrito, ciò che un animale ha mangiato e poi lasciato sul terreno sotto forma di concime e così via). Di conseguenza, la morte non è l’estinzione di una realtà, ma il suo passaggio da una condizione a un’altra. Da questa consapevolezza nasce il sentimento di equanimità, fondamento dell’etica buddista e da molti accostato, un po’ superficialmente, all’idea cristiana di compassione. L’equanimità informa l’atteggiamento pacifico e amorevole del monaco buddista verso ogni creatura. La via buddista stricto sensu è destinata ai monaci, ma è utile anche ai laici ai quali essi dimostrano, con il loro esempio, «che la via della libertà e della dolcezza esiste e può essere percorsa». Perciò tutti possono aspirare, di reincarnazione in reincarnazione, a percorrerla fino al compimento.
L’amore che il Buddha insegna è molto diverso da quello che vive e predica Gesù. Il cuore del monaco buddista è «amorevole verso tutti, ma vuoto perché mai "perdutamente innamorato" di qualcuno in particolare», sottolinea Comolli. E come potrebbe esserlo visto che, come ogni altra cosa, la persona stessa, l’io individuale è pura illusione? Il cuore è anatta, cioè vuoto, «privo di sostanza propria» «perché non esiste un nucleo, un’essenza stabile, un’identità precisa e definita di quel cuore stesso». Anche il cuore/l’io è maja, apparenza. Per Gesù, al contrario, nulla è più importante del cuore dell’uomo, nulla è più solido e vero dell’amore, e per il Dio in cui egli crede ogni essere è unico, irripetibile, speciale e merita che Dio diventi uomo e muoia proprio per lui. Dio non ama tutti, ama ciascuno, per questo per ogni singolo essere umano vale la pena di donare la vita. Come il Dio in cui credeva e che annunciava, Gesù non amava «in modo equanime e disinteressato, distaccato» ma «in modo appassionato, fino ai singhiozzi», e dall’amore «si lascia prendere fino alle viscere». Gesù piange, prega, si spaventa, si arrabbia. È tutt’altro che impassibile, è appassionato. Comolli sintetizza con una bella immagine la differenza tra i due maestri: «Se il discepolo del Buddha è riconoscibile grazie al suo passo delicato e lieve, capace di traversare un villaggio quasi fosse un’ape che passa di fiore in fiore, per converso, il discepolo di Gesù è riconoscibile grazie al suo passo amoroso e caldo, capace di rispondere con mansuetudine e premura anche a chi offende e maledice».
Se la fede in Dio, dal cristiano inteso come un essere vivente che si rapporta all’uomo come un padre e una madre si rapportano a un figlio, distingue nettamente buddismo e cristianesimo, ne consegue anche un modo del tutto diverso d’intendere e affrontare il dolore. Per Buddha l’individuo ha in se stesso la forza per liberarsene attraverso un costante esercizio di distacco da ogni passione e attaccamento. Per Gesù il liberatore è Dio; egli è sempre accanto all’uomo, soprattutto quando è misero e sofferente, e con la sua risurrezione testimonia che l’uomo non è destinato alla morte e all’estinzione, ma a una vita nuova nella dimensione di Dio. «La via del Buddha - sottolinea Comolli - fa a meno della fede; la via di Gesù, vive nella fede». Per questo egli che, a differenza del Buddha, morì ancora giovane di una morte orrenda e solitaria, accomiatandosi disse ai suoi amici: «Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), e ancora: «Voi, ora, siete nel dolore; ma vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno potrà togliervi la vostra gioia» (Gv 16, 22). L’esortazione di Buddha ai discepoli è molto diversa: «Prendete rifugio in voi stessi e non in altro», e le sue ultime parole furono: «Continuate ad esercitarvi, instancabilmente».
Riassumendo la diversità delle due concezioni spirituali, Giampiero Comolli le raccoglie in tre assunti. Alla base della ricerca del Buddha vi sono l’inconoscibilità di Dio, l’irrilevanza della questione per giungere alla liberazione dal dolore, la capacità dell’uomo di farlo con le proprie sole forze. Esattamente opposti sono i presupposti su cui si fonda il messaggio di Gesù, ovvero l’esistenza di Dio, l’importanza primaria e assoluta della questione, l’impossibilità per l’uomo di salvarsi da solo. Così si può anche dire che il cuore del buddismo è la pace che nasce dal sapersi liberare dal dolore, mentre al cuore del cristianesimo c’è una serenità diversa e, in un certo senso, più libera che sorge dalla fiducia nell’amore indefettibile di Dio. In un caso la pace è una conquista, nell’altro un dono. E la libertà in cui confida il seguace di Gesù non è nirvana, estinzione, uscita dal ciclo delle reincarnazioni, ma ingresso di ognuno con la sua propria personale storia e identità nella vita piena ed eterna di Dio. Cioè, risurrezione.
La malinconia meravigliosa si chiude su questo tema, che quando Paolo lo affrontò spinse i razionali ateniesi, fino a lì attenti e interessati alle sue parole, a ridergli in faccia e a dirgli che su quello lo avrebbero ascoltato un’altra volta. Anch’io ve ne parlerei volentieri, ma forse anche voi come gli ateniesi vi mettereste a ridere di me... O mi sbaglio?
Sul tema, nel sito, si cfr.:
KANT E SAN PAOLO. COME IL BUON GIUDIZIO ("SECUNDA PETRI") VIENE (E VENNE) RIDOTTO IN STATO DI MINORITA’ DAL GIUDIZIO FALSO E BUGIARDO ("SECUNDA PAULI").
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
Federico La Sala
Politica e inoperosità
di Dario Gentili (Alfabeta-2, 27.01.2019)
L’edizione integrale pubblicata da Quodlibet rappresenta di Homo sacer, per usare i termini dello stesso Giorgio Agamben, l’edizione «definitiva, aumentata e corretta». Per quanto Agamben abbia in più occasioni precisato che il progetto ventennale di Homo sacer sia da considerare concluso in quanto «abbandonato», ciò non toglie che l’edizione Quodlibet è definitiva quantomeno poiché consente di considerare l’opera nella sua unitarietà. È invece ancora presto per dire quale contributo specifico questa edizione possa apportare alla ricezione di Homo sacer, che, nei più di vent’anni trascorsi dalla pubblicazione del primo libro del progetto (col sottotitolo Il potere sovrano e la nuda vita, Einaudi 1995), ha già una propria storia. Infatti, le figure di pensiero di Homo sacer - solo per nominarne alcune: la nuda vita, lo stato d’eccezione, la teologia economica, la forma di vita, l’uso - hanno caratterizzato già diverse fasi della sua ricezione. Fasi diverse per quanto diversa era la congiuntura storica, politica ed economica su cui ognuno dei nove volumi del progetto è intervenuto, portandola a «leggibilità». Insomma, difficile se non impossibile è stabilire ora come un’edizione definitiva possa configurare ed eventualmente modificare o spingere a riconsiderare la storia della ricezione di Homo sacer. Per questo, ci sarà tempo - un tempo che, come un’edizione definitiva esige, non può essere esclusivamente quello della congiuntura attuale. Preferibile è allora soffermarsi sull’altro termine con cui Agamben contraddistingue questa edizione: «aumentata».
Due sono le integrazioni che l’edizione Quodlibet di Homo sacer presenta: la nota in conclusione di L’uso dei corpi (l’ultimo volume del progetto: IV, 2) e il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico, che diventa l’ultimo di Stasis. La guerra civile come paradigma politico (II, 2). È su quest’ultima integrazione che intendo soffermarmi, non soltanto perché è la più corposa, ma anche perché può rappresentare un approfondimento che concerne gli esiti filosofici dell’intero progetto (vale la pena rammentare che, sebbene L’uso dei corpi sia l’ultimo volume di Homo sacer, tuttavia è Stasis a essere stato pubblicato per ultimo; da Bollati Boringhieri un anno dopo, nel 2015). Inoltre, a riprova di ciò sta il fatto che il capitolo tratta del ben noto «criterio del politico» quale relazione conflittuale tra amico e nemico, teorizzato da Carl Schmitt, uno degli autori in assoluto più ricorrenti di tutto Homo sacer (basti consultare l’Indice dei nomi, che con i Riferimenti bibliografici compone l’utilissima sezione di apparati posta alla fine dell’edizione integrale).
L’analisi di Agamben delle pagine schmittiane si basa sull’implicarsi reciproco di inimicizia e guerra nella definizione del politico. L’argomentazione di Schmitt infatti oscilla nel fare una volta del nemico e un’altra della guerra il presupposto della relazione costitutiva che determina il concetto di politico: se il nemico assume una preminenza «politica» rispetto all’amico, è tuttavia nella «possibilità reale dell’uccisione fisica», cioè nella guerra, che ciò viene definitivamente a manifestazione.
L’opposizione amico-nemico quale criterio del politico svolgerebbe dunque la funzione di celare o mitigare la crudezza del fondamento ultimo della politica, la guerra, facendo così dell’inimicizia la protagonista unilaterale della politica. È a partire da qui, dalla massima stringenza del dispositivo schmittiano, che Agamben procede per disattivarlo. Non procede pertanto dal suo interno, dal concetto di amicizia (come in fondo ha fatto Jacques Derrida in Politiche dell’amicizia), sostanzialmente catturato e neutralizzato dal primato dell’inimicizia nel caso - decisivo per determinare la situazione politica - della guerra.
Agamben procede invece dal concetto di guerra che Schmitt assume, ovvero da ciò che un ambito del politico definito dalla guerra effettivamente «esclude». Si ribadisce così quella che è la modalità propria di pensiero di Agamben in Homo sacer: è l’esclusione - ad esempio della «nuda vita» e della «vita sacra» nel primo volume dell’opera - a consentire, fin dalle origini della tradizione occidentale, la costituzione dell’ambito - o, detto altrimenti, del «campo» - della politica. Nel caso della guerra, a essere escluso dall’ambito della politica è il «gioco».
Agamben riprende la critica che Leo Strauss mosse nel 1932 al Concetto del politico, mettendo l’accento sul «divertimento» che, tra le altre cose, per Schmitt caratterizzerebbe il mondo qualora venisse meno la distinzione tra amico e nemico - e, con essa, la politica stessa. Nella riedizione del 1963 dello scritto, Schmitt risponde alla critica di Strauss, precisando che, per «divertimento», bisognerebbe intendere appunto «gioco». La politica è una cosa seria, come «serio» è il caso di eccezione in cui la sovranità è chiamata a «decidere».
Agamben prende molto sul serio l’avversione di Schmitt nei confronti del gioco - o, meglio, della riduzione della politica a gioco - e vi riconosce la vera posta in palio della politica in quanto tale. Per Agamben, infatti, non soltanto il gioco corrisponde a ciò che una politica per costituirsi come guerra deve escludere, ma rappresenta anche la possibilità di un concetto alternativo di politica. Alternativo come è quello configurato, in Pulcinella ovvero Divertimento per li regazzi (nottetempo 2015), dalla forma-di-vita di Pulcinella, che «annuncia ed esige un’altra politica»: una politica della commedia piuttosto che quella della tragedia cara a Schmitt. E, in effetti, come la commedia è più antica della tragedia, così lo è il gioco rispetto alla guerra quale forma e dinamica del conflitto.
Prendendo le mosse da Homo ludens di Huizinga, Agamben riconduce il conflitto all’ambito greco dell’agon, più prossimo alla sfera del gioco, piuttosto che all’ambito, bellico, del polemos. Diverse sono le fonti a cui Agamben fa riferimento per asserire l’originarietà del conflitto agonale nella Grecia antica, fino a sostenere con Vernant l’«intima solidarietà fra il conflitto e l’associazione», che - aggiungo io sulla scorta di Nicole Loraux - si può riscontrare addirittura nell’etimo di agorà, lo spazio per eccellenza del confronto politico nella polis. È dunque come agon che il conflitto sposta sull’amicizia il fuoco del criterio del politico: «possiamo allora proporre l’ipotesi - opposta a quella formulata da Schmitt - che in origine la guerra sia un aspetto della funzione agonale-giocosa, consustanziale alla convivenza fra gli uomini, attraverso la quale vengono costruiti rapporti di integrazione e di philía fra gruppi estranei o, all’interno della stessa comunità, fra diverse classi di età».
Per dirla con i termini che appartengono al lessico dell’intero Homo sacer: se la guerra è la messa in opera del conflitto, il gioco è l’inoperosità del conflitto. E tuttavia, pur sempre di politica si tratta - è per questo che il capitolo Nota sulla guerra, il gioco e il nemico getta una luce significativa sulla portata politica dell’intero progetto di Homo sacer, spesso tacciato di impoliticità quanto agli esiti che categorie come «potenza destituente» e, appunto, «inoperosità» sembrano profilare.
Di altro segno rispetto alla deriva impolitica è invece la problematicità che intendo qui rilevare. Pur tenendo ferma la distinzione tra conflitto e guerra, tale che il gioco apre a un uso politico del conflitto - legato all’associazione e all’integrazione dello straniero nella comunità - alternativo a quello bellico, bisogna tuttavia ricordare come l’agorà non è solo «piazza politica», ma è anche «mercato». Non a caso, nella Nota, si cita la definizione che Vernant fornisce di agon: «competizione organizzata». È un gioco, infatti, anche quello che ha luogo sul mercato: il gioco instaurato dallo scambio e dal commercio. Ed è un gioco che prevede la sospensione dell’inimicizia politica, razziale, religiosa, accogliendo così lo straniero in quanto partner commerciale (per secoli, infatti, il mercato è stato uno spazio ex lege). Ne è ben consapevole Friedrich von Hayek, uno dei pensatori di riferimento del neoliberalismo, quando definisce catallassi la sua concezione dell’ordine spontaneo del mercato, a cui attribuisce una evidente funzione politica, anch’essa alternativa al criterio del politico di Schmitt: «Propongo di chiamare questo ordine spontaneo di mercato catallassi, in analogia con il termine “catallattica”, che è stato spesso proposto come sostituto del termine “economia” (entrambe le espressioni, “catallassi” e “catallattica”, derivano dall’antico verbo greco Katallattein che, significativamente, vuol dire non solo “barattare” e “scambiare”, ma anche “ammettere nella comunità” e “diventare amici da nemici”)».
Certo, anche Hayek presuppone il nemico; ma il suo non è il nemico politico in guerra come per Schmitt, bensì il concorrente sul mercato, con il quale si possono stringere, seppur temporaneamente, accordi di amicizia. C’è allora da chiedersi se non sia stato proprio il gioco del mercato ad aver soppiantato la seriosa politica della guerra di Schmitt. Homo sacer provvede a delineare dell’economia la genealogia teologica (in Oikonomia, nuovo titolo del Regno e la Gloria nell’edizione Quodlibet); ma si potrebbe risalire a un’altra e complementare genealogia dell’economico, lungo un’ulteriore linea di ricerca che potrebbe aprirsi oggi da una rilettura, magari contropelo, di Homo sacer: una linea di ricerca genealogica, altrettanto contrassegnata da quelle ambivalenze che Agamben magistralmente ci ha insegnato a rintracciare, che faccia emergere una economia politica dell’inoperosità.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
I SEGNI DEI TEMPI. L’ECONOMIA DELLA SALVEZZA ("Deus charitas est": 1 Gv., 4.8) E L’ECONOMIA DELLA RICCHEZZA, DI "MAMMONA" E "MAMMASANTISSIMA" ("Deus caritas est": Benedetto XVI, 2006): UNA TENSIONE SPEZZATA ...
"IL TEMPO CHE RESTA": UNA DOMANDA DI GIORGIO AGAMBEN A UNA CHIESA PERSA NEL TEMPO.
VERITA’ E VERIDIZIONE: PAROLE PER UNA NUOVA POLITICA. Agamben fa un passo innanzi con Foucault, ma cento passi indietro senza Kant.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
METAFISICA. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.... *
Martin Heidegger
Così la metafisica lavora al proprio annientamento
Filosofia. Nessuna concessione all’antisemitismo nazista nel IV dei «Quaderni neri»: a metà anni ’40, l’avversario è piuttosto il «monoteismo ebraico-cristiano», responsabile, tra l’altro, dei «sistemi della dittatura totale»: da Bompiani
di Lucio Cortella (il manifesto, 27.01.2019)
Chi pensava di trovare la teorizzazione del supposto antisemitismo di Martin Heidegger nel quarto volume dei suoi Quaderni - Note I-V. Quaderni neri 1942-1948 (traduzione di Alessandra Iadicicco, Bompiani, pp. XVIII-700, euro 30,00) rimarrà deluso. Alla «questione ebraica» il filosofo tedesco dedica in tutto una quindicina di righe. Per le restanti 700 pagine, a parte un rapido accenno al «profetismo», nient’altro.
Anche questa quarta puntata dei Quaderni neri si conferma come un «diario filosofico», una meditazione pensante di Heidegger su se stesso, sui grandi temi della propria filosofia, in particolare sulla questione che, a partire dalla «svolta» avvenuta alla fine degli anni Venti, era diventata per lui centrale e cruciale, la questione dell’essere e della sua «storia». Per Heidegger l’essere non va confuso con gli «enti»: non è né una cosa del mondo né una sostanza trascendente e sovrasensibile al di fuori del mondo, come l’ente «supremo» della tradizione metafisica cristiana. L’essere non è identificabile con una «sostanza», è invece un essenziale sottrarsi (e nascondersi) a ogni tipo di «entificazione», a ogni oggettivazione. Ciò che noi comprendiamo dell’essere emerge solo dalla storia, dalla «sua» storia che è poi anche la «nostra». Ma al tempo stesso questa è la storia del suo tradimento, della sua perdita, del suo abbandono.
L’efficienza del fare
Già la filosofia degli inizi, in Grecia, aveva trattato l’essere come un ente, come una «presenza», anche quando lo ha pensato come un’entità trascendente (le idee di Platone, il motore immobile aristotelico, il Dio cristiano), ma così ha annullato e rimosso quella che Heidegger chiama differenza ontologica, la differenza essenziale tra «essere» ed «ente». Riducendo l’essere all’ente lo ha reso disponibile all’oggettivazione, alla manipolazione, alla strumentalizzazione, aprendo le porte all’età della tecnica. La modernità diventa così la realizzazione estrema di quella metafisica che ha dimenticato l’essere a favore dell’ente. Quella dimenticanza, tuttavia, non è un errore umano. Al contrario, è proprio il modo in cui l’essere stesso si è reso «presente» nella storia. L’oblio sta inscritto in quella ambivalenza per cui l’essere è al tempo stesso un nascondersi e un presentarsi. La sua riduzione a ente e la stessa civiltà della tecnica sono perciò il destino che l’essere stesso ci ha riservato.
La nozione fondamentale che Heidegger usa in questi anni, e che ricorre spesso nei quaderni, è quella della «macchinazione», un termine che veniva spesso impiegato dalla propaganda antisemita contro il presunto disegno di «dominio ebraico» sul mondo. Ma la «Machenschaft» assume in Heidegger un significato che va ben al di là, perché indica la caratteristica fondamentale dell’età della tecnica, in cui centrale è l’efficienza del fare (machen) e del produrre. La «macchinazione» si rivela, perciò, come il destino che l’essere ci ha riservato facendoci dimenticare la sua differenza dall’ente e presentandosi come ciò che può venire infinitamente prodotto, trasformato e manipolato. La conseguenza è la «desertificazione» (Verwüstung), la cancellazione del mondo e lo sradicamento dell’essere umano.
È in questo contesto che Heidegger colloca la sua comprensione della «ebraicità» (Judenschaft). Nelle poche righe contenute nel primo dei cinque quaderni che compongono il volume, riconduce l’essenza dell’ebraismo all’essenza della tecnica. Siamo nel pieno della seconda guerra mondiale, durante l’estate del 1942, e la distruzione dell’Europa avanza, con i suoi massacri, i bombardamenti, le devastazioni. Heidegger definisce tutto ciò «l’anti-Cristo», ma questo spirito di distruzione - aggiunge - non può che derivare dal suo stesso fondamento, cioè dal «Cristo».
Un destino delle origini
È il Cristianesimo, dunque, il responsabile, insieme alla metafisica, della distruzione cui sta andando incontro l’Occidente. Ma ecco che - con una mossa inaspettata - Heidegger riconduce anche il «Cristo» a una radice più profonda: quella della «ebraicità». Cristianesimo, metafisica ed ebraismo vengono coinvolti in una comune responsabilità di fronte alla distruzione di quei tempi. Nel momento del suo massimo dispiegamento, la metafisica produce il proprio stesso annientamento: questo il destino che attende anche «ciò che è essenzialmente ebreo». Teorizzare l’autoannientamento (Selbstvernichtung) del popolo ebraico proprio negli anni in cui la Germania nazista portava a compimento la barbarie dell’olocausto desta indubbiamente sconcerto e una legittima indignazione, tanto più se si pensa che dieci anni prima Heidegger aveva aderito entusiasticamente al nazismo, salvo poi ricredersi e ritirarsi dalla vita pubblica.
Tuttavia, la tesi dell’autoannientamento esprime una concezione ben più generale e riguarda il destino della metafisica e della tecnica, destino in cui l’ebraismo viene coinvolto solo tangenzialmente. Secondo Heidegger infatti, quella parabola di autodistruzione era già inscritta nel pensiero aurorale greco, pensiero che fin dagli inizi aveva obliato l’essere a favore dell’ente. E se negli anni della sua adesione al nazismo Heidegger aveva creduto alla possibilità di un «nuovo inizio» nella storia dell’essere, ora guarda a quell’adesione come a un errore di prospettiva: «L’errore fu la fretta precipitosa, fu solo un errore di tempo. Fu il non vedere ancora chiaramente che quel tempo era “lungo”».
Non ci sarà un nuovo inizio ma l’inesorabile autoannientamento della Germania, dell’Europa e dello stesso esserci. Da queste pagine non sembra dunque emergere alcuna concessione all’antisemitismo nazista, che, anzi - in un veloce passaggio del diario di qualche anno dopo - viene giudicato da Heidegger «folle e riprovevole». In quel periodo, l’avversario non è tanto l’ebreo quanto il «monoteismo ebraico-cristiano», al quale vengono ricondotti anche «i moderni sistemi della dittatura totale». La polemica più dura è rivolta al cristianesimo e alla sua «teologia clericale»: «io non sono un cristiano», scrive Heidegger, «e unicamente per la ragione che non posso esserlo». Tra pensiero e fede c’è «fessura», inconciliabilità assoluta: se esiste una «filosofia cristiana», bisogna chiedersi «fino a che punto una tale filosofia pensi», dato che «per il pensiero non vi è nessun Dio».
Un interrogativo, tuttavia, rimane: come mai - dopo che alla fine della guerra era diventata evidente a ogni tedesco la mostruosità dell’olocausto - Heidegger insiste, sebbene tramite pochi accenni, con la sua critica filosofica nei confronti di «ciò che è ebreo» invece di fare i conti seriamente con lo sterminio perpetrato dai nazisti? La risposta non può che essere intrinseca alla sua ontologia, incapace di interrogarsi sull’enormità di quell’evento. Agli occhi di Heidegger, il destino dell’essere sembra decidersi più sul terreno, per lui nefasto, della democratizzazione verso cui si sta avviando la Germania del dopoguerra, sotto il segno della perdita per lui incolmabile dell’identità, e come un «macchinario omicida» che conduce al «completo annientamento», piuttosto che sull’atroce sterminio di un intero popolo.
La sofferenza delle vittime, la meditazione sull’orrore e la negazione estrema dell’umano che l’olocausto rappresenta finiscono, dunque, per non avere alcuna rilevanza davanti al punto di vista anonimo e imperscrutabile della storia dell’essere.
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SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito... *
Ottobre.
Il Papa: preghiamo con il rosario per la Chiesa attaccata dal demonio
Papa Francesco chiede a tutti i fedeli di recitare quotidianamente il Rosario nel mese mariano di ottobre. E di concludere con due invocazioni
Papa Francesco ha deciso di invitare tutti i fedeli, di tutto il mondo, a pregare il Rosario ogni giorno, durante l’intero mese mariano di ottobre e a unirsi così in comunione e in penitenza, come popolo di Dio, nel chiedere alla Madonna e a san Michele Arcangelo di proteggere la Chiesa dal diavolo, che sempre mira a dividerci da Dio e tra di noi. Lo rende noto un comunicato della Santa Sede.
Nei giorni scorsi, prima della sua partenza per i Paesi Baltici - ricorda la Santa Sede - il Papa ha incontrato padre Fréderic Fornos, direttore internazionale della Rete Mondiale di Preghiera per il Papa, e gli ha chiesto di diffondere in tutto il mondo questo suo appello a tutti i fedeli, invitandoli a concludere la recita del Rosario con l’antica invocazione Sub Tuum Praesidium, e con la preghiera a san Michele Arcangelo che ci protegge e aiuta nella lotta contro il male (cfr. Apocalisse12, 7-12).
La preghiera, aveva osservato il Pontefice l’11 settembre in un’omelia a Santa Marta, citando il primo libro di Giobbe, è l’arma contro il Grande accusatore che «gira per il mondo cercando come accusare». Solo la preghiera lo può sconfiggere. I mistici russi e i grandi santi di tutte le tradizioni consigliavano, nei momenti di turbolenza spirituale, di proteggersi sotto il manto della Santa Madre di Dio pronunciando l’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione Sub Tuum Praesidium.
L’invocazione recita così:
Sub tuum praesidium confugimus Sancta Dei Genitrix. Nostras deprecationes ne despicias in necessitatibus, sed a periculis cunctis libera nos semper, Virgo Gloriosa et Benedicta.
[Sotto la tua protezione cerchiamo rifugio, Santa Madre di Dio. Non disprezzare le suppliche di noi che siamo nella prova, ma liberaci da ogni pericolo, o Vergine Gloriosa e Benedetta].
Con questa richiesta di intercessione il Papa chiede ai fedeli di tutto il mondo di pregare perché la Madonna ponga la Chiesa sotto il suo manto protettivo: per preservarla dagli attacchi del maligno, il grande accusatore, e renderla allo stesso tempo sempre più consapevole delle colpe, degli errori, degli abusi commessi nel presente e nel passato e impegnata a combattere senza nessuna esitazione perché il male non prevalga.
La preghiera a san Michele Arcangelo
Il Papa ha chiesto anche che la recita del Santo Rosario durante il mese di ottobre si concluda con la preghiera scritta da Leone XIII, che recita così:
Sancte Michael Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute, in infernum detrude. Amen.
[San Michele Arcangelo, difendici nella lotta: sii il nostro aiuto contro la malvagità e le insidie del demonio. Supplichevoli preghiamo che Dio lo domini e Tu, Principe della Milizia Celeste, con il potere che ti viene da Dio, incatena nell’inferno satana e gli spiriti maligni, che si aggirano per il mondo per far perdere le anime. Amen].
* Avvenire, 29.09.2018 (ripresa parziale, senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
STORIA E (FENOMENOLOGIA DELLO) SPIRITO. Il cristianesimo non è un "cattolicismo": il ’cattolicesimo’ è finito...
IL DRAMMA DEL CATTOLICESIMO ATEO E DEVOTO
DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA "ANTICRISTO" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
Federico La Sala
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.... *
No, la violenza non è soltanto dei cristiani
Catherine Nixey ha scritto un saggio piacevole, scorrevole e inutilmente unilaterale. Che segue sempre lo stesso schema di un’opposizione tra pagani tolleranti e illuminati e seguaci del Vangelo fanatici e ignoranti. Il fatto è che, se non ci liberiamo di queste ricostruzioni arbitrarie e di questi luoghi comuni, non saremo mai capaci di costruire una società su valori condivisi
di Mauro Bonazzi (Corriere della Sera, La Lettura, 30.09.2018)
«Sono venuto a portare la spada, non la pace!», tuonava Gesù nel Vangelo di Matteo. Nella tarda antichità al posto delle spade venivano usate delle mazze, provvidenzialmente ribattezzate «Israele». Vestiti di nero, con lunghe barbe nere, le brandivano orde di monaci, anonimi e irrintracciabili: arrivavano, colpivano e sparivano, in missione per far sentire la voce del Signore. Altre volte ci si accontentava di bastoni e pietre. Tra i tanti che assaporarono questa forma molto concreta di giustizia divina fu Ipazia, la celebre filosofa e matematica: trascinata in una chiesa, fu scorticata viva; morta, fu fatta a pezzi e le sue membra gettate nel fuoco. Non erano solo gli esseri umani a essere investiti da questa furia. A Palmira, la perla del deserto, fu ad esempio raso al suolo il tempio di Atena e la sua statua tirata giù dal piedistallo, con le braccia mozzate e la testa decapitata. Così, nel volgere di un paio di secoli fu spazzata via una cultura millenaria, quella greca e romana, fatta di terme (dove succedeva di tutto, ma proprio di tutto) e teatri, di poesie erotiche e discussioni filosofiche. C’era stato una volta un mondo capace di godersi la vita, dove ora regnava il terrore di Dio.
Ricordano qualcosa di attuale queste storie di fanatici barbuti e statue abbattute (a Palmira!)? Di sicuro sono vicende che non mancano di una discreta ironia per quanti ricordano il celeberrimo (o famigerato) discorso che Joseph Ratzinger tenne a Ratisbona nel settembre del 2006: negava la legittimità di qualsivoglia legame tra fede e violenza (un legame, suggeriva il Papa maldestramente, forse caratteristico del mondo islamico), rivendicando con chiarezza la necessità di un confronto proficuo con la ragione (il logos dei greci, più precisamente). Chissà che cosa avrebbero risposto Scenute di Atripe, oggi santo della chiesa copta (cristiana), allora instancabile bastonatore (ma non mancava mai di piangere per i nostri peccati, dopo le sue spedizioni) o Tertulliano, uno dei grandi padri della chiesa romana, quello del credo quia absurdum, con tanti saluti ai ragionamenti dei filosofi.
Scritto con grande verve, piacevole e scorrevole, il libro di Catherine Nixey ricostruisce con dovizia di dettagli questi e numerosi altri episodi analoghi, sempre secondo lo stesso schema di un’opposizione tra pagani tolleranti e illuminati contro cristiani fanatici e ignoranti. La tradizione in cui s’inserisce è gloriosa, da Voltaire a Edward Gibbon (passando per esempi meno nobili di scrittori nostrani che campano grazie a un pubblico ristretto ma sempre contento di sentirsi ripetere quanto stupidi siano i cristiani o più in generale i credenti). È però anche inutilmente unilaterale. Il problema non è solo quello dell’attendibilità storica - davvero la tarda antichità è stato questo bagno di sangue e roteare di mazze? In gioco c’è il problema dell’identità europea e occidentale, e del difficile rapporto che essa intrattiene con la tradizione cristiana. Era il tema che stava sullo sfondo del discorso di Ratzinger a Ratisbona. Ne stiamo ancora discutendo.
In una prospettiva strettamente storica il mito di un’opposizione tra pagani illuminati e cristiani fanatici è appunto nient’altro che un mito. Cirillo, il vescovo di Alessandria e il mandante morale dell’assassinio di Ipazia, fu anche un raffinato teologo: brutale e disumano quanto si vuole nelle battaglie politiche, ma non certamente un ignorante. Ancora di meno lo era Origene, di cui si ricorda solo che si era evirato in ossequio a un passo del Vangelo (ma si eviravano anche i sacerdoti di diversi culti misterici pagani, pare, e Ipazia aveva sbattuto in faccia a uno spasimante un assorbente sporco di sangue perché si rendesse conto di cosa fosse l’amore: non era un’epoca particolarmente sensibile alle sirene del corpo, senza troppe distinzioni tra cristiani o pagani); o tanti altri padri della Chiesa, impegnati in dibattiti infiniti e sottilissimi. Raramente si è discusso tanto come in questi secoli. Le mani e la testa di Cicerone appesi ai Rostri per far contento Marco Antonio o la fila infinita di schiavi crocifissi sulla via Appia dopo la rivolta di Spartaco ci ricordano in compenso che la violenza, pubblica o privata, non era certo prerogativa dei soli cristiani. Il punto decisivo è piuttosto che cristiani e pagani con il passare del tempo divennero due comunità compiutamente integrate. Fronteggiandosi da campi ideologici opposti, queste due fazioni hanno finito per rendersi simili l’una all’altra, ritrovandosi in una eredità culturale comune. Ed è questo su cui bisognerebbe riflettere.
Lontana e poco conosciuta, questa storia, fatta di scontri violentissimi e amanuensi che copiavano pazienti pagine e pagine di testi, è infatti molto più attuale di quanto non si creda. Ai tanti che oggi inneggiano al cristianesimo come ultimo baluardo in difesa della nostra civilità andrebbe ricordato che il cristianesimo non è nato qui: è un prodotto orientale, che ha lentamente e inesorabilmente invaso tutte le coste del Mediterraneo. Perché così è stato e così sempre sarà: le persone e le idee si muovono. Ma ai tanti altri che nel cristianesimo vedono solo una lunga e interminabile teoria di errori e violenze andrebbe fatto osservare che lo spazio riservato da questa religione alla ragione, a quello che i Greci chiamavano logos, è davvero significativo. Quando Paolo predicò sull’Areopago, gli Ateniesi lo irrisero per l’assurdità della sua fede. Ma i suoi successori hanno progressivamente sviluppato una teologia, un modo di guardare al mondo e all’uomo, che non aveva niente da invidiare alla filosofia greca. Pur con tutti gli episodi violenti che si possono rievocare, la battaglia tra Gerusalemme e Atene è stata anche, e forse soprattutto, un confronto di idee, che si è conclusa non con la distruzione del nemico, ma con la conservazione (parziale, sia ben chiaro) del suo patrimonio. E con la comprensione dell’importanza dell’intelligenza e delle parole nella vita degli uomini. Era una delle idee che stava alla base del discorso di Ratzinger. Non c’è bisogno di essere credenti per riconoscere che non aveva tutti i torti.
