Il realismo di nascere nella storia
Dio abbandona gli edifici simbolici e sceglie una residenza carnale: il grembo. Gesù a Betlemme è il trionfo della maestà della vita. Così il Natale illumina e consacra tutte le esistenze.
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 19 dicembre 2010)
Una decina d’anni dopo la pubblicazione, avvenuta nel 1982, lo scrittore lombardo Giovanni Testori - a seguito di un incontro pubblico milanese, dedicato a un libro su Maria Maddalena a cui entrambi avevamo collaborato - mi inviò una sua opera poco nota intitolata La maestà della vita. Di lì a poco egli sarebbe morto (nel 1993). Ora, sfogliando di nuovo quelle pagine, m’imbatto in questo paragrafo: «lI Natale è la nascita assoluta che riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite di prima e tutte le nascite di poi. Ogni uomo che venga alla luce ripete il miracolo del Natale di Cristo; perché è Dio che decide quella nascita; è Lui che vuole quella vita. È proprio ciascuna di quelle nascite, ciascuna di quelle vite, nessuna esclusa, che l’ha spinto da sempre a incarnarsi».
Sono parole che invitano spontaneamente a riflettere proprio su quel verbo finale così tipico del cristianesimo, l’«incarnarsi» di Dio. Non per nulla si ripete spesso che l’«incarnazione» è nel cuore stesso dell’annuncio cristiano, ne è - assieme alla risurrezione - quasi il vessillo tematico.
La definizione immediata, spoglia di tecnicismi teologici, potrebbe essere così formulata sulla scia delle righe di Testori: il Figlio di Dio è nato, ha voluto avere un inizio nel tempo lui che era e che rimane eterno, proprio per condividere realmente con noi la storia, la "carne". Come tutti noi, ha anche avuto una fine nel tempo, una morte. Con questo ingresso nella sequenza temporale ha deposto in tutte le nascite e in tutte le morti un seme divino, trascendente il tempo stesso. Come scrive Testori, il Natale del Figlio di Dio, «riflette e assume, illumina e redime, benedice e consacra tutte le nascite», tutte le vite.
L’«incarnazione» è incisa nella memoria di tutti, anche di chi è agnostico, con una frase lapidaria del celebre prologo del Vangelo di Giovanni, un testo che è stato definito «una parabola teandrica», proprio per l’intreccio inestricabile che propone tra divinità e umanità.
Da un lato, infatti, c’è il Logos che è «in principio» - come si dice del Creatore nell’incipit stesso della Bibbia (Genesi 1,1: «In principio Dio creò il cielo e la terra...») -, egli è «presso Dio» ed è Dio. D’altro lato, però, questo Logos divino, perfetto, creatore, assoluto - che è Wort, Parola, Kraft, Potenza, Sinn, Significato, Tat, Atto, per usare la famosa resa semantica offerta da Goethe nel suo Faust - si insedia nell’orizzonte contingente e mutevole del tempo e dello spazio: «Il Logos divenne carne e pose la sua tenda in mezzo a noi» (1,14).
Il Verbo eterno e divino assume la sarx, ossia la caducità temporale, divenendo ospite nomadico del nostro spazio: come è noto, il testo originario giovanneo usa, infatti, il verbo greco eskénosen che è il termine dell’«attendarsi», dell’accamparsi tra gli uomini che migrano di luogo in luogo.
Naturalmente, l’allusività di Giovanni non ignora il valore simbolico della "tenda" che era il santuario mobile dell’Israele pellegrino nel Sinai, «tenda dell’incontro» tra Dio e Israele, ma al tempo stesso tenda della "presenza" divina: in ebraico "presenza" è shekinah, vocabolo curiosamente fondato sulle stesse tre consonanti (s-k-n-) dell’«attendarsi» greco (skenoun).
Resta, comunque, grandioso il paradosso. Non è più di scena un telo o un edificio simbolico: questa nuova residenza divina è "carnale". Tenendo conto che la sarx, "carne", è la resa ideale dell’ebraico basar, l’ambito in cui Dio si insedia e di cui diventa pienamente partecipe è la condizione umana, terrestre, carica di caducità e finitudine. Essa è assunta senza riserve, ha nella nascita il suo emblema, ma presuppone anche l’intero arco dell’esistere, fatto di un impasto di riso e lacrime, speranza e delusione, salute e malattia, sentimenti e umori, atti e parole, affetti e tradimenti, esperienze e silenzi.
In questa luce è suggestiva la ripresa del tema che Jorge Luis Borges ha proposto nella sua poesia emblematicamente intitolata Giovanni 1,14, presente nella raccolta Elogio dell’ombra (1969): «Io che sono l’È, il Fu e il Sarà / accondiscendo al linguaggio / che è tempo successivo e simbolo... / Vissi stregato, prigioniero di un corpo / e di un’umile anima... / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce».
A lungo si potrebbe riflettere attorno a questo nodo d’oro nel quale «anche il soprannaturale è carnale», come affermava Charles Péguy nel suo poema Eva (1913). Là il Figlio di Dio diventa «frutto di un ventre carnale», assumendo e riassumendo in sé tutta l’umanità fatta di carne e di sangue. Si potrebbe, inoltre, individuare il tessuto delle allusioni e dei rimandi evocati da Giovanni nel suo testo: egli attinge alle categorie "Parola" e "Sapienza", care all’Antico Testamento, senza però escludere del tutto ammiccamenti al Logos greco, che si era infiltrato nello stesso giudaismo di Filone d’Alessandria d’Egitto, celebre pensatore giudeo-ellenistico del I secolo.
Così, sarebbe pure possibile ritrovare una sottile ma efficace punta polemica contro l’affacciarsi, nella cristianità delle origini, di tentazioni gnostiche o docetiche. Esse - come ben si evince dagli stessi termini di matrice greca che evocano la "gnosi", la conoscenza alta e pura, e l’"apparenza", il dokéin - rifiutavano la "pesantezza" della "incarnazione", di quel «diventare carne». Al massimo l’accettavano come metafora dell’epifania del Logos nel suo mostrarsi esteriore, del suo "apparire", oppure come espressione mitica dell’agire atemporale di Dio, mero rivestimento simbolico dell’Essere trascendente.
L’evangelista Giovanni non cesserà di contrastare questa visione che estenua la presenza storica di Dio e che rende esangue il volto di Cristo, e lo farà soprattutto nelle sue Lettere, ribadendo che è possibile un’esperienza uditiva, visiva e tattile del «Verbo della vita» (1 Giovanni 1, 1-3), per cui la discriminante dell’autentica teologia cristiana è netta: «Ogni spirito che riconosce Gesù Cristo venuto nella carne, è da Dio e ogni spirito che non riconosce Gesù, non è da Dio. Anzi, questo è lo spirito dell’Anticristo» (4,2-3). «Sono, infatti, apparsi nel mondo molti seduttori che non riconoscono Gesù venuto nella carne» (2 Giovanni 7).
Il realismo dell’"incarnazione" diventa, quindi, una sorta di carta di tornasole dell’autenticità della stessa professione di fede cristiana, anche se il termine greco specifico sárkosis, "incarnazione", non appare direttamente nel Nuovo Testamento e sarà adottato per la prima volta nel II secolo dal Padre della Chiesa Ireneo nella sua opera Contro le eresie (3, 18,3; 19, 1-2) e diverrà comune a partire solo dal IV secolo, quando si accentueranno le discussioni e le diatribe cristologiche. Noi ora vorremmo accennare brevemente solo a due questioni contestuali, simili a cerchi che si aprono attorno a questo tema teologico giovanneo.
Il primo cerchio che isoliamo è il più ristretto, ed è quello che rimanda al resto del Nuovo Testamento, antecedente al quarto Vangelo a livello cronologico. Certo, non vi possiamo identificare l’esplicitazione che Giovanni fa del tema, ma i prodromi sono del tutto evidenti.
