Prima di Hannah Arendt denunciò Hitler come “banale Medusa” e intuì che trasgredire il rispetto per gli altri non è solo crudele, ma volgare
IL SACRO E GLI SBERLEFFI: COSI’ SI SCONFIGGE IL MALE
L’“Anticristo” di Joseph Roth nemico dei totalitarismi
di Claudio Magris (Corriere della Sera, 17.12.2010)
«Io l’ho riconosciuto, io lo smaschero... io perisco». Questa apocalittica e sprezzante denuncia attacca frontalmente l’Anticristo, l’avvento del Male quale signore del mondo che assume, come è detto nelle Scritture, le sembianze del Cristo, del bene, della virtù, del progresso. A strappargli la maschera è uno dei grandi scrittori del Novecento, l’austriaco Joseph Roth, che in quegli anni sta combattendo la sua donchisciottesca battaglia contro il nazismo e abbandonandosi a una regale e cenciosa autodistruzione con l’alcol, il pernod che gli toglie anni ma gli regala mesi.
L’Anticristo, uscito nel 1934 (ora ripubblicato da Editori Riuniti), è un guanto gettato in faccia al mondo intero e soprattutto alla modernità, un Giudizio universale che coinvolge e travolge l’autore stesso. Un libro platealmente fallito nel suo pathos che condanna in blocco soprattutto nazismo e fascismo, ma anche il comunismo, il socialismo, il capitalismo, la democrazia, la scienza e la tecnica, l’ebraismo che tradisce se stesso, la letteratura sperimentale e d’avanguardia, il cinema, Ade moderno che riduce gli uomini a ombre.
Ma ci sono naufragi letterari che irradiano una violenta forza rivelatrice, ben più di tante equilibrate navigazioni politicamente corrette e fiduciose nel progresso. Insensati se presi alla lettera, questi furiosi naufragi fanno capire, con la loro ottica stravolta, alcune verità del tempo che le persone e gli scrittori ragionevoli non vogliono vedere, perché sconvolgerebbero la loro fede nella possibilità di capire il mondo e dargli un senso.
Quando pubblica L’Anticristo, Roth, esule dalla Mitteleuropa in mano nazista, vive a Parigi; ha già scritto alcuni capolavori (Fuga senza fine, La marcia di Radetzky) e ne scriverà, nei pochi devastati anni che gli restano, altri (La milleduesima notte, La leggenda del santo bevitore) di una conturbante profondità incredibilmente lieve. Ma si dedica soprattutto a qualcosa di ben più importante, anche ai suoi occhi, della letteratura ossia al «buon combattimento » contro il trionfante Leviatano nazista.
Ben prima di Hannah Arendt, egli denuncia la squallida banalità del male. Definisce Hitler «una banale Medusa» e intuisce la gregaria mediocrità del male. Trasgredire il rispetto e l’amore per gli altri non è solo crudele, ma anche stupido e volgare, come le prevaricazioni scurrili dei goliardi presto avviati a diventare bravi borghesi o come gettare immondizie dal finestrino del treno.
La buona battaglia di Roth è pervasa dal sentimento sacro e fraterno dell’uguaglianza di dignità e di diritti di tutti gli uomini, contro ogni razzismo, esplicitamente condannato nell’Anticristo, e contro ogni aristocrazia - di sangue, di denaro e anche di cultura. È feroce contro il culto del genio artistico cui si dovrebbero accordare speciali riguardi e privilegi.
Difendendo, ad esempio, uno sconosciuto scrittore tedesco antinazista, David Luschnat, respinto dalla Svizzera dove aveva cercato rifugio, scrive che quest’uomo, privo di mezzi e di fama, aveva fatto la stessa cosa che aveva fatto Thomas Mann, avversare il nazismo e abbandonare la Germania, e che sull’eventuale differenza del loro valore letterario non era la polizia svizzera a doversi pronunciare.
Nei suoi ultimi anni, sempre più alcolizzato e più trasandato di un clochard, Roth ha difeso i più ignoti e poveri emigrati politici in Francia, perorandone la causa presso la polizia parigina con una carità mista a sprezzante arroganza verso i potenti e le autorità.
Bevitore e randagio, Roth ha avuto un senso profondo della sacralità di ogni vita e della fraternità umana, quella che non fa distinzione tra i fratelli più rispettabili e quelli più scapestrati. Se la sua condanna in blocco della modernità quale secolarizzazione è ingiusta e retoricamente predicatoria in tanti giudizi che misconoscono i reali progressi dell’uomo avvenuti nell’epoca moderna, la sua denuncia della perdita del sacro ha una sua inesorabile verità, oggi più che mai bruciante.
Sacro, per lui, non implica alcuna sublimità metafisica, alcuna ritualità, alcun ineffabile mistero. Il sacro è la semplicità della vita, del vino e del pane che egli- nella sua azzardata, talora mistificatrice ma geniale simbiosi fra ebraismo e cattolicesimo - trova a pari titolo in una piccola amata chiesa e in una piccola e ancor più amata osteria. Sacro è anche l’eros, mai pasticciato in ideologia della trasgressione, ma pervaso di anarchica passione e di rispetto per ogni corpo e ogni gesto umano. Non a caso al funerale di Roth c’erano tre vedove senza che ci fosse stato alcun divorzio, mentre la moglie regolarmente sposata, affetta da malattia mentale e ricoverata in un ospedale psichiatrico, sarebbe stata poco dopo assassinata dall’eutanasia nazista praticata sui disabili in nome di una delle tante versioni della «qualità della vita» , non è sempre ben chiaro di chi.