Naturalmente, non si vuole con questo affermare che tutti i problemi siano stati risolti. «Io», aveva risposto Gesù Cristo, quando Ponzio Pilato gli aveva chiesto che cosa fosse la verità. Non è evidentemente una risposta che può soddisfare il non credente. Ma intanto si sono poste le basi per un terreno comune (quello della verità o dell’accordo) su cui ritrovarsi, in cui le istanze opposte possano esprimersi. È il problema della tolleranza, in altre parole, un principio fondamentale oggi che appare difficilmente compatibile con le idee di questi primi cristiani. Ma proprio il confronto con questa tradizione dovrebbe aiutarci a fare chiarezza, impedendo di fare della tolleranza un idolo vuoto: perché una tolleranza illimitata non può che scadere in un relativismo morale per cui ognuno si sente libero di fare quello che vuole a casa sua, disinteressandosi di quello che succede altrove.
Una società ha piuttosto bisogno di una serie di valori condivisi per potersi orientare tra i tanti conflitti potenziali che l’attraversano. E uno dei principi che più hanno contribuito al successo della tradizione cristiana è stato quello di una comunanza di tutti gli esseri umani - «senza distinzioni di genti e classi, liberi e schiavi», scriveva Benedetto Croce.
L’appartenenza degli esseri umani a un’unica famiglia. È un’idea che era stata abbozzata nel mondo greco (dagli stoici) e che sarà ripresa in tutt’altro modo dall’Illuminismo con lo sviluppo dell’idea dei diritti umani. È un’idea che sta alla base della civiltà europea. E di cui andare tanto più orgogliosi proprio oggi che viene criticata da più parti, vuoi perché sentita come una forma sottile di imperialismo vuoi perché incapace di difendere la nostra specificità rispetto alle altre civiltà. Senza negare le violenze che indubbiamente ci sono state, ma consapevoli della nostra storia.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
L’EUROPA, IL CRISTIANESIMO ("DEUS CHARITAS EST"), E IL CATTOLICESIMO COSTANTINIANO ("DEUS CARITAS EST"). Una storia di lunga durata...
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo"
Federico La Sala
VATICANO
Lo scandalo che il papa non riesce ad arginare
di Francesco Peloso, giornalista (Internazionale, 21 agosto 2018)
Un colpo durissimo per la chiesa, una scossa tellurica capace di fare tremare le fondamenta dell’istituzione. È questo l’effetto del rapporto di circa 900 pagine messo a punto da un grand giurì della Pennsylvania al termine di due anni di indagini sugli abusi sessuali commessi da rappresentanti del clero in sei delle otto diocesi dello stato negli ultimi settant’anni. Il quadro - così come presentato alla stampa da Josh Shapiro, procuratore generale dello stato - è devastante: più di trecento preti hanno commesso violenze sessuali, mille le vittime fra bambini e minori. L’ipotesi però è che siano molte di più: in tanti hanno avuto paura di denunciare i fatti mentre numerosi documenti sono stati distrutti o sono spariti dagli archivi segreti delle diocesi.
Proprio quest’ultimo è un punto chiave dell’indagine, la più ampia e completa mai condotta negli Stati Uniti. Dalle 500mila pagine di documenti analizzati sono emersi gli elementi che consentono di descrivere una strategia dell’insabbiamento messa in atto dalle gerarchie ecclesiastiche per nascondere gli abusi all’opinione pubblica ed evitare il carcere ai sacerdoti predatori (come vengono definiti). All’inchiesta ha contribuito anche l’Fbi. Alcuni agenti del Center for the analysis of violent crime hanno fatto venire alla luce i metodi di insabbiamento.
Tra le opzioni più frequenti spiccano quelle sul linguaggio, come l’indicazione di non usare mai il termine “stupro” ma la più asettica definizione di “comportamento inappropriato”. Soprattutto, è delineata una pianificazione del depistaggio con alcuni elementi ricorrenti: lo svolgimento di indagini incerte e superficiali, evitando che a condurle fosse un personale “adeguatamente formato”; il provvedimento, tutto di facciata, di mandare per qualche tempo il prete colpevole in una clinica psichiatrica o in un istituito specializzato per una opportuna “valutazione”; lo spostamento in un’altra diocesi del sacerdote di cui è certa la responsabilità. Per giustificare questi spostamenti, tutte le diocesi negavano le ragioni vere e parlavano invece di “esaurimento nervoso” o “congedo per malattia”. Un sistema di coperture che si fondava sul ruolo decisivo dei vescovi, cioè delle massime autorità della chiesa locale.
Evitare lo scandalo
Si tratta di uno scenario in parte noto, venuto alla luce a pezzi in varie inchieste e indagini negli ultimi anni, ma che ora trova una sua organicità e precisione tale da ridisegnare in modo definitivo il livello di responsabilità delle persone coinvolte nell’azione di copertura. La documentazione trovata negli archivi segreti delle diocesi riafferma un principio base che ritorna nelle indagini sugli abusi da parte del clero in varie parti del mondo: “evitare lo scandalo”, piuttosto che proteggere le vittime.
Le chiavi dell’archivio segreto, per altro, secondo quanto stabilito dal codice di diritto canonico, devono essere in possesso “del solo vescovo”. Lo stesso codice stabilisce altresì che “ogni anno si distruggano i documenti che riguardano le cause criminali in materia di costumi, se i rei sono morti oppure se tali cause si sono concluse da un decennio con una sentenza di condanna, conservando però un breve sommario del fatto con il testo della sentenza definitiva”; una norma che, evidentemente, è stata variamente interpretata.
I casi specifici messi in evidenza dall’ufficio del procuratore sono raccapriccianti. Nella diocesi di Pittsburgh un gruppo di almeno quattro sacerdoti ha abusato di vari ragazzi. Uno di loro, non ancora diciottenne, è stato costretto a restare in piedi nudo sul letto di una canonica, posando come Cristo sulla croce per i sacerdoti abusatori. Questi ultimi hanno scattato fotografie alla vittima, inserendole poi in una più ampia raccolta di materiale pedopornografico condivisa con altri sacerdoti. Comportamenti sadomasochisti, uso di fruste, torture, violenze su bambini e bambine di pochi anni, penetrazioni anali, sesso orale e poi violenze psicologiche sulle stesse vittime, ragazze messe incinte e poi costrette ad abortire. È un catalogo sconvolgente di brutalità e comportamenti sadici, feticismi - come quello del prete che raccoglieva urine e mestruo delle ragazze violentate - conditi da paternalismo e da minacce, da una cultura del segreto, complicità morbosa, protezioni.
La gran parte di questi reati è caduta in prescrizione, mentre per gli anni più recenti l’accesso alla documentazione è stato complicato. Il procuratore Shapiro ha fatto proprie alcune raccomandazioni del gran giurì, tra cui la richiesta di eliminare i limiti di età alle denunce per i crimini contro i minori, la possibilità per le vittime più grandi di fare causa per danni, una legislazione adeguata che sanzioni l’omissione delle denunce di abusi sui minori e soprattutto un chiarimento circa il fatto che gli accordi di riservatezza non hanno valore rispetto a quanto una vittima possa riferire alla polizia.
In un paio di casi la giustizia è riuscita a indagare i preti abusatori, mentre nell’occhio del ciclone è finto il cardinale Donald Wuerl, oggi arcivescovo di Washington, accusato di aver coperto gravi abusi in passato, quando era vescovo di Pittsburgh. Va detto che da parte di alcuni esponenti della chiesa c’è stata collaborazione all’indagine: è il caso del vescovo della diocesi di Erie, Lawrence Persico, che ha spinto per la pubblicazione del rapporto e, da parte sua, ha reso noti i nomi dei responsabili degli abusi sul sito della diocesi, creandosi non pochi nemici .
Ritorno al punto di partenza
Tuttavia l’episcopato americano nel suo insieme appare tramortito. Dopo quasi vent’anni di normative in favore della “tolleranza zero”, il susseguirsi di nuovi scandali, i risarcimenti miliardari alle vittime, le centinaia di processi canonici e riduzioni allo stato laicale di preti pedofili, le collaborazioni con la giustizia civile, l’istituzione di comitati di esperti, sembra di essere tornati al punto di partenza. Anche perché solo poche settimane fa, monsignor Theodore McCarrick, ex arcivescovo di Washington, è stato costretto a rinunciare al titolo di cardinale, accusato anche lui di abusi su minori; e però a destare scalpore, anche in questo caso, è stato il fatto che in Vaticano segnalazioni sul caso McCarrick erano arrivate anni fa. Del resto, contatti e scambi d’informazioni fra le diocesi e il Vaticano in merito a certi casi emergono anche nell’indagine in Pennsylvania, ulteriore conferma che Roma era informata del problema.
All’indagine del gran giurì, la Santa Sede ha reagito con una lunga dichiarazione del direttore della sala stampa vaticana, Greg Burke, nella quale si spiega che “davanti al rapporto reso pubblico in Pennsylvania questa settimana, due sono le parole che possono esprimere quanto si prova di fronte a questi orribili crimini: vergogna e dolore”.
Allo stesso tempo si precisa che le nuove pratiche messe in campo dalla chiesa cattolica hanno ridotto drasticamente il numero di episodi di abusi negli ultimi anni. Resta il fatto che solo nei giorni scorsi la sede dell’episcopato cileno è stata perquisita dalla magistratura in cerca di ulteriori prove su una cinquantina di denunce di abusi avvenuti nelle scuole rette dalla congregazione marista. Il paese andino è stato travolto negli ultimi mesi dallo scandalo e sotto indagine è finito anche Ricardo Ezzati Andrello, cardinale e arcivescovo di Santiago del Cile, accusato anch’egli di aver insabbiato e coperto violenze e abusi.
Il papa di certo ha contribuito ad aprire il vaso di Pandora degli abusi sui minori con l’intento di fare pulizia. Le mosse di Francesco - in particolare l’allontanamento di sacerdoti e vescovi coinvolti in episodi di pedofilia - sembrano tuttavia un po’ tardive e si dimostrano ormai insufficienti. Anche per questo, lunedì 20 agosto, il papa ha sentito il bisogno di rivolgere un lungo messaggio “a tutto il popolo di Dio”, nel quale oltre a riconoscere che “che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite” ha individuato nel clericalismo una delle cause di fondo del problema. “Il clericalismo - ha scritto Bergoglio - favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo”. Un messaggio apprezzato fra l’altro anche dal procuratore Josh Shapiro, probabilmente anche perché il papa chiede alla chiesa di appoggiare “tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie”.
Il rapporto mai semplice tra sessualità, esercizio del potere, celibato obbligatorio, segretezza e buon nome dell’istituzione, ha prodotto danni che perdurano nel tempo e, per quanti passi avanti siano stati compiuti dalla chiesa nell’ultimo decennio, la realtà che continua a emergere delinea una quantità di crimini sessuali forse nemmeno ipotizzabile fino a qualche anno fa.
Siamo di fronte a uno scandalo oggettivamente sconvolgente per durata nel tempo e per dimensioni (in Australia i rapporti governativi parlano di 4.500 casi di abusi commessi da sacerdoti fino al 2015) tanto più se si tiene conto che solo una parte di questo tipo di reati è denunciata.
Tra pochi giorni il papa andrà in Irlanda, un paese che, anche in ragione dell’enormità degli abusi sui minori emersi negli anni scorsi, ha visto una caduta clamorosa dell’egemonia culturale cattolica tra la popolazione. Bergoglio incontrerà anche alcune vittime.
In passato Francesco ha più volte descritto il clericalismo come un male da combattere, ma forse è arrivato il momento che il papa apra definitivamente le porte della chiesa ai laici per uscire da una crisi che nessuna commissione vaticana sembra in grado di arginare.
IL SENNO DI PRIMA ("PROMETEO"), IL SENNO DI POI ("EPIMETEO"), I DISASTRI E IL "DISPOSITIVO DI DERIVAZIONE KANTIANA" ...*
Il sociologo.
Tutti i disastri «irreparabili» e il senno di prima
Dopo il ragionamento è il solito, col senno di poi: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto?
di Maurizio Fiasco (Avvenire, sabato 18 agosto 2018)
Come accadono i disastri? C’è un’espressione, all’apparenza banale ma ricorrente, quando siamo sconcertati per un evento dai costi umani incalcolabili. «Col senno di poi». Che equivale: come è stato possibile che nessuno vedesse e capisse prima dell’irreparabile fatto? Quel che ha condotto al precipitare di una situazione - fisica, come un ponte, oppure comportamentale come una battaglia, un volo, il funzionamento di uno stabilimento industriale - aveva già emesso dei segnali.
I disastri - risulta quasi sempre agli investigatori ex post - hanno avuto una incubazione, più o meno lunga. Incubazione tutt’altro che muta, o col bavaglio, anzi spesso visibile per un complesso di segnali. Come ha insegnato, quarant’anni fa un illuminato e inascoltato Barry Turner, non sono prevenuti - ovvero fermati da decisioni pragmatiche - per le patologie della comunicazione tra gli attori di un sistema. Industriale, amministrativo, finanziario, politico: non importa la scala di grandezza. Le incompetenze si strutturano e agiscono come un sistema.
I segnali sono sfuggiti a un apparato cognitivo, a una mente capace di connetterli e perciò di abbattere le barriere che inibiscono il giudizio. È mancata la responsabilità di contrastare la universale ottusità dei sistemi, di tutti i sistemi organizzativi. Che squalificano la coscienziosità di chi abbia colto il segnale e si sia posto in modo attivo per spingere al provvedere.
Egli finisce per scontrarsi con la gerarchia, con i muri levati su dai rituali dell’organizzazione, per impattare con la squalificazione che si replica davanti all’umile operatore che sta sul terreno e lì ’vede’ qualcosa che non va. Oppure c’è il feticcio della responsabilità di vertice. Chi è in alto - pensa il testimone dei segnali che il disastro sta inviando - lo capirà più e meglio di me.
Ma il superiore guarda al consenso e alle conferme di chi siede ancora più in alto di lui. E quest’ultimo rivolge la sua mente al mandato di chi è il supremo detentore di quel bene, di quella situazione, di quel dato potere. E tutto questo complesso di fattori cambia la prospettiva, perché il conformismo è più potente della psicologia della responsabilità.
A meno che nella persona responsabile in situazione trovino nutrimento valori morali assoluti: che spingono ad assumersi il rischio personale di andare controcorrente, e di superare derisioni e ostracismo, di non farsi influenzare dal dispositivo di derivazione kantiana, «faccio quel che devo, accada quel che può».
Insomma, la responsabilità, invece di essere ispirata a valori trascendenti, si attesta alla procedura, al ’di fronte’, a quel che le regole gerarchiche - per esempio il mandato degli azionisti - hanno assegnato. E così si scambia la diversa posizione ricoperta nella piramide organizzativa con la diversità di valori etici e professionali di quanti operano in una struttura complessa: che invece, a rigore, sono unici e universali. Cioè per tutti. Nelle forze armate, dal piantone al generale; nelle autostrade, dall’operaio che passa il bitume all’amministratore delegato della infrastruttura. Unitarietà dei valori e trasparenza della comunicazione sono la speranza del «senno di prima». Potremmo dire l’intelligenza del Buon Samaritano che si prende carico della complessità della situazione e non trascura alcuna variabile.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL NOME DI DIO, SENZA GRAZIA ("CHARIS")! L’ERRORE FILOLOGICO E TEOLOGICO DI PAPA BENEDETTO XVI, NEL TITOLO DELLA SUA PRIMA ENCICLICA. Nel nome della "Tradizione"
IL NATALE DI GESU’: L’INCARNAZIONE SECONDO L’ IMMAGINAZIONE "TEANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-COSTANTINIANO. Gianfranco Ravasi ne ripropone una sintesi e la presenta come "il realismo del nascere nella storia"!!!
LO STATO DEL FARAONE, LO STATO DI MINORITA’, E IMMANUEL KANT "ALLA BERLINA" - DOPO AUSCHWITZ
"LEZIONE SU KANT" A GERUSALEMME: PARLA EICHMANN "PILATO", IL SUDDITO DELL’"IMPERATORE-DIO".
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
Federico La Sala
Lettera.
Abusi, il Papa: vergogna e pentimento. Tutta la Chiesa se ne faccia carico
Francesco ribadisce l’impegno contro il crimine degli abusi. Nella Lettera al popolo di Dio: «Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui»
_***«È imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione».
Questo uno dei passaggi chiave della “Lettera di Papa Francesco al popolo di Dio” diffusa questa mattina dalla Sala Stampa vaticana. Un testo in cui il Pontefice, all’indomani della pubblicazione del rapporto sui casi di pedofilia nelle diocesi della Pennsylvania (Stati Uniti), esprime a nome dell’intero popolo di Dio «vergogna e pentimento». E sottolinea la necessità della conversione da parte dell’intera comunità ecclesiale.
Di seguito il testo integrale della lettera.
LETTERA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AL POPOLO DI DIO
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme» (1 Cor 12,26). Queste parole di San Paolo risuonano con forza nel mio cuore constatando ancora una volta la sofferenza vissuta da molti minori a causa di abusi sessuali, di potere e di coscienza commessi da un numero notevole di chierici e persone consacrate. Un crimine che genera profonde ferite di dolore e di impotenza, anzitutto nelle vittime, ma anche nei loro familiari e nell’intera comunità, siano credenti o non credenti. Guardando al passato, non sarà mai abbastanza ciò che si fa per chiedere perdono e cercare di riparare il danno causato. Guardando al futuro, non sarà mai poco tutto ciò che si fa per dar vita a una cultura capace di evitare che tali situazioni non solo non si ripetano, ma non trovino spazio per essere coperte e perpetuarsi. Il dolore delle vittime e delle loro famiglie è anche il nostro dolore, perciò urge ribadire ancora una volta il nostro impegno per garantire la protezione dei minori e degli adulti in situazione di vulnerabilità.
1. Se un membro soffre
Negli ultimi giorni è stato pubblicato un rapporto in cui si descrive l’esperienza di almeno mille persone che sono state vittime di abusi sessuali, di potere e di coscienza per mano di sacerdoti, in un arco di circa settant’anni. Benché si possa dire che la maggior parte dei casi riguarda il passato, tuttavia, col passare del tempo abbiamo conosciuto il dolore di molte delle vittime e constatiamo che le ferite non spariscono mai e ci obbligano a condannare con forza queste atrocità, come pure a concentrare gli sforzi per sradicare questa cultura di morte; le ferite “non vanno mai prescritte”. Il dolore di queste vittime è un lamento che sale al cielo, che tocca l’anima e che per molto tempo è stato ignorato, nascosto o messo a tacere. Ma il suo grido è stato più forte di tutte le misure che hanno cercato di farlo tacere o, anche, hanno preteso di risolverlo con decisioni che ne hanno accresciuto la gravità cadendo nella complicità. Grido che il Signore ha ascoltato facendoci vedere, ancora una volta, da che parte vuole stare. Il cantico di Maria non si sbaglia e, come un sottofondo, continua a percorrere la storia perché il Signore si ricorda della promessa che ha fatto ai nostri padri: «Ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,51-53), e proviamo vergogna quando ci accorgiamo che il nostro stile di vita ha smentito e smentisce ciò che recitiamo con la nostra voce.
Con vergogna e pentimento, come comunità ecclesiale, ammettiamo che non abbiamo saputo stare dove dovevamo stare, che non abbiamo agito in tempo riconoscendo la dimensione e la gravità del danno che si stava causando in tante vite. Abbiamo trascurato e abbandonato i piccoli. Faccio mie le parole dell’allora Cardinale Ratzinger quando, nella Via Crucis scritta per il Venerdì Santo del 2005, si unì al grido di dolore di tante vittime e con forza disse: «Quanta sporcizia c’è nella Chiesa, e proprio anche tra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Lui! Quanta superbia, quanta autosufficienza! [...] Il tradimento dei discepoli, la ricezione indegna del suo Corpo e del suo Sangue è certamente il più grande dolore del Redentore, quello che gli trafigge il cuore. Non ci rimane altro che rivolgergli, dal più profondo dell’animo, il grido: Kyrie, eleison - Signore, salvaci (cfr Mt 8,25)» (Nona Stazione).
2. Tutte le membra soffrono insieme
La dimensione e la grandezza degli avvenimenti esige di farsi carico di questo fatto in maniera globale e comunitaria. Benché sia importante e necessario in ogni cammino di conversione prendere conoscenza dell’accaduto, questo da sé non basta. Oggi siamo interpellati come Popolo di Dio a farci carico del dolore dei nostri fratelli feriti nella carne e nello spirito. Se in passato l’omissione ha potuto diventare una forma di risposta, oggi vogliamo che la solidarietà, intesa nel suo significato più profondo ed esigente, diventi il nostro modo di fare la storia presente e futura, in un ambito dove i conflitti, le tensioni e specialmente le vittime di ogni tipo di abuso possano trovare una mano tesa che le protegga e le riscatti dal loro dolore (cfr Esort. ap. Evangelii gaudium, 228). Tale solidarietà ci chiede, a sua volta, di denunciare tutto ciò che possa mettere in pericolo l’integrità di qualsiasi persona. Solidarietà che reclama la lotta contro ogni tipo di corruzione, specialmente quella spirituale, «perché si tratta di una cecità comoda e autosufficiente dove alla fine tutto sembra lecito: l’inganno, la calunnia, l’egoismo e tante sottili forme di autoreferenzialità, poiché “anche Satana si maschera da angelo della luce” (2 Cor 11,14)» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 165). L’appello di San Paolo a soffrire con chi soffre è il miglior antidoto contro ogni volontà di continuare a riprodurre tra di noi le parole di Caino: «Sono forse io il custode di mio fratello?» (Gen 4,9).
Sono consapevole dello sforzo e del lavoro che si compie in diverse parti del mondo per garantire e realizzare le mediazioni necessarie, che diano sicurezza e proteggano l’integrità dei bambini e degli adulti in stato di vulnerabilità, come pure della diffusione della “tolleranza zero” e dei modi di rendere conto da parte di tutti coloro che compiono o coprono questi delitti. Abbiamo tardato ad applicare queste azioni e sanzioni così necessarie, ma sono fiducioso che esse aiuteranno a garantire una maggiore cultura della protezione nel presente e nel futuro.
Unitamente a questi sforzi, è necessario che ciascun battezzato si senta coinvolto nella trasformazione ecclesiale e sociale di cui tanto abbiamo bisogno. Tale trasformazione esige la conversione personale e comunitaria e ci porta a guardare nella stessa direzione dove guarda il Signore. Così amava dire San Giovanni Paolo II: «Se siamo ripartiti davvero dalla contemplazione di Cristo, dovremo saperlo scorgere soprattutto nel volto di coloro con i quali egli stesso ha voluto identificarsi» (Lett. ap. Novo millennio ineunte, 49). Imparare a guardare dove guarda il Signore, a stare dove il Signore vuole che stiamo, a convertire il cuore stando alla sua presenza. Per questo scopo saranno di aiuto la preghiera e la penitenza. Invito tutto il santo Popolo fedele di Dio all’esercizio penitenziale della preghiera e del digiuno secondo il comando del Signore,[1] che risveglia la nostra coscienza, la nostra solidarietà e il nostro impegno per una cultura della protezione e del “mai più” verso ogni tipo e forma di abuso.
E’ impossibile immaginare una conversione dell’agire ecclesiale senza la partecipazione attiva di tutte le componenti del Popolo di Dio. Di più: ogni volta che abbiamo cercato di soppiantare, mettere a tacere, ignorare, ridurre a piccole élites il Popolo di Dio abbiamo costruito comunità, programmi, scelte teologiche, spiritualità e strutture senza radici, senza memoria, senza volto, senza corpo, in definitiva senza vita.[2] Ciò si manifesta con chiarezza in un modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa - molto comune in numerose comunità nelle quali si sono verificati comportamenti di abuso sessuale, di potere e di coscienza - quale è il clericalismo, quell’atteggiamento che «non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale che lo Spirito Santo ha posto nel cuore della nostra gente»[3]. Il clericalismo, favorito sia dagli stessi sacerdoti sia dai laici, genera una scissione nel corpo ecclesiale che fomenta e aiuta a perpetuare molti dei mali che oggi denunciamo. Dire no all’abuso significa dire con forza no a qualsiasi forma di clericalismo.
E’ sempre bene ricordare che il Signore, «nella storia della salvezza, ha salvato un popolo. Non esiste piena identità senza appartenenza a un popolo. Perciò nessuno si salva da solo, come individuo isolato, ma Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che si stabiliscono nella comunità umana: Dio ha voluto entrare in una dinamica popolare, nella dinamica di un popolo» (Esort. ap. Gaudete et exsultate, 6). Pertanto, l’unico modo che abbiamo per rispondere a questo male che si è preso tante vite è viverlo come un compito che ci coinvolge e ci riguarda tutti come Popolo di Dio. Questa consapevolezza di sentirci parte di un popolo e di una storia comune ci consentirà di riconoscere i nostri peccati e gli errori del passato con un’apertura penitenziale capace di lasciarsi rinnovare da dentro. Tutto ciò che si fa per sradicare la cultura dell’abuso dalle nostre comunità senza una partecipazione attiva di tutti i membri della Chiesa non riuscirà a generare le dinamiche necessarie per una sana ed effettiva trasformazione. La dimensione penitenziale di digiuno e preghiera ci aiuterà come Popolo di Dio a metterci davanti al Signore e ai nostri fratelli feriti, come peccatori che implorano il perdono e la grazia della vergogna e della conversione, e così a elaborare azioni che producano dinamismi in sintonia col Vangelo. Perché «ogni volta che cerchiamo di tornare alla fonte e recuperare la freschezza originale del Vangelo spuntano nuove strade, metodi creativi, altre forme di espressione, segni più eloquenti, parole cariche di rinnovato significato per il mondo attuale» (Esort. ap. Evangelii gaudium, 11).
E’ imprescindibile che come Chiesa possiamo riconoscere e condannare con dolore e vergogna le atrocità commesse da persone consacrate, chierici, e anche da tutti coloro che avevano la missione di vigilare e proteggere i più vulnerabili. Chiediamo perdono per i peccati propri e altrui. La coscienza del peccato ci aiuta a riconoscere gli errori, i delitti e le ferite procurate nel passato e ci permette di aprirci e impegnarci maggiormente nel presente in un cammino di rinnovata conversione.
Al tempo stesso, la penitenza e la preghiera ci aiuteranno a sensibilizzare i nostri occhi e il nostro cuore dinanzi alla sofferenza degli altri e a vincere la bramosia di dominio e di possesso che tante volte diventa radice di questi mali. Che il digiuno e la preghiera aprano le nostre orecchie al dolore silenzioso dei bambini, dei giovani e dei disabili. Digiuno che ci procuri fame e sete di giustizia e ci spinga a camminare nella verità appoggiando tutte le mediazioni giudiziarie che siano necessarie. Un digiuno che ci scuota e ci porti a impegnarci nella verità e nella carità con tutti gli uomini di buona volontà e con la società in generale per lottare contro qualsiasi tipo di abuso sessuale, di potere e di coscienza.
In tal modo potremo manifestare la vocazione a cui siamo stati chiamati di essere «segno e strumento dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano» (Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1).
«Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme», ci diceva San Paolo. Mediante l’atteggiamento orante e penitenziale potremo entrare in sintonia personale e comunitaria con questa esortazione, perché crescano tra di noi i doni della compassione, della giustizia, della prevenzione e della riparazione. Maria ha saputo stare ai piedi della croce del suo Figlio. Non l’ha fatto in un modo qualunque, ma è stata saldamente in piedi e accanto ad essa. Con questa posizione esprime il suo modo di stare nella vita. Quando sperimentiamo la desolazione che ci procurano queste piaghe ecclesiali, con Maria ci farà bene “insistere di più nella preghiera” (cfr S. Ignazio di Loyola, Esercizi spirituali, 319), cercando di crescere nell’amore e nella fedeltà alla Chiesa. Lei, la prima discepola, insegna a tutti noi discepoli come dobbiamo comportarci di fronte alla sofferenza dell’innocente, senza evasioni e pusillanimità. Guardare a Maria vuol dire imparare a scoprire dove e come deve stare il discepolo di Cristo.
Lo Spirito Santo ci dia la grazia della conversione e l’unzione interiore per poter esprimere, davanti a questi crimini di abuso, il nostro pentimento e la nostra decisione di lottare con coraggio.
* Fonte: Avvenire, 20.08.2018
Filosofia.
Paul Ricoeur: «La Parola sopravvive solo se riconvertita in evento»
Raccolta in libro una conferenza del filosofo del 1967 sul senso e la funzione di una comunità ecclesiale: è sempre necessaria una reinterpretazione intellettuale, pratica e sociale della parola
di Marco Roncalli (Avvenire, giovedì 17 maggio 2018)
Riflettere sulla funzione specifica di una comunità ecclesiale, le sue aspirazioni e istanze di senso, il suo linguaggio, il ruolo nella Chiesa e nella società, è quello che Paul Ricoeur - come raramente troviamo nei filosofi - prova a fare in queste pagine nate alla vigilia del Sessantotto, già girate parecchio come fotocopie di dispense fra gli studiosi di questo maestro dell’ermeneutica: mai però arrivate in un’edizione al grande pubblico.
Registrate nel gennaio 1967 alla Gerbe, una sala della parrocchia protestante di Amiens, durante un incontro teologico di due giorni, le parole di questa lunga conferenza di Ricoeur - scandita in tre parti con interlocutori cattolici, protestanti e comunisti e trascritte dal pastore Ennio Floris - furono pubblicate l’anno dopo nei “Cahiers d’études du centre protestant de recherche et de rencontres du nord” con il titolo Senso e funzione di una comunità ecclesiale al quale l’editrice Claudiana ha preferito ora Per un’utopia ecclesiale (pagine 100, euro 12,50).
L’opera va in libreria a cura di Claudio Paravati, Alberto Romele, Paolo Furia, e con una prefazione di Olivier Abel che considera quest’opera «a un tempo, come militante testimonianza di un periodo di passaggio e come banco di prova, come laboratorio di temi filosofici sviluppati, altrove o in seguito, in modo indipendente», dove «viene alla luce un aspetto del pensiero di Ricoeur troppo spesso trascurato, in cui i lettori potranno cogliere un approccio filosofico nuovo, radicale». Approccio dove - insieme ai non pochi spunti elaborati in opere successive - si comprende il del ruolo del filosofo nella Chiesa riformata francese.
Intervenendo sulla «comunità confessante» Ricoeur si ferma nella prima parte sul tema “Essere protestanti oggi” (con grande attenzione al linguaggio); nella seconda parte sulla presenza della Chiesa nel mondo (affrontando i punti di inserzione, le capacità di pressione, aspetti specifici della comunità cristiana); nella terza parte sul conflitto “Fede e religione” ricollegandosi a Bonhoeffer, Ebeling, Fuchs, come pure alla tradizione della predicazione primitiva e all’esegesi paolina. Pagine dunque militanti di un Ricoeur allora presidente del Movimento del cristianesimo sociale e anche della Federazione protestante e due anni dopo rettore dell’Università di Nanterre. Pagine che disegnano tratti di una Chiesa contrappunto di utopia dentro la società, fra critiche esterne della religione (Marx, Nietzsche, Freud) e decostruzione di varie pseudo-razionalizzazioni (che nascondono vivaci testi biblici).
Non pochi i passaggi di grande interesse. Nell’ambito del linguaggio, ad esempio, circa la parola che non può diventare reliquia, sopravvivendo grazie a costante reinterpretazione: «Chiamo interpretazione non solo ciò che possiamo fare intellettualmente ma anche praticamente, socialmente per rendere attuale una parola che continua a essere parola solamente se essa continua a essere riconvertita in un evento, che ridiventa esso stesso evento».
In ambito teologico, nella risposta data alla domanda “Possiamo ancora pronunciare la parola Dio?”: «Non possiamo più costruire delle teologie speculative, sistematiche, in cui parliamo di Dio come di una causa prima, un pensatore supremo, un essere assoluto separato da tutti gli altri esseri, ma dobbiamo pensare ciò che può significare nella Scrittura il Dio di Gesù Cristo. Se Gesù Cristo è colui che muore donando la vita, è quest’atto di svuotarsi di Cristo per noi a essere il nostro solo accesso a Dio». E così «la comunità cristiana non ha nient’altro da offrire agli altri esseri umani che quest’affermazione del Dio che si svuota, della debolezza assoluta di Dio per l’essere umano, che permette il nuovo essere umano, e che apre una speranza in cui gli esseri umani sono responsabili, ognuno nei confronti di tutti».
Infine, tutto da segnalare il passaggio nel quale Ricoeur s’interroga su quella che gli pare essere «la funzione insostituibile» di una comunità confessante in un tipo di società come la nostra, e cioè: della previsione, della decisione razionale, dell’invasione della tecnica nella vita quotidiana ad ogni livello.
Scrive il filosofo: «Mi sembra che la ragion d’essere delle chiese consista nel porre in permanenza la domanda sui fini, della “prospettiva”, in una società della “pianificazione”. Il “benessere”? A quale scopo? Tale questione tocca le ragioni profonde dell’essere umano nella società della produzione, del consumo e del tempo libero. Questa è caratterizzata da un controllo crescente dell’essere umano sui mezzi e da una cancellazione dei suoi fini, come se la razionalità crescente dei mezzi rivelasse progressivamente l’assenza di senso. Ciò è vero in particolare nelle società capitaliste [...]. In questo modo si rende manifesto l’elemento primo della società di produzione: il desiderio senza fine».
Ma c’è un altro sogno vano che anima l’essere umano della società consumista: ovvero «l’aumento della sua potenza», spiega Ricoeur. Che aggiunge: «Si vorrebbe annullare il tempo, lo spazio, il destino della nascita e della morte, ma in un progetto simile tutto diventa strumento, utensile, nel regno universale del manipolabile e del disponibile. È questo progetto che sfocia nel vuoto totale del non-senso. È così che la nostra “modernità vive simultaneamente della razionalità crescente della società e dell’assurdità crescente del destino». Una riconferma dell’assenza di giustizia presso gli uomini, ma ancor più della mancanza di amore e di significato.