Per quanto riguarda gli altri Vangeli, cioè i Sinottici, la loro stessa impostazione narrativa, che parte dalla genealogia e dal racconto della nascita di Gesù (Matteo e Luca) e si sviluppa secondo una trama storica di eventi per approdare a una morte, è l’attestazione più limpida del legame intimo di Cristo con la "carne" fatta appunto di avvenimenti, tempo, spazio, esistenza. Egli è per eccellenza l’Emmanuele, Dio-con-noi, che procede spalla a spalla con l’umanità, rimanendo «con noi tutti i giorni, sino alla fine del mondo» (si vedano Matteo 1,23 e 28,20).
Interessante, a livello più teorico, risulta - sempre in questo cerchio - il pensiero di san Paolo. Non possiamo, ovviamente, approfondire i percorsi tematici che al riguardo egli ci offre e che sono sempre uno specchio della complessità e della ricchezza del suo pensiero. È, comunque, facile reperire nel suo corpus epistolare alcune dichiarazioni indirette: «Dio ha mandato il proprio Figlio in una carne simile a quella del peccato» (Romani 8,3); «Dio mandò il suo Figlio, nato da donna, nato sotto la Legge» (Galati 4,4); «uno solo è il mediatore fra Dio e gli uomini, l’uomo Gesù Cristo...; egli fu manifestato nella carne umana» (1 Timoteo 2,5; 3,16); «in lui abita corporalmentetutta la pienezza della divinità» (Colossesi 2,9); «il Figlio di Dio è nato dal seme di Davide secondo la carne... e dagli Israeliti proviene Cristo secondo la carne» (Romani 1,3; 9,5).
Questa sequenza testuale parla da sola. Riserviamo, però, un cenno specifico all’inno - forse prepaolino - che l’Apostolo incastona nella sua Lettera agli amati cristiani della città greca di Filippi. In quel testo, l’elemento capitale per il nostro discorso è in un contrasto tratteggiato dall’Apostolo.
Da un lato, c’è la discesa umiliante del Figlio di Dio quando s’incarna: egli precipita fino allo "svuotamento" (in greco kénosis) di tutta la sua gloria divina nella morte di croce, il supplizio dello schiavo, cioè l’ultimo degli uomini per poter essere, in tal modo, vicino e fratello dell’intera umanità.
D’altro lato, ecco l’ascesa trionfale che si compie nella Pasqua quando Cristo si ripresenta nello sfolgorare della sua divinità, nell’"esaltazione" gloriosa celebrata da tutto il cosmo e da tutta la storia ormai redenti. Questa visione grandiosa presenta innicamente sia l’umanità sia la divinità di Cristo, ed «enfatizza con solenne immediatezza - come scrive il teologo Giuseppe Mazza della Pontificia Università Gregoriana - lo scandaloso movimento dello svuotamento che si fa spoliazione, abbassamento e autoumiliazione» così che il Figlio di Dio possa «partecipare della natura umana, dissimile da quella divina».
Citiamo, comunque, le parole della descrizione paolina del movimento "discensionale" dell’Incarnazione: «Cristo, pur essendo nella condizione di Dio, non ritenne un privilegio l’essere come Dio, ma svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo, diventando simile agli uomini. Dall’aspetto riconosciuto come uomo, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce» (Filippesi 2,6-8).
C’è, tuttavia, un eventuale secondo cerchio contestuale più ampio e fluido che sarebbe quello anticotestamentario, legato a categorie rilevanti come le citate Parola e Sapienza di Dio, le quali sono realtà trascendenti che entrano e operano nelle coordinate della storia e del cosmo. Noi, però, vorremmo anche accennare al cerchio ancor più largo e dai contorni vaghi, quello delle culture religiose dell’antico Vicino Oriente e della classicità greca. L’epifania della divinità sotto forme o apparenze umane è nota anche a esse, ma ignoto rimane il concetto esplicito di "incarnazione".
Detto in altri termini, nessuna divinità greca diventa "un uomo" nel senso vero della parola. Adone, Tammuz, Osiride discendono nell’oltretomba e vi riemergono senza, però, assumere la natura e la condizione umana, ma solo per rappresentare miticamente il cielo naturistico stagionale.
L’"incarnazione" resta, perciò, un unicum cristiano, lontana anche da un parallelo remoto, talora evocato, quello induista degli avatara che sono l’assunzione di una forma corporea umana o animale da parte della divinità, assunzione varia e molteplice, ritmica e ciclica secondo il succedersi delle ere. Manca, quindi, in questa visione ogni puntuale e diretta immissione nella trama del tempo e nella realtà di una persona umana, propria dell’evento Gesù Cristo. Scriveva significativamente nel suo Diario il filosofo Ludwig Wittgenstein: «Il cristianesimo non è una dottrina, non è una teoria di ciò che è stato e di ciò che sarà nell’anima umana, ma è la descrizione di un evento reale nella vita dell’uomo».
Sul tema, in rete, si cfr.:
PER LA CHIESA CATTOLICA, SAN GIUSEPPE E’ ANCORA UN "GOJ", UNO STRANIERO
QUESTO MATRIMONIO S’HA DA FARE, DOMANI, E SEMPRE!!!
L’ANNUNCIO A GIUSEPPE, NELLA TRADIZIONALE LETTURA DELLA CHIESA CATTOLICO-ROMANA, DI GIANFRANCO RAVASI
RATZINGER ’A SCUOLA’ DEL VISIONARIO SWEDENBORG. Una nota di Leonard Boff e una di Immanuel Kant
ARCHEOLOGIA FILOSOFICO-POLITICA: L’ IMMAGINAZIONE "TE-ANDRICA" DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. RIPENSARE COSTANTINO, RIPENSARE IL "PRESEPE"...
PREGHIERA UFFICIALE PER L’INCONTRO MONDIALE DELLE FAMIGLIE 2018 *
Dio, nostro Padre,
Siamo fratelli e sorelle in Gesù, tuo Figlio,
Una famiglia unita dallo Spirito del tuo amore.
Benedici ognuno di noi con la gioia dell’amore.
Rendici pazienti e gentili,
Amorevoli e generosi,
Accoglienti con i bisognosi.
Aiutaci a vivere il tuo perdono e la tua pace.
Proteggi tutte le nostre famiglie con il tuo amore,
Specialmente coloro che ti affidiamo ora con la nostra preghiera:
[facciamo un momento di silenzio per pregare per i membri della famiglia e altre
persone che ci stanno a cuore, ricordandoli per nome].
Aumenta la nostra fede,
Rendi forte la nostra speranza,
Conservaci nel tuo amore,
Aiutaci ad essere sempre grati del dono della vita che condividiamo.
Ti chiediamo questo nel nome di Cristo, nostro Signore,
Amen
Maria, madre e guida nostra, prega per noi.
San Giuseppe, padre e protettore nostro, prega per noi.
Santi Gioacchino e Anna, pregate per noi.
San Luigi e Zelia Martin, pregate per noi.
*Fonte: https://www.worldmeeting2018.ie/WMOF/media/downloads/prayerA4-IT.pdf
* L’Incontro mondiale. «Famiglia, sfida globale». Ecco il senso dell’incontro di Dublino. L’arcivescovo Martin, primate della Chiesa d’Irlanda: Amoris Laetitia, messaggio di misericordia nella complessità. Uno spazio dedicato anche al soloroso tema degli abusi (di Luciano Moia, Avvenire, venerdì 17 agosto 2018: https://www.avvenire.it/chiesa/pagine/famiglia-sfida-globale-ecco-il-senso-di-dublino).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
GESU’ "CRISTO", GESU’ DI NAZARET. MA CHI ERA COSTUI?! CERTAMENTE IL FIGLIO DELL’AMORE ("CHARITAS") DI GIUSEPPE E DI MARIA!!! NON IL FIGLIO DEL "DIO" ("CARITAS") DELLA CHIESA AF-FARAONICA E COSTANTINIANA !!!