Ingiusto verso tante conquiste del progresso, Roth non ama le rivoluzioni ma sa bene - come scrive nell’Anticristo - che a scatenarle non sono gli oppressi ma gli ignobili oppressori; ha una forte propensione per la cattolicità ovvero universalità, ma non per il Santo Padre che accoglie l’Anticristo venuto ad offrirgli un Concordato né per il borghese- incarnazione per eccellenza, ai suoi occhi, dell’Anticristo - che dissimula la puzza di zolfo col profumo dell’incenso o con altri deodoranti morali.
Ingenuo nei suoi vagheggiamenti di impossibili alleanze tradizionaliste contro i fascismi, è geniale nell’individuare nel radicalismo- che rompe ogni vincolo - l’origine dei fascismi e della volontà di potenza; è pateticamente sprovveduto nei giudizi su liberalismo e capitalismo, ma acutissimo nel cogliere- allora!- la perversione di un capitalismo trasformato da sistema economico a visione del mondo; è spietato nell’avvertire, fra i primi, i cancri del comunismo, ma raccoglie il peso delle sofferenze da cui sono nate le domande poste dal comunismo e sferza come pochi le repressioni dei movimenti operai. Se sul cinema scrive delle vere sciocchezze, le staffilate sulla smania di farsi fotografare sorridenti sono l’epifania di un’umanità che ride ebete e soddisfatta sul cratere di un vulcano pronto a ridurla come Pompei.
Pur magniloquente e talora fastidiosamente oracolare, L’Anticristo aiuta a capire che il progresso dev’essere perseguito in tutti i campi possibili per il bene degli uomini, ma non può divenire una presuntuosa ideologia. È il disprezzo che riscatta l’enfasi di questo libro sfasato, ma dalla scrittura secca ed essenziale che ricorda il grande narratore e che è resa splendidamente dalla nuova versione di Cristina Guarnieri.
Quest’uomo esperto di demolizioni- a cominciare da quelle dei miseri alberghi che erano la dimora della sua esistenza errabonda - era anche un blagueur, un beffardo aedo di osteria che non prendeva del tutto sul serio neanche se stesso e le proprie geremiadi contro l’Anticristo, osserva Flavia Arzeni nell’eccellente introduzione, degna dei suoi originali studi sui rapporti fra letteratura tedesca e culture orientali.
La recita beffarda della sua vita caratterizzò anche il suo funerale, con la corona imperialregia giallonera deposta dagli esuli monarchici e i garofani scarlatti deposti dalla «Guardia Rossa» in onore del compagno Joseph Roth. Un funerale furtivo e grottesco che sarebbe piaciuto al bevitore vagabondo che si considerava l’unico autentico fedele dell’Imperatore, e dunque della tradizione, negando così ogni organizzazione politica legittimista e conservatrice. Questa irriverente buffoneria è il risvolto del senso del sacro.
L’uomo realmente religioso, scrive Alan Watts, è per eccellenza l’uomo dello sberleffo, dell’ironia, del riso, perché - sapendo che l’Assoluto è Uno, come dice la professione di fede ebraica - ride di tutti i piccoli idoli che goffamente e violentemente pretendono di essere dio. Non c’è nulla di così religioso quanto il riso, come insegnano le storielle ebraiche o quelle cattoliche di Chesterton. «Qualcosa per cominciare, Monsieur?», chiese una volta in un bistrot parigino un cameriere a quel cliente assiduo e spesso assai poco pulito. «No» , rispose Joseph Roth, «io non comincio, io sono finito».
EDITORI RIUNITI: SCHEDA EDITORIALE
L’Anticristo è un’opera scomoda, difficilmente classificabile, situata al crocevia di diversi generi letterari: dal romanzo alla saggistica, dalla scrittura diaristica a quella teatrale, dalla denuncia apocalittica e profetica al reportage giornalistico di viaggio. Un libro denso di storia, eppure fuori dal tempo, scritto in una prosa incalzante e vertiginosa, che narra le derive di cui è capace l’uomo confrontato alle tentazioni del potere.
Le figure dell’Anticristo che Roth smaschera assumono volti allegorici indimenticabili (il Patriota, l’Antisemita, il Conducente delle scope, eccetera). Su tutti domina il «Signore delle mille lingue», magnate proprietario dei giornali del mondo.
Al suo servizio il reporter J. R. attraversa i diversi paesi d’Europa visitando i tanti luoghi in cui l’Anticristo imperversa: la «Terra rossa», dove due «Scope» (la Rivoluzione e la Ragione umana) hanno spazzato via dal cielo Dio e la giustizia; la «Patria delle ombre» (Hollywood), il paese della fabbrica cinematografica in cui gli uomini sono divenuti ombre; e poi ancora le miniere, dove gli operai vivono interrati, dimentichi del cielo, incorporati nel carbone; i summit in cui si riuniscono i leader del mondo; le comunità religiose colme di fanatismo; il Vaticano; i giacimenti di gas saccheggiati per rifornire le guerre; infine, gli agghiaccianti scenari di un ghetto dove gli ebrei vivono in un raccapricciante intrigo con il Male. Mentre sorge un dio di ferro, l’incombente nazismo rimbomba su tutta l’Europa.