Ed ecco allora i problemi che ci stagliano davanti nel segno dell’“insignificanza”: quella del lavoro, del tempo libero, della sessualità. Di fronte ad essi il compito non è recriminare o rimpiangere ma testimoniare.
Come? Facendo appello all’utopia, risponde Ricoeur, che chiama utopia «questa prospettiva di un’umanità compiuta, allo stesso tempo come totalità degli esseri umani e come destino singolare di ogni persona».
È la prospettiva che può dare un senso: volere che l’umanità sia una, volere che essa si realizzi in ogni persona. Nella responsabilità di pensare sempre un doppio destino.
Pasquino nel cielo papistico
Un nuovo studio sul bestseller del primo ’500: sotto accusa la corruzione della Chiesa cattolica e l’armamentario di vuote pratiche devozionali
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 15.04.2018)
Sempre apparso anonimo, il Pasquillus extaticus fu un vero e proprio best seller dei primi anni quaranta del Cinquecento, come testimoniano tre edizioni in latino con numerose varianti e tre in italiano (in due diverse versioni), destinate alla circolazione europea le prime e al proselitismo riformato al di qua delle Alpi le altre. Di queste esistono anche numerosi manoscritti che ne documentano ulteriormente la larga diffusione, attestata anche da una coeva traduzione tedesca e una più tarda traduzione olandese. A scriverlo e a raccogliere i testi che vi compaiono fu Celio Secondo Curione, un letterato piemontese convertitosi alla Riforma e rifugiatosi nel 1542 dopo varie peripezie in Svizzera, a Basilea, dove si sarebbe infine avvicinato a dottrine radicali, sempre più distanti dall’ortodossia calvinista.
È merito di questo studio aver stabilito con buona certezza che il testo latino fu pubblicato per la prima volta a Basilea nel 1541, quando il suo autore non aveva ancora preso la via della fuga oltralpe, all’indomani della quale fu stampata a Venezia la prima edizione italiana, che fu quindi successiva. Sono queste due editiones principes ad essere qui pubblicate con introduzioni storiche e testuali, note di commento e apparato critico. Non stupisce che il Sant’Ufficio romano giudicasse «perniciosissimo» il libello constatandone il successo nell’ambito dei gruppi e movimenti filoriformati in Italia.
Con il Beneficio di Cristo, l’Alfabeto cristiano, la Tragedia del libero arbitrio, la Medicina dell’anima, testi anch’essi apparsi negli anni quaranta del secolo, sullo sfondo delle prime convocazioni del concilio di Trento, il libro fu uno dei più presenti sui piccoli scaffali clandestini di cui si nutriva una nuova identità religiosa sempre più costretta agli artifici della dissimulazione.
In quelle pagine, infatti, la pungente satira delle pasquinate romane dei primi decenni del secolo si spersonalizzava, non investiva più singoli personaggi, ma un’intera istituzione, la Chiesa cattolica, passando dalla beffa morale alla polemica religiosa per denunciarne la corruzione e arricchire l’arsenale delle armi con cui combattere la battaglia per l’abbattimento dell’Anticristo papale.
Non più versi satirici fatti di insulti e più o meno triviali allusioni, ma un dialogo umanistico e pedagogico tra Pasquino e Marforio, sulla base di evidenti modelli erasmiani, che si propone come «una grandiosa ricapitolazione secolare in grado di mostrare al lettore come i tempi della rovina definitiva della Chiesa romana fossero ormai maturi» (p. 23).
Un’opera militante, dunque, in cui il racconto fatto da Pasquino di un viaggio nel cielo papistico (un demoniaco e infernale cielo alla rovescia) offre lo spunto per investire di una critica feroce frati e monache, confessori e martiri, scalzando dalle radici l’imponente edificio della Chiesa visibile e l’infausto armamentario di pratiche sacramentali, liturgiche e devozionali da essa proposto ai fedeli, spingendoli nell’abisso di una pietà farisaica e superstiziosa. -Venerazione delle immagini, purgatorio, voti, pellegrinaggi, digiuni, celibato ecclesiastico, messe di suffragio, indulgenze, miracoli, tutto veniva triturato nella macchina antipapale del Pasquillus curioniano, che investiva non solo e non tanto i comportamenti, ma soprattutto le dottrine erronee che li legittimavano, sì da configurare il discorso come una sintesi della teologia riformata.
Per esempio, se la denuncia dei «fratacci» che, anziché fuggire il mondo «lo portano seco ne’ monasterii, [...] dove non si vede già altro che passioni d’animo e mere pazzie, con che cercano di scacciarsi l’un l’altro o di innalzarsi» (p. 212), poteva rifarsi all’erasmiano «monachatus non est pietas», è evidente il magistero della Riforma laddove si criticavano coloro che preferivano lasciare il monopolio delle cose sacre ai presunti «gran teologi», perché credere «semplicemente» non significa credere «ignorantemente» e ogni cristiano ha il dovere di conoscere la Scrittura (p. 217).
Se la denuncia del cielo papale come un empio «mercato» simoniaco (p. 230) ripropone antiche invettive anticuriali, di chiara matrice eterodossa sono gli strali contro il culto dei santi (vero e proprio pantheon neopagano), i «novi e orribili riti» e le infinite superstizioni popolari di cui si nutriva, per esortare invece a porre ogni speranza di salvezza solo e soltanto nella fede in Cristo (pp. 232-33), unico «advocato nostro» (p. 244), senza «tanti miracoli fatti a mano, tante fraterie, tanti publichi mercati di meriti e buone opere» (p. 237).
Un cielo tuttavia, quello papistico, sempre più gravemente insidiato da moderni guastatori, «bravi uomini», in massima parte tedeschi, ma anche «assaissimi italiani et franzesi» che ne preparavano il definitivo crollo scavandone le malcerte fondamenta, fatte di «cappucci, rosari, vesti succide, capelli tagliati, veli di monache e mille fogge di vesti, mille di scarpe, mille di berette, mille di colori, [...] pesci fradici, erbaggi, ligumi, lasagne, mitre pontificali», e sostenute dai muri ormai pericolanti della Superstizione, della Persuasione, dell’Ignoranza e dell’Ipocrisia (pp. 229-30).
I tempi stavano cambiando rapidamente, scriveva Curione, evocando con grande violenza verbale quanti avevano ormai «comminciato a caccar nei capucci, a forbirsi il culo coi rosarii, a farsi beffe dei pelegrinaggi, ad aver a scherzo quelle putanesche astinenze e ad aver in somma abominazione tutte le superstizioni» (p. 235).
Una violenza che scaturiva dal suo sentirsi schierato in prima linea nella guerra in corso tra verità ed errore, Riforma e papismo, evocata anche dai nomi di numerosi personaggi che compaiono in queste pagine, illustri riformatori come Zwingli, Melantone, Butzer e non meno illustri cardinali come Sadoleto, Aleandro, Carafa, o grandi sovrani europei in guerra tra loro.
Tra di essi figura anche Erasmo da Rotterdam, rappresentato come una vela esposta a ogni vento perché «non si seppe mai, né dai suoi scritti si può sapere, s’ei s’appressasse più al ciel divino o al papistico» (p. 268). Un giudizio severo dal quale lo stesso Curione non tarderà a prendere le distanze, ispirandosi al De immensa Dei misericordia per il suo scritto più celebre, il De amplitudine beati regni Dei, pubblicato nel 1554.
EVANGELO = BUONA NOVELLA. DIO E’ AMORE (Charitas) non "MAMMONA" (Benedetto XVI, "Deus CARITAS est", 2006). "DIO NON E’ CATTOLICO" (Carlo Maria Martini)!!! ...
Vaticano
Papa accusato di sette eresie, firma anche Gotti Tedeschi *
Una lettera di 25 pagine firmata da 40 sacerdoti e studiosi laici cattolici è stata spedita a Papa Francesco l’11 agosto e le firme sono oggi arrivate a 62. «Per il fatto che non è stata ricevuta nessuna risposta dal S. Padre, la si rende pubblica quest’oggi, 24 settembre», dicono i firmatari accusando Papa Francesco di “sette eresie” per la Amoris Laetitia. Spicca nell’elenco delle firme quella di Ettore Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior. La “correzione formale”ˮ presentata sotto forma di “correzione filialeˮ è stata resa nota la scorsa notte all’unisono negli Stati Uniti dal sito ultra-tradizionalista Rorate caeli e in italiano dal blog di Sandro Magister, dalla Nuova Bussola Quotidiana diretta da Riccardo Cascioli e dal sito Corrispondenza Romana del professor Roberto De Mattei (quest’ultimo tra i firmatari).
Il fatto che i tradizionalisti stessero valutando l’opportunità di una “correzione” al Papa per le novità introdotte sul matrimonio nella Amoris Laetitia era stata ventilata già nei mesi scorsi. A parlarne esplicitamente era stato uno dei cardinali dei cosiddetti “dubia”, Raymond Leo Burke, che però non è oggi tra i firmatari di questa lettera. La lettera è stata divulgata con un sito ad hoc, ed ha un titolo latino: Correctio filialis de haeresibus propagatis (letteralmente, Correzione filiale in ragione della propagazione di eresie). In essa si dichiara che il Papa, mediante la sua Esortazione Apostolica Amoris Laetitia e mediante altri parole, atti e omissioni ad essa collegate, «ha sostenuto sette posizioni eretiche, riguardanti il matrimonio, la vita morale e la recezione dei sacramenti, e ha causato la diffusione di queste opinioni eretiche nella Chiesa Cattolica”.
Tra i rilievi mossi al Papa dagli studiosi della frangia ultraconservatrice della Chiesa, il fatto che “direttamente o indirettamente, il Papa ha permesso che si credesse che l’obbedienza alla Legge di Dio possa essere impossibile o indesiderabile e che la Chiesa talvolta dovrebbe accettare l’adulterio in quanto compatibile con l’essere cattolici praticanti».
Tra le firme, oltre a quella di Gotti Tedeschi, ex presidente dello Ior, c’è quella del Capo dei Lefebvriani, monsignor Bernard Fellay. C’è qualche religioso, noto ai siti tradizionalisti ma per la maggior parte le firme sono di studiosi laici. Nessun cardinale firma il documento, neanche quelli che si fecero portavoce dei “dubia” sulla stessa Amoris Laetitia.
L’elenco completo dei firmatari
Queste in sintesi le presunte 7 false affermazioni che i firmatari deducono dalla loro interpretazione del documento papale e da altre affermazioni del Pontefice:
1. Una persona giustificata non ha la forza con la grazia di Dio di adempiere i comandamenti oggettivi della legge divina, come se alcuni dei comandamenti fossero impossibili da osservare per colui che è giustificato; o come se la grazia di Dio, producendo la giustificazione in un individuo, non producesse invariabilmente e di sua natura la conversione da ogni peccato grave, o che non fosse sufficiente alla conversione da ogni peccato grave.
2. I cristiani che hanno ottenuto il divorzio civile dal coniuge con il quale erano validamente sposati e hanno contratto un matrimonio civile con un’altra persona (mentre il coniuge era in vita); i quali vivono ’more uxorio’ con il loro partner civile e hanno scelto di rimanere in questo stato con piena consapevolezza della natura della loro azione e con il pieno consenso della volontà di rimanere in questo stato, non sono necessariamente nello stato di peccato mortale, possono ricevere la grazia santificante e crescere nella carità.
3. Un cristiano può avere la piena conoscenza di una legge divina e volontariamente può scegliere di violarla in una materia grave, ma non essere in stato di peccato mortale come risultato di quell’azione.
4. Una persona, mentre obbedisce alla legge divina, può peccare contro Dio in virtù di quella stessa obbedienza.
5. La coscienza può giudicare veramente e correttamente che talvolta gli atti sessuali tra persone che hanno contratto tra loro matrimonio civile, quantunque uno dei due o entrambi siano sacramentalmente sposati con un’altra persona, sono moralmente buoni, richiesti o comandati da Dio.
6. I principi morali e le verità morali contenute nella Divina Rivelazione e nella legge naturale non includono proibizioni negative che vietano assolutamente particolari generi di azioni che per il loro oggetto sono sempre gravemente illecite.
7. Nostro Signore Gesù Cristo vuole che la Chiesa abbandoni la sua perenne disciplina di rifiutare l’Eucaristia ai divorziati risposati e di rifiutare l’assoluzione ai divorziati risposati che non manifestano la contrizione per il loro stato di vita e un fermo proposito di emendarsi.
«Tutte queste proposizioni - concludono i firmatari - contraddicono verità divinamente rivelate che i cattolici devono credere con assenso di fede divina. È necessario per il bene delle anime che esse siano ancora una volta condannate dall’autorità della Chiesa. Nell’elencare queste sette proposizioni, non intendiamo offrire una lista esaustiva di tutte le eresie ed errori che ad una lettura obbiettiva di “Amoris laetitia”, secondo il suo senso naturale e ovvio, il lettore evidenzierebbe in quanto affermati, suggeriti o favoriti dal documento. Piuttosto ci riferiamo alle proposizioni che Vostra Santità, mediante parole, atti e omissioni, ha in effetti sostenuto e propagato, causando grande e imminente pericolo per le anime».
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Federico La Sala
KANT (1784), FOUCAULT (1984), E "LA FINE DI TUTTE LE COSE" (KANT, 1794). Una nota ... *
NONOSTANTE LA SOLLECITAZIONE DI FOUCAULT (1984) A ESSERE GIUSTI CON KANT E A RISTUDIARE E A RIPENSARE LA SUA OPERA E LA SUA LEZIONE A PARTIRE DALLA "RISPOSTA ALLA DOMANDA: CHE COSA E’ L’ILLUMINISMO?" (1784), IL LAVORO DELLA GRANDE RESTAURAZIONE IDEALISTICA PRIMA E MATERIALISTICA POI CONTRO LA VIA DELLA “CRITICA” E LA SUA “RIVOLUZIONE COPERNICANA” CONTINUA FEROCE, CALPESTANDO OGNI DECENZA STORIOGRAFICA E ADDIRITTURA IGNORANDO NON SOLO LE OPERE DELLA FASE COSIDDETTA "PRE-CRITICA" (cfr.: Note per una rilettura della “Storia universale della natura e teoria del cielo”) MA ANCHE LE OPERE DELLA FASE "CRITICA" (cfr. I. Kant, "La fine di tutte le cose", 1794 - e in particolare la seconda nota, dove chi si sbizzarrisce in paragoni ripugnanti per rappresentare il nostro mondo terreno, "senza degnare di attenzione la disposizione al bene che vi è nella natura umana, raffigurando la nostra dimora terrena con grande disprezzo: 1) come una locanda - o un caravanserraglio ... 2) come un penitenziario... 3) come un manicomio... 4) come una cloaca, che raccoglie tutti i rifiuti espulsi dagli altri mondi")!!!
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SU KANT (e Freud e la banalità del male), mi sia consentito, si cfr. ALCUNE MIE "NOTE PER UNA RILETTURA": https://www.academia.edu/12356078/KANT_FREUD_E_LA_BANALITA_DEL_MALE.
Federico La Sala
1. Nell’ottobre 1974, in una conferenza sulla progressiva medicalizzazione della società tenuta presso l’Università di Stato di Rio de Janeiro, Foucault introduce il concetto di «bio-storia» per sottolineare che «la storia dell’uomo e la vita sono profondamente intrecciate», dal momento che «la storia dell’uomo» è in grado di modificare, almeno «fino a un certo punto», il «processo» della vita 1. Da allora, a seguito dell’«intrusione di Gaia» - per usare un’espressione di Stengers -, la bio-storia ha assunto una fisionomia molto differente.
Il recente Esiste un mondo a venire? di Danowski e Viveiros de Castro 2 non lascia dubbi al proposito: l’immensa crisi ecologica in corso esercita un tale impatto sulla «storia dell’uomo» da avere definitivamente messo in crisi, oltre all’impianto sociale e allo stile di vita egemoni a livello planetario, una delle più classiche tra le dicotomie su cui si fonda la teologia politica occidentale, quella tra natura e cultura. Come affermano la filosofa e l’antropologo brasiliani, la nostra specie si è trasformata «in forza geologica», «in un oggetto “naturale”» e il «Sistema Terra» in «un agente politico», in «una persona morale» (p. 45).
Il vettore della bio-storia, insomma, non è unidirezionale: se è certo che la “nostra specie” continua a manipolare i processi naturali su scale forse neppure immaginabili fino a poco tempo fa, altrettanto certa è la capacità della storia naturale di sconvolgere a fondo i processi umani; tanto che oggi non è più possibile parlare seriamente di politica senza tenere conto del ruolo politico della “natura”.
Che ci piaccia o meno, grazie alle sempre più continue e terrificanti irruzioni bio-storiche di Gaia «il nostro mondo sta smettendo di essere kantiano». La forza di Gaia nell’arena politica ha definitivamente mandato fuor di sesto «Dio, Anima e Mondo», le «tre grandi idee trascendentali» di Kant (p. 36), destituendole di senso e facendole girare a vuoto: non siamo di fronte a «una “crisi”nel tempo e nello spazio, ma [a] una feroce corrosione del tempo e dello spazio» (p. 52).
2. Esiste un mondo a venire?, allora, non è «solo» un’accurata revisione delle evidenze empiriche della catastrofe in cui siamo già immersi e degli effetti a lunghissimo termine che comunque comporterà. Revisione, sia detto per inciso, sicuramente necessaria vista «la recente e ignominiosa elezione del negazionista Donald Trump» (p. 13) e considerato che - per parafrasare Žižek - un conto è sapere che qualcosa può accadere e un altro è credere che stia accadendo.
Esiste un mondo a venire? è anche, e soprattutto, il tentativo di portare alla luce il clamoroso non dettodelle più recenti narrazioni occidentali - filosofiche, letterarie e cinematografiche; utopiche o distopiche - della fine del mondo: la ripetizione acritica della «dualità mitica “umanità/mondo”» (p. 55). Aspetto questo tutt’altro che trascurabile dal momento che la rigida separazione Uomo/Mondo ha contribuito a forgiare - quantomeno legittimandola - la potenza operativa dell’impresa tecno-scientifica occidentale, principale causa dell’attuale disastro planetario. Anche se a prima vista sembrano contrapporvisi, le «nostre» mitologie della fine del mondo, sia che prevedano «un mondo senza noi» o, all’opposto, «un noi senza mondo», non si smarcano dalla logica più profonda del dualismo gerarchizzante e sezionante che si cela dietro l’«ottimismo “umanista”» (p. 22).
Semplificando molto e senza seguirne le molteplici ramificazioni - che i due autori descrivono in dettaglio e criticano con acume sia che guardino al passato o al futuro, sia che si inseriscano in paradigmi di «sinistra» o di «destra», sia che si presentino come «apocalittiche» o come «integrate» -, ciò che conta è che nessuna di queste visioni ha preso congedo dall’«allucinazione narcisistica» (p. 79) dell’antropocentrismo.
Che il «mondo senza noi» sia inteso come una sorta di mitico giardino dell’Eden prima della Caduta o come il risultato finale della catastrofe ecologica, e che il «noi senza mondo» assuma le tinte fosche di un annientamento su scala globale o quelle deliranti di un’umanità capace di trascendersi riassorbendo il mondo in se stessa, il «mondo che finisce» è sempre «il “nostro” mondo» (p. 98) e il “noi”, che sta parlando e di cui si parla, è sempre «l’“Umano, che lo si chiami Homo sapiens o Dasein» (p. 57).
Detto altrimenti, le «nostre» bio-storie della fine del mondo sono ancora umane, troppo umane, poiché ribadiscono sia l’esteriorità e la singolarità del «mondo» - che servono a naturalizzare la cosmogonia scientifica occidentale - sia l’universalità del «noi» - che in questo caso opera come dispositivo di occultamento del fatto che la crisi ecologica non è attribuibile indistintamente a tutta la specie umana e che i suoi effetti deleteri si estendono, e si estenderanno sempre di più, ben oltre i confini della nostra specie.
3. Come è noto, esistono altre bio-storie oltre alla «nostra», bio-storie meno violente e distruttive che enfatizzano l’intrinseca relazionalità del vivente. Tra queste, Danowski e Viveiros de Castro si concentrano sul prospettivismo amerindio in quanto propone una concezione del «noi» e del «mondo» - ammesso che si possa continuare a usare questa terminologia - diametralmente opposta a quella della modernità umanista.
Per il prospettivismo amerindio all’inizio «tutto era umano» (p. 148) e tutto resta tale anche dopo che i non umani si sono differenziati morfologicamente nel tempo delle trasformazioni. Da un lato, allora, «l’umanità [è] una moltitudine polinomica» che «si presenta [...] nella forma di una molteplicità interna» da cui, solo in un secondo momento, si originano altri individui e altre specie in una sorta di darwinismo invertito (non sono gli umani a evolversi dagli animali, ma gli animali a travestirsi da umani).
E dall’altra il mondo, «quello che noi chiamiamo mondo naturale, o “mondo” in generale, è [...] una molteplicità di molteplicità intrinsecamente connesse. Gli animali e le altre specie sono [...] entità politiche». In breve, «gli amerindi pensano che, tra il cielo e la terra, esistano molte più società [...] di quante ne sognino la nostra antropologia e filosofia. Ciò che noi chiamiamo “ambiente” è per loro una società di società, un’arena internazionale, una cosmopoliteia» (pp. 150-151).
Quest’altra bio-storia che, malgrado tutto, è riuscita a sopravvivere alla fine del suo «mondo» conseguente all’invasione coloniale, permette agli autori, di declinare la crisi ecologica nei termini di una «guerra civile» (p. 195) tra «Umani» e «Terreni», guerra che non coincide con la linea di divisione tra la nostra specie e le altre, poiché non solo è certo, come gli autori affermano, che non tutti gli umani sono «Umani» ma anche che - e questo aspetto non pare essere sufficientemente sottolineato - che la maggioranza dei «Terreni» sono animali.
4. Nella bio-storia di Danowski e Viveiros de Castro gli animali - che sperimentano quotidianamente la fine dei loro mondi - continuano a rivestire un ruolo politico ancora troppo marginale. Sebbene non esitino a definire «l’“eccezionalità umana” [...] un autentico stato d’eccezione ontologico» che legittima «l’immagine prometeica dell’Uomo che conquista la Natura» (pp. 73-74) e a ridicolizzare l’idea secondo cui saremmo animali dotati di un «supplemento spirituale che è “il proprio dell’uomo” - la preziosa proprietà privata della specie» (p. 144), i due autori non riescono a liberarsi completamente dall’antropocentrismo che percorre indisturbato anche il pensiero più critico 3.
Testimonianza di questa tenace persistenza è l’idea discutibile secondo cui antropocentrismo (occidentale) e antropomorfismo (amerindio) rappresentino visioni del mondo diametralmente contrapposte: se è vero, infatti, che «dire che tutto è umano è come dire che gli umani non sono una specie speciale» (p. 155), altrettanto vero è che l’affermazione “tutto è umano” nasconde - volenti o nolenti - un’operazione di appropriazione colonizzante dei mondi non umani. In altri termini, l’umano continua ad essere l’operatore centrale, seppur depotenziato, anche nel caso dell’ antropomorfismo.
Non a caso, allora, pur usando una terminologia corretta per descrivere le loro condizioni di detenzione («La spaventosa legione di animali confinati e torturati in campi di sterminio per l’estrazione di proteine»), i due autori annoverano gli «animali da reddito» tra gli «alleati» degli Umani in quanto «potenti fabbriche di metano» (p. 211) e non esitano a domandarsi: «Quando esauriremo le scorte di pesci?» (p. 243).
Con queste premesse, risulta difficile capire come sia possibile lasciarsi alle spalle le nozioni sezionanti di «Umano-in-sé» e di «Animale-in-sé» (p. 156), passo che Danowski e Viveiros de Castro sembrano considerare necessario per pensare la tanto auspicata «decivilizzazione» (p. 205), per mettersi all’ascolto « dell’eccezionalismo terrestre» (p. 188), per rendersi finalmente «responsabili dinanzi ai Terreni» (p. 235).
5. Pochi dubbi possono sussistere circa il fatto che il motto andino « Vivir bien e no mejor» (p. 163) debba costituire il fine a cui, nel tempo della fine, della «mancanza di scelta» (p. 246), dovrebbe tendere la resistenza dei Terreni alla «logica assolutamente non addomesticabile del capitalismo» (p. 235). Meno certo è invece come tale fine possa trasformarsi in una politica a venire all’altezza dei tempi e del tempo che resta.
Basta il generico «becoming with» di Haraway (p. 237) o il troppo locale «ridivenire-indio» degli autori? O, forse, per trasformare lo «shock» in «evento» (p. 252) è necessario radicalizzare questi divenire nel deleuziano divenire animale? Non è, infatti, il concetto di specie e l’opposizione Umano/Animale l’operatore più tagliente che sta al centro dei meccanismi materiali e simbolici che hanno costruito proprio quella società degli Umani che si vorrebbe combattere?
6. Nel 1955, Deleuze afferma che «L’uomo è un animale che si sta spogliando della specie» 4. L’irruzione di Gaia ha inverato questa intuizione. La questione oggi è come pensare e agire per far sì che questo spogliarsi non si traduca - come finora è accaduto - in spoliazione, ma in esitazione potenziante, gioiosa e creativa. La crisi ecologica in corso, infatti, non è caratterizzata esclusivamente, come pensano i più, dall’urgenza materiale di ridurre, per quanto possibile, i danni - urgenza che, tra l’altro, potrebbe spingere in direzione di un’ulteriore e più salda presa dell’Umano e pertanto «mascherare una grandiosa espansione del vangelo diabolico dello “sviluppo”» (p. 249).
L’ingombrante presenza di Gaia impone infatti un’altra e ancora più decisiva urgenza: il ripensamento radicale delle categorie politiche che ci hanno portato qui dove siamo, nel tempo dell’orrore più estremo, urgenza questa ben più difficilmente digeribile dalle logiche dell’impresa tecno-capitalista. Urgenza più resistente perché libera dal fardello narcisistico dell’antropocentrismo, perché sostenuta dalla consapevolezza che, come sostiene Kojève, «la scomparsa dell’Uomo alla fine della Storia non è [...] una catastrofe cosmica: il Mondo naturale resta quello che è da tutta l’eternità. E non è nemmeno una catastrofe biologica: l’Uomo resta in vita come animale [...]. Ciò che scompare è l’Uomo propriamente detto [...] [e] il Soggetto opposto all’Oggetto [...]. Tutto il resto può mantenersi indefinitamente; l’arte, l’amore, il gioco, ecc.; insomma, tutto ciò che rende l’uomo felice» 5. E questa, ovviamente, è tutta un’altra bio-storia, un mondo a venire che, forse per gli ultimi istanti, sta ancora aspettando un atto di creazione.
1 Michel Foucault, Crisi della medicina o crisi dell’antimedicina?, in Id., Il filosofo militante. Archivio Foucault 2, Milano, Feltrinelli, 2017, p. 210.
2 Le pagine da cui sono tratte le citazioni sono riportate nel testo tra parentesi.
3 Un esempio recente di questa forclusione è il volume di Olivier Razac, Storia politica del filo spinato, Verona, ombre corte, 2017. Il saggio, per altri versi estremamente interessante, si dimentica infatti di porre nella giusta prospettiva il ruolo politico della reclusione degli animali, nonostante il filo spinato sia tuttora uno dei dispositivi di compartimentalizzazione dello spazio centrale nella gestione della vita dei non umani.
4 Gilles Deleuze, Istinti e istituzioni, Milano-Udine, Mimesis, 2014, p. 32.
5 Alexandre Kojève, Introduzione alla lettura di Hegel, Milano, Adelphi, 1996, p. 541.
Fatima, una storia tra fede e politica
Il contesto nazionale, la restaurazione cristiana del Portogallo, il conflitto mondiale, la guerra fredda, il Concilio, la decolonizzazione
di MARCO RONCALLI (La Stampa, 10/05/2017)
Roma. Un culto che prima si afferma a livello nazionale e poi si dilata nel mondo per un secolo conquistando fedeli, vescovi, Papi. E tutto che inizia con tre pastorelli analfabeti - Jacinta, Francisco e Lúcia -e il racconto dell’ apparizione di una “signora vestita di bianco”: che il 13 maggio 1917 li invita a dire il rosario per i peccatori e la fine della guerra; il 13 giugno ripete l’invito ed esorta Lúcia a imparare a leggere; il 13 luglio torna a chiedere preghiere per la fine della guerra, promettendo un miracolo entro tre mesi e rivelando loro un “segreto”; il 13 agosto dice di usare le donazioni per il culto; il 13 settembre insiste sulla preghiera per la fine del conflitto e chiede una cappella a Fatima; il 13 ottobre - ultima apparizione, durante la quale si verifica un fenomeno solare (il miracolo promesso?) - rivela come richiesta della Madonna del Rosario preghiere e penitenze, garantendo un rapido rientro dei soldati a casa.
Fermandosi solo sulle relazioni coeve alle apparizioni del ‘17, con le risposte semplici dei tre bambini, considerando che la guerra cessò solo alla fine del ‘18, non è facile capire la devozione popolare concentratasi subito su Fatima.
E forse ha ragione José Barreto nel suo saggio “I messaggi di Fatima tra anticomunismo, religiosità popolare e riconquista cattolica” pubblicato da poco su “Memoria e Ricerca” del Mulino, ad allargare lo sguardo anche alla cornice storica e socio-politica. Proviamo a seguirlo.
«Con Fatima - scrive - si aprì un canale di comunicazione con il sovrannaturale in un periodo tormentato della storia contemporanea portoghese, iniziato con la rivoluzione repubblicana del 1910 durante il quale si era verificata la maggiore offensiva contro la Chiesa mai registrata nel Paese». Chiesa che nel precedente periodo del costituzionalismo monarchico (1834-1910), pur con il cattolicesimo come religione di Stato, aveva vissuto una situazione definita da Manuel Clemente «una gabbia e nemmeno dorata».
È dunque un periodo particolare quello che vede la diffusione dei messaggi di Fatima: di guerra, e in Portogallo di guerra di religione. Con una imperante laicizzazione della società che vede scuole cattoliche chiuse, preti detenuti, beni ecclesiastici nazionalizzati, aule di culto e seminari trasformati in uffici pubblici, e vescovi importanti accusati di comportamenti contrari alle leggi e spediti in esilio persino durante le apparizioni del settembre e ottobre ’17.
«Il tentativo di connotare politicamente Fatima era inevitabile, e iniziò immediatamente a partire dal 1917», ha scritto Barreto. Aggiungendo: «I repubblicani denunciarono lo sfruttamento della “superstizione” popolare da parte delle forze anti-repubblicane; quest’ultime interpretarono le apparizioni della Vergine come le precorritrici del “miracolo” dello schiacciamento della “serpe giacobina“ riferendosi al colpo di Stato del dicembre 1917 di Sidonio Pais che destituì i repubblicani radicali e instaurò un regime presidenzialista terminato nel dicembre successivo».
Se si può convenire che, nella regione di Fatima, nei confronti dell’offensiva antireligiosa non ci fu allora una vigorosa resistenza cattolica, né ci fu un immediato consenso del clero sulle apparizioni, così come non è corretto indicare in quel periodo una correlazione tra apparizioni e militanza antirepubblicana, successivamente invece, la trasformazione di Fatima in una “Lourdes portoghese” finì per riflettere nei fatti un’opposizione allo spirito della repubblica atea e massonica. Senza dimenticare che le apparizioni potevano leggersi come un segno di salvezza per un Paese preda di angosce con le sue truppe in trincea a fianco dell’Intesa, preda di incertezze per la scarsità di beni primari e via dicendo.
Detto questo, restando sul fronte politico, è indubbio che è il golpe militare del dicembre ‘17 a riportare la riappacificazione tra il governo e la Chiesa e il riallacciamento delle relazioni diplomatiche con il Vaticano: che avranno pienezza con la dittatura militare (1926-1933) e larga parte dell’ Estado Novo (1933-1968 con Salazar e 1968-1974 con Caetano nel segno delle “tre F”: fado, futbol, Fatima. Ed è solo in questo arco cronologico che pare convincente l’affermarsi di una connotazione anche ideologica - in chiave anticomunista - dei messaggi mariani. Del resto l’ufficializzazione del culto di Fatima passò attraverso tutte le indagini canoniche avviate nel 1922 e concluse ben otto anni dopo con il riconoscimento formale del carattere sovrannaturale dei fatti, mentre in attesa del verdetto si registrarono un impegno del clero nella ricostruzione ufficiale della storia delle apparizioni, una vasta propaganda sulla stampa cattolica, visite importanti, e persino - dopo che Benedetto XV non si era mai pronunciato - la “indiretta approvazione” di Fatima da parte di Pio XI che nel 1929 benedice una statua della Vergine di Fatima arrivata dal Portogallo al Pontificio Collegio Portoghese di Roma. Lo stesso Pio XI di cui il cardinale Confalonieri che era stato suo segretario riportava questa frase a proposito di mistiche che gli inviavano lettere su lettere circa rivelazioni di Maria: «...Se ha qualcosa da farmi sapere, potrebbe dirlo a me».
Quando nel 1930 il vescovo di Leiria-Fatima Correia da Silva dichiara le apparizioni «degne di essere credute», morti Francisco e Jacinta, è Lúcia l’unica testimone di esse: entrata nel frattempo tra le Suore dorotee di Porto e inviata in Spagna, nel monastero di Tuy ha continuato ad avere visioni e locuzioni interiori (nel ’25 la richiesta di diffondere la «comunione dei cinque primi sabati» in riparazione dei peccati) e ha già steso la prima delle sei “Memorie” (1922, 1937, due nel 1941, 1989, 1993, edite in Italia dalla Queriniana con il titolo “Lucia racconta Fatima”, a cura di António Maria Martins) dedicate ai fatti della Cova da Iria e alle rivelazioni. Rivelazioni che, a ben vedere - una volta rese note - palesano intrecci con drammi del XX secolo: dalle guerre mondiali alla parabola della Russia sovietica.