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. Lettera aperta a Israele (già inviata a Karol Wojtyla) sulla necessità di "pensare un altro Abramo".
Federico La Sala (18.08.2018)
DIFENDERE LA FAMIGLIA!? MA QUALE FAMIGLIA - QUELLA DI GESU’ (Maria - e Giuseppe!!!) O QUELLA DI EDIPO (Laio e Giocasta)?!
E tende la mano ai divorziati
Bergoglio fissa in 260 pagine la nuova “costituzione per le famiglie”
No ai matrimoni gay, ma nessuno deve sentirsi condannato o escluso
di Andrea Tornielli (La Stampa, 09.04.2016)
La Chiesa è chiamata «a formare le coscienze, non a pretendere di sostituirle». È la frase chiave dell’esortazione post-sinodale di Papa Francesco «Amoris laetitia», la gioia dell’amore, nove capitoli per oltre 300 paragrafi distribuiti in 260 pagine.
Testo lungo e articolato, che fa proprie le conclusioni degli ultimi due Sinodi e rappresenta quasi una nuova «carta costituzionale» per le famiglie del terzo millennio, in un tempo di grandi cambiamenti. Il tentativo, che emerge quasi in ogni pagina, è quello di un approccio positivo, che parte dalla complessità della realtà e dal superamento della logica della semplice «condanna» e della «lamentela» per ciò che non va. Non ci sono cambiamenti della normativa generale sui sacramenti per i divorziati risposati, ma Francesco, seguendo la via indicata dal Sinodo, insiste sul «discernimento» caso per caso e sull’«integrazione» degli «irregolari».
Amore tra i coniugi
Non manca l’analisi delle sfide, come quella rappresentata dalla cultura individualista che porta a non prendere impegni definitivi, o quella rappresentata dalla povertà o ancora da ritmi di lavoro così frenetici da impedire un minimo di vita familiare. Si definisce «inquietante» il tentativo di imporre ai bambini l’ideologia gender, viene ribadito il no all’aborto, si accenna alla «minaccia» dell’eutanasia, viene ripetuta a chiare lettere la contrarietà a ogni equiparazione tra matrimonio e unioni gay. Tra le pagine più interessanti e innovative quelle sulla sessualità, presentata come un «dono meraviglioso» di Dio, con una significativa autocritica per aver insistito troppo sul fine procreativo del matrimonio e non altrettanto sul suo fine unitivo. Per troppo tempo, infatti, la Chiesa ha tenuto, riconosce Francesco, un atteggiamento troppo difensivo, «con poca capacità propositiva per indicare strade di felicità». Nei due capitoli dedicati all’amore tra i coniugi sono contenuti una serie di consigli importanti ma anche più spiccioli, per mantenere viva la «gioia dell’amore», imparando giorno dopo giorno ad amare l’altro uscendo da se stessi.
Nel testo, dove trovano spazio citazioni di Jorge Luis Borges, Octavio Paz, Martin Luther King, Erich Fromm e si menziona il film «Il pranzo di Babette» come esempio di capacità di far godere gli altri, c’è ampio spazio dedicato all’educazione dei figli, da aiutare a crescere senza fare i «controllori», evitando la bulimia di smartphone e tablet che porta al rischio dell’«autismo tecnologico». Un intero capitolo, l’ottavo, è dedicato alle famiglie «ferite» e in particolare alla pastorale per i divorziati risposati. Francesco rilancia la necessità di «discernere» e di «integrare», deludendo sia chi chiedeva cambiamenti della norma canonica sull’accesso alla comunione, sia chi ribadiva che nulla può mai cambiare sulla disciplina dei sacramenti.
Caso per caso
Bergoglio ricorda che i divorziati in seconda unione, «possono trovarsi in situazioni molto diverse», non catalogabili in «affermazioni troppo rigide». Una cosa, ad esempio, è una seconda unione consolidata nel tempo, con nuovi figli, «con provata fedeltà, impegno cristiano, consapevolezza dell’irregolarità della propria situazione e grande difficoltà a tornare indietro senza sentire in coscienza che si cadrebbe in nuove colpe». C’è poi il caso di quanti hanno fatto «grandi sforzi» per salvare il primo matrimonio e hanno subito un abbandono ingiusto, o il caso di chi si è sposato nuovamente «in vista dell’educazione dei figli» e magari in coscienza è certo che il precedente matrimonio, «irreparabilmente distrutto, non era mai stato valido». Un caso completamente diverso, invece, è una nuova unione che viene da un recente divorzio, con tutte le conseguenze di sofferenza e confusione che colpiscono i figli e le famiglie intere, o la situazione di chi ha ripetutamente «mancato ai suoi impegni familiari».
Nessuno può dunque avanzare pretese circa i sacramenti, ma «non è più possibile dire - scrive il Papa - che tutti coloro che si trovano in qualche situazione cosiddetta “irregolare” vivano in stato di peccato mortale». Ecco dunque lo spazio per valutazioni caso per caso, nella discrezione del rapporto con il confessore, senza il rischio di introdurre una doppia morale, ma con la consapevolezza che scendendo nei casi particolari ci possono essere circostanze che attenuano le responsabilità personali. Nessuno deve sentirsi condannato, nessuno disprezzato, nessuno escluso.
ESORTAZIONE APOSTOLICA POSTSINODALE AMORIS LAETITIA DEL SANTO PADRE FRANCESCO AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE AGLI SPOSI CRISTIANI E A TUTTI I FEDELI LAICI SULL’AMORE NELLA FAMIGLIA
NEL CAPITOLO TERZO DELL’ "AMORIS LAETIZIA", intitolato "LO SGUARDO RIVOLTO A GESÙ: LA VOCAZIONE DELLA FAMIGLIA") così è scritto:
"(...) 70. «Benedetto XVI, nell’Enciclica Deus caritas est, ha ripreso il tema della verità dell’amore tra uomo e donna, che s’illumina pienamente solo alla luce dell’amore di Cristo crocifisso (cfr 2). Egli ribadisce come “il matrimonio basato su un amore esclusivo e definitivo diventa l’icona del rapporto di Dio con il suo popolo e viceversa: il modo di amare di Dio diventa la misura dell’amore umano” (11). Inoltre, nell’Enciclica Caritas in veritate, evidenzia l’importanza dell’amore come principio di vita nella società (cfr 44), luogo in cui s’impara l’esperienza del bene comune» (...)".
LA VERITA’ DELL’AMORE DEL "DIO MAMMONA" ("DEUS CARITAS") O LA VERITA’ DELL’AMORE DI "DIO AMORE" ("DEUS CHARITAS"?!:
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006).
Ma sulla famiglia la Chiesa è ferma
di Chiara Saraceno (la Repubblica, 09.04.2016)
NEL LINGUAGGIO amorevole e compassionevole cui ci ha ormai abituati, sollecitando anche qualche ingenua aspettativa, il pontefice ha ribadito la immodificabilità delle posizioni della chiesa cattolica in merito alla famiglia. L’amore e il sesso sono dimensioni positive dell’agire umano, purché avvengano entro il matrimonio tra un uomo e una donna. Bisogna evitare di mettere al mondo figli cui non si è in grado di provvedere, ma gli unici strumenti contracettivi legittimi sono quelli naturali, ovvero l’astensione dai rapporti sessuali nei periodi in cui la donna è fertile. Le persone omosessuali vanno accolte e non discriminate, ma i loro rapporti di amore e la loro sessualità non ha nulla a che fare con il «disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia». Il che è perfettamente accettabile per chi crede esista un tale disegno.