Un "romanzo" irregolare, la cui implacabile e appassionata denuncia non risparmia nessuno, e la cui storia è stata finora, forse proprio per questo, la storia di una rimozione: come se si perpetuasse l’esilio in cui venne scritto, L’Anticristo è del tutto inedito in Italia, ancora introvabile in lingua tedesca. Un’opera sconcertante per la potenza espressiva del suo linguaggio, per il lucido presentimento degli orrori imminenti (i gulag, i campi di concentramento e la guerra), per la scandalosa attualità del suo j’accuse rivolto ai media mondiali, ai politici, ai totalitarismi, alle dittature, a tutte le forme di ingiustizia sociale e di razzismo che infuriano nel mondo.
JOSEPH ROTH (Brody, 2 settembre 1894-Parigi, 27 maggio 1939). È stato uno scrittore e giornalista austriaco, di origine ebraica. Autore di romanzi famosi in tutto il mondo, come La leggenda del santo bevitore, da cui il regista Ermanno Olmi ha tratto il film omonimo, vincitore del Leone d’Oro al Festival di Venezia (1988). Roth è stato, insieme a Stefan Zweig, Arthur Schnitzler ed altri, il grande cantore della finis Austriae, della dissoluzione dell’impero austro-ungarico, una realtà politica e sociale che aveva dato a molti il senso di appartenere a un mondo intramontabile.
Il tema della «perdita della patria» attraversa le sue migliori opere, da La marcia di Radetzky (1932) a La cripta dei cappuccini (1938). Dal 1923 lavorò come corrispondente culturale per la Frankfurter Zeitung. Quando, anni dopo, gli fu affidato l’incarico di fare grandi serie di reportages, cominciò a viaggiare per il mondo, dall’Unione Sovietica all’Albania, dalla Polonia all’Italia, in una vita inquieta e raminga, passando da un hotel all’altro.
Con l’avvento del nazismo, nel 1933, fu costretto ad emigrare e i suoi libri furono dati alle fiamme. Trascorse gli anni dell’esilio fra Parigi e gli innumerevoli viaggi in altre nazioni, anche prolungati, tra cui i Paesi Bassi, dove potè pubblicare molte delle sue opere. L’Anticristo fu scritto nel 1934 e pubblicato infatti per una casa editrice di Amsterdam.
Introduzione di Flavia Arzeni, traduzione di Cristina Guarnieri.
ISBN 978-88-359-9017-8
Prezzo: 9.90 Euro
Pagine: 165
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL MESSAGGIO EVANGELICO, IL PARADOSSO ISTITUZIONALE DEL MENTITORE, E LA CATASTROFE DELL’EUROPA. “Come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo). DISTRUGGERE IL CRISTIANESIMO: IL PROGRAMMA DEL CATTOLICESIMO-ROMANO. LA LEZIONE CRITICA DI KANT. Alcune luminose pagine da "La fine di tutte le cose"
Mitteleuropa
Roth: Caro Stefan, combatterò le belve
Caro Joseph, non odierò nessuno
Anno 1933, in Germania il nazismo ormai è al potere. Due grandi intellettuali, entrambi austriaci, ebrei ed esuli, da Parigi, Bruxelles, Londra, tengono un carteggio rimasto finora inedito. Un documento straordinario sui giorni più bui del Novecento.
«La Germania è morta, per noi è morta. È stata solo un sogno, apra gli occhi, la prego!». Così scrisse Joseph Roth a Stefan Zweig nel 1933, l’anno della presa del potere di Hitler. È un momento chiave del carteggio tra i due grandi scrittori austriaci esuli che la casa editrice Wallstein di Gottinga (www.wallstein-verlag.de) ha appena pubblicato (Jede Freundschaft mit mir ist verderblich-Joseph Roth und Stefan Zweig, Briefwechsel 1927-1938).
Documento straordinario di cui pubblichiamo questi estratti. Confessioni, litigate e riconciliazioni tra i due offrono testimonianza e memoria uniche del dramma dell’intellighenzia mitteleuropea ed ebraica davanti all’ascesa del nazismo e degli altri totalitarismi. Due caratteri quasi opposti s’incontrano e si confortano nel destino comune dell’esilio: Zweig già scrittore di rango, benestante, con una tranquilla situazione familiare, Roth feuilletonista instabile e alcolizzato invitato invano dall’amico a smettere di bere.