Tra le istruzioni che alla fine del maggio ‘30 Lúcia afferma di aver ricevuto dal cielo - preceduta da un «se non mi sbaglio» - ecco la promessa divina di «porre fine alla persecuzione in Russia se il Santo Padre avesse, insieme a tutti i vescovi del mondo, compiuto un solenne e pubblico atto di riparazione e di consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e di Maria». Sino a questo momento, fissato in una lettera al confessore, il gesuita José Bernardo Gonçalves, non si trova alcun riferimento pubblico o privato alla Russia e al comunismo, ma proprio nel febbraio precedente, peggiorate le condizioni di ortodossi e cattolici, congelate le trattative segrete che la Santa Sede aveva provato a tessere con i sovietici, Pio XI pubblicamente aveva chiesto a tutto il mondo cristiano una «crociata di preghiera per la Russia». In ogni caso, come ha osservato Barreto nel saggio citato, «le istruzioni celesti ricevute da Lúcia nel ‘30 non ottennero una grande attenzione dal vescovo di Leiria fino al ‘36, quando il Fronte Popolare prese il potere nella vicina Spagna». E proprio in quel periodo Lúcia accettò la proposta del suo confessore di insistere con il vescovo e il Vaticano sul tema della «consacrazione della Russia», pur rinnovando per scritto il timore di «essersi lasciata illudere dall’immaginazione», o da qualche «illusione diabolica»,come scrisse in due lettere del 18 maggio e 5 giugno 1936.
L’anno dopo, imperversando la guerra civile spagnola, il vescovo di Leiria mette a conoscenza Papa Ratti delle richieste celesti a Lúcia circa la «consacrazione della Russia ai Sacri Cuori di Gesù e Maria» da effettuarsi insieme a «tutti i vescovi del mondo cattolico», e l’approvazione papale della devozione dei «primi sabati», come condizioni per la fine della persecuzione religiosa in Russia.
Nella lettera (riportata tra i Novos Documentos de Fátima editi dall’ Apostolado da Imprensa nel 1984), il vescovo ricordava a Pio XI come già nelle raccomandazioni che la Vergine di Fatima aveva fatto nel 1917 fosse chiaro «come Nostra Signora stesse preparando la lotta contro il comunismo», dal quale il Portogallo era stato sino ad allora preservato. Il Pontefice non risponde a questa richiesta (come non rispose ad una analoga richiesta di un’ altra veggente portoghese, Alexandrina da Costa, ai tempi screditata e poi beatificata da Giovanni Paolo II). «Quanto alla consacrazione della Russia al Cuore immacolato di Maria, non è stata fatta nel mese di maggio come lei si aspettava. Si farà certamente, ma non subito», così Lúcia il 15 giugno del ’40 a padre Gonçalves.
Nel frattempo successore di Pio XI è Papa Pacelli. Obbedendo al vescovo di Leiria e di Gurza, Lúcia gli scrive nell’ottobre ’40 collocando per la prima volta la richiesta celeste di consacrazione della Russia nel 1917, come parte del segreto da lei custodito dal 13 luglio di quell’anno (lettera che sarà resa nota pubblicamente solo negli anni ’70).
Nell’estate del ’41 mentre è in corso l’invasione dell’Urss da parte della Germania, il vescovo di Leiria ordina a Lúcia di redigere una nuova memoria sulla guerra e la Russia. E a questo testo - completato nell’ottobre ’41 - Lúcia affida la versione definitiva delle due prime parti del segreto (la terza parte, redatta nel ’44 e inviata a Roma nel ’57, sarebbe stata divulgata da Giovanni Paolo II nel 2000) che Pio XII rende pubbliche nel ’42, la visione di un pezzo di inferno («un grande mare di fuoco» con immersi «i demoni e le anime») e il messaggio della Vergine sulla consacrazione della Russia («se ascolterete le mie richieste, la Russia si convertirà e avrete pace; diversamente, diffonderà i suoi errori nel mondo, promuovendo guerre e persecuzioni....»).
Nel frattempo il testo del “segreto”, integro, per sunto, stralci, con riferimenti alla Russia alterati o tagliati, gira per il mondo. Ed è Pio XII che il 31 ottobre ‘42, data delle nozze d’argento delle apparizioni e della sua consacrazione episcopale, con un radiomessaggio consacra il «genere umano» al Cuore immacolato di Maria, invocata con il titolo di “Regina della pace” (come aveva fatto Benedetto XV). In questa preghiera il Papa si allontanava dalla richiesta precisa della Vergine, ma faceva allusioni alla devozione mariana dei russi «popoli separati dall’errore e la discordia», e alla loro auspicata ricongiunzione «all’unico gregge di Cristo, sotto un unico, vero pastore». Nello stesso testo anche però un riferimento all’intervento celeste grazie al quale la «nave dello stato portoghese «persasi «nella tormenta anti-cristiana e anti-nazionale» aveva ritrovato «il filo delle sue più belle tradizioni che la rendevano una nazione fedelissima» e persino un omaggio anche alla classe politica del cambiamento, definita «uno strumento della Provvidenza». Da non dimenticare che Paolo VI alla chiusura della terza sessione del Vaticano II avrebbe fatto riferimento a questa consacrazione del predecessore inviando con una missione la simbolica rosa d’oro al santuario della Madonna di Fatima.
Non solo. Come ha scritto sulla rivista “Jesus” Alberto Guasco: «Se una rivelazione ex post eventu è manna per critici e avversari, Pio XII mostra invece di prenderla sul serio». Eccolo così promuovere l’istituzione della festa del Cuore immacolato di Maria (1944), far incoronare la Madonna di Fatima regina del mondo (1946), ripetere la consacrazione in una lettera apostolica del 7 luglio 1952. A quella data Pio XII conosce anche la terza parte del segreto ricevuta in busta chiusa dal vescovo di Leiria, ma non ne ha ritenuto opportuna la divulgazione. A quella data le peregrinazioni dell’immagine di Fatima continuano in tutto il mondo e sulla “Piazza Bianca” del santuario si sono già viste scene come quella dell’ottobre 1951: con il noto predicatore americano Fulton Sheen, che davanti a 100mila pellegrini profetizza, come risultato delle preghiere dei milioni di fedeli lì affluiti, la trasformazione del simbolo del martello e della falce in una croce e una luna sotto i piedi dell’Immacolata.
Non tutti però manifestano in quel periodo entusiasmi così accesi. Anzi già dalla fine della guerra, Fatima occupa discussioni fra teologi, avviate da Edouard Dhanis, il gesuita belga che ne ha diviso la storia in due parti - una vecchia sulle testimonianze raccolte nel 1917, una nuova sul corpus originale integrato con i nuovi dati contenuti nelle “memorie”- scrivendo già nel ’44: «Siamo portati a credere che, nel corso degli anni, alcuni eventi esterni e certe esperienze spirituali di Lúcia abbiano arricchito il contenuto originale del segreto». Senza porre in causa la sincerità della veggente, Dhanis osservava che «il modo poco oggettivo in cui nel segreto erano state descritte le cause che avevano provocato la Guerra [mondiale] poteva solo essere spiegato dalla influenza che la Guerra civile spagnola aveva avuto sul pensiero di Lúcia». -In effetti, il segreto imputava alla Russia tutta la responsabilità per le guerre e le persecuzioni verso la Chiesa, seppure all’interno di una concezione non storica e apocalittica di questi flagelli come punizione divina per i peccati del mondo. Le tesi di Dhanis poi rettore della Pontificia Università Gregoriana, sarebbero state duramente dibattute negli ambienti vicini a Fatima costringendolo a toni più concilianti. Lui, membro sino alla morte della Commissione teologica internazionale, a fare da apripista per altri teologi come nel suo caso accusati dai tradizionalisti di essere «nemici di Fatima».
Accuse dalle quali non furono risparmiati Papi come Giovanni XXIII e Paolo VI, invitati più volte a rinnovare in modo completo la consacrazione e a divulgare l’ultima parte del segreto, non disposti in tempi di Ostpolitik e di Concilio, a lasciar passare interpretazioni del messaggio di Fatima ultraconservatrici, anti-ecumeniche, in un quadro rinnovato nel quale la Chiesa tesseva nuove relazioni ad Est, affievolendo le aspettative delle tesi legate all’«ultimo segreto di Fatima» che per molti si sarebbe riferito ad una grave crisi interna alla Chiesa causata dal Concilio. Il resto è noto: nel ‘59 e nel ‘65 Giovanni XXIII e Paolo VI lessero il segreto e decisero di non divulgarlo (facendo alimentare nuove speculazioni).
Negli anni ’60 la questione coloniale segnò un divario tra Vaticano e governo portoghese già alle prese con una vera opposizione cattolica interna intensificatasi con l’inasprimento delle guerre in Africa e l’esilio forzato del vescovo di Porto nel 1959. Proprio quest’ultimo, Ferreira Gomes, rientrando nel ’70 dal suo esilio in Francia, fu il primo prelato portoghese a formulare aperte critiche nei confronti di Fatima (già da lui definita una «Lourdes reazionaria»), sottolineandone aspetti di «culto magico» e «religione utilitaristica». «Per i cattolici che in questo periodo combattevano il regime in Portogallo, Fatima ebbe un significato molto diverso, se non opposto, a quello che avrebbe avuto per la lotta di liberazione polacca degli ani ’80», ha notato Barreceto. Aggiungendo che: «L’episcopato portoghese, tra la crescente contestazione proveniente dalla Chiesa e le critiche cattoliche internazionali, riuscì, seppur tardivamente, a svincolarsi dal regime poco prima della rivoluzione dell’aprile 1974 che ne decretò la fine». Apparentemente incurante degli sconvolgimenti politici, il santuario di Fatima continuò ad accogliere folle di devoti. Anzi la forza della fede popolare protesse la Chiesa dal potere rivoluzionario del biennio ‘74-‘76.
Morto Paolo VI e subito dopo Giovanni Paolo I, che da patriarca di Venezia aveva incontrato Lucìa, ecco Giovanni Paolo II: il “Papa di Fatima” nonché «protagonista della terza parte del segreto». Il Papa che a Fatima nel 1982 non esita a riconoscere che la Vergine gli ha salvato la vita, che ripete la consacrazione del mondo (13 maggio ‘82 e 25 marzo ‘84), che beatifica i due pastorelli che ora Francesco canonizza; che ha consentito la divulgazione del terzo segreto con tanto di “guida alla lettura” dell’allora prefetto della Congregazione per la Dottrina della fede, il cardinale Joseph Ratzinger. Sì, il futuro Benedetto XVI, che nel 1996 a Fatima, ricordò l’invito vero di Maria che «parla ai piccoli per mostrarci quanto è necessario sapere: cioè, prestare attenzione all’unico necessario: credere in Gesù Cristo» . Quanto al resto ci vengono in mente solo le parole di Paul Claudel che definì Fatima «un’esplosione traboccante del sovrannaturale in un mondo dominato dal materiale».
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* www.lastampa.it, 10.05.2017.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico....
Inedito.
René Girard: non siate nuovi sacrificatori
di Laurent Linneuil e Guillaume De Tanoüarn *
In volume 4 interviste all’antropologo Girard morto nel 2015. “Nessuna fede deve essere troppo fiera di sé e deve chiedersi se è degna della Rivelazione che ha ricevuto Vale anche per i cristiani"
L’esegesi classica, nella lettura di Adamo ed Eva, insiste sul peccato d’orgoglio mentre lei sposta questa lettura sul piano del desiderio mimetico...
È facile trovare nei testi evangelici il fatto che Satana è omicida fin dall’inizio: «Voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro. Egli è stato omicida fin da principio» (Giovanni 8, 44). Nel capitolo 8 Giovanni ci fa vedere l’inizio della cultura, ci dice: «Voi vi credete figli di Dio, ma siete evidentemente figli di Satana poiché non sapete nemmeno come respingerlo. Vi credete figli di Dio in una sequela naturale senza sospettare di rimanere nel sacrificio». Ma questi testi non sono mai veramente letti. Cosa rimprovera Giovanni agli ebrei? In cosa si distingue dal giudaismo ortodosso in questo rimprovero? Queste le vere domande...
Rimprovera agli ebrei di valorizzare la loro comprovata filiazione...
Sì, senza vedere la loro propria violenza, senza vedere il peccato originale in certo modo. «Il nostro padre è Abramo». Gesù gli dice: «Se siete figli di Abramo, fate le opere di Abramo» (Giovanni 8, 39). Ora, è la verità che rende liberi. Questa porta a mostrare come il peccato originale, anche se non è il caso di definirlo, è legato alla violenza e al religioso come è nelle religioni arcaiche o nel cristianesimo deformato dall’arcaismo di cui nella storia non giunge a trionfare totalmente. Mi guardo bene dal definire il peccato originale.
Quello che appare molto sorprendente è il fatto che nella Bibbia non si conosce la ragione per la quale Abele è preferito a Caino...
Potrebbe esserci, paradossalmente, una ragione visibile nell’islam. Abele è colui che sacrifica gli animali e siamo in questa fase: Abele non ha voglia di uccidere suo fratello forse perché sacrifica gli animali e Caino è agricoltore. E qui non ci sono sacrifici animali. Caino non ha altro mezzo d’espellere la violenza che uccidere suo fratello.
Ci sono testi davvero straordinari nel Corano che dicono che l’animale inviato da Dio ad Abramo per risparmiare Isacco è lo stesso animale ucciso da Abele per impedirgli di uccidere suo fratello. È affascinante e mostra che il Corano sul piano biblico non è insignificante. È molto metaforico ma di una potenza incomparabile. Mi colpisce profondamente.
Ci sono scene altrettanto confrontabili nell’Odissea, è straordinario. Quelle del Ciclope. Come si scappa dal Ciclope? Mettendosi sotto la bestia. E allo stesso modo che Isacco tasta la pelle di suo figlio per riconoscere, crede, Giacobbe, così il Ciclope tasta l’animale e sente che non è l’uomo che cerca e che vorrebbe uccidere. In un certo modo il gregge di bestie del Ciclope è ciò che salva. Si ritrova la stessa cosa nelle Mille e una notte, molto più tardi, nel mondo dell’islam e questa parte della storia del Ciclope scompare, non è più necessaria, non ha più alcun ruolo, ma nell’Odissea c’è un’intuizione sacrificale molto significativa.
Lei ha detto che questo aspetto di denunzia dell’omicidio fondatore nel discorso di Gesù è stato decisamente mal compreso: vi si legge spesso dell’antisemitismo. Per quale ragione l’evento del cristianesimo, se è stato così mal compreso, non ha provocato uno scatenamento della rivalità mimetica?
Si può dire che questo sfocia in scatenamenti di rivalità mimetica, in opposizione di fratelli nemici. La principale opposizione di fratelli nemici nella Storia è proprio tra ebrei e cristiani. Ma il primo cristianesimo è dominato dalla Lettera ai Romani che dice: la colpa degli ebrei è molto reale, ma è la vostra salvezza. Soprattutto, non andate vantandovi voi cristiani. Siete stati innestati grazie alla colpa degli ebrei. Compare l’idea che i cristiani potrebbero rivelarsi del tutto indegni della Rivelazione cristiana così come gli ebrei si sono rivelati indegni della loro rivelazione. Credo profondamente che sia qui che bisogna cercare il fondamento della teologia contemporanea. Il libro di monsignor Lustiger, La Promesse, è ammirevole proprio in ciò che afferma sul massacro degli Innocenti e la Shoah. Bisogna riconoscere che il cristianesimo non ha di che vantarsi. I cristiani ereditano da san Paolo e dai Vangeli allo stesso modo che gli ebrei ereditano dalla Genesi e dal Levitico e da tutta la Legge. Ma non lo hanno compreso poiché hanno continuato a combattersi e a disprezzare gli ebrei.
Hanno continuato a essere nell’ordine sacrificale. Ma la Cristianità non è una contraddizione in termini? Una società cristiana è possibile? I cristiani non sono sempre dei contestatori dell’ordine di Satana e dunque dei marginali?
Sì, hanno ricreato l’ordine sacrificale. Storicamente è fatale e direi allo stesso tempo necessario. Un passaggio troppo brusco sarebbe impossibile e impensabile. Abbiamo avuto duemila anni di storia e questo è fondamentale.
Il mio lavoro ha rapporto con la teologia, ma ha anche rapporto con la scienza moderna che tutto storicizza. Mostra che la religione dev’essere storicizzata: essa fa degli uomini esseri che restano sempre violenti ma che diventano più sottili, meno spettacolari, meno prossimi alla bestia e alle forme sacrificali come il sacrificio umano. Potrebbe essere che si abbia un cristianesimo storico che sia una necessità storica.
Dopo duemila anni di cristianesimo storico, sembra che siamo oggi in un periodo cerniera: sia che apra direttamente sull’Apocalisse, sia che ci prepari un periodo di comprensione più grande e di tradimento più sottile del cristianesimo. Non possiamo fermare la storia e non ne abbiamo il diritto.
Per lei l’Apocalisse è la fine della storia...
Sì, per me l’Apocalisse è la fine della storia. Ho una visione il più tradizionale possibile. L’Apocalisse è l’avvento del Regno di Dio. Ma si può pensare che ci siano ’piccole o semiapocalissi’ o crisi, vale a dire periodi intermedi...
In un certo senso il cristianesimo è il primo e insuperato «illuminismo». Il sacrificio, esito della “rivalità mimetica” messa in luce da René Girard nei suoi studi come stigma della violenza delle religioni primitive, viene smontato e abbattuto dalla morte di Cristo sulla croce. Cristo muore perché deve morire, come migliaia e migliaia di vittime innocenti prima di lui, ma così prende la parola per la vittima, e svela l’ingiustizia della morte dell’innocente.
Il volume «Girard. Oltre il sacrificio», edito da Medusa (pagine 112, euro 13), raccoglie quattro interviste al grande studioso delle religioni e dei miti, morto nel 2015.
Anticipiamo alcuni brani da una conversazione uscita sulla rivista “Certitude” nel 2005.
Siamo davvero in grado di autodeterminarci?
Secondo il Grande Inquisitore di Dostoevskij cerchiamo un potere a cui consegnarci
Un uomo solo è schiavo due amici sono liberi
di Vito Mancuso (la Repubblica, 21.05.2016)
Siamo davvero in grado di autodeterminarci? Oppure come sembrano suggerire i dati dello neuroscienze si tratta di un’illusione? Tra letteratura, filosofia e religione, l’idea controversa della salvezza umana
Possiamo iniziare a chiederci quanto nella storia si sia effettivamente data la presenza allo stato puro del binomio dittatura- schiavitù e del suo opposto democrazia-libertà: forse né gli schiavi dell’antica Grecia e dell’antica Roma erano così privi di libertà come in prima battuta si ritiene (per rendersene conto basta pensare alla figura del servus callidus nelle commedie di Menandro e di Plauto), e forse noi cittadini delle democrazie contemporanee non siamo esenti da forme di servitù a volte così pesanti da trasformarsi in autentiche schiavitù.
La questione del grado di libertà della nostra esistenza diviene poi ancora più complessa se si prendono in esame i diversi livelli di cui si compone la vita, e oltre al livello economico- sociale e a quello politico si considera quell’intricato labirinto che chiamiamo coscienza individuale. Ognuno di noi rispetto a se stesso (rispetto al codice genetico, alle determinazioni familiari e ambientali, alle esigenze corporee, al carattere, alla psiche, all’inconscio...) è libero o schiavo? Siamo veramente dotati di libero arbitrio oppure si tratta di un’illusione, come sembrano suggerire i dati delle neuroscienze e della microbiologia? Aveva ragione Erasmo da Rotterdam che contro Lutero scrisse nel 1524 il De libero arbitrio, oppure aveva ragione Lutero che a Erasmo replicò nel 1525 con il De servo arbitrio?
Né si può evitare un’altra domanda: gli esseri umani vogliono davvero esseri liberi? Oppure in realtà non cercano altro che una grande potenza a cui consegnare tutti insieme questa scomoda e inquietante condizione detta libertà? È quanto Dostoevskij sostiene nella celebre Leggenda del Grande Inquisitore: il cardinale capo dell’Inquisizione riconosce Cristo tornato sulla terra, lo imprigiona e nella notte gli tiene una vera e propria lezione di psicologia e di filosofia del potere in cui sostiene che gli esseri umani sono mossi da un angoscioso interrogativo: «Dinnanzi a chi inchinarci? ». Essi infatti non cercano la libertà, perché «nulla mai è stato per l’uomo e per la società più intollerabile della libertà». Secondo questa prospettiva la schiavitù non è una prigione in cui gli uomini, originariamente liberi, sono stati condotti, ma è un’oscura quanto originaria condizione dell’esistenza fisica e psichica.
La questione a questo punto diviene di natura squisitamente filosofico-teologica: lo scopo della vita è di essere liberi in quanto autonomi e indipendenti, oppure è di legarsi a qualcosa di più grande di noi che ci libererà veramente da noi stessi e dalle nostre angosce? E in questo secondo caso, come far sì che tale legame, di natura inevitabilmente asimmetrica, non si trasformi in schiavitù ma generi liberazione e vera libertà?
Questo è lo sfondo teoretico su cui porre la questione del rapporto religione-schiavitù, a proposito del quale la situazione è alquanto contraddittoria. Che la religione abbia incrementato la schiavitù non vi sono dubbi, la cosa appare evidente già nella Bibbia a partire da una delle sue pagine più note, il cosiddetto sacrificio di Abramo. Perché Dio chiede ad Abramo di uccidere il piccolo Isacco, generando nell’intimo del bambino un tale terrore da cui mai più sarebbe guarito (non a caso due volte nella Genesi Dio è designato “Terrore di Isacco”)? La risposta è una sola: per ottenere la più assoluta sottomissione. Non c’è nulla infatti per un uomo di più prezioso di un figlio, e Dio proprio quello richiede ad Abramo.
Come denominare il comportamento di Abramo? Fede? Se lo è, lo è nella forma della più totale schiavitù. Questa fede, se può portare a uccidere il proprio figlio, chissà quale violenza può generare verso i presunti nemici della propria religione. Se la religione ha versato, e continua a versare, tanto sangue, è a causa di questo modello di fede, un’obbedienza così totale e sottomessa da essere in realtà schiavitù.
È a questa prospettiva che a mio avviso sono riconducibili i fenomeni degenerativi e violenti che hanno a lungo accompagnato il cammino delle religioni, per la Chiesa cattolica si pensi all’Inquisizione, all’Index librorum prohibitorum e alla sistematica opposizione contro l’affermarsi dei diritti umani, tra cui libertà di coscienza e di stampa, suffragio universale, emancipazione femminile, laicità dello Stato.
Non deve quindi sorprendere che la Chiesa cattolica giunse persino a pronunciarsi contro l’abolizione della schiavitù. La cosa avvenne nel 1866, quando in risposta ad alcune questioni del vicario apostolico in Etiopia, Pio IX firmò un documento, tecnicamente denominato Instructio, in cui si legge: «La schiavitù in quanto tale, considerata nella sua natura fondamentale, non è del tutto contraria alla legge naturale e divina. Non è contrario alla legge naturale e divina che uno schiavo possa essere venduto, acquistato, scambiato o regalato».
L’anno prima gli Stati Uniti d’America avevano abolito la schiavitù. È altrettanto vero però che la religione ha anche contribuito a combattere, teoreticamente e praticamente, la schiavitù. Per il primo aspetto si pensi a san Paolo che scrive: «Non c’è più né giudeo né greco, né schiavo né libero, né maschio né femmina» (Galati 3,28); per la dimensione pratica si pensi al chiaro appello alla ribellione contro la dominazione romana presente nell’ultimo libro del Nuovo Testamento: «Ripagatela con la sua stessa moneta, retribuitela con il doppio dei suoi misfatti. Versatele doppia misura nella coppa in cui beveva » (Apocalisse 18,6).
Oltre a inquisitori e amici dei dittatori, il cristianesimo ha generato gente come Gioacchino da Fiore e Francesco d’Assisi, i movimenti pauperistici e radicali che hanno sempre portato avanti l’idea dell’uguaglianza di tutti gli esseri umani, e nell’epoca moderna Tolstoj, Bonhoeffer, Capitini, don Milani, Romero, Camara, Balducci, Turoldo, Arturo Paoli e gli esponenti della teologia della liberazione (riabilitata da papa Francesco dopo le persecuzioni di Giovanni Paolo II e dell’allora cardinal Ratzinger).
A questo punto però occorre ricollegarsi alle considerazioni iniziali sulla forma più insidiosa di schiavitù, quella interiore, e comprendere che è a questo livello che la vera religione dà il meglio di sé contribuendo alla liberazione dall’ego. L’atto fondamentale dell’autentica religio è la conversione dell’io, che si libera dalla schiavitù verso di sé svuotandosi della volontà di potenza ed entrando nella logica della relazione armoniosa. Qui c’è superamento dell’ego ma non schiavitù, la quale non c’è perché non c’è più signoria ma una forma nuova di relazione, che, con le parole del Vangelo («vi ho chiamato amici» - Giovanni 15,15), si può chiamare amicizia.
* IL FESTIVAL Vito Mancuso partecipa a èStoria “Schiavi”, il festival internazionale della storia, ideato e diretto da Adriano Ossola, a Gorizia fino a domani. Info: www. estoria. it
La fede senza consolazione del buon cristiano Quinzio
di Gianni Vattimo (La Stampa, 22.03.2016)
Possiamo considerare provvidenziale il fatto che ci tocchi celebrare il ventennale della morte di Sergio Quinzio (scomparso il 22 marzo 1996) proprio all’inizio della Settimana Santa? Il fatto è che il centro di tutta la meditazione di Quinzio, fin da quando cominciava a pubblicare i suoi scritti mentre era ancora ufficiale della Guardia di Finanza, è stato il mistero della resurrezione. Quella di Cristo, anzitutto, narrata nei Vangeli, così intensamente commentati nelle sue opere; e poi quella promessa agli uomini dopo il giudizio finale.
Né l’una né l’altra di queste resurrezioni, quella accaduta a Gerusalemme e quella promessa a tutti noi per il futuro, sono mai state per lui oggetto di una meditazione consolatoria e «edificante» nel senso più comune. Come il mistero della Croce, la resurrezione è un punto inquietante, di frizione, nella fede di Quinzio, e più in generale nella sua visione della Chiesa. I titoli delle sue opere più note, da La fede sepolta (1978) a La Croce e il nulla (1984) a Mysterium iniquitatis (1995), alludono a una concezione del cristianesimo improntata alla coscienza acuta di un fallimento, insomma il contrario di ogni trionfalismo e di ogni senso di positività esistenziale e storica.
Paradossalmente, è proprio con la resurrezione che ha a che fare questo complessivo angosciante senso di fallimento. Se anche gli apostoli hanno visto Gesù risorto (ma anche: «beati quelli che hanno creduto senza vedere») la trasformazione del mondo, la parusia, ossia il ritorno del Messia nella sua gloria che essi credevano imminente, non si è verificato. Il primo fallimento del Cristianesimo è stato questo, i nuovi cieli e la nuova terra che Gesù aveva promesso, credendo anche lui nella loro imminente realizzazione, non sono venuti, e anche dopo la sua risurrezione i suoi discepoli hanno dovuto fare i conti con questo inspiegabile ritardo. Che ha segnato in modo indelebile lo sviluppo della dottrina e della spiritualità cristiana.
Perfino il modo cristiano di considerare e vivere la sessualità ha le sue remote radici qui: il ritardo della parusia è il primo responsabile della progressiva tendenza spiritualizzante che si impose nella interpretazione del messaggio di Gesù, insieme allo scandalo che suscitava nel mondo greco l’idea che i morti potessero risorgere. La vita eterna venne sempre più considerata come riservata all’anima, che del resto la filosofia greca aveva già ritenuto immortale, mentre il corpo era destinato a perire: anche una volta risuscitati nell’ultimo giorno i fedeli salvati non avrebbero più goduto delle felicità terrene, «neque nubent neque nubentur» (Matt. 22, 30), cioè non avrebbero più avuto rapporti carnali e tutta la felicità del Paradiso si sarebbe risolta nella contemplazione di Dio. Non era però la nostalgia per i piaceri della carne che muoveva Quinzio, ma l’idea che la verità più caratteristicamente cristiana, la fede nella risurrezione, si era consumata fino a sparire sempre più dall’orizzonte della Chiesa in un processo di secolarizzazione.
È eloquente, in questo senso, soprattutto l’ultimo libro di Quinzio, Mysterium iniquitatis, in cui egli immagina di scrivere le due encicliche dell’ultimo Papa, che secondo una famosa profezia medievale sarebbe stato eletto alla fine del secondo milllennio. Anche questa profezia, fortunatamente o no, non si è realizzata, per ora. Tuttavia il tempo che viviamo, pensa Quinzio, è quello del trionfo dell’anticristo di cui parla l’Apocalisse, lo scatenarsi del male assoluto (Auschwitz e oltre!) a cui seguirà finalmente la parusia, il ritorno glorioso del Cristo giudice che farà nuove tutte le creature, asciugherà tutte le lacrime e raddrizzerà tutte le ingiustizie della storia.
È questo il cristianesimo capace di salvarci, anche se non è tenero e consolante come vorremmo che fosse? Non sarà esso stesso troppo «spirituale», troppo monastico e pessimista sulla possibilità di opporre qualche sia pur debole resistenza al dilagare del male che moltiplica le vittime nell’apparente silenzio di Dio, e spesso anche dei suoi ministri? E poi: potrebbe essere stata segnata da uno spirito «quinziano» la decisione di Benedetto XVI, di dimettersi dalla sua carica? O addirittura, come pensano probabilmente molti integralisti, non sarà proprio Francesco, con le sue riforme e la sua dissoluzione di tante tradizioni consolidate, l’ultimo papa della storia? Domande che ci portano pericolosamente vicino a Dan Brown e ai suoi gialli religiosi, che certo Quinzio non amava. Ciò che rimane di lui è forse descrivibile come la testimonianza di un Giobbe che non si lascia tanto facilmente convincere di avere torto, e prende in parola le promesse divine con una ostinazione di cui la fede non può fare a meno.
VATICANO, COPYRIGHT, E CARO-PREZZO ("CARITAS"): "IN PRINCIPIO ERA LA PAROLA" - A PAGAMENTO!!!
Enciclica "mammonica"!!!
«DEUS CARITAS EST», LA PRIMA ENCICLICA DI RATZINGER E’ A PAGAMENTO !!!
LA "LUCE DEL MONDO" SONO "IO"!!! CHE SUCCESSO, QUANTI SOLDI CON I DIRITTI DI AUTORE!!! --- IL NOME DI DIO E’ MISERICORDIA. Il titolo del libro-intervista di Papa Francesco con il vaticanista Andrea Tornielli (EDIZIONI PIEMME - GRUPPO MONDADORI)
L’aldilà «democratico» che fece della Chiesa una potenza economica
di Marco Rizzi (Corriere della Sera, La Lettura, 07.02.2016)
Verso la fine del VII secolo, il vescovo di Toledo, Giuliano, compilò una vasta antologia di testi degli antichi Padri della Chiesa latina sul destino dell’anima dopo la morte. Il suo intento era confortare un amico malato, Idalio vescovo di Barcellona, che sentiva prossimo l’arrivo della fine. Nei fatti, il Prognosticon futuri saeculi , che si traduce con «Preannuncio del mondo che verrà», divenne uno dei testi più conosciuti e diffusi nel Medioevo.
Raccogliendo pagine dagli scritti di Cipriano, vescovo di Cartagine alla metà del III secolo, di Agostino, di Gregorio Magno e di altri ancora, Giuliano di Toledo si sforza di offrire risposte coerenti alle domande che angosciavano i cristiani dei suoi giorni: cosa accade all’anima quando si muore? Le anime dei defunti rimangono in rapporto con le cose di questo mondo? E soprattutto, cosa accade nel lungo intervallo di tempo che separa il momento della morte individuale dal giorno, terribile ma ancora lontano, del Giudizio universale, quando si consumerà il destino irreversibile di ciascuno e l’anima sarà restituita al corpo rigenerato per la beatitudine o la condanna eterna?
Proprio dall’antologia di Giuliano (che si può leggere nella recente traduzione di Tommaso Stancati per l’Editrice Domenicana Italiana di Napoli) prende avvio il saggio di Peter Brown Il riscatto dell’anima (Einaudi), che ripercorre il formarsi dell’immaginario escatologico del cristianesimo occidentale tra il III e il VII secolo, assumendo però un punto di vista particolare: quello del rapporto tra le ricchezze di quaggiù e il destino delle anime di lassù, se si vogliono utilizzare le parole di Gesù che, nel Vangelo di Luca, ammonisce a vendere ciò che si possiede e darlo in elemosina per costruire un tesoro nei cieli.
Nel mondo antico, la gloria dell’immortalità era riservata solo a pochi spiriti eletti, i filosofi, i grandi legislatori, gli eroi; la morte non cancellava, anzi in qualche misura ribadiva, la gerarchia sociale presente sulla Terra. Il cristianesimo introduce invece quella che Brown definisce una «democrazia delle anime», anzitutto riconoscendo a ciascun uomo, a prescindere dalla sua condizione, una propria natura spirituale, testimoniata appunto dall’anima individuale; poi, assegnandole la possibilità di guadagnarsi la salvezza e conseguire così l’immortalità.
Se nei primi tre secoli la condizione di marginalità o addirittura di persecuzione rendeva la scelta stessa di essere cristiani meritevole della ricompensa celeste nel giorno del Giudizio, o addirittura nel caso dei martiri nel momento stesso della morte, a partire dal IV secolo il problema inizia a porsi in termini profondamente diversi. Agostino non si preoccupa di chi è veramente buono (i martiri e i santi) o di chi è intrinsecamente malvagio: i primi godranno del paradiso, i secondi sono destinati all’inferno. Ma che dire di coloro che non sono né abbastanza buoni, né abbastanza cattivi, ovvero della grande maggioranza dei cristiani comuni? Come potranno purificarsi dai loro peccati, una volta defunti e in attesa del Giudizio?