Non si capisce però perché, in nome di questo, la chiesa e lo stesso pontefice ostacolino e condannino chi vuole inserire queste coppie in una configurazione della famiglia che non trovi il proprio fondamento nel disegno di Dio, ma nella legislazione civile e nel principio di uguaglianza e non discriminazione, che include anche il diritto a farsi una famiglia. Non manca, nel documento papale, neppure un accenno di condanna alla fantomatica teoria del genere, da cui dovrebbero essere protetti i bambini, ribadendo la più o meno intenzionale incomprensione degli obiettivi cui mira una educazione critica sul genere.
L’unica parziale apertura riguarda i divorziati risposati e la possibilità che possano essi accedere ai sacramenti. Facendo propria e persino andando oltre la posizione espressa dalla maggioranza dei padri sinodali, il pontefice sostiene che non tutti i casi sono uguali, che la condizione di peccato non è necessariamente per sempre, ma va valutata caso per caso. È ciò che avviene già di fatto in molte parrocchie, ma l’affermazione del papa può essere letta come una vera e propria modifica dottrinale, nella misura in cui toglie il divorzio e i divorziati dalla condizione di essere una categoria omogenea, e irreversibile, di peccato e peccatori, per tornare ad essere singoli, con le loro specifiche ragioni e circostanze, che possono o meno essere perdonate e superate.
Non è un passaggio di poco conto. Così come non lo è l’autocritica per le durezze che la chiesa ha manifestato in passato. Ma, pur senza sottovalutare l’attenzione per le difficoltà che incontrano molte famiglie in condizioni di disagio, la persistente discriminazione nei confronti delle donne e il richiamo all’importanza di politiche sociali adeguate, sono gli unici due passaggi che presentano qualche apertura, su cui può continuare a lavorare l’opera di riflessione collettiva messa in moto dai due sinodi.
Corpo
Post-umano, troppo post-umano
di Nunzio Galantino (Il Sole-24 ore, Domenica, 03.04.2016)
L’approccio contemporaneo al tema del corpo pone più interrogativi di quanti, per esempio, non se ne ponessero nel mondo greco, dove il confine fra corpo e corporeità era per lo più segnato dalle sfumature della parola soma. In particolare, i pitagorici hanno costruito un’approfondita antropologia sui rapporti dell’anima con il corpo, che poi ha avuto risvolti e approfondimenti nella filosofia greca.
Oggi il confine fra il corpo e la corporeità si è spostato più in là toccando il post-umano, che inevitabilmente apre interessanti piste di ricerca per la bioetica. Dopo aver stabilito il legame inevitabile fra il corpo e l’identità personale, si può comprendere come mai il corpo venga sottoposto a interventi che lo modificano sia in maniera superficiale sia in maniera profonda: tatuaggi, piercing, fino all’ingegneria genetica. Il corpo finisce così per non essere l’espressione di una condizione immutabile, ma l’interfaccia di una comunicazione con gli altri esseri umani e con l’ambiente socioculturale, in una condizione continuamente in via di definizione. Questo scenario mutevole di corpo e corporeità, per certi versi positivo, quando incontra l’orizzonte culturale del post-umano va incontro a qualche rischio, a volte grave.
Lo scenario del cyber-corpo (la relazione che intercorre fra l’uomo e la macchina) rischia di far perdere il confine fra l’artefice e il prodotto, perché il cyborg, fusione fra macchina e il corpo organico, oggi più che mai, apre a tanti scenari possibili. È dinanzi a questi scenari che si giocherà una nuova partita con la bioetica e con l’identità personale dove la corporeità non prevede più l’armonia con il cosmo, kosmos, ma l’armonia è ricercata o interrotta nel rapporto con le macchine.
La teologia cristiana del corpo, che ha superato ogni deriva dualistica e che si è sviluppata nella fedeltà al dato biblico, contiene in sé tutti gli elementi per sostenere una svolta, anche radicale rispetto alla deriva che si è consumata e che, stando alla lucida analisi di M. Horkheimer e Th. Adorno, continua a consumarsi. Una svolta che dal “sentire” il corpo, come oggetto rifiutato o sfruttato, porti a “sentirsi” corpo.
La nostra realizzazione armonica non dipende, in primo luogo, dal fare (o disfare) un corpo inteso come semplice oggetto, ma nel farsi corpo, abitando il mondo come con-tatto, come appartenenza, come dono. Farsi corpo! La fede cristiana non consiste nel credere in Dio come oggetto pensabile, ma nel seguire il “metodo” del Dio incarnato, ossia nel “farsi” corpo.
NOTE SUL TEMA:
di Adriano Pessina (L’Osservatore Romano, 13 gennaio 2013)
Nel dibattito - che spesso assume i toni dello scontro - tra chi nega e chi afferma che le coppie omosessuali abbiano i medesimi diritti riconosciuti alla famiglia, il vero pericolo è la logofobia, cioè la paura di argomentare serenamente intorno a uno snodo teorico e pratico molto rilevante, sia sul piano culturale sia su quello sociale. L’interpretazione della recente sentenza della Corte di Cassazione italiana, che conferma l’affido di un minore alla madre, anche se convivente con un’altra donna, ne è un esempio. Tra chi esulta, parlando di riconoscimento dell’equiparazione tra coppie omosessuali e famiglia, e chi si scandalizza, pochi notano che si è semplicemente confermata la linea che, nei casi di separazione, tende ad affidare alla madre il compito di educare il figlio.
Persino la questione che un bambino possa svilupparsi in modo equilibrato anche all’interno di una coppia omosessuale è male impostata e non è il cuore del problema etico e giuridico. Di fatto un bambino può maturare in situazioni difficili e problematiche, cioè non di per sé auspicabili e programmabili: ci sono bambini allevati soltanto dalla madre o dal padre, per la morte di un genitore, o che hanno affrontato l’esperienza dell’orfanotrofio, o sono cresciuti in contesti poligamici. Ma nessuno ritiene che si debbano creare queste situazioni soltanto perché in alcuni casi non si provocano danni.
L’esito di un processo educativo è frutto di molti elementi. Il nodo teorico e pratico rappresentato dall’omosessualità è dato dal fatto che essa tende a negare, in nome di un orientamento, il valore e l’importanza della differenza tra il maschile e il femminile e la sua, per così dire, originaria dimensione antropologica. L’identità umana non è, del resto, determinata dall’orientamento in sé, perché la condizione umana è sempre polare, maschile e femminile. Una differenza che ha una fisionomia concreta, non soltanto psichica, o "mentale" o di ruoli sociali.
L’umano è il maschile e il femminile. La famiglia, con o senza figli, sperimenta nell’unione e nella relazione tra le differenze, la complessa articolazione del nostro essere persone umane. Per questo, e non soltanto per motivi biologici, la famiglia monogamica costituisce l’ideale luogo dove si deve imparare il significato delle relazioni umane, e rappresenta l’ambiente, non solo sociale, ma prima di tutto antropologico, in cui è possibile la migliore forma di crescita; e la sua crisi non è forse estranea al fatto che le persone con orientamento omosessuale vogliano costruire un legame di coppia sempre più simile a quello familiare, rivendicando un diritto ai figli e all’adozione che in realtà non esiste per nessuno, neanche per le coppie eterosessuali. I figli non sono cose o strumenti di realizzazione, sono persone.
Le stesse coppie omosessuali non possono negare questa differenza di genere, perché sono o maschili o femminili, cioè non eliminano la polarità come tale, ma la escludono dalla relazione con una scelta che, di fatto, è autoreferenziale. Se l’orientamento omosessuale come tale non è una scelta - come non lo è peraltro quello eterosessuale - e perciò non ha senso dare valutazioni sulle persone in base ai loro orientamenti, ed è ingiusta e immorale ogni forma discriminante, la scelta di una relazione è, viceversa, sempre un atto di libertà, che come tale assume una rilevanza sociale che va considerata.