Ma dei due è Roth spesso il più lucido, quello che capisce per primo e avverte l’altro della catastrofe in corso e del suo inevitabile epilogo tragico. Un’amicizia che si rompe anche per dissensi tra Roth più pessimista e Zweig possibilista, sullo sfondo della Seconda guerra mondiale imminente, e la storia di due vite distrutte di esuli. «Non diverremo vecchi, noi esuli», scrive Zweig quando Roth muore a Parigi. Nel 1942, Zweig stesso si toglie la vita a Petropolis in Brasile. (Andrea Tarquini) Lo storico è convinto che la guerra arriverà ma che ci sia ancora speranza. Più lucido l’autore di "Fuga senza fine": "Contro Goebbels e i milioni che lo seguono, contro queste iene sperare non ha alcun senso"
26 marzo 1933
(Hotel Foyot, Parigi)
«Caro amico, la prego di fare attenzione che le Sue lettere indirizzate a me viaggino attraverso la Svizzera. Alcune passano dalla Germania. Sono d’accordo con Lei. Bisogna aspettare. Non sappiamo quanto a lungo. L’ottusità del mondo è maggiore che nel 1914. Gli uomini non si commuovono più quando uomini feriscono e uccidono. Nel 1914 almeno da ogni parte ci si sforzò di spiegare la bestialità con motivi e paraventi umani. Ma oggi la bestialità si adorna di spiegazioni più bestiali della bestialità stessa. [...] Le sia chiaro: nella misura in cui una belva malata come Goering si differenzia da Guglielmo II che rimase sempre nell’ambito dell’umano, ecco, in questa misura il 1933 è diverso dal 1914».
J.R.
6 aprile 1933
(Hotel Foyot, Parigi)
«Caro amico, cerchi di capire finalmente che Lei è capro espiatorio per tutti i peccati degli ebrei, non solo per quelli di chi portò nomi simili al suo. Se Goebbels la confonde o no con un altro, per lui è indifferente. Lei per lui non è migliore né diverso [...].
Si faccia una ragione della realtà che i quaranta milioni che obbediscono a Goebbels sono ben lontani da fare alcuna differenza tra Lei, Thomas Mann, Arnold Zweig, Tucholsky o me. Tutto il nostro modo di vivere è stato vano. Lei non è confuso con altri perché si chiama Zweig, bensì perché è ebreo, bolscevico della cultura, pacifista, letterato della civiltà, liberale. Ogni speranza è insensata.
[...] Io sono un anziano ufficiale austriaco. Amo l’Austria. Ritengo vile non dire oggi che è venuto il tempo di provare nostalgia per gli Asburgo. Voglio riavere la monarchia, e voglio dirlo».
J.R.
30 ottobre 1933
(11, Portland Place, Londra)
«Caro amico, stiamo splendidamente bene, ho preso un bell’appartamento in affitto, lavoro al mattino e fino alle 15 in biblioteca, poi a casa. La gente qui è piena di riguardo e attenzioni, simpatica, il clima dei rapporti umani è incoraggiante anche per il lavoro. Lei, caro amico, si sentirebbe sicuramente molto meglio, molto più a suo agio qui che non a Parigi, o nella Sua solitudine. Io già da quattro settimane ho smesso di fumare, ciò mi giova molto, e d’altra parte colgo già molti sospiri di sollievo dal fatto di non ricevere notizie da casa. Suo nel cuore».
S.Z.
3 novembre 1933
(11, Portland Place, Londra)
«Caro amico, dopo giorni splendidi ne affronto di difficili. S’immagini, ho appreso di attacchi contro di me a Vienna e poi ho saputo, tre settimane dopo, che l’editore Insel ha pubblicato - senza chiedermi l’autorizzazione e senza nemmeno comunicarmi la decisione in anticipo - una lettera che io Le avevo scritto di Suo auspicio per evitarle problemi nella questione con Klaus M! [Klaus Mann, ndr]. Ho preso la decisione che da tempo mi pesava sul cuore, ho inviato una richiesta di pubblicazione della mia posizione al giornale A. Z. che deve uscire domani e La prego, se la vedrà, di chiarire tutto con tutti e inviarmi anche ritagli di attacchi alla mia persona, in modo che io possa reagire subito ed energicamente».
S.Z.
7 novembre 1933
(Rapperswill)
«Caro amico, da tutti coloro, senza eccezione, i quali hanno funzioni pubbliche per la Germania, con la Germania, in Germania, mi divide quel che distingue l’uomo dalla bestia. Contro iene puzzolenti, contro l’inferno, persino il mio vecchio avversario Tucholsky è mio compagno d’armi. Sento già l’obiezione: noi siamo ebrei. Sebbene io fui ferito al fronte [nella Prima guerra mondiale, ndr] dico no! Solo belve potrebbero accusarmi per aver allora versato il mio sangue. Resto nelle trincee come allora, combatto contro le belve per il genere umano».
J.R.
Tra l’8 e il 13 novembre 1933
(Londra)
«Caro amico non creda, La prego, che io sia un asino o un debole, a lasciarmi tollerare e insieme boicottare in Germania: per me conta mantenere la proprietà intellettuale del mio lavoro. Uno strappo come Lei sogna non servirebbe, non è possibile cancellare dal mondo i settanta milioni di tedeschi con la protesta, e temo che gli ebrei anche all’estero debbano prepararsi a qualche delusione, è facile concludere un patto alle loro spalle, dalla diplomazia mi aspetto ogni porcheria. Sono molto scosso da quanto su di me è stato scritto e fatto da "amici", negli ultimi giornali tedeschi sono usciti fulminanti articoli d’odio contro di me. Bisogna imparare a vivere soli e nell’odio, eppure non ricambierò odiando».
S.Z.