Proprio intorno a interrogativi del genere si determina un significativo cambiamento nell’uso cristiano della ricchezza. Fino a questo momento, l’elemosina elargita ai poveri serviva al credente per obbedire al comando di Gesù e prepararsi un posto in cielo. Ora, invece, l’anima del defunto resta bisognosa anche nell’aldilà: beneficare i poveri sulla Terra contribuisce a riscattare le anime nei cieli.
Così la Chiesa assume un ruolo centrale nella gestione della ricchezza, a mezzo tra cielo e terra. I beni offerti per il sostentamento degli indigenti o per l’edificazione degli edifici di culto rappresentano una sorta di cambiale che il donatore, ricco o meno che sia, potrà incassare dopo la sua morte sotto forma di preghiere e di intercessioni; a sua volta, la Chiesa si fa garante della conservazione e del corretto uso dei beni ricevuti, che divengono un vero «patrimonio dei poveri».
Naturalmente in questo processo si intrecciano in forma tutt’altro che lineare dibattiti teologici, mutamenti culturali, trasformazioni sociali. Ancora alla fine del VI secolo, l’idea antica secondo cui l’immortalità era riservata alle anime elette, questa volta però martiri e santi, riemergeva nelle parole di un membro del clero di Tours secondo cui nel caso dei peccatori - ovvero della stragrande maggioranza dei cristiani - andavano prese alla lettera le parole rivolte da Dio ad Adamo: «Polvere sei e polvere ritornerai». Nessuna offerta, nessuna preghiera poteva redimere le anime comuni. Ma era ormai aperta la strada che avrebbe portato ai grandi possedimenti ecclesiastici, alla comparsa del purgatorio, nella seconda metà del XII secolo, e «alla somma Divina Commedia di Dante Alighieri» - conclude Brown.
Tutti gli Anticristi che camminano tra noi
Non l’Avversario né il Grande Satana, ma “tutto ciò che nega la nostra luce”
Ecco l’interpretazione del Male secondo lo studioso di mistica Marco Vannini
di Paolo Rodari (la Repubblica, 21.06.2015)
La storia del cristianesimo ha molteplici fili rossi. Fra questi ce n’è uno enigmatico e a tratti inquietante, la figura dell’Antidio o, per meglio dire, dell’Anticristo. Chi è? Per la Scrittura, Vangelo di Giovanni alla mano, gli Anticristi sono coloro che rifiutano la divinità di Cristo. Così per Marco Vannini, figura di spicco negli studi sulla tradizione mistica occidentale, che in L’Anticristo. Storia e mito, edito da Mondadori, racconta come in realtà gli Anticristi siano due: «Uno vero, della fede, e uno falso, della superstizione... Conosce l’Anticristo chi conosce Cristo, e sa così ri-conoscere anche quegli Anticristi che, come dice Agostino, non si sono rivelati». Pur presentandosi come cristiani, costoro negano la realtà spirituale dell’uomo e di Dio: «Questi sono gli Anticristi oggi tra noi», scrive l’autore. Insomma, per Vannini l’Anticristo non è l’Avversario nella battaglia finale del Bene contro il Male, «non ha niente a che vedere con le fantasie apocalittiche dei tempi ultimi». È questa a suo avviso una concezione dell’Anticristo «tanto falsa storicamente, filologicamente, quanto perversa moralmente». Perché Anticristo è chi nega il Lògos, lo spirito, «e perciò nega che Cristo sia luce e verità, nega la sua divinità ».
Sono diverse le letture della figura dell’Anticristo fatte durante i secoli. E Vannini le elenca tutte, entrando con dovizia di particolari e competenza dentro un mito che agisce ancora oggi nel profondo dell’immaginario collettivo, come dimostra la sua ampia presenza nella letteratura, nel cinema, nei fumetti, nel web: è sufficiente navigare fra i siti Internet per scoprire che l’idea di un Antagonista, già nato o prossimo a venire, è tuttora molto diffusa. E lo sarà in futuro. Il mito continuerà a vivere, piaccia o meno. Le letture dell’Anticristo saranno ancora con ogni probabilità molteplici, come è stato del resto nel passato. Non a caso, la sua figura compare anche nell’Islam, dove corrisponde a quel «Grande Satana» tanto spesso evocato ieri dai seguaci di Khomeini e dai fondamentalisti di Osama e oggi dagli islamisti del califfato, che lo identificano con la cultura occidentale nel suo complesso e, in particolare, con Israele e gli Stati Uniti. Ma sono letture in verità parziali o anche false. Perché, appunto, Anticristo è chi nega la divinità di Cristo. La si nega perché «non si conosce se stessi in quanto spirito, in quanto «luce e verità». Perciò, chiosa Vannini, gli Anticristi «sono degni di compassione, se non fosse per la presunzione che li accompagna: quella di fare da maestro, da pastore, dunque da ingannatore, seduttore, plànos, come dice appunto la Seconda lettera di Giovanni ».
L’anticristo prima di Gesù
La figura che incarna il male assoluto compare nelle tradizioni più remote
di Paolo Mieli (Corriere della Sera, 07.07.2015) *
Attorno alla metà del XIII secolo a Francoforte sull’Oder, tra Berlino e la frontiera della Germania con la Polonia, fu costruita la chiesa di Santa Maria che, dal 1370, ebbe una particolarità: i fedeli che alzavano gli occhi verso destra alle spalle dell’altare potevano ammirare dipinta su vetro la storia dell’Anticristo. «Probabilmente non lo sapevano, ma stavano godendo di un privilegio unico», scrive Marco Rizzi nell’avvincente A nticristo. L’inizio della fine del mondo , di imminente pubblicazione per i tipi del Mulino. Perché unico? Vetrate di quel genere certo non mancavano nelle chiese dell’epoca. Anzi, sottolinea Rizzi, rappresentavano uno dei tratti distintivi dello stile gotico che si era diffuso in tutta l’Europa a partire dal XII secolo. Fedeli alle indicazioni di Papa Gregorio Magno, gli architetti e gli artisti avevano sostituito con vetri colorati gli affreschi e i mosaici fino ad allora utilizzati per dar vita ad una «Bibbia dei poveri», vale a dire le immagini che illustravano episodi salienti dell’Antico e del Nuovo Testamento. Immagini che, da sinistra verso destra, raccontavano ai più, che non sapevano leggere e scrivere, la storia dei capitoli della fede: creazione, redenzione, giudizio. Ma dell’Anticristo non si parlava mai. O quasi. E invece nella chiesa di Francoforte ben 35 raffigurazioni furono riservate all’Anticristo, così come era stato raccontato dall’abate Adsone del monastero di Montier-en-Der (967) alla regina Gerberga, sorella di Ottone I e moglie di Luigi IV d’Oltremare, nel celeberrimo Libellus de Antichristo .
Si trattava dei «falsi miracoli del figlio della perdizione», che «trasforma le pietre in pane per sfamare i suoi seguaci», fa «scendere il fuoco dal cielo e risorgere i morti», regala «ingenti quantità di oro» (alla «distribuzione fraudolenta della ricchezza» vengono dedicati nella chiesa ben quattro riquadri). Nelle vetrate, l’Anticristo predica due volte. La prima nel tempio, la seconda di fronte a una croce rovesciata. In entrambe le situazioni, nota Rizzi, tra gli ascoltatori che portano sulla fronte il segno della perdizione compare anche un ebreo, riconoscibile dal caratteristico cappello a punta; in un altro riquadro, un gruppo di ebrei attende qualcuno o qualcosa sulle rive di un fiume; un ebreo infine è presente nella scena in cui alcuni fedeli pregano dinanzi al crocefisso, «forse per indicare la conversione del popolo ebraico che deve precedere il ritorno di Cristo». In ogni caso, ove mai ci fossero, «gli accenti polemici non sembrano particolarmente evidenti, dato che gli ebrei non compaiono nelle scene che illustrano le persecuzioni dell’Anticristo contro i cristiani». E questo è un elemento di non scarso rilievo.
Ma torniamo alle origini dell’Anticristo, rifacendoci anche a quel che ne scrissero alla fine dell’Ottocento Wilhelm Bousset e Hermann Gunkel in libri che da noi non sono mai stati tradotti, un secolo dopo Bernard McGinn nel celeberrimo L’Anticristo. Duemila anni di fascinazione del male (Corbaccio) e, in tempi più recenti, lo stesso Rizzi e Gian Luca Potestà nei due straordinari volumi antologici intitolati Il nemico dei tempi finali e Il Figlio della perdizione, editi dalla Fondazione Valla/Mondadori. Scopo del nuovo saggio di Rizzi è quello di «mostrare come sono nate riflessioni e preoccupazioni che nell’Europa secolarizzata di oggi possono apparire farneticanti, ma che per lungo tempo hanno costituito paure e speranze vive e pulsanti nel cuore della vita e per alcuni lo sono tuttora».
Per quanto possa sembrare bizzarro, la figura dell’Anticristo compare secoli e secoli prima della stessa nascita di Cristo. Ovviamente senza prendere quel nome che verrà definito in ogni suo fondamentale aspetto da Ireneo, vescovo di Lione vissuto nella seconda metà del II secolo («nel pieno di un grandioso conflitto ideologico dottrinale consumatosi tra cristiani, ebrei e altri gruppi religiosi»). Rappresenta, nell’antichità, il male assoluto che «si manifesterà in tutta la sua malvagità alla fine dei tempi, ingaggiando l’ultima e più drammatica battaglia per impedire la redenzione del mondo». Per la prima volta in mitologie mesopotamiche «che raccontano di una bestia apocalittica, drago o serpente», impegnata in questo scontro finale tra il bene e il male.
Nell’Antico Testamento ne parlano i profeti Daniele ed Elia, che descrivono i «tempi terribili in cui i giusti saranno perseguitati e uccisi da serpenti e altre bestie spaventose, un po’ leoni un po’ leopardi, un po’ aquile dagli artigli di ferro». A ridosso della nascita di Cristo «le sue tracce si manifestano in scritti ebraici non compresi nel canone biblico, i cosiddetti apocrifi veterotestamentari»; infine «alcuni passi dei Vangeli dell’Apocalisse e di altri scritti del Nuovo Testamento ne rivelano appieno il volto e l’ultimo nome, Anticristo appunto».
Va notato che «dalle Lettere di Giovanni, dove la parola compare per la prima volta, è assente ogni dimensione di violenza, persecuzione, morte, insomma l’immaginario sanguinolento che costituisce la caratteristica propria dell’Anticristo nelle sue rappresentazioni successive e in quelle (presunte) precedenti». È di Giovanni l’individuazione del «suo» numero: 666. Con quella cifra, «ricapitolerà in sé tutto il male avvenuto sino ad allora, giacché Noè aveva seicento anni quando venne il diluvio a distruggere tutti gli esseri viventi, dopodiché si diffuse l’idolatria e vennero perseguitati e uccisi i giusti, come indica la statua alta sessanta cubiti e larga sei innalzata da Nabucodonosor», che i tre fanciulli Anania, Azaria e Misaele si rifiutarono di adorare, cosa per cui, racconta Daniele, vennero gettati nel fuoco. Fin da allora «costituisce la rappresentazione del male assoluto, una paura proveniente dall’oscurità più remota del mondo, da individuare e da esorcizzare». Poi compare in maniera definitiva nella seconda lettera di Paolo ai cristiani di Tessalonica. E qui è centrale il tema dell’inganno, di quell’entità che oserà «sedersi nel tempio di Dio, mostrandosi come fosse Dio», in modo da indurre i fedeli in errore. Finché «verrà svelato l’iniquo» e il Signore lo «distruggerà con il soffio della sua bocca».
Un altro vescovo, a seguito di Ireneo, aveva pubblicato un manuale per riconoscere l’Anticristo: Ippolito, di cui si sa appena che visse a cavallo tra il II e il III secolo dopo Cristo. Ippolito aveva confermato che l’Anticristo si sarebbe comportato «come un falso messia, un arnese del Diavolo, richiamando a sé tutto il popolo d’Israele da ogni terra in cui ormai vaga disperso, trattandolo come se fosse quello dei suoi figli, promettendo di ricollocarlo nella sua terra e di ricostruire il regno e il tempio di Gerusalemme, per essere adorato come un dio, secondo le parole dei profeti».
L’Anticristo «chiamerà a sé l’intera umanità promettendole la salvezza, mentre non sarà in grado di salvare neppure se stesso, quando tornerà il Signore per cancellarlo con il soffio della sua bocca». All’inizio «per perseguitare i cristiani, l’Anticristo raccoglierà intorno a sé il popolo che sempre è stato infedele a Dio: gli ebrei. Dopo aver respinto la verità, dapprima trasgredendo la legge di Mosè, poi uccidendo i profeti, crocifiggendo lo stesso Gesù, perseguitando i suoi apostoli, persistendo nell’odio verso Dio, si sottometteranno infine ad un uomo mortale, illudendosi di poter aver giustizia da lui, che si rivelerà invece giudice iniquo».
Verrà poi un’epoca in cui l’Anticristo sarà identificato con Nerone (da Commodiano e da Vittorino ad esempio). Pochi anni dopo l’impero verrà riabilitato (da Lattanzio) ai tempi di Costantino. Trascorrerà meno di un secolo allorché Ambrogio (340-397), quando i Goti sconfiggeranno l’esercito romano e uccideranno l’imperatore Valente (378), identificherà quei barbari con Gog e Magog, i misteriosi popoli che avrebbero dovuto affiancare l’Anticristo nella persecuzione finale contro i cristiani. Ma Girolamo (347-420) prenderà le distanze da quel giudizio. Quando poi Roma verrà saccheggiata dai Visigoti di Alarico (410), saranno in molti a intravedere la spaventosa figura all’origine di quell’episodio.
E qui siamo al centro della questione ebrei e Anticristo. Seguendo l’insegnamento di Paolo nella Seconda lettera ai Tessalonicesi, Girolamo pensava che Dio avrebbe inviato infine agli ebrei l’«operatore della menzogna e la fonte stessa dell’errore», perché non avevano voluto «accogliere la carità e la verità portata da Gesù», che sola avrebbe potuto salvarli. Se «almeno l’Anticristo fosse nato da una vergine e fosse venuto al mondo prima di Cristo», osservava Girolamo, «gli ebrei avrebbero avuto una scusa per dire che erano stati ingannati e, credendo si trattasse della verità, si erano fatti abbindolare dalla menzogna». Ora invece, dovevano «essere giudicati, anzi, senz’altro condannati» perché stavano per accogliere l’Anticristo, «dopo aver disprezzato la verità di Cristo».
Agostino d’Ippona (354-430) «non era affatto convinto di questa complessa spiegazione, non solo perché Roma era caduta e nulla era cambiato nel popolo ebraico, che se ne rimaneva sconfitto e disperso, bensì perché il punto centrale della sua visione ruotava intorno alla Chiesa e all’invisibile confine che separava i veri credenti da quelli che “erano dentro, tra noi”, ma non erano “dei nostri”». Cristo, sosteneva Agostino, non verrà a giudicare i vivi e i morti prima che il suo avversario non sia venuto a sedurre quelli che sono morti nell’anima.
Il tema dell’Anticristo si riproporrà potentemente a ridosso dell’anno Mille e di quella riproposizione troveremo traccia sulle vetrate della chiesa di Santa Maria a Francoforte sull’Oder, delle quali abbiamo parlato all’inizio. Tornerà ancora prepotentemente all’inizio del Cinquecento al momento della Riforma protestante. Scriverà Martin Lutero all’amico Venceslao Link: «Ti metto a parte delle mie fantasie, perché tu veda se ho ragione a presagire che l’Anticristo, quello vero minacciato da Paolo, domina nella curia di Roma; oggi come oggi, penso di poter dimostrare che Roma è peggio dei turchi». Ed «esecrabile bolla dell’Anticristo» verrà definita da Lutero quella emessa il 15 giugno 1520 da Papa Leone X per imporgli di ritrattare alcune delle sue 95 tesi di Wittenberg. Nel 1563 appare il Libro dei martiri di John Foxe, che colloca in Inghilterra il luogo esatto dove si consumerà la «battaglia decisiva dell’ininterrotta guerra in atto tra Cristo e Anticristo». Dall’America Latina Francisco de la Cruz, condannato a morte come eretico nel 1578, annunciò «l’imminente castigo dell’Europa ad opera dei turchi, che costringeranno i cristiani a rifugiarsi nel nuovo mondo, più precisamente in Perù, la cui capitale, Lima, sarà la nuova Gerusalemme».
Ai tempi della Rivoluzione inglese, nel 1649, per giustificare la condanna a morte di Carlo I, William Aspinwall disse che quel sovrano era «il piccolo corno della bestia del settimo capitolo del libro di Daniele» (ma Oliver Cromwell prese le distanze da quella forma di radicalismo apocalittico). Nel 1793, David Austin in La caduta della Babilonia mistica identificò negli Stati Uniti, da poco indipendenti, «la pietra staccatasi dalla montagna che nel libro di Daniele mette in moto il crollo della statua di Nabucodonosor» e previde che Cristo, tornato sulla terra, avrebbe instaurato il suo regno in quel Paese «portatore di libertà nonché di giustizia civile e religiosa».
Nel Novecento ci si interrogò ancora se l’Anticristo fosse Mussolini (il dubbio fu posto nel 1927 da Oswald J. Smith) o Adolf Hitler. Ci pensò Dietrich Bonhoeffer (che sarà impiccato per complicità nell’attentato a Hitler del luglio 1944) a sgombrare il campo da quelle supposizioni. Ma Hitler ebbe in ogni caso a che fare con l’Anticristo. Allorché nel corso della Seconda guerra mondiale le cose per lui cominciarono a mettersi male, diede ordine di smontare, imballare e trasferire a Potsdam le vetrate di Santa Maria a Francoforte, di cui abbiamo parlato all’inizio. Temeva, a ragione, che potessero essere danneggiate dall’offensiva russa sull’Oder, che in effetti avrebbe distrutto la città e la chiesa. Non era la prima volta che ciò avveniva. Già nel 1830 l’architetto, pittore, urbanista Karl Friedrich Schinkel era stato autorizzato a smontare i riquadri delle vetrate e nel restauro andarono persi otto pannelli. Adesso però le cose andarono ancora peggio. Quando i russi entrarono a Berlino da vincitori, ottennero che le vetrate, messe in salvo a Potsdam, fossero considerate parte della compensazione per i danni subiti dalla Germania e trasferite all’Ermitage di Leningrado (oggi San Pietroburgo).
Poi però, crollato nel 1989 il Muro di Berlino, esse furono restituite alla Germania riunificata. Nel 2002 tornarono a casa i primi 111 pannelli. E la Marienkirche, i cui lavori di ricostruzione erano già iniziati negli anni Settanta, poté tornare all’aspetto di sette secoli prima. Mancavano, è vero, sei pannelli che si credevano perduti per sempre. «Questa ultima resistenza dell’Anticristo», scrive Marco Rizzi, «fu infine sconfitta nel 2005, quando vennero rinvenuti poco fuori Mosca in un deposito del Museo Puškin». Che il luogo del ritrovamento fosse in origine un monastero, sottolinea Rizzi, «permette di aggiungere un’altra pagina al ricco capitolo dei rapporti tra i monaci e l’Anticristo». Ma anche a quelli tra l’Anticristo e il Novecento.
* Una minaccia che ha allarmato il mondo cristiano per lunghi secoli
Corriere della Sera, 07.07.2015
Esce in libreria giovedì 9 luglio il saggio di Marco Rizzi Anticristo. L’inizio della fine del mondo (Il Mulino, pagine 208, € 15). Lo stesso autore, docente della Università Cattolica di Milano, ha curato con Gian Luca Potestà, per la Fondazione Lorenzo Valla, due volumi antologici sulla figura dell’Anticristo: Il nemico dei tempi finali (Mondadori, 2005), che comprende testi tra il II e il IV secolo dopo Cristo, e Il Figlio della perdizione (Mondadori, 2012), che raccoglie invece testi dal V al XII secolo. È in programma un terzo volume a cura di Rizzi e Potestà, che conterrà testi dal XIII al XVI secolo: Il trionfo dell’Anticristo . -Da segnalare inoltre il recente studio di Marco Vannini L’Anticristo. Storia e mito (Mondadori, pp. 216, e 20) e quello di Bernard McGinn L’Anticristo. Duemila anni di fascinazione del male uscito nel 1996 per l’editore Corbaccio nella traduzione di Elena Campominosi.
Erasmo, un Sileno per l’Europa
Il ritratto di Carlo Ossola del grande uomo del Rinascimento, maestro di saggezza e di equilibio nel secolo dei conflitti religiosi
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, Domenica, 22.02.2015)
Frutto di un corso tenuto al Collège de France nel 2012-13 e pubblicato nel 2014 in francese, il saggio di Carlo Ossola - illustre collaboratore di questo supplemento - offre una rivisitazione di alcuni nodi del pensiero erasmiano nel solco della riflessione che sul grande umanista fiammingo si svolse nel «notturno d’Europa», e cioè nel cupo entre-deux-guerre dominato dai totalitarismi nazi-fascisti.
Non una sintesi del pensiero erasmiano, e tantomeno una biografia, ma pensieri e suggestioni su Erasmo e i suoi rapporti con altri grandi protagonisti dell’età sua: Lutero, Rabelais, Machiavelli. Pochi anni, per esempio, separano il Principe (1513) dall’Institutio principis christiani (1516), ma un vero e proprio abisso separa la spregiudicata teorizzazione politica del primo dall’umanesimo cristiano del secondo, anche perché l’uno scriveva nell’Italia «più stiava che li Ebrei, più serva ch’e’ Persi, più dispersa che li Ateniensi, sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa», e l’altro per Carlo V d’Asburgo che si accingeva a cingere la corona imperiale e diventare signore di mezzo mondo.
Eppure molto probabilmente fu dagli Adagia del grande umanista fiammingo, la celebre antologia di detti e proverbi degli antichi, che Machiavelli desunse l’immagine della «golpe» e del «lione» quali metafora della forza e dell’astuzia che i detentori del potere devono imparare a usare e dosare, senza farsi troppi scrupoli sulla loro liceità. Ma anche riflessioni e suggestioni sulla eredità di Erasmo, sugli usi (e talora abusi) tra Cinquecento e Ottocento del suo immenso lascito intellettuale e, non senza vivaci spunti polemici, sulla storiografia novecentesca.
Scritte in punta di penna, attraversando con elegante disinvoltura secoli e frontiere della cultura europea, le pagine di Ossola sono tutt’altro che neutrali nel presentare un Erasmo non solo maestro inarrivabile di sapere, di erudizione, di moralità desunta da una tradizione classica profondamente introiettata, ma anche maestro di equilibrio, di saggezza, di moderazione, di «riservatezza, sobrietà, armonia» (p. 14) di fronte alle drammatiche fratture religiose che si stavano aprendo sotto i suoi occhi e che in un breve volgere di anni avrebbero diviso la res publica christiana (l’universo cosmopolita nel quale egli si muoveva a proprio agio) e innescato guerre, controversie, conflitti destinati a durare per secoli all’insegna del fanatismo e dell’odio teologico.
Invano nel 1533, tre anni prima di morire, egli avrebbe scritto il De amabili Ecclesiae concordia, un accorato appello all’unità dei cristiani, nonostante in passato egli fosse stato il critico più severo dei frati accidiosi e corrotti, dei prelati di curia insensibili a ogni istanza riformatrice, dei pontefici impegnati a combattere con le armi in pugno invece che a predicare il vangelo, di un cattolicesimo superstizioso fatto di gesti ripetitivi e pratiche simoniache.
Ma al tempo stesso non aveva mancato di rinfacciare a Martin Lutero gli sconquassi che stava causando e di attaccarlo sulla questione del libero arbitrio in cui a suo avviso si radicavano la dignità e responsabilità morale della natura umana. Fu lo stesso riformatore sassone, nelle sue rabbiose risposte, a dargli atto di aver affrontato una questione ben più significativa di quelle dei tanti controversisti cattolici che insistevano su temi secondari e a riconoscere che solo Erasmo era stato «il lupo capace di morderlo alla gola».
Erede di una tradizione che proprio al Collège de France ha avuto predecessori illustri come Augustin Renaudet, autore tra l’altro di un Erasme et l’Italie, e Marcel Bataillon, cui si deve quell’Erasme et l’Espagne ormai diventato un classico della storiografia, ma anche di Pierre de Nolhac, di Johan Huizinga, di Stephan Zweig, Ossola addita in Erasmo un grande maestro della cultura occidentale e della moderna identità europea proprio nella misura in cui nell’età sua egli fu sconfitto, aspramente attaccato e talora deriso dai protestanti come un traditore del vangelo e un infingardo opportunista, ma anche condannato senza appello e messo all’Indice dall’ortodossia romana. Per questo lo affianca spesso ad altre figure d’eccezione, come il suo amico Tommaso Moro (evocato anche nel titolo dell’Elogio della pazzia, in latino Moriae encomium) o Michel de Montaigne.
Ne scaturisce il profilo di «un Rinascimento critico che li pone al di sopra della querelle della Riforma» (p. 11), di «un Cinquecento che non si lasciò irretire dalle contese religiose, che tolse all’eredità classica i paludamenti aulici e alla tradizione patristica i tratti apologetici per andare a fondo nell’esame della condizione umana» (p. 13), nutrito della consapevolezza che la verità si manifesta «in progresso di tempo, vive nella e attraverso la storia» (p. 22) e si basa sulla filologia, la discussione libera e franca, il rispetto reciproco, il «rovesciamento costante della doxa nel paradosso» (p. 47), e non su incontrovertibili certezze dogmatiche e ottusa intolleranza. Per questo Erasmo piacerà a Voltaire, impegnato nella strenua battaglia contro l’infâme delle conversioni forzate e delle persecuzioni religiose.
È un’immagine classica di Erasmo, non a caso affermatasi soprattutto negli anni più cupi della storia dell’Europa novecentesca, quando all’autore del Lamento della pace e del Dolce è la guerra a chi non la conosce si poteva guardare come a un faro della civiltà che rischiava di essere travolta da brutali tirannie e aberranti ideologie destinate inevitabilmente a precipitare in guerre atroci e devastanti.
Ma ad essa occorre affiancare anche un’altra immagine, quella cui rinvia uno degli emblemi di Erasmo, i Sileni, le mitiche divinità silvestri che nascondevano sotto sembianze grottesche tesori di saggezza, riprodotte nell’antichità in piccole raffigurazioni scultoree che potevano essere aperte per scoprire al loro interno immagini divine. Una sorta di metafora della doppiezza, del segreto, dell’andare oltre la scorza delle cose per indagare verità più profonde, e perciò stesso più inquietanti ed eversive, da trasmettere e divulgare con cauta prudenza.
Lo stesso Cristo - scriveva Erasmo - era stato uno «straordinario Sileno» (p. 33). Sotto la silenica maschera erasmiana fatta di moderazione ed equilibrio, infatti, si cela anche un pensatore radicale, che nel condannare le astiose controversie teologiche insinuava il dubbio che le certezze religiose per cui si combatteva e si ammazzava alla fin fine fossero di scarsa rilevanza e poco avessero a che fare con il vangelo di Gesù Cristo. Lasciava intendere insomma che il fondamento della fede risiede solo e soltanto nella coscienza del credente e che la sua autenticità si misura sull’amore del prossimo e non sull’obbedienza a un codice immutabile di verità dottrinali e alle gerarchie ecclesiastiche che nei diversi contesti si attribuiscono il diritto di esserne gli unici e supremi custodi.
Se la Chiesa rinuncia alla bellezza.
L’amore di Chateaubriand e di altri filosofi del passato per una religione “estetica” tramonta nella nostra epoca
Dalla pittura alla poesia, la fede ha ispirato per secoli l’arte. Oggi prevale lo stile piatto
Non solo teologia, anche la scienza difende nelle sue teorie un’idea di eleganza
di Vito Mancuso (la Repubblica, 17.12.2014)
QUALI sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un enunciato? Il fatto che corrisponda all’effettivo stato delle cose, è la risposta che sorge spontanea nella mente. Se infatti posso verificare la corrispondenza tra l’enunciato (sta piovendo) e la realtà (la pioggia che scende) sono indubbiamente in presenza di un enunciato vero. È la classica definizione di verità come adeguazione tra realtà e mente, adaequatio rei et intellectus, che da Aristotele passa a Tommaso d’Aquino e a tutta la tradizione occidentale. Di essa il cristianesimo fece largamente uso nel passato per presentarsi come verità definitiva.
Il cristianesimo è la verità, si sosteneva, perché la Bibbia e il Magistero della Chiesa dicono come stanno realmente le cose sull’origine del mondo, l’esistenza di Dio, la comparsa dell’uomo, la natura dell’anima, e tutte le altre questioni capitali della vita; né si tralasciava di sottolineare che gli eventi narrati o predetti nella Bibbia, dall’arca di Noè sino all’imminente fine del mondo, hanno avuto o avranno presto puntuale conferma nella realtà effettiva delle cose.
Il progresso della conoscenza umana ha vanificato tale impostazione perché ha fatto emergere in modo inconfutabile la non corrispondenza tra non poche affermazioni bibliche e la realtà, si pensi per esempio all’origine del mondo. Se a ciò si aggiunge l’evoluzione della coscienza morale e il superamento del principio di autorità (secondo cui un enunciato è vero per l’autorità di chi lo sostiene) si comprende quanto le tradizionali apologie cristiane siano divenute armi spuntate e il cristianesimo bisognoso di rifondazione.
È quanto già intuiva il nobile controrivoluzionario François-René de Chateaubriand (1768-1848) rifugiatosi a Londra per evitare la ghigliottina durante gli anni del Terrore e fervente cattolico. Una volta tornato in Francia a seguito della restaurazione, l’intuizione lo condusse a pubblicare nel 1802 Genio del cristianesimo, opera oggi riproposta nei Millenni Einaudi con un’edizione a cura di Mario Richter. La novità del libro è tutta nel titolo completo: Genio del cristianesimo ovvero bellezze della religione cristiana.
Mentre per secoli al fine di mostrare la fondatezza della fede cristiana l’apologetica aveva insistito sulla verità del cristianesimo, con Chateaubriand per la prima volta ci si basa sulla bellezza, sostenendo che il cristianesimo viene direttamente da Dio, e quindi è la verità, per la sua capacità di produrre bellezza.
Si tratta di una tesi fondata? Nella sua impostazione di fondo sì, anche l’epistemologia contemporanea afferma che tra i criteri di veridicità di una teoria scientifica, oltre a semplicità, capacità di predire e potere unificante, vi è appunto eleganza o bellezza. E per molti secoli il cristianesimo ha saputo produrre bellezza e ha avuto potere unificante sulle vite degli uomini.
Si pensi ai capolavori dell’architettura che sono le chiese romaniche e le cattedrali gotiche; si pensi alle icone bizantine, a Cimabue, Giotto, Beato Angelico, Simone Martini, Piero della Francesca, Michelangelo e persino Caravaggio che senza il cristianesimo sarebbero impensabili; si pensi alla più alta creazione poetica della nostra letteratura, la Commedia di Dante; si pensi allo splendore del canto gregoriano. Si pensi alle molte altre creazioni di cui testimoniano le nostre città e i nostri più piccoli paesi, e le si accosti alle forme di vita concreta che il cristianesimo del passato sapeva produrre in quanto dotato di forte potere unificante sul caos dell’esistenza: eremiti del deserto, benedettini, cluniacensi, cistercensi, camaldolesi, cassinesi, vallombrosani, olivetani, certosini, trappisti, francescani, domenicani, trinitari, mercedari, serviti, agostiniani e molti altri, per non dire della galassia ancora più estesa della vita religiosa femminile.
Anche da questo appariva che il cristianesimo era vero, per la sua capacità di generazione di molteplici forme di vita. Ma oggi quale salute gode l’intuizione di Chateaubriand di legare la verità del cristianesimo alla bellezza?
A livello teoretico sono due i principali teologi che si sono fatti carico di approfondirla, lo svizzero Hans Urs von Balthasar (1905-1991) con l’opera in sette volumi Gloria. Un’estetica teologica, e il tedesco Christoph Theobald, nato nel 1946, con l’opera in due volumi Il cristianesimo come stile. Ma quando è in gioco la verità nella sua capacità estetica, ben prima di concetti che parlano alla mente, si parla di forme che incantano i sensi, di colori, suoni, architetture e si parla di vite concrete così affascinate dal messaggio cristiano da lasciare ogni altra cosa.
E da questo punto di vista credo si debba rilevare una preoccupante insufficienza del cristianesimo contemporaneo. L’ingresso in una qualunque delle nostre chiese raramente genera nell’anima un’esperienza di bellezza, tanto più durante le funzioni liturgiche, quando le musiche e le voci sono spesso approssimative e dilettantistiche, mentre la nuova architettura sacra spesso propone edifici freddi e intellettualistici, e la pittura si rifugia in una pedissequa ripetizione delle icone. Le diverse forme di vita religiosa dal canto loro languono per un’assenza di vocazioni che quasi ne preannuncia l’estinzione.
Tutto ciò porta il cristianesimo contemporaneo a vivere tra due estremi: da un lato un tradizionalismo cupo e insicuro che sa solo riprodurre gusti e parole di un mondo che non c’è più, dall’altro un’affannosa rincorsa alle tendenze dell’oggi che quasi non sa più distinguere la canzone tra amici dalla cantata sacra a gloria di Dio, un edificio sacro da uno comune, una vita consacrata con il suo abito distintivo da un’esistenza del tutto laica.
Al fondo è la stessa idea di apologetica a mostrare tutta la sua fragilità e con ciò si ripropone con urgenza la domanda su quanto induce la mente a ritenere vero il cristianesimo, o qualsiasi altra religione: quali sono gli argomenti che inducono a ritenere vero un sistema di enunciati che intende abbracciare niente di meno che il senso del mondo e presentarsi come verità?