Intorno a questo tema, le valutazioni morali, psicologiche, religiose, sociologiche, se non si trasformano in offese, sono legittimamente differenti, e devono avere diritto di cittadinanza e di piena espressione. Il dibattito che si sta sviluppando attualmente in Francia, dove alle coppie omosessuali sono garantiti diritti e doveri di natura patrimoniale e assistenziale, mette però in luce l’importanza di differenziare queste unioni dall’istituto familiare.
La peculiarità della genitorialità come espressione del matrimonio eterosessuale deve essere ribadita: non basta il desiderio o la volontà di avere figli a costituire un diritto, anzi, bisogna salvaguardare, come patto con le future generazioni, la custodia sociale e culturale di quell’unità nella differenza tra maschile e femminile che è dimensione costitutiva della condizione umana.
Nati da uomo e da donna. Se si esce dalla logica della polemica, e si rinuncia a creare nell’altro la figura del nemico da sconfiggere, questa evidenza antropologica potrà essere custodita in una società in cui il diritto di cittadinanza non discrimina, senza confondere e annullare le differenze.
La battaglia perduta della Chiesa
di Danièle Hervieu-Léger*
in “Le Monde” del 13 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il discorso ostile della Chiesa sul “matrimonio per tutti” conferma la sua incapacità di adattamento alle nuove vie della famiglia
Nel dibattito sul matrimonio per tutti, non sorprende che la Chiesa cattolica faccia sentire la sua voce. Sorprende di più che eviti con cura ogni riferimento ad una proibizione religiosa. Per rifiutare l’idea del matrimonio omosessuale, la Chiesa invoca infatti una “antropologia” che la sua “esperienza in umanità” le dà titolo di riferire a tutti gli uomini, e non solo ai suoi fedeli.
Il nocciolo di questo messaggio universale è l’affermazione secondo la quale la famiglia coniugale - costituita da un padre (maschio) e da una madre (femmina) e da figli che essi procreano insieme - è la sola istituzione naturale suscettibile di fornire al rapporto tra coniugi e tra genitori e figli, le condizioni della sua realizzazione.
Assegnando a questa definizione della famiglia una validità “antropologica” invariante, la Chiesa difende in realtà un modello di famiglia che essa stessa ha prodotto. Ha cominciato a dare forma a questo modello fin dai primi tempi del cristianesimo, combattendo il modello romano di famiglia che si opponeva allo sviluppo delle sue imprese spirituali e materiali, e facendo del consenso dei due sposi il fondamento stesso del matrimonio.
Nel modello cristiano del matrimonio - stabilizzato tra il XII e il XIII secolo -, si presuppone che il volere divino si esprima in un ordine della natura, assegnando all’unione il ruolo della procreazione e mantenendo il principio di sottomissione della donna all’uomo. Significherebbe far torto alla Chiesa non riconoscere l’importanza che questo modello ha avuto nella protezione dei diritti delle persone e dello sviluppo di un ideale di coppia fondato sulla qualità affettiva della relazione tra i coniugi. Ma la distorsione operata facendone il riferimento insuperabile di ogni coniugalità umana è così resa solo più palpabile.
Infatti questa antropologia prodotta dalla Chiesa entra in conflitto con tutto ciò che gli antropologi descrivono invece della variabilità dei modelli di organizzazione della famiglia e della genitorialità nel tempo e nello spazio. Nel suo sforzo per tenere a distanza la relativizzazione del modello familiare europeo indotto da questa constatazione, la Chiesa non ricorre solo all’aiuto di un sapere psicanalitico esso stesso costituito in riferimento a quel modello.
Trova anche, nell’omaggio insistente reso al codice civile, un mezzo per dare un sovrappiù di legittimazione secolare alla sua opposizione ad ogni evoluzione della definizione giuridica di matrimonio. La cosa è inaspettata, se si pensa all’ostilità che essa manifestò a suo tempo all’istituzione del matrimonio civile. Ma questa grande adesione si spiega se ci si ricorda che il codice napoleonico, che ha eliminato il riferimento diretto a Dio, ha però fermato la secolarizzazione alla soglia della famiglia: sostituendo all’ordine fondato in Dio l’ordine non meno sacro della “natura”, il diritto si è fatto esso stesso il garante dell’ordine immutabile che assegna agli uomini e alle donne dei ruoli diversi ed ineguali per natura.
Il riferimento preservato all’ordine non istituito della natura ha permesso di affermare il carattere “perpetuo per destinazione” del matrimonio e di proibire il divorzio. Questa estensione secolare del matrimonio cristiano operata dal diritto ha contribuito a preservare, al di là della laicizzazione delle istituzioni e della secolarizzazione delle coscienze, l’ancoraggio culturale della Chiesa in una società nella quale non le era concesso dire la legge in nome di Dio nell’ambito politico: l’ambito della famiglia restava infatti l’unico sul quale poteva continuare a combattere la problematica moderna dell’autonomia dell’individuo-soggetto.
Se la questione del matrimonio omosessuale può essere considerata come il luogo geometrico dell’esculturazione della Chiesa cattolica nella società francese, è dovuto al fatto che tre movimenti convergono in questo punto per dissolvere i residui di affinità elettiva tra la problematica cattolica e quella secolare del matrimonio e della famiglia.
Il primo di questi movimenti è l’estensione della rivendicazione democratica al di fuori della sola sfera politica: una rivendicazione che raggiunge la sfera dell’intimità coniugale e della famiglia, che fa valere i diritti imprescrittibili dell’individuo rispetto ad ogni legge data dall’alto (quella di Dio o quella della natura) e rifiuta tutte le disuguaglianze fondate in natura tra i sessi.
Da questo punto di vista, il riconoscimento giuridico della coppia omosessuale si inserisce nel movimento che - dalla riforma del divorzio alla liberalizzazione della contraccezione e dell’aborto, dalla ridefinizione dell’autorità genitoriale all’apertura dell’adozione alle persone celibi/ nubili - ha fatto entrare la problematica dell’autonomia e dell’uguaglianza degli individui nella sfera privata.
Questa espulsione progressiva della natura fuori dalla sfera del diritto è essa stessa resa irreversibile da un secondo movimento, che è la rimessa in discussione dell’assimilazione, acquisita nel XIX secolo, tra l’ordine della natura e l’ordine biologico. Questa assimilazione della “famiglia naturale” alla “famiglia biologica” si è iscritta nella pratica amministrativa e nel diritto.
Da parte della Chiesa, lo stesso processo di biologizzazione è sfociato, in funzione dell’equivalenza stabilita tra ordine della natura e volere divino, nel far coincidere, in maniera molto sorprendente, la problematica teologica antica della “legge naturale” con l’ordine delle “leggi della natura” scoperte dalla scienza. Questo schiacciamento rimane al principio della sacralizzazione della fisiologia che segna le argomentazioni pontificie in materia di proibizione della contraccezione o della procreazione medicalmente assistita. Ma, all’inizio del XXI secolo, è la scienza stessa che contesta l’oggettività di tali “leggi della natura”.
La natura non è più un “ordine”: è un sistema complesso che unisce azioni e retroazioni, regolarità e incognite. Questo nuovo approccio fa andare in frantumi i giochi di equivalenza tra naturalità e sacralità di cui la Chiesa ha armato il suo discorso normativo su tutte le questioni riguardanti la sessualità e la procreazione. Le resta quindi, come sola legittimazione esogena e “scientifica” di un sistema di proibizioni che ha sempre meno senso nella cultura contemporanea, il ricorso intensivo e disperato alla scienza degli psicanalisti, ricorso più precario e soggetto a contraddizioni, ce ne rendiamo conto, delle “leggi” dell’antica biologia.