27 marzo 1934
(Londra)
«Caro amico, posso dirle che a causa di notizie da Parigi, a Vienna indagano sul mio conto, i giornali non possono pubblicare nulla di me. A Londra i giornali ti lasciano in pace, ma Lei stesso che vive a Parigi sa bene come io a Parigi devo ormai nascondermi. La prego non parli di queste righe con nessuno, altrimenti finirà in mano ai giornali francesi e dell’emigrazione».
S.Z.
13 aprile 1934
(Hotel Foyot, Parigi)
«Caro amico, è orribile che Lei non venga da me. Attraverso la crisi privata più grave. È la peggiore ora della mia vita, mi creda, e non è l’alcol».
J.R.
Maggio-giugno 1934
(Londra)
«Il mio pessimismo politico è smisurato. Credo alla prossima guerra come altri credono in Dio. Mi aggrappo a ogni ultimo brandello di libertà di cui possiamo ancora godere, pronuncio ogni mattino una preghiera di ringraziamento, perché sono libero, perché sono nel Regno Unito. Pensi alla mia gioia, in questo tempo di pazzi mi sento ancora abbastanza forte da impartire lezioni morali ad altri».
S.Z.
Maggio 1937
(Hotel Stein, Salisburgo)
«Caro amico, è inaudito come lei mi tratta. Lei ha il dovere di riconoscermi come amico, anche se non le scrivo da dieci, venti o mille anni».
J.R.
17 ottobre 1937
(Londra)
«Caro non amico, voglio solo dirle che finalmente grazie a Bertold Fles che ho visto ieri ho appreso qualcosa del suo lavoro. Non so come dirle come sarebbe secondo me importante per lei cambiare luogo e clima. Un saluto, e non dimentichi il suo infelice amante e amico respinto».
S.Z.
31 dicembre 1937
(Hotel Dinard, Parigi)
«Caro amico, la vecchia amicizia è ancora in piedi. Ma sto troppo male, non riesco a scrivere. Saluti di cuore, il suo fedele»
J.R.
Dicembre 1938
(49, Hallam Street, Londra)
«Caro Joseph Roth, Le ho scritto tre o quattro volte senza ricevere risposta, e credo in nome della nostra amicizia d’avere diritto di chiederle cosa vuol dirmi col suo silenzio... Forse sarò presto a Parigi, mi faccia sapere se preferisce che io la cerchi o che io la eviti, visto che Lei mi evita tanto... Il Suo silenzio è troppo evidente, lungo e impressionante perché io possa spiegarmelo pensando a un suo eccesso di lavoro. I migliori auguri dal cuore, e possa (malgrado tutto!) il prossimo anno essere non peggiore di quello che sta terminando. Suo»
S.Z.
* la Repubblica, 06.11.2011
Dialoghi sull’uomo nell’età dell’ipocrisia
di Ernesto Galli Della Loggia (Corriere della Sera, 5 marzo 2011)
L’ossessione della non violenza, il solidarismo egualitario, un cristianesimo ridotto a pura istanza etica. Sono alcuni tratti del senso comune dominante nella nostra epoca, contro cui si scagliava oltre un secolo fa il pensatore russo Vladimir Solov’ëv. La sua polemica preveggente contro l’ipocrisia del mondo moderno ci aiuta a smascherare il pericolo totalitario che spesso si cela proprio dietro le attese migliori dell’umanità.
Chi di noi non è un convinto sostenitore dei diritti umani, del diritto internazionale, della composizione pacifica dei conflitti? E chi mai vorrebbe, od oserebbe, opporsi a una redistribuzione della ricchezza attuata «venendo incontro ai desideri dei poveri senza scontentare in modo sensibile i ricchi» ? Nessuno presumibilmente, dal momento che almeno qui in Occidente i punti appena enumerati non fanno altro che riassumere il pensiero dominante della nostra epoca, il suo senso comune.
Proprio contro questo senso comune dell’epoca che è diventata per intero la nostra, ma che egli già intravedeva, Vladimir Solov’ëv scaglia i suoi strali avvelenati scorgendone e additandone l’origine e i risvolti a suo giudizio maligni. Con il che egli viene inevitabilmente a collocarsi ai nostri occhi in una posizione che dire ambigua è dire poco, e assume i contorni di un intellettuale maneggiabile solo con estrema cautela. Perché? Perché in sostanza il pensiero, il senso comune, della nostra epoca che tanto dispiacciono a Solov’ëv non sono altro che il pensiero e il senso comune della democrazia quale oggi la intendiamo e (più o meno) la pratichiamo. Sicché la conclusione appare obbligata: Vladimir Solov’ëv è un pensatore ostile alla democrazia, e il suo Breve racconto dell’Anticristo - che conclude i Tre dialoghi e dal quale sono tratti i capisaldi ideologici della nostra epoca che ho citato all’inizio - è un manifesto del pensiero antidemocratico.