Crollata l’idea di una dimostrazione razionale della verità cristiana, anche la capacità di generare bellezza non potrà mai essere inquadrata in un sistema di pensiero, tanto più se esso è funzionale al potere politico e religioso, come l’opera di Chateaubriand era funzionale alla restaurazione e all’alleanza trono-altare.
Ne viene che non c’è e non ci sarà mai nessuna garanzia per la fede cristiana di potersi dimostrare come “verità”, a dispetto del dogma, e del conseguente anatema per chi lo nega, dichiarati dal Vaticano I.
Rimane solo la vita dei testimoni sinceri, alieni da ogni logica di potere, a costituire il punto di appoggio: sono essi il vero “genio del cristianesimo”, solo da essi potrà scaturire quell’umile bellezza, per nulla geniale ma direi austera nella sua semplicità, già all’origine delle beatitudini evangeliche e del Cantico delle creature di Francesco d’Assisi.
Se muore il cristianesimo
«Ma nella mente ora avverrà dei popoli
Che mai più torni fertile La parola ispirata»
(Ungaretti, Il Dolore , 1946)
di Guido Ceronetti (la Repubblica, 10.09.2014)
LASCIO il mio lapsus (Ungaretti dice non più e io, memoria errante, mai più ) perché forse, oggi, il nostro poeta quel mai sarebbe incline a mettercelo. Quel che posso dire è che mi duole, il cristianesimo che muore. Si tratta di un’amputazione enorme, in anestesia totale, in modo che nessuno se ne accorga. Non ho idea però di quel che sarà quando ce ne accorgeremo, qui, nelle nazioni cristiane dell’emisfero. Quando ne scriveva o me ne parlava Sergio Quinzio, la cosa mi era del tutto indifferente. Non mi pare di essere cambiato, né mi sono riconvertito in vecchiaia ai miei lontani anni di devozioni: tuttavia adesso la cosa è talmente evidente dovunque, e così tanti i segni di morte, da poterla risentire come una personale ferita.
«ORA accadrà che cenere prevalga?», concludeva Ungaretti quella sua poesia. Cenere, cenere... Cenere è uguale a Nulla... È questo nulla a farmi paura? Se il cristianesimo è irresistibilmente attirato da un Buco Nero il vuoto che lascerà non sarà colmabile.
Un aforisma di Cioran, il filosofo romeno, è spesso infallibile. Uno di questi dice: «Il cristianesimo è morto quando ha cessato di essere mostruoso». Il quando è una data da andarne in cerca: ma non è molto lontana, le mostruosità hanno lunga vita e lunghissime agonie mortali; a volte sono immortali, come l’antisemitismo. Succederà anche all’Islam, da qui lo sforzo per sopravvivere all’onda che spazza la tolda aggrappandosi al controllo, all’oppressione e al terrore puro: la fase attuale si può vederla come struggle for life darwiniana. Tutte le fedi monoteiste sono risucchiate dal Buco Nero. Non ne scompare una senza che l’altra la segua.
Forse, la mostruosità cristiana specifica è in declino da quando sono cessati gli autodafé e i processi delle streghe? Nei tempi nostri, da quando il Papa è sceso dalla sedia gestatoria e si è messo a fare viaggi trionfali? Il Vaticano II andrà visto come una cessazione del carattere mostruoso della Chiesa che avrà impresso un’accelerazione al processo mortale del cristianesimo in ambito cattolico? Nell’ortodossia scismatica - la russa in specie - cessati il terrore e le persecuzioni comuniste, ha prevalso, mi pare, una continuità pacifica da zombi; non ci vedo più niente di vivo, ma fino a ieri non furono pochi i martiri. Memorabile resta la parabola del Grande Inquisitore dei Karamazov: Cristo ritorna, si rimette a predicare, fa seguaci, guarisce l’Aids, la Sla, Ebola, moltiplica pane e pesci per miliardi, squilibra la realtà a un tale punto che il Grande Inquisitore per il bene di tutti lo fa arrestare. Per non essere arrestato Cristo dovrebbe circondarsi di milizie fanatiche, risuscitare per risuscitarsi un cristianesimo mostruoso.
Léon Bloy - cristiano cattolico dei più grandi e dei più mostruosi - spettatore da un sobborgo di Parigi delle frenesie di distruzione della Grande Guerra, (al loro culmine nel 1916), profetizzava l’avvento dei Paracleto, lo Spirito Santo, previsto per la fine dei tempi storici. Come estrema speranza di credente invocava e aspettava che un misterioso Qualcuno venisse: ma dopo la sua morte nel 1917 e la ridicola pace del 1919, quale mai Consolatore-Redentore assoluto è venuto? Agnellini divini che abbiano portato i mali del mondo, tanti, per lo più anonimi, come adesso come domani, ma di Paracleti nessun segno.
L’Europa credente, inevitabilmente allora tutta cristiana (con minoranze teosofiche o di passati per Monte Verità, come Max Weber, Rilke), secondo Paul Fussell era in ripresa nelle trincee, ma non credo che in quelle condizioni la fede tradizionale andasse oltre le invocazioni mentali prima degli assalti, e ai gemiti dei rantolanti abbandonati nelle buche. Forse, nel corpo britannico, la Bibbia di Re Giacomo, nei versetti memorizzati nell’infanzia, confortava maggiormente, ma come voce vetero-testamentaria esclusivamente non cristiana. Preghiere per la pace e Natali di speranza non mancavano, nelle nazioni combattenti, sempre meno invogliate a farsi fare a pezzi; però di che vive una religione mistico-trascendente, se non di speranze che oltrepassano infinitamente qualsiasi tregua d’armi e ritorno a casa? E dopo la guerra, gli sterminati campi di croci segnano, nonostante il simbolo cristiano, l’apparizione di un culto nuovissimo, estraneo alla confessione cristiana: quello dei caduti. I caduti ignorano la vita futura.
Con più struggimento che nei libri, il tragico della Morte di Dio (del Dio cristiano) lo trovi nel cinema firmato da Carl Dreyer, Luis Buñuel, Ingmar Bergman, dove senti il fragore delle ondate tra cui il Titanic - Cristianesimo, protestante o cattolico, sta colando a picco. La stupefacente rinuncia del Papa Ratzinger è un dramma bergmaniano. Il Papa teologo vede lucidamente non poter più reggere o essere predicata la sua teologia da patrologia latina o greca, rigetta un cristianesimo che non ha la forza di rianimare, e si ritira in un monastero che gli sarà come un piccolo surrogato dello scoglio di Sant’Elena.
Ma rivediamo un capolavoro di Bergman come Luci d’inverno , dove alla pieve di un piccolo paese il pastore Ericsson dice messa nella chiesa perfettamente vuota di fedeli. Lo scenario, il rito luterano, l’officiante ci sono: le anime, no. Immaginiamo la magnificenza di San Pietro come l’orrida bruttezza di una piazza di Seul, gremite di folla, e un giorno il Papa che si affaccia per benedire piazze deserte. Avrà visto questo, il Papa invece delle piazze dei trionfi puntuali? Il deserto della chiesa di Frostnäs? La stessa visione non afferra anche il Papa Francesco? Da certi affioramenti in lui di dubbiosità e inquietudine in pause di stanchezza, direi di sì. Un mondo decristianizzato è un mondo vuoto, che non ha ubi consistam , orfano anche di nordiche Luci d’Inverno. Beati i perplessi.
IL VANGELO E L’IMBECILLITA’
DI DON ALDO ANTONELLI
In questi ultimi tempi mi è toccato più volte, e in maniera anche animata, di dover discutere con persone che il vangelo ce l’hanno sempre in mano invece che portarlo nella coscienza. Lo usano cioè come un prontuario ad hoc per ogni occasione, un ricettario di pronto intervento, dimenticando invece che esso è portatore di una “altra sapienza” che poi sta alla nostra responsabilità coniugarla e tradurla in scelte di vita.
Non più di qualche sera fa ho dovuto richiamare un amico che ad ogni argomentazione, quasi come un Testimone di Geova (mi perdonino gli adepti...), cacciava fuori una frase o un detto evangelico.
Gli ho detto: «Senti N.N., il vangelo serve per riflettere e non per tappare la bocca al ragionamento, e togliere la parola all’interlocutore!».
Stamattina, leggendo il commento di Ernesto Balducci alle letture di domenica prossima, mi sono imbattuto in una piccola ma ricca ed acuta lezione su questo tema.
Ve ne faccio partecipi, augurandovi una bella e buona giornata.
Io me ne andrò in montagna! ....pioggia permettendo....
Aldo
«Quello del Vangelo è un linguaggio sapienziale, non è un linguaggio scientifico, filosofico, storico. A questi livelli il Vangelo è fragile. La visione del mondo del Vangelo è arcaica, certi suoi enunciati sono propri della cultura del tempo in cui fu scritto.
E tuttavia il linguaggio sapienziale attraversa quelle forme ormai caduche e dà alla pagina o alla parola un che di perenne. Facciamo un esempio. Quando Gesù dice: «Se ti danno uno schiaffo porgi l’altra guancia», dice una parola che a livello della ragione non ha senso. -Eppure sentiamo che in quella parola c’è un’indicazione sapienziale non del tutto traducibile in norme giuridiche, anzi in norme etiche di comportamento, rimessa alla libertà creativa del soggetto. La sua è una verità profonda. Quella che, ad esempio, Gandhi comprese: «E’ sapiente rispondere all’offesa con l’amore». Non chiedetemi di renderne conto. Col linguaggio al livello della razionalità non so cosa dire. Se noi permettessimo ai violenti di proseguire indisturbati il loro comportamento incontrando guance che si offrono, non so che cosa avremmo nel mondo. Tuttavia c’è un’altra possibilità per l’uomo, la cui evidenza è di altra natura, in cui si entra per libera scelta e non per imposizione.
Ecco perché la fedeltà al Vangelo non si impone. Se si toglie questo clima di libertà nel rispondere, tutto diventa inaccettabile.
Se noi trasformiamo il Vangelo in un principio di organizzazione sociale, o anche di riflessione filosofica, noi lo deturpiamo: ciò che è grande, se abbassato al livello subalterno, diventa insopportabile».
(Ernesto Balducci: Il Vangelo della Pace; vol. 1 anno A- Pag. 285-286)
Per raggiungere i propri scopi la Massoneria ha come obiettivo finale la distruzione del Cristianesimo. Infatti il messaggio cristiano ostacola il disegno massonico, in quanto essendo una fede dogmatica, cioè che sostiene una Verità assoluta, impedisce di realizzare l’uguaglianza tra le diverse religioni, attraverso il comune rispetto dell’Essere Supremo, in favore di una religione universale.
Definire dunque il proselitismo “una solenne sciocchezza” come ha fatto Papa Francesco è un messaggio molto pericoloso perché rischia di annacquare l’importanza della diffusione corretta della fede cristiana. http://www.repubblica.it/cultura/2013/10/01/news/papa_francesco_a_scalfari_cos_cambier_la_chiesa-67630792/
Gesù Cristo la pensava in maniera differente...
“Andate dunque e ammaestrate tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito santo, insegnando loro ad osservare tutto ciò che vi ho comandato. Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo.” Mt 28, 19-20
Vediamo come deve essere il cristiano per Papa Francesco:
“Se il cristiano è restaurazionista, legalista, se vuole tutto chiaro e sicuro, allora non trova niente. La tradizione e la memoria del passato devono aiutarci ad avere il coraggio di aprire nuovi spazi a Dio. Chi oggi cerca sempre soluzioni disciplinari, chi tende in maniera esagerata alla “sicurezza” dottrinale, chi cerca ostinatamente di recuperare il passato perduto, ha una visione statica e involutiva. E in questo modo la fede diventa una ideologia tra le tante.” http://www.corriere.it/cronache/13_settembre_19/papa-francesco-intervista_b16299a8-213a-11e3-abd6-3cb13db882d4.shtml
Ma è già tutto chiaro e sicuro, infatti Gesù ha detto:
“Chi accoglie i miei comandamenti e li osserva, questi mi ama. Chi mi ama sarà amato dal Padre mio e anch’io lo amerò e mi manifesterò a lui.“ Gv 14, 21
Nella Prima Lettera di Giovanni viene sintetizzato quanto detto da Gesù sulla fondamentale importanza dei Comandamenti: “Chi dice: «Lo conosco» e non osserva i suoi comandamenti, è bugiardo e la verità non è in lui.”1 Giovanni 2, 4
Per Papa Francesco “la Verità essendo in definitiva tutt’uno con l’amore, richiede l’umiltà e l’apertura per essere cercata, accolta ed espressa.” http://www.repubblica.it/cultura/2013/09/11/news/sintesi_lettera_bergoglio-66283390/ ma questo è un concetto massonico, e non quello di Gesù che infatti ha detto: «Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.». Gv 14, 6. «Allora Pilato gli disse: “Dunque tu sei re?”. Rispose Gesù: “Tu lo dici; io sono re. Per questo io sono nato e per questo sono venuto nel mondo: per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità, ascolta la mia voce.». Gv, 18, 37
E’ nella Massoneria invece è prevista la ricerca della Verità:
“Il Rito Scozzese Antico ed Accettato (RSAA) è un sistema di Gradi Massonici che elabora, integra ed espande il contenuto dei tre Gradi cosiddetti Simbolici della Libera Muratoria Universale. Nel rispetto della esclusiva Giurisdizione delle Grandi Logge che amministrano i primi tre Gradi dell’iter iniziatico massonico e che sono il fondamento della Libera Muratoria, senza dei quali la Massoneria non esisterebbe, il RSAA, sulla loro base, erige la sua sovrastruttura che si definisce Piramide Rituale e, lavorando alla Gloria del Grande Architetto dell’Universo offre al Maestro Massone, attraverso la serie dei suoi Gradi, dal IV al XXXIII, una più profonda interpretazione dei Simboli ed una maggiore illuminazione che sprona il Massone nella ricerca della Verità.”http://www.ritoscozzese.it/tool/home.php
Difendere la fede cristiana è perciò un modo per opporsi al disegno totalitario massonico.
Appello per la riforma della Chiesa ... prima che sia troppo tardi!
di Leonardo Boff *
La Chiesa-istituzione come “casta meretrix”
di Leonardo Boff 27/02/2013
Chi ha seguito le notizie degli ultimi giorni sugli scandali dentro al Vaticano, portati a conoscenza dai giornali italiani “La Repubblica” e “La Stampa”, che parlano di una relazione di 300 pagine e elaborata da tre cardinali provetti sullo stato della curia vaticana, deve naturalmente, essere rimasto sbalordito. Immagino i nostri fratelli e sorelle devoti, frutto di un tipo di catechesi che celebra il Papa come “il dolce Cristo in Terra”. Devono star soffrendo molto, perché amano il giusto, il vero e il trasparente e mai vorrebbero legare la sua immagine a notorie malefatte di assistenti e cooperatori.
Il contenuto gravissimo di queste relazioni rafforza, a mio parere, la volontà del papa di rinunciare. E’ la riprova di un’atmosfera di promiscuità, di lotta per il potere tra “monsignori”, di una rete di omosessuali gay dentro al Vaticano e disvio di denaro attraverso la banca del Vaticano come se non bastassero i delitti di pedofilia in tante diocesi, delitti che hanno profondamente intaccato il buon nome della Chiesa-istituzione.
Chi conosce un poco la storia della Chiesa - e noi professionisti dell’area dobbiamo studiarla dettagliatamente - non si scandalizza. Ci sono state epoche di vera rovina del Pontificato con Papi adulteri, assassini e trafficanti di immoralità. A partire da Papa Formoso (891-896) sino a Papa Silvestro (999-1003) si instaurò, secondo il grande storico cardinale Baronio, l’“era pornocratica” dell’alta gerarchia della Chiesa. Pochi papi la passavano liscia senza essere deposti o assassinati. Sergio III (904-911), assassinò i suoi 2 predecessori, il Papa Cristoforo e Leone V.
La grande rivoluzione nella Chiesa come un tutto è avvenuta, con conseguenze per tutta la storia ulteriore, col papa Gregorio VII, nel 1077. Per difendere i suoi diritti e la libertà della istituzione-Chiesa contro re e principi che la manipolavano, pubblicò un documento che porta questo significativo titolo “Dictatus Papae” che tradotto alla lettera significa “la dittatura del Papa”. Con questo documento, lui assunse tutti poteri, potendo giudicare tutti senza essere giudicato da nessuno. Il grande storico delle idee ecclesiali Jean-Yves Congar, domenicano, la considera la maggior rivoluzione avvenuta nella chiesa. Da una chiesa-comunità è passata a essere una istituzione-società monarchica e assolutista, organizzata in forma piramidale e che arriva fino ai nostri giorni.
Effettivamente il canone 331 dell’attuale Diritto Canonico si connette a questa lettura, con l’attribuzione al Papa di poteri che in verità non spetterebbero a nessun mortale se non al solo Dio: “in virtù del suo Ufficio, il Papa ha il potere ordinario, supremo, pieno, immediato, universale” e in alcuni casi precisi, “infallibile”.
Questo eminente teologo, Congar, prendendo la mia difesa davanti al processo dottrinario mosso dal cardinale Joseph Ratzinger in ragione del libro “Chiesa: carisma e potere” ha scritto un articolo su “La Croix” 08.09.1984) su “Il carisma del potere centrale”. Scrive: “il carisma del potere centrale è non aver nessun dubbio. Ora, non aver nessun dubbio su se stessi è, nello stesso tempo, magnifico e terribile. È magnifico perché il carisma del centro consiste precisamente nel rimanere saldi quando tutto intorno vacilla. E è terribile perché a Roma ci sono uomini che hanno limiti, limiti nella loro intelligenza, limiti del loro vocabolario, limiti delle loro preferenze, limiti nei loro punti di vista”. E io aggiungerei ancora limiti nella loro etica e morale.
Si dice sempre che la Chiesa è “Santa e peccatrice” e deve essere “riformata in continuazione”. Ma questo non è successo durante secoli e neppure dopo l’esplicito suggerimento del concilio Vaticano II e dell’attuale papa Benedetto XVI. L’istituzione più vecchia dell’Occidente ha incorporato privilegi, abitudini, costumi politici di palazzo e principeschi, di resistenza e di opposizione che praticamente impediscono o distorcono tutti i tentativi di riforma.
Solo che questa volta si è arrivati a un punto di altissimo degrado morale, con pratiche persino criminali che non possono più essere negate e che richiedono mutamenti fondamentali nella struttura di governo della Chiesa. Caso contrario, questo tipo di istituzionalità tristemente invecchiata e crepuscolare languirà fino a entrare nel suo tramonto. Scandali come quelli attuali sempre ci sono stati nella curia vaticana, soltanto non c’era quel provvidenziale Vatileaks per renderli di pubblico dominio e far indignare il Papa e la maggioranza dei cristiani.
La mia percezione del mondo mi dice che queste perversità nello spazio sacro e nel centro di riferimento di tutta la cristianità - il papato - (dove dovrebbe primeggiare la virtù e persino la santità) sono conseguenze di questa centralizzazione assolutista del potere papale. Questo rende tutti vassalli, sottomessi e avidi perché stanno fisicamente vicino al portatore del supremo potere, il Papa. Un potere assoluto, per sua natura, limita e perfino nega la libertà degli altri, favorisce la creazione di gruppi di anti-potere, fazioni di burocrati del sacro contro altre, pratica largamente la simonia che è compravendita di favori, promuove adulazioni e distrugge i meccanismi di trasparenza. In fondo tutti diffidano di tutti. E ognuno cerca la soddisfazione personale nella forma migliore che può. Per questo è sempre stata problematica l’osservanza del celibato all’interno della curia vaticana, come si sta rivelando adesso con l’esistenza di una vera rete di prostituzione gay. Fino a quando questo potere non sarà decentralizzato e non permetterà maggior partecipazione di tutti gli strati del popolo di Dio, uomini e donne, alla conduzione dei cammini della Chiesa, il tumore che sta all’origine di questa infermità continuerà a durare. Si dice che Benedetto XVI consegnerà a tutti i cardinali la suddetta relazione perché ciascuno sappia che problemi dovrà affrontare nel caso che sia eletto papa. E l’urgenza che avrà di introdurre radicali trasformazioni. Dal tempo della Riforma che si sente il grido: “Riforma nel capo e nelle membra”. E siccome mai è avvenuta, è nata la Riforma come gesto disperato dei riformatori di compiere tale impresa per conto proprio.
Per spiegare meglio ai cristiani e a tutti gl’interessati di problemi di Chiesa, torniamo alla questione degli scandali. L’intenzione è di sdrammatizzarli, permettere che se n’abbia una nozione meno idealista e a volte idolatrica della gerarchia e della figura del Papa e liberare la libertà a cui il Cristo ci ha chiamati (Gal 5,1). In questo non c’è nessun cattivo gusto per le cose negative né volontà di aumentare sempre di più il degrado morale. Il cristiano deve essere adulto, non può lasciarsi infantilizzare né permettere che gli neghino conoscenze teologiche e storiche per rendersi conto di quanto umana ed smodatamente umana può essere l’istituzione che ci viene dagli apostoli.
Esiste una lunga tradizione teologica che si riferisce alla Chiesa come casta meretrix, tema abbordato dettagliatamente da un grande teologo, amico dell’attuale Papa, Hans Urs von Balthasar (vedere in Sponsa Verbi, Einsiedeln 1971, 203-305). In varie occasioni il teologo Joseph Ratzinger è ritornato su questa denominazione.
La chiesa è una meretrice che tutte le notti si abbandona alla prostituzione; è casta perché Cristo, ogni mattina ne ha compassione, la lava è la ama.
L’habitus meretricius, il vizio del meretricio, è stato duramente criticato dai santi padri della Chiesa come Sant’Ambrogio, Sant’Agostino, San Gerolamo e altri. San Pier Damiani arriva chiamare il suddetto Gregorio VII “Santo satanasso” (D. Roma, compendio di storia della Chiesa, volume secondo, Petropolis, 1950, p. 112). Questa denominazione dura ci rimanda a quella di Cristo diretta Pietro. Per causa della sua professione di fede lo chiama “pietra”, ma per causa della sua poca fede e di non capire i disegni di Dio lo qualifica come “satanasso” (Vangelo di Matteo 16,23). San Paolo pare un moderno quando parla ai suoi oppositori con furia: “magari si castrassero tutti quelli che vi danno fastidio” (Galati, 5,12).
C’è pertanto un luogo per la profezia nella Chiesa e per le denunce delle malefatte che possono capitare in mezzo agli ecclesiastici e persino in mezzo ai fedeli.
Vi riporto un altro esempio tratto dagli scritti di un santo amato dalla maggioranza dei cattolici per il suo candore e bontà: Sant’Antonio da Padova. Nei suoi sermoni, famosi all’epoca, non appare niente affatto dolce e gentile. Fa una vigorosa critica ai prelati corrotti del suo tempo. Dice: “i vescovi sono cani senza nessuna vergogna perché il loro aspetto ha della meretrice e per questo stesso non vogliono vergognarsi” (uso l’edizione critica in latino pubblicata a Lisbona in due volumi nel 1895). Questo fu pronunciato nel sermone della quarta domenica dopo Pentecoste (pagina 278). Un’altra volta chiama i prelati “ scimmie sul tetto, da lì presiedono alle necessità del popolo di Dio”. (Op. cit p. 348). È continua: “Il vescovo della Chiesa è uno schiavo che pretende regnare, principe iniquo, leone che ruggisce, orso affamato di rapina che depreda il popolo povero” (p.348). Infine nella festa di San Pietro alza la voce e denuncia: “Attenzione che Cristo disse tre volte: pasci e neanche una volta tosa e mungi... Guai a quello che non pasce neanche una volta e tosa e munge tre o quattro volte...lui è un drago a fianco dell’arca del Signore che non possiede altro che apparenza e non verità” (volume secondo, 918).
Il teologo Joseph Ratzinger spiega il senso di questo tipo di denunce profetiche: “il senso della profezia risiede in verità meno in alcune previsioni che nella protesta profetica: protesta contro l’autosoddisfazione delle istituzioni, l’autosoddisfazione che sostituisce la morale con il rito e la conversione con le cerimonie” (Das neue volk Gottes, Düsseldorf 1969,250, esiste traduzione italiana Il nuovo popolo di Dio, Brescia 1971).
Ratzinger critica con enfasi la separazione che abbiamo fatto in riferimento alla figura di Pietro: prima della Pasqua, il traditore; dopo la Pentecoste, il fedele. “Pietro continua a vivere questa tensione del prima e del dopo; lui continua ad essere tutte due le cose: la pietra e lo scandalo...Non è successo lungo tutta la storia della Chiesa che il Papa era simultaneamente il successore di Pietro e la pietra dello scandalo” (p.259)?
Dove vogliamo arrivare con tutto questo? Vogliamo arrivare a riconoscere che la Chiesa-istituzione di papi, vescovi e preti è fatta di uomini che possono tradire negare e fare del potere religioso un affare e uno strumento di auto soddisfazione. Tale riconoscimento è terapeutico dato che ci cura di ogni ideologia idolatrica intorno alla figura del Papa, ritenuto come praticamente infallibile. Questo è visibile nei settori conservatori e fondamentalisti del movimento cattolico laici e anche di gruppi di preti. In alcuni è ancora viva una vera papolatria, che Benedetto XVI ha sempre cercato di evitare.
La crisi attuale della Chiesa provocato la rinuncia di un Papa che si è reso conto che non aveva più il vigore necessario per sanare scandali di tale portata. Ha buttato la spugna con umiltà. Che un altro più giovane venga e assuma il compito arduo e duro di pulire la corruzione nella curia romana e dell’universo dei pedofili, eventualmente punisca, deponga e invii i più renitenti in qualche convento per far penitenza e emendare la propria vita .
Soltanto chi ama la Chiesa può farle le critiche che gli abbiamo fatto noi citando testi di autorità classiche del passato. Se tu hai smesso di amare una persona un tempo amata, ti diventano indifferenti la sua vita e il suo destino. Noi ci interessiamo come fa l’amico e fratello di tribolazione Hans Kung (è stato condannato dalla ex inquisizione), forse uno dei teologi che più ama la Chiesa e per questo la critica.
Non vogliamo che i cristiani coltivino questo sentimento di poca stima e di indifferenza. Per quanto gravi siano stati gli errori e gli equivoci storici, l’istituzione-Chiesa custodisce la memoria sacra di Gesù e la grammatica dei Vangeli. Essa predica la libertà, sapendo che generalmente sono altri che liberano e non lei.
Anche così vale stare dentro la chiesa, come ci stavano S. Francesco, dom Helder Camara, Giovanni XXIII e noti teologi che hanno aiutato a fare il concilio Vaticano II e che prima erano stati tutti condannati dall’ex inquisizione, come de Lubac, Chenu, Congar, Rahner e altri. Dobbiamo aiutarla a uscire da quest’imbarazzo, alimentandosi di più col sogno di Gesù di un regno di giustizia, di pace e di riconciliazione con Dio e di sequela della sua causa e destino, piuttosto che di semplice giustificata indignazione che può scadere facilmente nel fariseismo e nel moralismo.
Altre riflessioni del genere si trovano nel mio libro Chiesa: carisma e potere, ed. Record, 2005, specialmente in appendice con tutte gli atti del processo celebrato all’interno dell’ex inquisizione nel 1984.
Traduzione: Romano Baraglia - romanobaraglia@gmail.com
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 14 gennaio 2013)
Alla fine della mia lettura de I Vangeli alla luce della psicoanalisi di Françoise Dolto, ripubblicato dopo circa trent’anni da una nuova piccola casa editrice milanese et al./edizioni, ho pensato: “ecco un gioiello!”.
A suscitare il mio entusiasmo diverse ragioni. La prima è la sua autrice: Françoise Dolto. Amica e allieva di Jacques Lacan, originalissima psicoanalista con una propensione particolare alla cura dei bambini, profondamente interessata ai processi di umanizzazione della vita e agli snodi principali dello sviluppo psicologico del soggetto (infanzia e adolescenza), sino alle angosce e alle responsabilità che investono i genitori, ma anche attenta alle trasformazioni della vita collettiva e ai virtuosismi del desiderio e alla sua declinazione femminile, Dolto non si è mai rifugiata in un linguaggio esoterico o specialistico, ma ha sempre cercato di rendere trasmissibile il proprio pensiero.
La sua originalità nel mondo della psicoanalisi è consistita anche dal fatto che non ha mai nascosto la sua fede cristiana e la sua militanza cattolica. Fatto raro per uno psicoanalista che si rifaceva all’insegnamento di Freud, seppur ripreso da Lacan. Per il padre della psicoanalisi, infatti, l’uomo religioso è abbagliato da una illusione narcisistica.
A partire da Freud - forse con la sola eccezione significativa di Lacan - la tradizione psicoanalitica ha sostenuto compattamente l’idea della religione come “nevrosi” o, addirittura, come “delirio dell’umanità”. L’uomo religioso è l’uomo che rifiuta la responsabilità di affrontare le asprezze reali della vita per rifugiarsi nella credenza illusoria di un “mondo dietro il mondo” - come direbbe Nietzsche - , regredendo allo stato di un bambino che trasferisce su Dio tutti quei tratti di infallibilità e di perfezione che prima attribuiva al proprio padre. Rispetto a questo schema Dolto rappresenta una importante alternativa.
È questa la seconda ragione del mio entusiasmo di lettore. Dolto non entra mai nel merito di una difesa di ufficio della religione contro la psicoanalisi. Ella pensa e ragiona da psicoanalista interessata non tanto al fenomeno dell’uomo religioso o della credenza religiosa - interesse che ha invece calamitato il pensiero di Freud - , ma alla lettura diretta dei Vangeli.
Il suo discorso vira così da una psicoanalisi del sentimento religioso in generale alla parola di Gesù. La lettura dei Vangeli viene descritta come “un’onda d’urto” che mette a soqquadro la nostra rappresentazione ordinaria della realtà. Dolto mette con decisione l’accento su Gesù come maestro del desiderio: «Gesù insegna il desiderio e trascina verso di esso», verso quella che Dolto definisce provocatoriamente «una nuova economia dell’egoismo».
Cosa significa? Gesù ci insegna a non avere paura di accogliere la forza e la trascendenza del desiderio che ci abita e che spinge la vita umana al di là del campo animale del soddisfacimento dei bisogni. L’egoista non è chi segue con fedeltà la chiamata del suo desiderio, ma colui che pretende che gli altri si uniformino al suo. Chi invece segue con decisione la chiamata del proprio desiderio, come fa, al limite della truffa, il fattore disonesto raccontato in una parabola dall’evangelista Luca, non è un egoista in senso dispregiativo, ma qualcuno che sa rendere la sua vita generativa. Per questo Dolto vede nel completamento cristiano della Legge ebraica una sovversione radicale del rapporto tra Legge e desiderio. La forma più alta e liberatoria della Legge non entra in conflitto repressivo col desiderio perché coincide in realtà con il desiderio stesso.
In questo senso Gesù insegna il desiderio, insegna a non rinunciare al proprio desiderio. Com’è liberatoria questa versione della parola di Gesù rispetto alla sua riduzione ad un ammonimento morale!
Ecco allora l’ultima ragione - quella decisiva - per la quale la lettura di questo librogioiello mi ha entusiasmato. È il modo in cui Dolto ribalta le interpretazioni più canoniche delle parabole applicando l’arte dell’analista alla parola stessa di Gesù. Prendiamo come esempio quella nota a tutti del buon samaritano. L’interpretazione catechistica la riduce al fatto che tutti noi dovremmo dedicare del tempo a chi giace inerme e ferito sulla nostra strada, al nostro prossimo più sfortunato. Dolto invece identifica il prossimo non con lo sventurato che chiede aiuto, ma con chi offre in modo disinteressato il suo aiuto. Strabiliante!
Il prossimo è il buon samaritano! Ed è per questo, per come ci ha soccorsi e donato il suo tempo senza esigere riconoscenza alcuna, né farci sentire in debito, che occorre amarlo, amare il samaritano come nostro prossimo. Per questa ragione l’amore cristiano non ha nulla di consolatorio, non è un rifugio illusorio, non è una negazione del carattere spigoloso del reale. L’amore in Gesù è
come avviene nell’incontro con il buon samaritano - una forza che ci scuote e che porta con sé la necessità dello strappo e della separazione.
Nella celebre parabola del figliol prodigo tra i due fratelli il peccato più grande - il solo che conta - l’ha compiuto chi si aspettava che l’eredità fosse semplicemente una questione di clonazione, di fedeltà passiva al passato. Il figlio che resta accanto al padre è il figlio nel peccato perché non accetta la Legge del desiderio che è la Legge della separazione. Gesù è l’incarnazione pura di questa forza separatrice («Non sono venuto a portare la pace ma la spada!»).
Molte delle parabole commentate da Dolto mettono il dito nella piaga mostrando il rischio che il legame familiare scivoli verso un legame incestuoso che impedisce lo sviluppo pieno della vita. È questo il caso dei racconti delle resurrezioni, come quella del figlio della vedova di Nain, della figlia di Giairo o dello stesso Lazzaro.
La parola di Gesù risveglia dalla morte perché strappa la vita da legami mortiferi che non la fanno accedere alla potenza generativa del desiderio. “Vieni fuori!” - il grido che Gesù rivolge a Lazzaro - deve essere preso come un nuovo imperativo categorico che consegna la vita umana alla Legge del desiderio. “Vieni fuori!” significa: non stare nel riposo incestuoso, non evitare il rischio della perdita, non delegare il tuo desiderio a quello dell’Altro, non smarrire la tua più singolare vocazione!
È questo il volto di Gesù ritratto da Dolto che ribalta un altro luogo comune che vorrebbe liquidare la verità del cristianesimo come un evitamento dell’incontro col reale (la morte, il sesso, la malattia, l’angoscia, ecc).