La fragilità dei nuovi montaggi sotto cauzione psicanalitica attraverso i quali la Chiesa fonda in assolutezza la sua disciplina dei corpi viene messa in luce dalle evoluzioni della famiglia coniugale stessa. Perché l’avvento della “famiglia relazionale” ha, in poco più di mezzo secolo, fatto prevalere il primato della relazione tra gli individui sul sistema di posizioni sociali fondate sulle differenze “naturali” tra i sessi e le età.
Il cuore di questa rivoluzione, nella quale il controllo della fecondità ha una parte immensa, è la separazione del matrimonio dalla filiazione, e la correlativa pluralizzazione dei modelli familiari composti e ricomposti. Il diritto di famiglia ha omologato questo fatto importante e ineluttabile: ormai non è più il matrimonio che fa la coppia, è la coppia che fa il matrimonio.
Questi tre movimenti - uguaglianza dei diritti fin nell’ambito intimo, decostruzione del supposto ordine della natura, legittimità dell’istituzione ormai fondata sulla relazione degli individui - si cristallizzano insieme in una esigenza irreprimibile: quella del riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso, e del loro diritto, tramite l’adozione, di formare una famiglia.
Di fronte a questa esigenza, le argomentazioni sostenute dalla Chiesa - fine della civiltà, perdita di punti di riferimento fondativi dell’umano, minaccia di dissoluzione della cellula familiare, indifferenziazione dei sessi, ecc. - sono le stesse che furono usate, a suo tempo, per criticare l’impegno professionale delle donne al di fuori del focolare domestico o per combattere l’instaurazione del divorzio consensuale.
È poco probabile che la Chiesa possa, con questo tipo di armi, arginare il corso delle evoluzioni. Oggi, o domani, l’evidenza del matrimonio omosessuale finirà per imporsi, in Francia come in tutte le società democratiche. Il problema non è sapere se la Chiesa “perderà”: essa ha già perduto - molto al suo interno, e anche nella gerarchia lo sanno.
Il problema più cruciale che essa deve affrontare è quello della propria capacità di produrre un discorso che possa essere ascoltato sul terreno stesso degli interrogativi che si pongono sulla scena rivoluzionata della relazione coniugale, della genitorialità e del rapporto familiare. Quello, ad esempio, del riconoscimento dovuto alla singolarità irriducibile di ogni individuo, al di là della configurazione amorosa - eterosessuale o omosessuale - nella quale è impegnato.
E ancora quello dell’adozione, che, da parente povero della filiazione qual era, potrebbe diventare al contrario il paradigma di ogni genitorialità, in una società, in cui, indipendentemente dal modo in cui lo si fa, la scelta di “adottare il proprio figlio”, e quindi di impegnarsi nei suoi confronti, costituisce la sola difesa contro le perversioni possibili del “diritto ad avere un figlio”, che minacciano le coppie eterosessuali non meno delle coppie omosessuali. In questi diversi ambiti, ci aspettiamo una parola rivolta a persone libere. Il matrimonio omosessuale non è certo la fine della civiltà. Ma potrebbe costituire una pietra miliare drammatica quanto lo fu l’enciclica Humanae Vitae nel 1968 nel cammino verso la fine del cattolicesimo in Francia, se il discorso della Chiesa rimane solo quello della proibizione. E questa non è un’ipotesi solo teorica.
*Danièle Hervieu-Léger
Sociologa, Directrice d’études alla EHESS (Ecole des hautes études en sciences sociales). Ha diretto dal 1993 al 2004 il Centro di studi interdisciplinari dei fatti religiosi (CNRS/EHESS) e ha presieduto l’EHESS dal 2004 al 2009.
Ha pubblicato, tra l’altro: "Vers un nouveau christianisme" (éd. Cerf, 2008), "Le Retour à la nature" (éd. de l’Aube, 2005) e "Catholicisme, la fin d’un monde" (Bayard, 2003)
Padre Roy Bourgeois è stato espulso dalla società Maryknoll e ridotto allo stato laicale
di APIC
in “www.catholink.ch” del 21 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Padre Roy Bourgeois, militante per la pace e figura di contestatore dei missionari di Maryknoll, negli Stati Uniti, è stato canonicamente espulso dalla Società delle missioni estere cattoliche d’America. Questa decisione della Congregazione per la dottrina della fede è stata resa pubblica il 20 novembre 2012 dalla società missionaria americana. Ridotto allo stato laicale e scomunicato, Roy Bourgeois è stato destituito dallo stato clericale.
Padre Roy Bourgeois è conosciuto da anni a livello internazionale per la sua lotta a favore della chiusura della “Scuola delle Americhe” - un centro di addestramento dei militari latino-americani situato a Fort Benning, nello stato americano della Georgia.
Il prete, che apparteneva ai missionari di Maryknoll da quarant’anni, aveva partecipato il 9 agosto 2008 ad una cerimonia di ordinazione organizzata dal movimento delle donne prete cattoliche romane (Roma Catholic Womenpriests). Si trattava dell’ordinazione sacerdotale di Janice Sevre- Duszynska, un’ordinazione illecita non riconosciuta dalla Chiesa cattolica, in cui non ci sono donne prete.
Il religioso è stato punito per la sua partecipazione a questo simulacro di ordinazione che si è svolto in una chiesta appartenente alla “Unitarian Universalist Church” a Lexington, nel Kentucky. In seguito a questo atto illecito, padre Bourgeois aveva ricevuto una lettera dal Vaticano nel 2008 che lo minacciava di scomunica latae sententiae (cioè automatica) se non avesse ritrattato.
All’epoca era stato convocato alla sede della sua congregazione, a Maryknoll (New York), dove era stato ricevuto dal superiore generale di allora, Padre John Sivalon, e da altri due membri del Consiglio generale. Nel giugno scorso era stato ricevuto dall’attuale superiore generale, Padre Edward Doucherty. In quell’occasione non si era parlato della sua espulsione. Il giornale americano “National Catholic Reporter”, citando il padre domenicano Tom Doyle, “specialista di diritto canonico e difensore di Padre Bourgeois, scrive che la decisione romana è stata presa uniteralmente il 4 ottobre 2012.
L’ex prete di Maryknoll ha rifiutato piegarsi alla richiesta esplicita di Roma di rinunciare al suo sostegno all’ordinazione delle donne ed è rimasto fermo sulle sue posizioni. Ha risposto al Vaticano affermando di ritenere che Dio chiami al sacerdozio sia gli uomini che le donne e che, per lui, dichiarare una cosa diversa a questo proposito e ritrattare per salvare il suo sacerdozio o la sua pensione equivarrebbe ad una menzogna.
“Sono giunto alla convinzione che le donne possano essere ordinate anche nella nostra Chiesa cattolica”, aveva dichiarato il giorno dopo quella cerimonia controversa. In questi ultimi anni ha ovunque militato contro gli insegnamenti della Chiesa cattolica relativi al non accesso delle donne al sacerdozio.
In un comunicato, la società di Maryknoll si dice rattristata dal fallimento del tentativo di riconciliazione con la Chiesa cattolica voluto sia dalla congregazione che da Roma. La società missionaria “ringrazia calorosamente padre Bourgeois per il suo servizio alla missione, e tutti i membri gli augurano il meglio nella sua vita personale”. In spirito di equità e di carità, sottolinea la società, “Maryknoll assisterà Bourgeois in questa transizione”.
Il Gesù «storico» e le verità della chiesa
di Enzo Mazzi (il manifesto, 13 marzo 2011)
Rivela un affanno il nuovo libro su Gesù con cui papa Ratzinger si adopera a mostrare e dimostrare la storicità di Cristo e in particolare della morte-resurrezione di lui. Lo ammette chiaramente quando scrive: «La barca della Chiesa ... spesso si ha l’impressione che debba affondare». Ed ecco l’importanza della realtà pienamente divina e pienamente umana del Salvatore Gesù. È Gesù Cristo l’unico salvatore e la chiave della salvezza universale. Ed è la Chiesa cattolica governata dal papa e dai vescovi uniti al papa la custode unica e universale per tutti i secoli della chiave affidatale da Gesù. Tutta la ricerca umana di senso della vita e di salvezza materiale e morale sarebbe completamente inutili senza il Dio che si fa uomo e offre in sacrificio la sua vita.