Nel giardino di una villa dalle parti di Cannes Solov’ëv immagina che s’incontrino cinque personaggi della buona società russa - un Generale, un Uomo politico, un giovane Principe, una Dama di mezz’età e un signor Z (che palesemente impersona Solov’ëv) - e che essi allaccino una fitta conversazione sulle cose del mondo, che il nostro autore finge di restituirci divisa in tre parti: per l’appunto I tre dialoghi. Il Generale non solo rivendica contro il pacifismo la dignità morale del mestiere delle armi e della guerra; ma osa addirittura menare vanto della spietata vendetta che le truppe russe al suo comando fecero in una guerra contro i turchi per punirli della strage ai danni di un villaggio armeno. L’Uomo politico, invece, è il portavoce del «progresso della cultura che domina il presente». Egli sostiene che «oggigiorno il periodo storico della guerra è finito in Russia come dappertutto» (salvo forse nelle ultime contrade selvagge del pianeta), e afferma che invece di distruggere la Turchia bisogna piuttosto cercare di «incivilire i turchi con spirito di amicizia». Nel terzo dialogo la scena è occupata dal giovane Principe. In lui Solov’ëv intende ritrarre la figura del perfetto (e per lui odioso) tolstojano: e cioè l’apostolo della non resistenza al male, di un cristianesimo senza Cristo e senza la Resurrezione, ridotto a compiacimento pauperistico e a pura precettistica morale.
Collocato per ultimo, il dialogo annuncia il racconto dell’Anticristo da parte del signor Z, il quale ne accenna in una battuta, anticipandone il significato: «l’Anticristo... non sarà la semplice incredulità, né la negazione del cristianesimo, né il materialismo o qualcosa di simile, ma sarà l’impostura religiosa, allorché il nome di Cristo sarà sfruttato da tutte le potenze umane che nelle azioni e nello spirito sono estranee e direttamente ostili a Cristo e al suo Spirito» .
E in effetti «Un’impostura religiosa» potrebbe essere un ottimo sottotitolo per il racconto dell’Anticristo. Certamente è la formula che agli occhi di Solov’ëv meglio riassume la situazione dell’epoca presente e la condizione fatta in essa al cristianesimo. Secondo una prospettiva storica, aggiungo, che a me sembra ben più complessa e problematica di quella offerta dai vari anticristiani e/o antidemocratici contemporanei del nostro autore. La differenza sta nel fatto che Solov’ëv si accorge, o comunque esprime il fondato sospetto, che forse non è per nulla vero che il cristianesimo sia effettivamente la religione della democrazia, la sua reale base ideologica. È preso dal sospetto (o forse bisognerebbe dire dalla certezza) che soprattutto non è affatto vero che la progressiva diffusione del «buonismo» democratico - mi si passi l’uso del neologismo, che però rende bene l’idea - cioè la progressiva diffusione di un insieme di mode, di luoghi comuni, di atteggiamenti ispirati a una sorta di convenzionale filantropismo, di obbligatorio virtuismo, è preso dal sospetto/certezza, dicevo, che tutto ciò non abbia molto a che fare con la verità della predicazione evangelica; che anzi ne sia una subdola contraffazione.
Solov’ëv, insomma, mette a fuoco una profonda frattura realmente verificatasi nel corso dell’Ottocento. E cioè il fatto che il secolo - come ormai anche a noi è chiaro, al di là di ogni contraria apparenza - non ha assistito in alcun modo al trionfo dell’irreligiosità. Ciò che è accaduto è stato sì un grande attacco alla religione tradizionale, ma proprio da tale vuoto, innanzitutto per riempirlo, sono sorte un gran numero di nuove religioni, di fedi che al posto di Dio hanno collocato altrettante divinità posticce: la nazione, la classe, lo sviluppo economico. Naturalmente in ognuna di tali religioni laiche sono rimasti tratti dell’antica religione, ma in nessun’altra ciò è avvenuto come in quella che forse è stata la nuova religione di maggior successo: vale a dire la religione dell’Umanità, l’umanitarismo. Ed è questa fede atea, è l’umanitarismo, non il cristianesimo, la vera religione della democrazia.
Per Solov’ëv il rappresentante per antonomasia di questo atteggiamento è Lev Tolstoj. Non il Tolstoj romanziere, evidentemente, ma il Tolstoj divenuto con il tempo una sorta di vero e proprio papa laico, firmatario a getto continuo di manifesti di protesta contro la guerra, contro il patriottismo, contro la violenza, contro la censura, contro la Chiesa (e anche contro il liberalismo parlamentare, per la verità: da non dimenticare); anticipatore di tutte le mode «bio» ed «eco» ; primo intellettuale e guru mediatico della scena europea, destinato nell’ultima parte della sua vita a essere seguito costantemente da qualche obiettivo fotografico e da una corte di seguaci qualunque cosa faccia: mentre lavora i campi (per sottolineare la propria vicinanza ai contadini), o mentre si fabbrica le scarpe da solo (per mostrare la propria vocazione alla vita semplice). Insomma il Tolstoj moderno intellettuale umanitario in servizio permanente effettivo: per molti versi iniziatore o comunque antesignano, noi diremmo, del «politicamente corretto» .