La lettura di Dolto rovescia anche questo pregiudizio mostrando come il reale scaturisca proprio dall’incontro con la parola di Gesù perché questa parola spinge ciascuno di noi ad assumere la Legge del proprio desiderio. Gesù non vuole proteggere la vita dalle ustioni del reale, non si offre come riparo consolatorio, né tantomeno pretende di guidare le nostre vite. Egli è l’incarnazione della Legge del desiderio; non ci guida, ma ci attrae a sé. È causa del desiderio e non emissario di una Legge sadica che opprime il desiderio
Ecco perché Costantino non fu tollerante
risponde Corrado Augias (la Repubblica, 9.11.2012)
Caro Augias,
vari quotidiani, dando notizia della mostra milanese su Costantino, hanno titolato sulla sua “tolleranza”. -Vorrei ricordare che fu proprio Costantino il padre dell’antisemitismo. Egli emanò, l’11 dicembre 321, l’editto Codex Judaeis, prima legge penale antiebraica, segnando così l’inizio di una persecuzione e del tentativo di genocidio degli ebrei.
L’editto definiva l’ebraismo: “secta nefaria, abominevole, feralis, mortale” e formalizzava l’accusa di deicidio. Da allora, il processo antisemitico non s’è più interrotto, ad eccezione del breve periodo di reggenza dell’imperatore Giuliano detto (a torto) l’Apostata.
I successivi imperatori introdussero le Norme Canoniche dei Concili nel Codice Civile e Penale.
Con Costantino II, Valentiniano e Graziano, dal 321 al 399 d.C., una serie spietata di leggi ha progressivamente e drasticamente ridotto i diritti degli ebrei.
Si condannava ogni ebreo ad autoaccusarsi di esserlo: in caso contrario c’erano l’infamia e l’esilio. -Proibito costruire sinagoghe. Leggi contro la circoncisione. Obbligo di sepoltura in luoghi lontani e separati da quelli cristiani. Altro che tolleranza, c’è un limite anche alla falsificazione della storia.
Arturo Schwarz
La mostra milanese celebra i 17 secoli che ci separano dalla promulgazione di quell’editto di Milano (313 e.v.) con il quale il grande imperatore rendeva il cristianesimo “religio licita”, dopo che per secoli i suoi seguaci erano stati perseguitati. Le ragioni del provvedimento, al di là delle letture agiografiche, furono ovviamente politiche: l’impero tendeva a spaccarsi, la nuova religione parve un “collante” più efficace dei vecchi culti. Costantino peraltro conservò per tutta la vita il titolo “pagano” di pontifex maximus e si convertì al cristianesimo solo in punto di morte.
Né il suo comportamento personale ebbe nulla di veramente cristiano (fece uccidere moglie e figlio) anche se gli ortodossi lo hanno santificato. Quel che più conta, considerata la lettera del signor Schwarz, fu il suo fiero antigiudaismo. Arrivò a definire quella religione “superstitio hebraica” contrapponendola alla “venerabilis religio” dei cristiani. Presiedette, da imperatore, e diremmo da “papa”, il fondamentale Concilio di Nicea (325).
Soprattutto aprì la strada all’unificazione dei due poteri, temporale e religioso, in uniche mani. All’inizio furono quelle dell’imperatore, cioè le sue, col passare degli anni diventarono quelle del pontefice romano. Alla fine di quello stesso IV secolo il percorso si concluse quando un altro imperatore, Teodosio I, proclamò il cristianesimo religione di Stato, unica ammessa, facendo così passare i cristiani dal ruolo di perseguitati a quello di persecutori di ogni altro culto, ebrei compresi.
DI BENEDETTO XVI:
UNA CHIESA "PER MOLTI", NON "PER TUTTI".
Cinque note per un Convegno
Guerra e pace ai tempi dell’Inquisitore
di Massimo Firpo (Il Sole-24 Ore, 15 luglio 2012
Pochi anni dopo la conclusione del concilio di Trento, nel 1567, un dotto cardinale veneziano, Marcantonio Da Mula, sollevò alcuni quesiti che si posero al centro di una discussione a più voci, in parte allora svoltasi nella sua residenza e poi allargatasi ad altri interlocutori. Perché il mondo pagano non aveva conosciuto conflitti religiosi? Perché l’unica religione che esso aveva perseguitato era stato il Cristianesimo? E perché invece, lungi dall’instaurare un regno di pace e di fratellanza, il Cristianesimo aveva sempre alimentato una storia di divisioni, di scontri, di guerre sanguinose?
Sono, a ben vedere, domande implicite anche nello straordinario capitolo XIX del II libro degli Essays di Montaigne laddove, nel discutere di libertà di coscienza, elogiava le grandi virtù di Giuliano l’Apostata, «uomo grandissimo e raro», esecrato per la sua avversione alla nuova fede dai cristiani suoi contemporanei, che avevano tuttavia dovuto riconoscere che egli non si era mai macchiato di «spargimenti di sangue», a differenza di quanto facevano i cristiani del presente.
Tutte le risposte alle domande del Da Mula restarono inedite, salvo una, quella di Fabio Benvoglienti, edita nel 1570 e poi messa all’Indice dieci anni dopo. Il che poco stupisce, dal momento che esse ponevano problemi a dir poco scottanti in tempi di Controriforma militante e di crociate, all’indomani dell’elezione di Pio V, il Papa inquisitore impegnato a stroncare ogni forma di dissenso religioso e a brandire il vessillo della guerra santa contro gli infedeli, quando in Italia e in Spagna si succedevano i lugubri autos de fe con i roghi di impenitenti e relapsi, quando la Francia sprofondava nel baratro delle guerre civili tra cattolici e ugonotti, quando il duca d’Alba usava il pugno di ferro contro i ribelli calvinisti delle Fiandre, quando in Scozia la rivoluzione politica si intrecciava con quella religiosa, quando la Polonia scacciava gli antitrinitari che vi avevano trovato rifugio, quando anche il mondo protestante era travagliato dalla discussione sulla liceità della condanna a morte degli eretici.
Discutere di Cristianesimo e guerra era dunque questione molto seria e delicata nell’Europa di quegli anni, in cui il fanatismo delle contrapposte ortodossie sembrava aver fatto dimenticare le parabole evangeliche che un grande difensore della tolleranza religiosa come Sebastiano Castellione aveva evocato in un libro apparso a Basilea nel 1554 con il titolo di Se gli eretici debbano essere perseguitati: «Beati voi quando gli uomini vi perseguiteranno» (Matth. V, 11), «vi mando come agnelli in mezzo ai lupi» (Matth. X, 16), «lasciate che crescano sino al tempo della messe» (Matth. XIII, 30), «tutti coloro che vorrano vivere piamente in Cristo sopporteranno persecuzioni» (II Tim. III, 12). «Uccidere un uomo - scriveva - non significa difendere una dottrina, ma solo uccidere un uomo».
Lungi dal porre astratte questioni storiche, quelle domande chiedevano di spiegare «l’impressionante contrasto tra il messaggio del "discorso della montagna" e le inquisizioni, i roghi, le guerre di religione» (pag. 18), interrogavano sul perché i cristiani da perseguitati fossero diventati persecutori, e per di più persecutori di altri cristiani, invitavano «a riflettere sul fallimento del messaggio evangelico di fratellanza e di pace» (pag. 45), sull’uso della violenza per motivi di fede e sulle buone o cattive ragioni della tolleranza, sollecitavano una risposta sulle sfere di competenza dello Stato e della Chiesa, sul ruolo politico del Cristianesimo e in generale sul rapporto tra politica e religione.
Problemi di rovente attualità, poco adatti a letterati oziosi, anche perché su di essi - com’è noto - si era pronunciato l’empio Niccolò Machiavelli, teorizzando che «uno principe, e massime uno principe nuovo, non può osservare tutte quelle cose per le quali li uomini sono tenuti buoni, sendo spesso necessitato, per mantenere lo Stato, operare contro alla fede, contro alla carità, contro alla umanità, contro alla relligione» (cap. XVIII). Se nel Principe aveva esplicitamente dichiarato di non volersi occupare dei principati ecclesiastici «perché, sendo esaltati e mantenuti da Dio, sarebbe offizio di uomo prosuntuoso e temerario discorrerne» (cap. XI), nei Discorsi sulla prima deca di Tito Livio aveva dedicato un intero capitolo a dimostrare di quanta importanza sia tenere conto della religione, e come la Italia per esserne mancata mediante la Chiesa romana è rovinata, indicando nel papato la causa prima della disunione politica e del fatto che i suoi abitanti fossero diventati «sanza religione e cattivi» (cap. I, 12).
Quasi tutte contrassegnate da scrupoli di devota compunzione tridentina, le risposte ai quesiti posti dal Da Mula si districavano con qualche equilibrismo dalle molte trappole che vi erano nascoste per riaffermare quod erat demonstrandum, la superiorità del Cristianesimo sulle altre religioni, il diritto dovere della guerra contro gli eretici, il primato della ragion di Chiesa.
Pur nella prevedibile dimensione apologetica che ne contrassegnava il comun denominatore, tuttavia, nelle loro pieghe si insinuavano anche dubbi, note dissonanti, formule sfumate e talora ambigue, che nutrivano un dibattito autentico di cui Michela Catto in Cristiani senza pace ricostruisce con sagacia le molteplici sfaccettature.
Pur tutti ecclesiastici, e tutti di notevole profilo culturale, gli interlocutori di quella discussione assunsero infatti posizioni diverse, ora schierati su posizioni di intransigente difesa della guerra senza quartiere contro i nemici della vera fede (Tommaso Aldobrandini, Fabio Albergati, Lucio Maggio), ora pronti a chiedersi se a convertire gli eretici più che le armi della guerra non valessero quelle spirituali, «le buone opere, la santità, l’innocenzia, l’integrità de la vita», la restaurazione del Cristianesimo primitivo (Fabio Benvoglienti, ma anche Rinaldo Corso e Gaspare Ricciulli dal Fosso, che non esitava a scorgere una delle cause delle eresie nella «poco honesta vita de’ prelati» o nella «poca cura che mostrano i vescovi ne’ loro offitii»), ora più sensibili alle questioni propriamente politiche (Uberto Foglietta, Giovan Francesco Lottini).
Michela Catto spiega assai bene come quella disputa offra in realtà «un esempio su come si potevano affrontare temi dibattuti in tutta Europa nel cuore della corte romana del Cinquecento» (pag. 48) e ne coglie il significato storico nella testimonianza che essa offre «di una fase di transizione tra due epoche, il passaggio di un gruppo di intellettuali dall’Umanesimo alla Controriforma» (pag. 127).
Il che è senza dubbio vero per molti di loro, anche se forse per alcuni fu anche un modo per conservare qualche frammento di coerenza con un passato vissuto sotto il segno di sensibilità ed esperienze religiose poste al bando nell’Italia postridentina. Rinaldo Corso, per esempio, era stato editore e commentatore delle Rime di Vittoria Colonna, ormai giudicata un’eretica dal Sant’Ufficio, e Gaspare Ricciulli era stato legato a molti eterodossi, uno dei quali nel 1551 lo aveva denunciato al Sant’Ufficio come «lutherano». Ennesima riprova delle molteplici eredità che la Controriforma portava con sé.
Recitare o essere? Pensieri tra Quaresima e Pasqua
di don Angelo Casati
Viandanti (www.viandanti.org, 30 marzo 2012
Mi succede - qualcuno la ritiene una mia ossessione - di avere in sospetto ogni parola che, poco o tanto, sembra recitata, ogni atteggiamento che, poco o tanto, sembra studiato. Si recita una parte. A volte mi sorprendo a guardarmi. E mi chiedo: "Stai recitando? Stai celebrando o recitando? Stai pregando o recitando? Stai predicando o recitando? Stai parlando o recitando?". Nella recita non ci sei. C’è una parte che indossi. Che non è la tua.
Gesù incantava
Gesù non recitava. Forse per questo o anche per questo, incantava. Era autentico, aderente la vita, non a una parte da recitare. E la gente lo sentiva vero. A differenza di altri. A differenza, per esempio, di una certa frangia - non tutti! - di farisei che "recitavano": "Tutte le loro opere le fanno per essere ammirati dagli uomini. Allargano i loro filatteri, allungano le frange; amano posti d’onore nei conviti, i primi seggi nelle sinagoghe e i saluti nelle piazze, come anche sentirsi chiamare rabbì dalla gente"(Mt.23,5-7).
Qualcuno, anche nel mondo ecclesiastico, sconcertato dalla calda umanità di Gesù, tende a presentarla come se il Signore stesse recitando, quasi non gli fosse consentito, in quanto Dio, di crescere, di essere stanco, di non sapere, di amare i banchetti, di desiderare la tenerezza di un bacio o il profumo dell’unguento, di provare paura e solitudine. Quasi recitasse, in tutto ciò una parte non sua. Gesù non ha mai recitato. Era.
Dominante è il ruolo
C’è il pericolo - lo avverto sempre più acutamente e il racconto delle tentazioni di Gesù, all’inizio della Quaresima, lo segnalava - che anche la religione diventi spettacolo, luogo in cui si recita. Strano verbo, questo "recitare", che abbiamo nel nostro linguaggio religioso legato al pregare! Si "recita" una Ave Maria o un Padre Nostro, si "recita" il rosario. È in agguato la recita. La avverti. A volte è nell’aria. A tradirla è un tono affettato, artefatto, poco naturale, studiato.
Aria strana. L’aria di certi raduni ecclesiastici. Volti impassibili, non tradiscono la benché minima emozione. Ci si parla di errori, di cedimenti o di smarrimenti, sono sempre quelli degli altri. L’inquietudine non esiste. Esiste la sicurezza. Si recita la parte di Dio. Mai uno che dica: "Ho peccato". Lo si dice nella Messa, ma per modo di dire. Nessuno che abbia mai fatto un errore. E che lo riconosca. Domina il ruolo. L’impassibilità del ruolo. Impenetrabili, drappeggiati, diplomatici. E senti la distanza. E come se mancasse gente vera. Non sono i volti che cerchi, quelli che ti incantano fuori le mura, volti che non mascherano le stanchezze e le emozioni, volti che confessano l’inquietudine e la lontananza.
Scrive Carlo Maria Martini: "Non di rado mi spavento sentendo o leggendo tante frasi che hanno come soggetto "Dio" e danno l’impressione che noi sappiamo perfettamente ciò che Dio è e ciò che egli opera nella storia, come e perché agisce o in un modo e non in un altro. La Scrittura è assai più reticente e piena di mistero di tanti nostri discorsi pastorali".
Come figli di Dio
Comunità alternativa si diventa vivendo il Vangelo, non recitando la parte del "perfetto". Alternativi diventiamo non mascherandoci dietro il ruolo o dietro il titolo, ma dando trasparenza ai rapporti. Incontrandoci come persone. Come figli di Dio. Questa la più grande dignità che ci è toccata. Non esiste, per un vero credente, altra tanto grande.
Essere Papa, essere Vescovo, essere prete, non vale l’essere figli di Dio. E, se figli, liberi, e quindi non soffocati, non mascherati, non misurati da titoli e da ruoli.Quando Papa Giovanni, poco dopo la sua elezione, si accorse che l’ Osservatore Romano introduceva le sue parole con questa formula di rito: "Come abbiamo potuto raccoglierle dalle auguste labbra di Sua Santità", chiamò il capo redattore e gli disse: "Lasciate perdere queste sciocchezze e scrivete semplicemente: Il Papa ha detto".
La grande sfida
Quale perdita per la società, se la Chiesa, che nel mondo dovrebbe apparire come lo spazio dove risplende la libertà e l’umanità dei rapporti, diventasse luogo di relazioni puramente formali, deboli e fiacche, non sincere e intense.
Rischierebbe l’insignificanza. Verrebbe meno alla grande sfida, all’opportunità che oggi le si offre di tessere in una società ampiamente burocratizzata rapporti autentici e profondi.
E non sarà che alla Chiesa di oggi, e quindi a ciascuno di noi, Dio chieda meno protagonismo, meno organizzazione, meno recite e più vicinanza, più sincerità?
Alla mente ritorna una pagina folgorante dello scrittore Ennio Flaiano, là dove abbozzava un ipotetico ritorno di Gesù sulla terra, un Gesù, infastidito da giornalisti e fotoreporter, come sempre invece vicino ai drammi e alle fatiche dell’esistenza quotidiana: "Un uomo" - scrive - "condusse a Gesù la figlia ammalata e gli disse: "Io non voglio che tu la guarisca, ma che tu la ami". Gesù baciò quella ragazza e disse: "In verità questo uomo ha chiesto ciò che io posso dare". Così detto, sparì in una gloria di luce, lasciando le folle a commentare quei miracoli e i giornalisti a descriverli".
Il ritorno del paganesimo. Una sfida per i credenti
di Giacomo Canobbio (Corriere della Sera/Brescia, 29 gennaio 2012)
Negli ultimi anni il cristianesimo sembra perdere influenza sul costume, benché da molte parti si dichiari la fine della secolarizzazione, o almeno la inadeguatezza di tale categoria per descrivere la situazione religiosa dei Paesi occidentali: ci si troverebbe piuttosto di fronte un deplacement della ricerca religiosa e a una riscoperta del sacro. Le analisi sociologiche non riescono tuttavia a precisare cosa si intenda con «ritorno del sacro» e con «ricerca religiosa».
Un fenomeno appare però meritevole di attenzione: la proposta di tornare al paganesimo. Il termine, va ricordato, rimanda alla lettura che da parte ebraica prima e soprattutto cristiana poi si dava delle altre religioni. Per quanto attiene al cristianesimo, è noto che all’inizio si diffuse prevalentemente nelle città, sicché gli abitanti dei villaggi (pagi) restavano nella religione «idolatrica», quella che era stata oggetto delle invettive dei profeti di Israele e del giudizio critico dei primi autori cristiani. Il paganesimo era dunque la religione delle campagne.
La recente proposta di tornare al paganesimo assume due forme principali: una dotta, l’altra popolare.
Per quanto attiene alla prima si riscontrano due varianti: 1) ripresa della funzione terapeutica della filosofia, il cui compito dovrebbe essere quello di educare ad accettare il limite, mettendo in conto che gli umani non possono mirare a mete troppo alte, trascendenti. Appare sullo sfondo il richiamo all’epicureismo nel suo intento terapeutico di destituire di valore il desiderio (merita attenzione a questo riguardo la ponderosa opera di M. Nussbaum, La terapia del desiderio, Vita e Pensiero, Milano 1998). 2) abbandono del monoteismo, che sarebbe fonte di violenza, per ridare spazio alla molteplicità degli dèi. Questa seconda variante collega politeismo e democrazia: solo il politeismo sarebbe il vero custode della libertà (Jan Assman) e permetterebbe di riconoscere le molteplici storie connesse con la molteplicità degli dèi (Odo Marquard).
Per quanto attiene alla seconda, quella «popolare», la si trova in una concezione e in una pratica utilitaristica della religione. Va riconosciuto che sia nell’ebraismo sia nel cristianesimo (come in tutte le altre religioni) la dimensione utilitaristica delle pratiche religiose non è mai venuta meno. Solo che oggi pare riproporsi con particolare vigore: si sceglie la religione dalla quale si pensa di ricavare maggior vantaggio; si può giungere perfino a crearsi una propria religione. Emblematico al riguardo quanto viene descritto dal sociologo tedesco Ulrich Beck nel volume Il Dio personale (Laterza, Roma 2008: il titolo in italiano potrebbe trarre in inganno; in tedesco suona Der eigene Gott, cioè "il proprio Dio"): ciascuno si sceglie/crea la propria divinità a secondo dei bisogni.
Collegando tra loro le due forme di ritorno al paganesimo si potrebbe notare che rispondono a una duplice esigenza, che diventa critica di una religione praticata/percepita: 1) un bisogno di salvezza intesa come terapia; 2) il bisogno di avere la divinità vicina. Si evidenzia nelle due esigenze una critica nei confronti di una religione troppo dottrinale, preoccupata delle verità anziché della vita delle persone, e nei confronti di un Dio troppo grande, quindi distante.
C’è però da domandarsi se la proposta di tornare al paganesimo riesca effettivamente a rispondere alle attese. Gli dèi a misura umana sono in grado di garantire quanto da essi ci si aspetta? Forse varrebbe la pena ricordare che la filosofia antica si era proposta come via di salvezza alternativa alle religioni mitologiche. Inoltre, una terapia che pretende di acquietare il desiderio sarà efficace? E soprattutto mantiene l’originalità degli umani la cui caratteristica è appunto la protensione verso il trascendimento?
Al di là di questi interrogativi, le religioni, quella cristiana in primo luogo, sono provocate a verificare se nella loro forma storica attuale riescano a mostrarsi plausibili.
STORIA DELLA CHIESA
Giovanni Filoramo indaga sul periodo tra la conversione di Costantino e Teodosio quando la trasformazione in religione di Stato tramutò la croce in simbolo di potere
Cristiani da martiri a persecutori
di Massimo Firpo (Il Sole 24 Ore, 27 novembre 2011) *
«Chi di spada ferisce di spada perisce», si legge nel vangelo (Matteo 26, 52), e così anche che nessuno ardisca sradicare la zizzania fino al tempo del raccolto (Matteo 13, 30). Ma nel vangelo di Luca (14, 23) si legge anche «costringili a entrare», san Paolo ordina di scacciare «di mezzo a voi quel malvagio» (I Corinzi 5, 13) e lo stesso Gesù proclama di non essere venuto «a portare la pace, ma una spada» (Matteo 10, 34). Si potrebbero elencare altri luoghi evangelici che nel corso della storia hanno offerto contrastanti argomenti ai (pochi) fautori del rifiuto di ogni violenza in materia religiosa, così come ai sostenitori del contrario, e cioè del diritto-dovere di imporre agli altri la vera fede - qualunque essa sia - di cui ci si erge a interpreti e tutori.
Del che offre conferma la spettacolare disinvoltura con cui i teologi di tutte le confessioni hanno usato la Bibbia per far dire al Padre eterno ciò che le contingenze politiche rendevano opportuno che egli dicesse, ora per rivendicare ora per negare la tolleranza religiosa a seconda del carattere minoritario o maggioritario della propria Chiesa, cattolica o protestante che fosse. Dai pogrom antiebraici alle persecuzioni degli eretici fino alla torri di New York non si contano le schiere di fanatici convinti di agire in nome del loro Dio e legittimati in tal senso da qualche autorità religiosa.
Solo con il Vaticano II, del resto, la Chiesa cattolica ha riconosciuto come inderogabile diritto umano quella libertà di coscienza che ancora nel 1864 il Sillabo di Pio IX aveva definito come un folle «delirio», mero sinonimo di «libertà di perdizione». Ben venga, naturalmente, e onore al merito di coloro che hanno saputo cambiare le proprie opinioni, dando prova ancora una volta di un relativismo storico che, piaccia o non piaccia, è iscritto nella storia del cristianesimo stesso e della sua capacità di adeguarsi al mutare dei tempi.
Sono solo alcune fra le tante riflessioni che scaturiscono da questo denso libro, in cui viene ricostruito il rapido evolversi della nuova religione da Costantino a Teodosio, tra la conversione dell’imperatore vittorioso a ponte Milvio nel 312 grazie alla croce (in hoc signo vinces) e gli editti che, a partire da quello di Tessalonica del 380, imposero la fede di Cristo come unica religione ammessa nei confini dell’impero.
Fu allora che si determinò la trasformazione della croce da simbolo di martirio e di redenzione in simbolo di potere utilizzato dalle autorità politiche ed ecclesiastiche per la «conquista di corpi e di anime». Fu allora che le parole di Cristo «il mio regno non è di questo mondo» (Giovanni 18, 36) - che nell’età dei Lumi avrebbero suggerito a Voltaire amari commenti sulle tenaci commistioni tra Stato e Chiesa - trovarono una clamorosa smentita nel poderoso affermarsi del nuovo monoteismo trinitario che soppiantò il paganesimo.
Fu allora che la Chiesa - costantiniana o teodosiana che dir si voglia - fondò un potere destinato a durare e a rinsaldarsi nel corso dei secoli, recando impressi sino a oggi i segni di una granitica «autorappresentazione identitaria» che non solo consentiva, ma imponeva la coercizione nei confronti di renitenti alla conversione, dissidenti, scismatici, e con essa il ricorso al braccio secolare di un’autorità civile ormai piegata al primato della fede e della teologia.
È in questo nodo tanto aggrovigliato quanto decisivo della storia dell’Occidente che Filoramo accompagna il lettore con rigorosa competenza e non comune capacità narrativa, tale da consentire anche ai profani di orientarsi nelle convulse trasformazioni della fine del mondo antico, fatte non solo di vicende politiche e militari, ma soprattutto di conflitti di culture, di profonde crisi economiche e sociali, di ridefinizioni radicali di poteri e di ruoli, di nuovi popoli e nuove fedi.
La decadenza politico-militare dell’Impero, lo sfaldarsi della sua unità, il dilagare della violenza nella vita quotidiana di tutti fecero da sfondo al radicarsi del cristianesimo, al definirsi del suo impianto dottrinale tra aspre controversie teologiche, eresie, lotte intestine, destinate a intrecciarsi sempre più strettamente con le questioni politiche.
Con l’indebolirsi dell’autorità statuale, infatti, i vescovi vennero assumendo un ruolo pubblico riconosciuto dai redditi, dai privilegi e dai compiti loro assegnati dalla legislazione costantiniana (con il loro prevedibile corredo di simonia, rivalità, scontriviolenti eccetera), mentre gli imperatori si impegnavano sempre più energicamente nelle controversie religiose per garantire un necessario carattere unitario a quella che si accingeva a diventare una religione di Stato. Se Costantino poteva convocare il concilio di Nicea del 325 prima ancora di essere battezzato, pochi decenni dopo sant’Ambrogio era in grado di teorizzare il principio che l’imperatore è nella Chiesa, e non sopra la Chiesa.
Si impose in tal modo una nuova teologia politica, fondata sulla supremazia del sacerdozio sul regno, che invano l’imperatore Giuliano (l’Apostata) cercò di scongiurare nel suo breve regno con una restaurazione dell’antica religione che finì solo con l’incentivare le persecuzioni contro i pagani dopo la sua morte. Mentre anche la violenza diventava un metodo di conversione, le sottili questioni dogmatiche, le lotte antiereticali, il confronto con la filosofia greca imponevano l’inedita autorità dei teologi (figure sconosciute ai culti precedenti) e davano vita al magistero dei primi grandi padri della Chiesa.
Con i decreti conciliari una precisa ortodossia dottrinale si imponeva come legge dello Stato, e di conseguenza l’eresia (alla quale lo scisma veniva omologato) si configurava come un reato politico minaccioso per la stabilità dello Stato. Il Codice teodosiano promulgato nel 438 sancì definitivamente questa criminalizzazione del dissenso religioso. Nel frattempo anche le tenaci persistenze pagane diventavano oggetto di crociata e di conquista da parte «di vescovi zelanti e turbe fanatiche di monaci cristiani» per sostituire il nuovo al vecchio spazio sacro, distruggere gli antichi idoli, insediare le chiese sui templi.
In meno di ottant’anni la Chiesa dei martiri si trasformò nella Chiesa dei persecutori, le pecorelle di Cristo si riconobbero nei fautori di un’aggressiva ierocrazia e la frattura fra la città di Dio e la città dell’uomo teorizzata da sant’Agostino venne ricomponendosi nella cornice asimmetrica di un potere civile fattosi sacro e di una Chiesa fattasi potere (ma fonte della propria e dell’altrui sacralità), i cui rapporti strutturalmente conflittuali sarebbero stati ridefiniti senza tregua dalle vicende storiche (e dai teologi) dei secoli futuri.
Grandi e decisive vicende di secoli lontani, senza dubbio, che tuttavia aiutano a comprendere - conclude Filoramo - alcuni aspetti dell’odierno riproporsi, pur in forma diversa, di una «concezione ierocratica della Chiesa, con conseguenze preoccupanti, a cominciare dalla violazione della libertà di coscienza dei fedeli in nome del rispetto dei supremi interessi legati ai valori non negoziabili».
* Giovanni Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Laterza, Roma-Bari, pagg.456, e. 24,00.
Il debito di Kant con la Bibbia
Il filosofo tedesco è considerato il punto più alto dell’Illuminismo. Ma la sua produzione è ricca di riferimenti ai testi sacri. A cominciare da San Paolo
di Luca Valzesi (Corriere della Sera/La Lettura, 20.11.2011)
Fede e ragione hanno conosciuto nell’Illuminismo le più vive fasi del loro scontro immortale. O si pensa o si crede, e chi crede senza pensare rischia di rimanere intrappolato in un oscuro stato di minorità. Così professavano molti audaci esponenti del pensiero illuminato, figli di una modernità che aveva conosciuto il piano inclinato di Galileo e la mela newtoniana. Il nuovo modo di pensare, il nuovo metodo, doveva così ergersi a garante della scienza e abbattere col metodo matematico i castelli metafisici che tanto avevano fruttato al tentacolare soglio pontificio.
Immanuel Kant (1724-1804) è considerato il punto più alto dell’Illuminismo, chiave di volta nell’arco evolutivo del pensiero occidentale. Eppure la visualizzazione qui riportata mostra dei dati inaspettati. Il grafico vuole essere la rappresentazione di un lavoro di ricerca storiografica sulle fonti, che ha fatto emergere quanto sia profondo e significativo il debito kantiano con il Testo Sacro. La Bibbia, la fonte di sapere dogmatica per eccellenza, mostra qui il suo imponente contributo nel libero pensiero di Kant (di cui è appena uscita una biografia per Il Mulino a cura di Manfred Kuehn).
Il grafico è stato costruito nella figura di tre cerchi concentrici, il primo dei quali indica le opere prese in esame, collegandole al secondo dove vengono indicati i termini che in queste tradiscono un confronto con i testi sacri; il cerchio più esterno indica poi le specifiche sezioni bibliche citate da Kant indicandone i versetti. Ogni cerchio è costruito con un diametro direttamente proporzionale al numero di ricorrenze, rendendo infine evidente la maestosa presenza dell’epistolario paolino nel corpus kantiano. Numeri e ricorrenze, dati raccolti e catalogati ci mostrano così la vivacità dello scontro tra fede e ragione. Un conflitto, questo, che non vuole un vincitore, ma che cerca nella sua stessa potenza il principio del progresso e del sapere. Una realtà come questa ci dimostra che un pensiero, per quanto libero e forte, non rinnega la fede ma la interroga e la indaga, come una vicenda umana figlia della speranza e fonte di conoscenza.
Piss Christ: il malinteso
di Sébastien Lapaque
in “www.temoignagechretien.fr” del 15 aprile 2011 (traduzione: www.finesettimana.org) *
È da tempo che le bestemmie anticristiane non mi turbano più. Sono perfino tentato di accordare loro certe virtù educative. Pacifico vagabondo inchiodato ad una croce di legno dai violenti del suo tempo, il Salvatore del Mondo può ben essere coperto di sputi da quelli di oggi.
il Cristo degli oltraggi
“Si ignobilis, si inglorius, si inhonorabilis, meus erit Christus”, scrive Tertulliano, la cui prosa dalle erubescenze di lava in fusione in questo momento mi deliziano. “Se è senza splendore, se è senza gloria, se è infamato, è il Cristo che cerco.”
Ecco per gli agguerriti gradassi di Avignone partiti in crociata contro la presentazione al museo d’arte contemporanea di una fotografia dell’americano Andres Serrano che riproduce in grande formato l’immersione sacrilega di un piccolo crocifisso nell’urina.
“Si ignobilis, si inglorius, si inhonorabilis, meus erit Christus”: poche opere contemporanee illustrano in maniera più selvaggia l’esortazione del Grande scrittore cartaginese di questa fotografia di forza mostruosa in rosso e giallo intitolata Piss Christ.
Sua Eccellenza Mons. Arcivescovo di Avignone ha avuto torto a sollecitare il suo ritiro presso le autorità competenti. Avrebbe fatto meglio a salire in cattedra a prendere l’avversario in contropiede valorizzando le verità che ci fa sentire sulla coabitazione della grandezza e dell’abiezione.
Cristo e il piscio: sono le due estremità tra cui l’umanità si dibatte, più pronta ad annegare nel secondo che a gettarsi ai piedi del primo. Un cristiano non può spaventarsi per la coesistenza degli opposti: è il grande mistero.
lo scontro dei contrari
L’opera presentata ad Avignone ci ricorda che tra Cristo e i Rifiuti non c’è distanza. Un cristiano della scuola antica, un cristiano nato prima che si fosse presa l’abitudine di trapiantare ai battezzati dei cervelli di scimmia o di pecora, non ne sarebbe scandalizzato.
Léon Bloy avrebbe probabilmente adorato Piss Christ, quel quadro che dice tutto in due parole. Artista d’avanguardia nel suo genere, il Mendicante ingrato gustava gli happening selvaggi e lo scontro dei contrari.
Ricordate le sue Propos d’un entrepreneur de démolition: “Ci sono solo due cose, capite, che si possano mettere su una tomba e che vi facciano un ottimo effetto: la Croce del salvatore delle anime o un enorme escremento umano! Allora, scegliete, canaglie!” Ma le canaglie non vogliono più scegliere. Fanno petizioni, manifestano, dissimulano la loro vigliaccheria dietro pseudonimi su internet.
Eppure non c’è da stupirsi degli oltraggi che continua a ricevere Gesù. Un Dio al riparo dagli sberleffi, un Dio al riparo dalle bestemmie, un Dio al riparo dal marciume umano sarebbe adatto ai pagani o ai filosofi. Non sarebbe il Cristo che cerco, il Cristo che voglio, il Cristo che amo, venuto a sollevarmi dal canale di scolo o, chissà, dall’urina in cui stavo marcendo.
quale rabbia o quale risentimento amoroso?