Sono due millenni che queste «verità», questi assoluti, vengono ripetuti identici, declinati in codici espressivi diversi tradotti in tutte le lingue del mondo ma sempre nella sostanza uguali a se stessi: è Gesù l’unico salvatore universale attraverso il suo sacrificio perenne.
Di fatto del Gesù storico non si sa quasi nulla. Ormai è un dato acquisito nella teologia biblica non servile. I Vangeli non sono la storia di Gesù ma la riflessione teologica in forme narrative o rituali delle comunità cristiane del primo secolo in ambiente pagano. Inoltre è accertato ormai che le più antiche testimonianze scritte non sono i Vangeli canonici. Sono le tradizioni dei cosiddetti loghia, cioè dei «detti» di Gesù. Che prima sono stati tramandati oralmente nell’ambiente palestinese e poi sono stati inseriti nei Vangeli. Quei «detti» di Gesù sono «il Vangelo prima dei Vangeli». Poi il Vangelo dei detti di Gesù è andato perso perché gli scribi smisero di farne copie in conseguenza della fissazione autoritativa del canone.
Oggi si direbbe sbrigativamente che ha subito una censura. È stato recuperato o riscoperto nel 1838, attraverso un delicato lavoro di filologia, incastonato nei Vangeli canonici. È stato pubblicato solo nel 2007 in italiano dalla Queriniana in un volume a cura di un grande specialista,
James M. Robinson: I detti di Gesù.
Questo ritardo di quasi due secoli la dice lunga sulle resistenze poste dall’autorità ecclesiastica alla pubblicazione di un testo storico che mette in crisi le certezze dogmatiche.
Perché è importante questo Proto-Vangelo? Perché l’immagine di Gesù che se ne ricava è molto diversa da quella fissata nelle narrazioni canoniche dei Vangeli. E soprattutto è diversa l’immagine che si ricava del cristianesimo nascente. Non ci sono che nel sottofondo racconti di miracoli e soprattutto non c’è notizia dei fatti della nascita, della morte e della resurrezione. Questa assenza di eventi così fondamentali per i Vangeli canonici e poi per il dogma è impressionante.
L’accento è posto non sulla persona di Gesù ma sul messaggio e sul movimento messianico di impegno per la realizzazione del Regno di Dio. Il quale tradotto in termini moderni si potrebbe definire come movimento per un «mondo nuovo possibile».
Il Gesù del Proto-Vangelo è soprattutto un «figlio dell’uomo», che alla lettera può significare «Figlio dell’umanità», parte di un movimento storico di liberazione radicale. C’è in quel documento solo un’eco flebile del processo di mitizzazione della persona di Gesù che è appena agli inizi e che però presto sfocerà nella divinizzazione. È assente l’essere divino-umano, il dio incarnato che si sacrifica per redimere l’umanità peccatrice. Il quale invece sarà poi offerto soprattutto dalla Chiesa di Paolo al mondo pagano avido di sacro e di salvezza mistica.
Ovviamente le persone all’origine di questo Proto-Vangelo, che di bocca in bocca si tramandavano i detti di Gesù, conoscevano la morte di Gesù. Ma per loro la morte del profeta non aveva il significato di sacrificio. Non si sentivano impegnati ad annunciare la morte. «Seguimi e lascia che i morti seppelliscano i loro morti» è un’affermazione fondamentale del Proto-Vangelo. Non la morte né il sacrificio né il miracolo aveva cambiato la loro vita. Ma il messaggio culturalmente rivoluzionario di Gesù aveva dato un senso nuovo alla loro esistenza; in quello e non nel miracolo trovavano il senso della resurrezione; quel messaggio e l’esperienza di vita che c’era dietro si sentivano impegnati ad annunciare perché cambiasse la vita di molti e trasformasse radicalmente la società dando vita a un mondo nuovo.
La teologia sacrificale del Cristo che salva in quanto Figlio di Dio morto e risorto verrà dopo, quando il cristianesimo dovrà rivolgersi al mondo pagano. Sarà tale teologia la carta vincente, il fulcro del trionfo della nuova religione. Un trionfo però contestato da persone, anche sinceramente credenti, con senso critico, lungo tutta la storia, dall’antichità fino ad oggi, quale tradimento e devitalizzazione del Dna generativo del movimento di Gesù.
PEDOFILIA
Papa: "Siamo sconvolti da abusi preti
Il manto della Chiesa è nella polvere"
Benedetto XVI descrive il 2010 come "l’anno orribile", e cita Santa Iledebranda di Bingen per la quale "il restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti". "Siamo consapevoli della gravità. Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione al rinnovamento" *
CITTA’ DEL VATICANO - L’anno sacerdotale che si sta concludendo ha "sconvolto" il Papa e la Chiesa che sono venuti a conoscenza della "dimensione per noi inimmaginabile" degli abusi "commessi da sacerdoti contro i minori", abusi che "stravolgono il sacramento al suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita". Lo ha detto il Papa nel discorso alla Curia in occasione degli auguri natalizi.
Davanti allo scandalo degli abusi sessuali commessi dai preti, è necessario un cambiamento, ha continuato il Papa. "Dobbiamo accogliere questa umiliazione come un’esortazione alla verità e una chiamata al rinnovamento". "Negli anni Settanta, la pedofilia venne teorizzata come una cosa del tutto conforme all’uomo e anche al bambino", ha ricordato Benedetto XVI, sottolineando che tale visione permissiva "faceva parte di una perversione di fondo del concetto di ethos" a causa della quale "persino nell’ambito della teologia cattolica si asseriva che non esisterebbero né il male in sè, né il bene in sè. Esisterebbe soltanto un ’meglio di’ e un ’peggio di’. Niente sarebbe in se stesso bene o male. Tutto dipenderebbe dalle circostanze e dal fine inteso. A seconda degli scopi e delle circostanze, tutto potrebbe essere bene o anche male".
Secondo il Pontefice, "gli effetti di tali teorie sono oggi evidenti". "Siamo consapevoli - afferma - della particolare gravità di questo peccato commesso da sacerdoti e della nostra corrispondente responsabilità. Ma non possiamo neppure tacere circa il contesto del nostro tempo in cui è dato vedere questi avvenimenti".
"Il volto della Chiesa è coperto di polvere, ed è così che noi l’abbiamo visto. Il suo vestito è strappato, per la colpa dei sacerdoti". Benedetto XVI ha descritto così il 2010 orribile della Chiesa Cattolica, rivelando di aver ritrovato in una visione di Santa Iledebranda di Bingen per la quale "il restare aperte delle ferite di Cristo è la colpa dei sacerdoti".
"Essi - scrisse la mistica tedesca nel 1170 - stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della Legge, del Vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perchè trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perchè non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi".
Tutto questo, afferma Papa Ratzinger parlando a cardinali e vescovi della Curia Romana riuniti nella prestigiosa Sala Regia del Palazzo Apostolico, "così come lei l’ha visto ed espresso, l’abbiamo vissuto - ha detto il pontefice - quest’anno. Siamo stati sconvolti quando, proprio in quest’anno e in una dimensione per noi inimmaginabile, siamo venuti a conoscenza di abusi contro i minori commessi da sacerdoti, che stravolgono il Sacramento nel suo contrario: sotto il manto del sacro feriscono profondamente la persona umana nella sua infanzia e le recano un danno per tutta la vita".