L’Anticristo di Solov’ëv è una sorta di Tolstoj al quadrato. Si fa avanti sullo sfondo di una planetaria globalizzazione culturale, che assomiglia al «ripetersi en grand dell’antico sincretismo alessandrino», e nel momento in cui l’Europa, appena liberatasi dal giogo del «mongolismo» asiatico, sta organizzandosi in Unione Europea (sic). «L’uomo del futuro», come lo chiama Solov’ëv, possiede in misura incredibile talento, gioventù, bellezza, nobiltà, disinteresse, ma pur credendo nel Bene «non ama che se stesso», ed è impegnato nel suo animo in una torbida, furiosa, competizione con la figura di Cristo, dietro la quale si staglia l’ombra di Satana: «Sono io, io, non Lui! Lui non è tra i viventi e non lo sarà mai. Non è risorto, non è risorto, non è risorto». La sua fama - prosegue il racconto - si diffonde come un baleno in tutto il mondo in seguito all’enorme successo di un libro di straordinaria genialità che «mette d’accordo tutte le contraddizioni»: La via aperta verso la pace e la prosperità universale, titolo non certo casuale per gli echi allusivi che certo Solov’ëv ha in mente. Un titolo, altresì, che compendia di fatto il suo programma di governo una volta che «l’uomo del futuro» - il quale, apprendiamo, è «per professione scienziato nel ramo della balistica e per posizione sociale un ricco capitalista» - viene eletto prima presidente a vita degli «Stati Uniti d’Europa», quindi «imperatore romano», per poi dar vita niente di meno che alla «monarchia universale», al dominio sull’intero pianeta.
La «lega universale della pace», il primato del diritto internazionale, il divieto della vivisezione («l’uomo del futuro» è anche un convinto vegetariano!), una semplice e completa riforma sociale grazie alla quale «ciascuno cominciò a ricevere secondo le sue capacità e ciascuna capacità secondo i lavori e i servizi» e per finire «l’eguaglianza della sazietà generale»: a completare questa sorta di eden il Grande Democrate aggiunge l’ultimo tassello, il requisito indispensabile di un compiuto regime di massa: i circenses. Nella forma - immagina Solov’ëv - di una specie di televisione ante litteram dovuta all’«operatore di miracoli» Apollonio, capace di «captare e guidare a propria volontà l’elettricità dell’atmosfera» e così suscitare «i prodigi e le apparizioni più diverse e più sorprendenti»: insignito perciò a buona ragione del titolo di «cancelliere imperiale e gran mago universale».
All’imperatore del mondo manca ormai solo un’ultima impresa per realizzare il suo incontrastato dominio: la conquista del potere spirituale. E cioè la cancellazione del cristianesimo. È a questo punto, però, che la natura diabolica dell’Anticristo è costretta a smascherarsi e la situazione precipita verso il redde rationem. In un drammatico susseguirsi di colpi di scena, nel corso di un Concilio da lui appositamente convocato a Gerusalemme con il proposito di proclamarsi «unico difensore ed unico protettore» della religione cristiana, egli arriva a un passo dal realizzare i suoi intenti. Annichiliti dai poteri diabolici suoi e di Apollonio, nel frattempo nominato addirittura Papa, i massimi rappresentanti dell’ortodossia, del cattolicesimo e del protestantesimo, dopo aver denunciato pubblicamente la vera natura dell’Anticristo, appaiono ormai vinti e dispersi.
Quando però avviene l’impensabile: il popolo ebreo, che peraltro «non era del tutto estraneo alla preparazione e all’affermazione dei successi universali del superuomo», e che in precedenza si era spinto a riconoscerlo come il Messia, scoprendo la sua ennesima impostura, e cioè che egli non è neppure circonciso, si ribella. «Tutto l’ebraismo - scrive Solov’ëv, manifestando il proprio filosemitismo - si sollevò come un solo uomo e i suoi nemici scopersero con sorpresa che l’anima di Israele nel suo fondo non vive di calcoli e bramosie di Mammona, ma della forza di un sentimento sincero, nella speranza e il corruccio della sua eterna fede messianica».
È come se egli volesse farci capire che è lì, nel giudaismo messianico, l’inesausta riserva di quel monoteismo etico che, trasfusosi poi nel cristianesimo, ha impregnato di sé l’anima di tutto l’Occidente. Dalla rivolta del giudaismo, infatti, parte la riscossa che in breve condurrà alla rovina l’imperatore del mondo, il quale insieme alle schiere del suo esercito finirà la propria avventura demoniaca inghiottito in un lago di fiamme creato dall’improvvisa comparsa di un vulcano. Il racconto termina con la visione di Gerusalemme, nel cui cielo appare la figura del Redentore, mentre ebrei e cristiani, ricongiunti nella città santa, si accingono «a vivere con Cristo per mille anni». A questo punto il dialogo sulle rive del Mediterraneo riprende anche se per poco, e noi veniamo a sapere che, guarda caso, il giovane Principe tolstojano ha abbandonato la riunione proprio nel punto del racconto in cui l’Anticristo veniva smascherato. È lo stesso signor Z, infine, che s’incarica di dare la spiegazione di quanto è stato narrato, ricorrendo a un banale proverbio: «Non è tutt’oro quello che luccica», e aggiungendo: «Lo splendore di un bene artefatto non ha nessuna forza».
Non solo insomma la storia non contiene alcuna certezza di progresso, è dominata dall’ambiguità: ma tanto più lo è quanto più essa appare vicina a realizzare le attese migliori dell’umanità. Il demoniaco moderno - ormai la lezione del totalitarismo novecentesco ce lo ha insegnato - non è il Male in sé, bensì il Male abbigliato in altri panni, il Male travestito da Bene. Vladimir Solov’ëv è andato un passo oltre dicendoci che anche nei rassicuranti paesaggi della democrazia si aggira insidioso l’Anticristo, il compagno segreto delle nostre troppo laiche certezze.