No, davvero, le bestemmie che toccano il Redentore non mi turbano più. È poco dire che ne ha viste e ne ha vissute ben altre, a cominciare da tutte quelle che gli faccio subire giorno dopo giorno. Non conosco niente delle preferenze segrete di Andres Serrano, ignoro quale rabbia o quale risentimento amoroso si dissimuli dietro il suo Piss Christ. Ma gli argomenti di coloro che pretendono che sia troppo facile sfogare così il proprio nichilismo sulle spalle dei credenti non mi interessano. Quello che mi interessa, è proprio quel nichilismo che tocca Cristo, un nichilismo a cui ho voglia di rispondere come il curato di campagna di Georges Bernanos ad un personaggio del romanzo: “Lei potrebbe mostrargli i pugni, sputargli in faccia, frustarlo con delle verghe ed infine inchiodarlo ad una croce, che importa? È già stato fatto.”
Quando sento dei cattolici spiegare che i musulmani sanno farsi sentire e difendersi meglio controle ingiurie quando l’immagine di Allah o di Maometto viene travisata, vado su tutte le furie. Così vicini alla Stupidità, così lontani dal Senso. Non chiedo certo a tutti quei temerari Crociati di leggere i Padri - Tertulliano, contro Marcione, libro III - ma potrebbero di tanto in tanto uscire dalle loro fila per prestarsi ad esercizi di judo metafisico.
Della Croce del Salvatore si fa troppo spesso un ciondolo, un motivo decorativo, un segno senza significato. Ed ecco che attraverso il gesto brutale di Andres Serrano essa viene restituita alla sua brutalità: la Croce ridiventata scandalo - dal greco skandalon, l’ostacolo.
Al Musée des Beaux Arts di Avignone, ci si ferma. Ha perso i contorni vaporosi di simbolo per ridiventare il patibolo infamante su cui è stato inchiodato Gesù, morto tra due banditi, schernito, per aver predicato il perdono delle offese, la pietà per i vinti e l’attenzione per gli oppressi.
* PISS CHRIST (Wikipedia - testo inglese, con foto).
* PISS CHRIST (Wikipedia - testo italiano, senza foto)
Croce: ecco l’Anticristo moderno
Così denunciava sul «Corriere» l’irrisione sprezzante degli ideali
di Cesare Segre (Corriere della Sera, 13.01.2011)
È naturale che il «Corriere della Sera» , finita la brutta parentesi fascista, nella quale a Benedetto Croce era impedita quasi qualunque attività pubblica, abbia voluto annoverare il filosofo tra i suoi collaboratori più illustri. Croce infatti rappresentava e teorizzava principi politici e civili analoghi a quelli fondativi del «Corriere» , sempre nel solco di una tradizione risorgimentale e di ideali liberali. L’ospitalità del «Corriere» a Croce intendeva certo simboleggiare il ritorno alla tradizione «legittima» abbandonata troppo a lungo.
Ma anche dal punto di vista operativo, la collaborazione di Croce, che era, oltre che un grande filosofo e critico, pure un uomo politico, prometteva di muoversi con sicurezza tra le teorie e la pratica della vita associata. Idea felice, dunque, come lo è stata ora quella della Fondazione Corriere della Sera, di raccogliere in un elegante volumetto di 340 pagine tutti gli articoli pubblicati nel giornale da Croce (Benedetto Croce e il «Corriere della Sera» 1946-1952, a cura di Giuseppe Galasso, Fondazione Corriere della Sera), nonché la corrispondenza tra Croce e i direttori relativa a questa collaborazione, e infine le recensioni a opere di Croce apparse nel «Corriere» .
La vivace introduzione di Galasso è dedicata in prevalenza a questioni relative ai rapporti collaboratore-giornale, talora complessi e perfino curiosi. Croce, nella sua Napoli, era abituato a mantenere, in ambito di copyright, abitudini poco formali, inadatte a un grande quotidiano nazionale: in sostanza, aveva dato un’autorizzazione previa ai giornali napoletani e ai loro direttori, per anticipare estratti da sue pubblicazioni su rivista, persino per distribuirseli senza avvertire. Gli amici direttori erano sempre a contatto con il filosofo, e correvano subito a pubblicare quanto possibile di suo, senza farsi problemi di priorità.
I direttori del «Corriere» , soprattutto Emanuel e Missiroli, cercavano invece di evitare che articoli scritti per il «Corriere» uscissero precedentemente in altri quotidiani, violando il principio dell’esclusività. Una lotta che continua sino alla fine, quando Croce, cedendo alle richieste dei direttori, ottiene però di poter derogare, collaborando saltuariamente anche al «Giornale d’Italia» . Questo volume presenta una grande varietà di argomenti, tanto che potrebbe esser letto come un’antologia di Croce, le cui altissime qualità stilistiche sono ben note. Metterei in primo piano gli scritti di carattere memoriale, di grande importanza quando portano il lettore a quel periodo prefascista nel quale Croce fu senatore e ministro (governo Giolitti, 1920-1921).
Di quanto si fece e si pensò in quegli anni travagliati, Croce è dunque informatissimo, e ci scopre particolari determinanti per la comprensione degli avvenimenti. Interessato più all’uomo che alle cariche, Croce è altrettanto acuto ritrattista di Giolitti, che ammirava, e di personaggi di secondo o terzo piano, come Vincenzo Galizzi. Non mancano in queste pagine aneddoti divertenti, specie per i rapporti con il re e col principe di Piemonte, ignavi nei riguardi del dittatore, e sordi alle speranze dei migliori in iniziative per il suo licenziamento. Ebbe luogo a esempio un incontro clandestino con la principessa Maria José, che voleva il parere di Croce sulla situazione italiana; l’incontro, a Pompei, fu organizzato con tutte le cautele di un convegno amoroso.
Belle anche le pagine su Mussolini, con il giudizio tombale: «Non è stato neppure un mysterium iniquitatis, ma soltanto un povero diavolo, portato su dalle condizioni dei tempi, propizie agli avventurieri» . Molti gli articoli di carattere letterario, come su L’ami des femmes di Dumas, o su Henri Becque e il teatro francese dell’Ottocento (anche con qualche ricordo sulle proprie esperienze teatrali); bellissimo il confronto tra due strofe di Goethe e di Carducci, o la riflessione sulla poesia della donna in De Sanctis.
E a proposito di donne, colpisce lo sforzo di comprensione, evidente in due articoli, per una certa categoria femminile su cui si rischia di pronunciarsi troppo severamente, o troppo indulgentemente: alludo alla cortigiana e poetessa Veronica Franco e all’eroina della Dame aux Camélias di Dumas, Marguerite Gautier, diventata poi La Traviata di Verdi. Nel giudizio, non esplicitato, su Veronica, Croce fa entrare le difficoltà pratiche e la povertà, l’attenzione generosa a figli e nipoti, la venerazione per le virtù, la sincerità dei sentimenti amorosi, la serietà del pentimento. E quando si trova davanti a un’altra Veronica, la «ministra di voluttà» Marguerite Gautier, mostra di partecipare all’ammirazione del pubblico per questa donna straordinaria ed eroica, e semmai condanna L «atto chirurgico» con cui essa ritorna alla sua vita dissoluta per disgustare l’uomo che adora: si tratta, dice, di un’ «azione contraria al rispetto di se stessa» . Dunque la vera «dame aux camélias» è ancora superiore a come appare nelle romantiche versioni di Dumas e di Verdi. Croce filosofo si affaccia spesso in queste pagine, per esempio dibattendo sul concetto di progresso, o sull’esistenza di verità estranee alla nostra ragione, o sul contrasto tra le teorie di Marx e la pratica politica della Russia sovietica.
Molto felici le pagine sull’Anticristo, interpretato, al di fuori dell’apocalittica giudaico-cristiana, come «disconoscimento, negazione, oltraggio, irrisione dei valori e degli ideali, dichiarati parole vuote, fandonie, o, peggio ancora, inganni ipocriti per nascondere e far passare più agevolmente agli occhi abbagliati l’unica realtà che è la brama e cupidità personale indirizzata tutta al piacere e al comodo» . Questo gruppo di testi conservati nell’Archivio del «Corriere» si rivela un vero tesoro. E chissà quanti altri tesori potranno venire fuori nei futuri volumi della serie che con questo ha inizio.
BENEDETTO XVI DURANTE L’UDIENZA AL CORPO DIPLOMATICO ACCREDITATO PRESSO LA SANTA SEDE
«Nella Ue l’educazione sessuale
e civile minaccia la libertà religiosa»
Poi l’appello: «Il Medio oriente garantisca la sicurezza dei cristiani, membri a pieno titolo delle società» *
(Eidon) CITTÀ DEL VATICANO - L’educazione sessuale e civile impartita nelle scuole di alcuni Paesi europei costituisce una minaccia alla libertà religiosa. È questo il grave allarme lanciato lunedì da Benedetto XVI nel discorso tenuto di fronte al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede. «Proseguendo la mia riflessione - ha detto Ratzinger nella sua ampia disamina sulla libertà religiosa - non posso passare sotto silenzio un’altra minaccia alla libertà religiosa delle famiglie in alcuni Paesi europei, là dove è imposta la partecipazione a corsi di educazione sessuale o civile che trasmettono concezioni della persona e della vita presunte neutre, ma che in realtà riflettono un’antropologia contraria alla fede e alla retta ragione».
LE SCUOLE CATTOLICHE - «Esorto tutti i governi a promuovere sistemi educativi che rispettino il diritto primordiale delle famiglie a decidere circa l’educazione dei figli e che si ispirino al principio di sussidiarietà, fondamentale per organizzare una società giusta». Il papa ha chiesto di «garantire che le comunità religiose possano operare liberamente nella società, con iniziative nei settori sociale, caritativo od educativo». «In ogni parte del mondo si può constatare - ha osservato - la fecondità delle opere della Chiesa Cattolica in questi campi». Per questo, ha aggiunto, «è preoccupante che tale servizio che le comunità religiose offrono a tutta la società, in particolare per l’educazione delle giovani generazioni, sia compromesso o ostacolato da progetti di legge che rischiano di creare una sorta di monopolio statale in materia scolastica, come si constata ad esempio in certi Paesi dell’America Latina», proprio «mentre parecchi di essi celebrano il secondo centenario della loro indipendenza, occasione propizia per ricordarsi del contributo della Chiesa Cattolica alla formazione dell’identità nazionale».
BENE UE SU OBIEZIONE COSCIENZA - Nel suo discorso, lo sguardo verso Occidente e alle «minacce» che qui esistono «contro il pieno esercizio della libertà religiosa», il Papa ha fatto riferimento ai «Paesi nei quali si accorda una grande importanza al pluralismo e alla tolleranza, ma dove la religione subisce una crescente emarginazione. Si tende a considerare la religione - ha spiegato -, ogni religione, come un fattore senza importanza, estraneo alla società moderna o addirittura destabilizzante, e si cerca con diversi mezzi di impedirne ogni influenza nella vita sociale». «Si arriva così - ha aggiunto - a pretendere che i cristiani agiscano nell’esercizio della loro professione senza riferimento alle loro convinzioni religiose e morali, e persino in contraddizione con esse, come, per esempio, là dove sono in vigore leggi che limitano il diritto all’obiezione di coscienza degli operatori sanitari o di certi operatori del diritto». «Non si può che rallegrarsi dell’adozione da parte del Consiglio d’Europa, nello scorso mese di ottobre, di una Risoluzione che protegge il diritto del personale medico all’obiezione di coscienza di fronte a certi atti che ledono gravemente il diritto alla vita, come l’aborto» ha aggiunto.
L’APPELLO AL MEDIO ORIENTE - Poi Benedetto XVI ha lanciato un appello ai leader dei Paesi mediorientali: «Apprezzo l’attenzione per i diritti dei più deboli e la lungimiranza politica di cui hanno dato prova alcuni Paesi d’Europa negli ultimi giorni, domandando una risposta concertata dell’Unione europea affinché i cristiani siano difesi nel Medio oriente». «Guardando verso l’Oriente - ha detto il Papa -, gli attentati che hanno seminato morte, dolore e smarrimento tra i cristiani dell’Iraq, al punto da spingerli a lasciare la terra dove i loro padri hanno vissuto lungo i secoli, ci hanno profondamente addolorato». «Rinnovo alle Autorità di quel Paese e ai capi religiosi musulmani - ha proseguito - il mio preoccupato appello ad operare affinché i loro concittadini cristiani possano vivere in sicurezza e continuare ad apportare il loro contributo alla società di cui sono membri a pieno titolo». «Anche in Egitto, ad Alessandria - ha aggiunto il Pontefice -, il terrorismo ha colpito brutalmente dei fedeli in preghiera in una chiesa». Secondo papa Ratzinger, «questa successione di attacchi è un segno ulteriore dell’urgente necessità per i governi della regione di adottare, malgrado le difficoltà e le minacce, misure efficaci per la protezione delle minoranze religiose».
Redazione online
* Corriere della sera, 10 gennaio 2011
ANTICRISTO
Questo termine significa “contro (o invece di) Cristo”. Ricorre in tutto cinque volte, al singolare e al plurale, sempre in due epistole di Giovanni.
Quando Giovanni scrisse le sue lettere (ca. 98 E.V.) l’argomento non era nuovo per i cristiani. In si legge: “Fanciullini, è l’ultima ora, e, come avete udito che viene l’anticristo [gr. antìchristos], così ora sono sorti molti anticristi; da cui acquistiamo la conoscenza che è l’ultima ora”. La dichiarazione di Giovanni rivela che ci sono molti singoli anticristi, anche se tutti insieme costituiscono una persona composita definita “l’anticristo”. Circa l’uso del sostantivo “ora” riferito a un periodo di tempo, relativamente breve o di durata indeterminata, ci sono altri esempi negli scritti di Giovanni. Egli quindi non limitava la comparsa, l’esistenza e l’attività di tale anticristo solo a un tempo futuro, ma ne indicava la presenza allora e in seguito. - 1Gv 4:3.
Identificazione. In passato sono stati fatti molti tentativi per identificare “l’anticristo” con individui quali Pompeo, Nerone o Maometto (quest’ultima identificazione, suggerita da papa Innocenzo III nel 1213 E.V.), o con una specifica organizzazione, come il papato, secondo il concetto dell’“anticristo” che hanno i protestanti. Comunque le dichiarazioni ispirate di Giovanni indicano che il termine ha un’ampia applicazione; include infatti tutti quelli che negano che “Gesù è il Cristo” e che Gesù è il Figlio di Dio venuto “nella carne”.
Nega che Gesù è il Cristo e il Figlio di Dio chiunque neghi qualsiasi insegnamento scritturale che lo riguarda: la sua origine, il suo posto nella disposizione di Dio, l’adempimento delle profezie delle Scritture Ebraiche in lui quale promesso Messia, il suo ministero, i suoi insegnamenti e le sue profezie, come pure chiunque si opponga a lui o cerchi di sostituirsi a lui nella posizione di Sommo Sacerdote e Re nominato da Dio. Questo è evidente da altri versetti che, pur non usando il termine “anticristo”, esprimono essenzialmente lo stesso concetto. Infatti Gesù disse: “Chi non è con me è contro di me, e chi non raccoglie con me disperde”. Come spiega 2 Giovanni 7, costoro potrebbero agire da ingannatori, e quindi l’“anticristo” includerebbe i “falsi Cristi” e i “falsi profeti”, e anche quelli che pur compiendo opere potenti in nome di Gesù sono da lui definiti “operatori d’illegalità”. .
Secondo la regola enunciata da Gesù che quanto viene fatto ai suoi veri seguaci viene fatto a lui , il termine deve includere quelli che li perseguitano, quindi la simbolica “Babilonia la Grande” e quelli descritti come lo “schiavo malvagio” nella parabola di Gesù. . Giovanni menziona in particolare gli apostati fra coloro che costituiscono l’anticristo, riferendosi a quelli “usciti da noi” avendo abbandonato la congregazione cristiana. Sono inclusi dunque “l’uomo dell’illegalità” o “il figlio della distruzione” descritto da Paolo, e anche i “falsi maestri” che Pietro denuncia perché formano distruttive sette ‘rinnegando anche il proprietario che li ha comprati’. DELL’ILLEGALITÀ. Regni, nazioni e organizzazioni fanno pure parte dell’anticristo secondo la descrizione simbolica di Rivelazione 17:8-15; 19:19-21. Salmi 2:1, 2.
Da tutti i casi summenzionati è evidente che quanti compongono l’anticristo sono destinati alla distruzione a motivo del loro comportamento ostile.
(Con tutto il bene del mondo....spece per quelli che "evitano" L’anticristo)
Il cardinale, don Serafino e il signor B
di Aldo Maria Valli (Europa, 21.12.2010
In quel Natale del 2010, nei giorni più infuocati della polemica politica, quando il governo del signor B. riuscì a vivacchiare ancora per un po’ ma senza una vera prospettiva, l’eminentissimo cardinale sentì il bisogno di un consiglio.
L’eminentissimo cardinale aveva puntato a lungo su B. e sulle sue promesse: più soldi alle scuole cattoliche, più aiuti alle famiglie, più possibilità di lavoro per i giovani, più attenta difesa della vita umana. Erano quelli che il papa amava definire «valori non negoziabili», e l’eminentissimo cardinale, per difenderli, aveva appoggiato il signor B.
Quel presidente del consiglio vanaglorioso e pieno di sé, in realtà, non gli piaceva troppo. Però era politicamente forte, sapeva aggregare consensi, godeva del sostegno di ampie fasce della popolazione, anche fra i cattolici, ed era stato capace di tenere lontana dal governo per un bel po’ di tempo la sinistra, composta da pericolosi ex comunisti e da ancor più pericolosi cattocomunisti. Ora però, in presenza di una crisi politica logorante e di preoccupanti segni dei cedimento del potere messo in piedi dal signor B., si trattava di prendere una decisione: puntare ancora su di lui o che cosa?
Per questo l’eminentissimo cardinale chiamò alcuni dei suoi più fidati collaboratori e chiese loro di stendere un rapporto. Lo chiese anche a don Serafino, un prete giovane, studioso della dottrina sociale della Chiesa e persona molto sincera. L’eminentissimo cardinale voleva un giudizio spassionato sull’opera del capo del governo negli ultimi anni e su quanto fosse stato assennato, da parte della Chiesa, puntare su di lui.
Don Serafino ubbidì e dopo pochi giorni fece pervenire all’eminentissimo cardinale il seguente documento.
«Eminenza reverendissima, a meno che non possa vivere davvero duecento anni o giù di lì, come fingono di credere alcuni dei suoi interessati laudatores, il signor B. è alla fine della parabola vitale e dunque anche politica. Tuttavia la sua vicenda ha qualcosa da insegnare, e poiché lei mi ha chiesto un giudizio, le dirò quello che penso.
Punto primo. Fin dalla sua discesa in campo, il signor B. ha rappresentato la negazione di tutto ciò che la dottrina sociale della Chiesa insegna a proposito di politica e impegno civile. Come sappiamo, seguendo le direttive del suo amico e protettore C., il signor B., quando era soltanto un costruttore e imprenditore televisivo, dopo aver fatto molti soldi in modo poco chiaro, decise di dedicarsi alla politica e di fondare un partito esclusivamente per tornaconto personale, per cercare di sottrarsi alla giustizia e per meglio perseguire i propri interessi. Tutto il contrario di quanto insegna la dottrina sociale della Chiesa, secondo la quale la politica, in quanto alta forma di carità, deve essere ispirata al servizio verso gli altri, specialmente verso i più deboli e indifesi, nel segno del bene comune. Per la Chiesa, come lei certamente sa, il singolo che si impegna in politica assume su di sé i problemi di tutti e di essi si fa interprete per trovare soluzioni il più possibile condivise. Ma nel caso del signor B. la decisione di dedicarsi alla politica nasce solo dalla necessità di tutelare se stesso.
Punto secondo. Il compendio della dottrina sociale della Chiesa è molto chiaro. Coloro che hanno responsabilità politica non devono mai dimenticare o sottovalutare la “dimensione morale della rappresentanza”. Il politico, per il fatto di essere delegato a occuparsi dei problemi di tutti, deve dare testimonianza personale di assoluta trasparenza e moralità. Non c’è e non ci può essere distinzione tra sfera privata e sfera pubblica. Anzi, l’autorità veramente responsabile è, secondo l’insegnamento della Chiesa, soltanto quella esercitata mediante il ricorso alle virtù che favoriscono una concezione e una pratica del potere come servizio. Tali virtù, elencate esplicitamente, sono: la pazienza, la modestia, la moderazione, la carità, lo sforzo di condivisione. Ebbene, ce n’è forse una che il signor B. abbia mai praticato? O non è stato piuttosto egli il campione dell’impazienza e dell’insofferenza verso le regole democratiche, dello sfarzo, del lusso, della presunzione, dell’immodestia, della vanità, della ricchezza ostentata, dell’esagerazione, dell’eccesso,dell’intemperanza, dell’egocentrismo, dell’amore di sé e del narcisismo eletto a sistema?
Punto terzo. La Chiesa cattolica insegna che l’autorità deve lasciarsi guidare dalla legge morale, perché è la morale il criterioguida che precede e fonda gli altri. Tale moralità ha un modo molto pratico ed evidente di manifestarsi: consiste nell’emanare leggi giuste, cioè conformi al bene comune, e nel rispettare la divisione fra i poteri. Ma anche sotto questi profili il signor B., con la sua costante azione legiferante a favore di se stesso, con la pretesa di far prevalere nettamente l’esecutivo, con i ripetuti attacchi verso gli altri poteri costituzionali e con la battaglia ingaggiata contro la magistratura, ha disatteso pervicacemente l’insegnamento della dottrina sociale della Chiesa.
Punto quarto. Parlare di morale vuol dire, lei me lo insegna, parlare anche di famiglia e sessualità, e sotto questo profilo lo spettacolo offerto dal signor B. è, se possibile, ancor più sconfortante. Quest’uomo pluriseparato e incapace di tenere a bada i suoi istinti sessuali ha fornito uno degli esempi più tristi e devastanti che mai siano stati offerti da un politico occidentale. Inutile dilungarsi su vicende note. Basti ricordare il suo uso avvilente e umiliante della donna, da lui ridotta a oggetto di piacere, e senza che tutto ciò lo abbia mai condotto a un minimo accenno di pentimento o di contrizione. Al contrario, ciò che quest’uomo ha fatto per anni, fino alla tarda età, è stato di alimentare il deprimente mito di se stesso come vero maschio: uno spettacolo rivoltante.
Punto quinto. Nel compendio della dottrina sociale c’è un interessante capitolo dedicato all’informazione. L’insegnamento è molto chiaro. L’informazione, vi si legge, è tra i principali strumenti di partecipazione democratica, perché non è immaginabile alcuna forma di partecipazione senza la conoscenza dei problemi della comunità e senza il possesso di tutti i dati conoscitivi a proposito di chi governa. Ebbene, che cosa ha fatto per anni e anni il signor B. se non cercare di condizionare a proprio favore anche l’informazione, esattamente per evitare che la comunità avesse una conoscenza corretta della realtà, per nascondere le proprie malefatte e per illudere i cittadini che sotto il suo governo tutto procedesse per il meglio quando invece i problemi sociali aumentavano? Come si pone quest’uomo, che si è battuto contro le intercettazioni telefoniche e ha detto che la libertà di stampa non è un valore assoluto, rispetto a un insegnamento della Chiesa che sostiene la necessità di garantire il pluralismo dell’informazione agevolando, mediante leggi appropriate, condizioni di uguaglianza nel possesso e nell’uso dei mass media? Lascia senza parole verificare come il signor B. incarni, anche in questo campo, l’esatto contrario di quanto la Chiesa insegna. Mi perdoni se cito ancora il compendio, ma è inevitabile. Tra gli ostacoli che si frappongono alla piena realizzazione del pluralismo e di quel diritto fondamentale che è l’obiettività dell’informazione, si legge, merita particolare attenzione il fenomeno delle concentrazioni editoriali e televisive, che hanno “pericolosi effetti per l’intero sistema democratico”, specialmente “quando a tale fenomeno corrispondono legami sempre più stretti tra l’attività governativa, i poteri finanziari e l’informazione”. E cosa dire dei contenuti culturali e morali veicolati dalle televisioni di cui il signor B. è proprietario e da quelle sulle quali esercita il controllo? La questione essenziale, afferma la dottrina sociale della Chiesa, è verificare se il sistema dell’informazione e dell’intrattenimento contribuisca a “rendere la persona umana migliore, cioè più matura spiritualmente, più cosciente della dignità della sua umanità, più responsabile, più aperta agli altri”. Appunto.
Punto sesto. L’alibi con il quale il signor B. ha spesso giustificato le sue scelte è il consenso degli elettori. “Abbiamo i numeri per farlo, la gente è con noi”, questo il ritornello. E che i numeri ci siano stati è fuori discussione, ma che cosa dice in proposito l’insegnamento della Chiesa? Ecco la risposta: “Il solo consenso popolare non è tuttavia sufficiente a far ritenere giuste le modalità di esercizio dell’autorità politica”. Per il cristiano ciò che conta è la legge morale, perché le maggioranze possono appoggiare scelte politiche moralmente ingiuste e i politici possono guadagnarsi il consenso attraverso operazioni moralmente tutt’altro che irreprensibili.
Conclusioni. Alla luce di tutto ciò, eminenza reverendissima, credo che la risposta alla domanda su come sia stato possibile che il signor B. abbia governato così a lungo con il consenso di molti cattolici e l’appoggio delle più alte gerarchie si possa esprimere con una sola parola: tradimento. Tradimento del vangelo. Tradimento di ciò che la fede cristiana è e insegna. Tradimento di tutti coloro che per questa fede sono morti. Tradimento di nostro Signore Gesù Cristo che disse:“Conoscerete la verità, e la verità vi farà liberi” (Giovanni 8,32)».
Dopo aver letto, l’eminentissimo cardinale prese il rapporto, lo mise in un cassetto e sospirò. Pure a Natale era costretto a occuparsi di faccende tanto complicate. Pensò a don Serafino e gli scappò un mezzo sorriso. Che ragazzo! La sincerità era un suo pregio, ma, decisamente, era anche il suo principale difetto.
Libera Chiesa, in catene di Stato
di Riccardo Chiaberge (il Fatto Quotidiano, 18 dicembre 2010)
Corsi e ricorsi dell’onomastica: si chiamava Gasparri, ma non sedeva in Senato e vestiva la porpora del Segretario di Stato vaticano, l’uomo che nel 1923 aiutò Mussolini a far fuori uno dei suoi avversari più temibili, l’odiato don Sturzo. Il leader dei Popolari era passato all’opposizione e avrebbe votato contro la famigerata legge Acerbo che aboliva la proporzionale istituendo un premio di maggioranza su misura per le ambizioni totalitarie del fascismo. Ma il 10 luglio, senza preavviso, lasciò la guida del suo partito. Secondo il cardinale questo abbandono era un espresso desiderio del Santo Padre, il quale riteneva che “nelle attuali circostanze in Italia, un sacerdote non può, senza grave danno per la Chiesa, restare alla direzione di un partito, anzi dell’opposizione di tutti i partiti avversi al governo, auspice la massoneria come ormai è risaputo”.
POCHI GIORNI prima, dai muri di Roma, il manifesto di una nuova organizzazione cattolica aveva invitato i fedeli a dare pieno sostegno alle camicie nere, in nome di “quei valori religiosi e sociali che costituiscono la base d’ogni sano reggimento politico” e a combattere le forze antinazionali contrarie a “un durevole ordine sociale cristiano e italiano”. L’avrete notato anche voi, lo stile ricorda in modo impressionante i sermoni di Bagnasco o di Bertone: non diversi gli accenti accorati sulla necessità di superare lo scontro, identico l’appello alla pacifica convivenza e al “bene supremo dell’Italia”.
In realtà, scrive lo storico Emilio Gentile nel suo nuovo libro, Contro Cesare. Cristianesimo e totalitarismo nell’epoca dei fascismi (Feltrinelli, pagg. 442, euro 25), il desiderio del Santo Padre corrispondeva a quello del duce, che “aveva minacciato rappresaglie contro le associazioni cattoliche e il clero se la Chiesa non fosse intervenuta a togliere dalla politica il sacerdote siciliano”. L’uscita di scena di Sturzo accelerò la disgregazione interna del Partito popolare, la cui ala più conservatrice si affrettò a correre in soccorso del vincitore.
A dispetto del suo cognome, Gentile non è prodigo di gentilezze nei riguardi del Vaticano: “La costruzione del regime fascista, tra il 1925 e il 1929 - accusa - non incontrò alcuna resistenza da parte della Chiesa di Roma. La Santa Sede assistette da spettatrice silenziosa, ma evidentemente compiaciuta, alla distruzione delle libertà civili e politiche della democrazia parlamentare, rivendicando per sé unicamente l’esercizio della libertà religiosa, in ciò coerente con la dottrina che considerava la libertà di coscienza e le altre libertà politiche e civili il portato diabolico dell’apostasia moderna”. Quando la dittatura, nel maggio 1928, decide la soppressione di tutte le organizzazioni giovanili che non facevano capo all’Opera Nazionale Balilla, esclusa l’Azione Cattolica, la stampa vicina alla Chiesa reagisce con manifestazioni di giubilo e grandi “inchini e ringraziamenti alla magnanimità del duce”. Il parroco anticonformista di un paese del mantovano, don Primo Mazzolari, annota nel suo diario: “Oh, poi non è troppo? Dunque vivete per misericordia, per benigna e sovrana concessione di lui? Non c’è più un diritto comune, una libertà comune da rivendicare, entro cui agire, ma il beneplacito del tiranno, che vi ha accantonati, come spazzatura, in attesa che passi per la strada il carretto della nettezza urbana”.
IL VERO CRISTIANO, secondo don Primo, non deve cercare privilegi per sé ma giustizia e libertà per tutti: “Rivendicare un posto per sé soltanto è venir meno alla missione cattolica, senza contare che un privilegio, concesso e accettato a queste condizioni, è piuttosto un capestro e una tremenda responsabilità di fronte all’avvenire”.
La marcia su Roma era stata salutata con sollievo dalla gerarchia, impaurita dai disordini sociali e dal rivoluzionarismo rosso. La bestia fascista, per quanto manesca e brutale anche nei confronti delle organizzazioni cattoliche, sembrava addomesticabile. Ai primi approcci di Mussolini per risolvere la questione romana, nel 1923, papa Ratti manda a dire che il governo del duce “dura daun anno, mentre la Chiesa conta per secoli”. E sei anni più tardi, poco dopo la firma dei Patti Lateranensi, dichiarerà che “per salvare un’anima sarebbe disposto anche a trattare col diavolo in persona”. Le anime, beninteso, vanno salvate da quelle che Pio XI considera le minacce più gravi che incombono sulla cristianità: il comunismo, “nemico dichiarato della Santa Chiesa e di Dio”, ma anche la democrazia laica, figlia della Rivoluzione francese e della modernità. E questo benché nei Palazzi apostolici siano in molti a chiedersi se “l’idolatria statalista” di Giovanni Gentile e Alfredo Rocco non sia “una brace” peggiore della “padella framassone e demoliberale”.
Più che Contro Cesare, il potente libro di Gentile, denso di retroscena e documenti inediti, dovrebbe intitolarsi Pro Cesare. Come scrive il grande studioso del fascismo, degno erede di De Felice, “all’inizio di un’era di statolatria quale l’Europa non aveva mai conosciuto, neppure nell’epoca del cesaropapismo romano o medievale o nell’era dell’assolutismo e del dispotismo, la Chiesa si trovò schierata, per i privilegi che ne riceveva, con il regime statolatra del nuovo Cesare in camicia nera e con altri dittatori suoi imitatori o ammiratori”.
Il Cesare totalitario del Novecento ha due volti: quello comunista di Stalin che vuole sopprimere la Chiesa e instaurare l’ateismo di stato, e il volto più ambiguo di Mussolini o di Hitler che tentano di asservire la fede di Cristo mescolandola con la propria ideologia, trasformata in religione politica. Ma i cattolici e i protestanti che, in Italia e in Germania, mettono sullo stesso piano i due totalitarismi, giudicandoli entrambi antitetici al messaggio cristiano, si contano sulla punta delle dita. Tra gli italiani, ai nomi di Mazzolari e Sturzo possiamo aggiungere quelli di Giuseppe Donati e Francesco Luigi Ferrari, morti in esilio a Parigi, e pochi altri. Comprensibile la rabbia di uno studioso non certo ostile alla Chiesa, Arturo Carlo Jemolo: “Con tutto ciò che da penne cattoliche è stato scritto contro il fascismo si riempirebbe a stento uno scaffaletto di libreria; con quanto è stato scritto nello stesso periodo contro il comunismo, una biblioteca”.
La lista dei capi di imputazione a carico della Santa Sede, secondo Gentile, è molto lunga: le dimissioni e l’esilio di don Sturzo, l’opposizione a un fronte antifascista dopo il delitto Matteotti, la sconfessione del Partito Popolare, l’avallo silente al soffocamento della democrazia italiana, e infine gli accordi del Laterano. Soltanto nel 1931, con l’enciclica Non abbiamo bisogno, e soprattutto dopo le leggi razziali del ’38, papa Ratti comincia a prendere le distanze dalla “statolatria pagana” di Mussolini e dai suoi crimini. Ma non arriva mai a paragonare il fascismo al bolscevismo, che rappresenta per lui il male assoluto. Lascio agli storici colleghi e rivali di Gentile, ben più titolati di me, il compito di confutare la sua ricostruzione, certo non tenera, a tratti perfino ingenerosa nei confronti della Chiesa e di Pio XI.
Mi limito a osservare che a quei tempi, almeno, papi e vescovi avevano qualche fondato motivo per essere prudenti. Adesso che non rischiano di finire in un lager o di essere manganellati, recitano un Te Deum al giorno per il Cesare di Arcore, senza nemmeno aspettare il Tartaglia di turno che gli tiri il duomo in faccia. Viene da domandarsi cosa ci voglia ancora, perché i monsignori aprano finalmente gli occhi e la bocca. Magari che Cesare rottami la Costituzione e trasformi il Quirinale in un bordello? O sono pronti a barattare pure quello in cambio di uno sconto sull’Ici e di qualche aiutino alle scuole cattoliche?