Nel lungo passaggio di Santa Ildegarda di Bingen, il pontefice ha citato: "Le stimmate del mio sposo rimangono fresche e aperte, finché sono aperte le ferite dei peccati degli uomini. Proprio questo restare aperte delle ferite di cristo è la colpa dei sacerdoti. Essi stracciano la mia veste poiché sono trasgressori della legge, del vangelo e del loro dovere sacerdotale. Tolgono lo splendore al mio mantello, perché trascurano totalmente i precetti loro imposti. Insudiciano le mie scarpe, perché non camminano sulle vie dritte, cioè su quelle dure e severe della giustizia, e anche non danno un buon esempio ai loro sudditi. Tuttavia trovo in alcuni lo splendore della verità".
Per Benedetto XVI, "solo la verità salva". Per questo, ha sottolineato rivolto a cardinali e vescovi impegnati nel governo centrale della Chiesa, "dobbiamo interrogarci su che cosa possiamo fare per riparare il più possibile l’ingiustizia avvenuta. Dobbiamo chiederci che cosa era sbagliato nel nostro annuncio, nell’intero nostro modo di configurare l’essere cristiano, così che una tale cosa potesse accadere. Dobbiamo trovare una nuova risolutezza nella fede e nel bene. Dobbiamo essere capaci di penitenza. Dobbiamo sforzarci di tentare tutto il possibile, nella preparazione al sacerdozio, perché una tale cosa non possa più succedere".
Nel discorso di oggi, Papa Ratzinger ha infine ringraziato "di cuore tutti coloro che si impegnano per aiutare le vittime e per ridare loro la fiducia nella Chiesa, la capacità di credere al suo messaggio". "Nei miei incontri con le vittime di questo peccato - ha detto - ho sempre trovato anche persone che, con grande dedizione, stanno a fianco di chi soffre e ha subito danno. E’ questa l’occasione per ringraziare anche i tanti buoni sacerdoti che trasmettono in umiltà e fedeltà la bontà del Signore e, in mezzo alle devastazioni, sono testimoni della bellezza non perduta del sacerdozio".
"L’Apocalisse di san Giovanni - ha aggiunto il Papa teologo - annovera tra i grandi peccati di Babilonia, simbolo delle grandi città irreligiose del mondo, il fatto di esercitare il commercio dei corpi e delle anime e di farne una merce". L’appello del Papa è diretto a "tutte le persone con responsabilità politica e religiosa perché fermino la cristianofobia". I leader, ha chiesto ricordando la situzione in Medio Oriente, "si alzino a difendere i profughi e i sofferenti e a rivitalizzare lo spirito di riconciliazione".
* la Repubblica, 20 dicembre 2010
La "Santa Alleanza" tra Putin e il Patriarca
di Nicola Lombardozzi (la Repubblica, 20 dicembre 2010
Pare che la più entusiasta sia stata la signora Svetlana Medvedeva, first lady di Russia, che aveva presenziato a una messa propiziatoria del Patriarca Kirill in una chiesa di San Pietroburgo usata per anni come circolo degli ufficiali di Marina sovietici. E certamente il premier Vladimir Putin avrà baciato, come dice di fare ogni mattina, l’inseparabile crocefisso d’oro, dono della mamma, che indossa sempre sotto la camicia.
La grande promessa del premier e del tandem al potere è stata mantenuta: una legge, approvata dalla Duma con il solo no dei comunisti ha riconsegnato alla Chiesa Ortodossa l’immenso patrimonio sequestrato con violenza e senza scrupoli dal regime sovietico. Una speciale commissione sta già cominciando a occuparsi della restituzione dei beni. Si tratta di 1600 chiese ed edifici vari sparsi per il Paese e un tesoro ancora tutto da inventariare di oggetti sacri e icone custoditi nei più prestigiosi musei di Mosca e San Pietroburgo. Una vittoria storica per la Chiesa russa uscita dalla clandestinità appena vent’anni fa quando la decisione di Gorbaciov di restituire ai cittadini libertà di pensiero e di culto fece il giro del mondo e diede un ulteriore segnale della fine imminente dell’Urss.
Ma i giorni della festa e della commozione sincera di milioni di fedeli, delle lacrime versate durante la prima funzione nella cattedrale di San Basilio, sono lontani. La restituzione in un solo colpo di beni di enorme valore depredati nel corso degli anni ai fedeli di tutte le religioni crea inevitabilmente difficoltà tecniche, rivendicazioni e gelosie. E soprattutto, in un paese dominato per più di settant’anni dal laicismo di Stato, la brusca conversione del governo e dei suoi uomini più rappresentativi solleva polemiche e sospetti su una facile ricerca di consenso. O addirittura su una vera e propria santa alleanza con la Chiesa Ortodossa desiderosa di mantenere la supremazia ideologica e patrimoniale sulle altre Chiese.
Il caso più clamoroso è avvenuto nel territorio ex clave di Kaliningrad, l’ex Konigsberg patria di Kant, dove una donazione anticipata della locale amministrazione ha "restituito" agli ortodossi anche una chiesa cattolica tuttora sede della Filarmonica della città. Insieme alla protesta dei musicisti sfrattati si è levata ovviamente anche quella della minoranza cattolica guidata dai più anziani che ancora ricordano la brutalità dell ’esproprio e le messe clandestine celebrate di nascosto da coraggiosi sacerdoti braccati dagli agenti del kgb.
Più articolate, e non sempre limpide, le obiezioni tecniche. Quando nel 1922 nel pieno della carestia e della rivolta dei kulaki, Lenin ordinò di «espropriare i beni della Chiesa con la più brutale e selvaggia energia», monasteri, pii istituti e varie proprietà ecclesiastiche furono distrutti o riconvertiti. Molti divennero musei, altre ospedali, scuole, sale da concerto. "Riportarle alla loro destinazione originaria priverebbe lo Stato di strutture fondamentali e non immediatamente sostituibili", recita ad esempio un documento della Camera civile russa che si opponeva alla legge.
Ancora più forte la protesta dei direttori dei musei guidati dal responsabile dell’Ermitage di San Pietroburgo che si appellati a Medvedev nel vano tentativo di fermare il provvedimento. «Le collezioni dell’arte ecclesiastica russa raccolte nei musei rappresentano uno strato della cultura ortodossa che inevitabilmente perderà impatto frazionandosi nelle tante chiese di Russia», hanno scritto in una lettera aperta al Cremlino. E insinuano anche un altro dubbio: «Le chiese di Russia non sono in grado di preservare fragilissimi tesori d’arte che verrebbero destinati alla distruzione per inadeguatezza dei sistemi di conservazione e di restauro».
Niente da fare, la legge è già in vigore nonostante polemiche e mugugni. La svolta, voluta con forza da Vladimir Putin sembra ormai giunta al punto di non ritorno. E’ una svolta fatta di cose ma anche di simboli. Da tempo l’ex agente del Kgb che guida la Russia, ostenta sempre più una fede che per anni deve aver evidentemente tenuta segreta, facendosi sorprendere da troupe televisive ben informate, mentre prega in solitudine in qualche chiesetta di campagna. La sintonia di pensiero con il patriarca Kirill ha fatto il resto.
L’intervento di Putin ha fatto bocciare l’anno scorso l’abolizione della parola Dio nelle versione post sovietica dell’Inno nazionale. Sempre il premier si è battuto per il ritorno dell’ora di religione nelle scuole elementari, le modifiche alla costituzione per limitare i diritti delle comunità evangeliche tanto indigeste agli ortodossi. E adesso guarda con benevola condiscendenza alla proposta del Patriarca di chiedere che le leggi in discussione alla Duma vengano prima lette e commentate dalla Chiesa Ortodossa. Parere solo consultivo, ovviamente, ma che rappresenterebbe il passo decisivo verso il sogno nemmeno troppo nascosto del Patriarca: trasformare la sua Chiesa in una Chiesa di Stato.