L’Anticristo abita in America
Una figura centrale dell’immaginario apocalittico, oggi dimenticata in Europa, dopo la Riforma si è trasferita nel Nuovo Mondo.
Dov’è tuttora viva e vegeta
di Marco Rizzi (Corriere della Sera/La Lettura, 13.11.2011)
«Gesù Cristo è Dio, Obama è l’Anticristo». In Europa, un simile slogan farebbe ridere. In America, il presidente ha sorriso, ma ha ribattuto serio: «Concordo che Gesù è il Signore». La risposta non è banale: nelle Lettere di Giovanni, Anticristo è chi nega che Gesù sia il Signore. Non deve sorprendere la precisione di Obama: negli Stati Uniti, Bibbia ed escatologia sono molto presenti nel dibattito pubblico, a differenza di quanto accade in Europa. Per indagare le ragioni di questa divaricazione, occorre dunque seguire l’Anticristo nelle sue migrazioni.
Intorno al 170 d.C., ad opera di Ireneo di Lione, l’Anticristo assunse il volto del persecutore dei tempi finali, che dopo aver ricostruito il tempio di Gerusalemme sarebbe stato annientato dal ritorno di Cristo. Ireneo fuse in una sola le varie figure apocalittiche: il drago, l’empio, la bestia. Gli autori successivi moltiplicarono i dettagli del ritratto, aggiornandolo al mutare dei tempi.
Nel XII secolo, Gioachino da Fiore slegò la geografia dell’Anticristo da Gerusalemme, collocandone le gesta nel cuore della cristianità: a Roma. Voleva forgiare monaci che sostenessero il Papa nel vicino scontro con l’Anticristo, identificato con l’imperatore o il Saladino o i catari, e impedissero l’inaudito: che l’Anticristo non solo insidiasse il Papa, ma si insediasse al suo posto, attuando il più terribile inganno. Pochi decenni dopo, Federico II rovesciò la prospettiva; gli eruditi della sua corte decifrarono il numero della bestia: il 666 dell’Apocalisse indicava Innocencius papa, (Innocenzo III, avversario dell’imperatore). Un’arma polemica era pronta per tutti gli avversari del papato sino a Lutero, quando, ancora una volta, sembrava giunto il tempo ultimo: bisognava smascherare e combattere il nemico finale, il Papa e la Babilonia romana o Lutero e i suoi sgherri, a seconda del punto di vista.
Le rivolte contadine e anabattiste imposero cautela nel maneggiare un immaginario rivelatosi esplosivo. Calvino commentò tutta la Bibbia, non l’Apocalisse; la Chiesa romana al Concilio di Trento eliminò l’Anticristo dal suo vocabolario. La vicenda europea si consumò in Inghilterra; per motivare l’esecuzione di Carlo I nel 1649, William Aspinwall lo definì il «piccolo corno della bestia» del libro di Daniele; ma il rifiuto di Cromwell di seguirne il radicalismo apocalittico mostrò che il futuro dell’Anticristo era altrove.
Già i primi frati missionari in America Latina avevano rinnovato la topografia degli ultimi giorni: Francisco de la Cruz annunciò l’imminente castigo dell’Europa e la fuga del pontefice a Lima, la nuova Gerusalemme. Fu però l’America settentrionale a offrire stabile dimora all’Anticristo. Esuli dall’Inghilterra, i puritani vi portarono il loro afflato escatologico, avviando un’ininterrotta indagine sui segni della sua venuta dalla nuova prospettiva storico-geografica.
Nel 1793, David Austin identificò nei neonati Stati Uniti la «pietra staccatasi dalla montagna» che atterra la statua del sogno di Nabucodonosor nel libro di Daniele: a breve, il ritorno di Cristo avrebbe inaugurato il regno universale, non più di Dio, bensì degli Usa, portatori di libertà e giustizia.
Lì, non si è mai interrotta l’attesa della fine: nuove rivelazioni si aggiungono alle antiche profezie, indifferenti alle puntuali smentite, sino all’identificazione del marchio della bestia nel codice a barre dei supermercati. Ne risente la cultura di massa, da Rosemary’s Baby di Polanski alla trilogia anticristologica inaugurata nel 1976 da The Omen, al rovesciamento del racconto biblico in 2012 di Emmerich, dove i salvati non sono i giusti, bensì altrettanti anticristi che hanno tenuto all’oscuro dell’imminente fine del mondo il resto dell’umanità.
Nel 1927, Oswald Smith pubblicò a New York Is the Antichrist at Hand?, in cui si domandava se Mussolini fosse l’Anticristo o solo un precursore, ma annunciava la fine per il 1933. In quell’anno sinistro, alla domanda se Hitler fosse l’Anticristo, Dietrich Bonhoeffer rispose che era cosa troppo seria per riferirla ad un politico, fosse pure Hitler. Nel 1931, era apparso il romanzo Gog di Giovanni Papini: qui l’ultima incarnazione dell’Anticristo è un meticcio americano, nato alle Hawaii. Curiosamente, un personaggio che assomiglia a Obama.