La satira è un genere della letteratura, del teatro e di altre arti caratterizzato dall’attenzione critica alla vita sociale, con l’intento di evidenziarne gli aspetti paradossali e schernirne le assurdità e contraddizioni etiche.
Indice
1 Caratteristiche
2 Storia
2.1 La satira nell’antichità
2.2 Medioevo e Rinascimento
2.3 La satira oggi
3 Voci correlate
Caratteristiche
La definizione di satira va dettagliata sia rispetto alla categoria della comicità, del carnevalesco, dell’umorismo, dell’ironia e del sarcasmo, con cui peraltro condivide molti aspetti:
con il comico condivide la ricerca del ridicolo nella descrizione di fatti ed persone,
con il carnevalesco condivide la componenete "corrosiva" e scherzosa con cui denunciare impunemente,
con l’umorismo condivide la ricerca del paradossale e dello straniamento con cui produce spunti di riflessione morale,
con l’ironia condivide il metodo socratico di descrizione antifrasticamente decostruttiva,
con il sarcasmo condivide il ricorso peraltro limitato a modalità amare e scanzonate con cui mette in discussione ogni autorità costituita.
Essa si esprime in una zona comunicativa "di confine", infatti ha in genere un contenuto etico normalmente ascrivibile all’autore, ma invoca e ottiene generalmente la condivisibilità generale, facendo appello alle inclinazioni popolari; anche per questo spesso ne sono oggetto privilegiato personaggi della vita pubblica che occupano posizioni di potere.
Queste stesse caratteristiche sono state sottolineate dalla Prima sezione penale della Corte di Cassazione che, con la sentenza 9246 del 2006, si è sentita in dovere di dare una definizione giuridica di cosa debba intendersi per satira:
"È quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di ’castigare ridendo mores’, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere, mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene."
Storia
La satira nell’antichità
Le origini della satira nella letteratura europea si confondono evidentemente con quelle della letteratura comica, il cui inizio è attribuito tradizionalmente a Omero con il poema Margite. La commedia greca di Aristofane fa della satira politica un ingrediente fondamentale. Ma la vera codificazione come genere letterario, anche’essa frutto di una evoluzione italica parallela, avviene nella letteratura latina. La satira nasce tra il III e il II secolo a.C. ad opera di Ennio, e si può cosiderare il primo genere originale della letteratura latina, al contrario di tutti gli altri che erano di origine greca. La satira nasce come una polemica diretta ad obbiettivi mirati, molte volte con temi moraleggianti che riguardano i più svariati argomenti, questo succede perché non ha schemi fissi che le donano la rigidità tipica di altri generi, ma si basa interamente sullo stile dello scrittore.
Per approfondire, vedi la voce Satira latina.
Medioevo e Rinascimento
Nel corso dei secoli l’ossequio ai classici latini, in particolare Orazio, preservò la satira facendole superare la barriera linguistica della nascita di letterature in lingue regionali. La satira ebbe ampio uso nella poesia orale giullaresca di cui ci sono pervenuti alcuni frammenti scritti.
In particolare va notata la compresenza in Dante di un registro comico realistico in corrispondenza della critica corrosiva alle personalità che lo avevano disconosciuto ed esiliato, fino ad allargarsi a una visione critica dell’intera società a lui contemporanea.
La satira oggi
La corrosione progressiva del canone dei generi letterari, e della categoria stessa di letterario e non letterario ripropose nell’ultimo secolo la commistione di comico, umoristico nella satira. Solo nel corso degli ultimi secoli si allargò all’arte figurativa e ai nuovi media. Nel significato popolare contemporaneo, si tende ad identificare la satira con una delle forme possibili dell’umorismo e, in qualche caso, della comicità; talvolta, poi, si intende per satira anche, indiscriminatamente, qualsiasi attacco letterario o artistico a personaggi detentori del potere politico, sociale o culturale, o più genericamente vi si include qualsiasi critica al potere svolta in forma almeno salace.
Da un punto di vista strettamente letterario è pertanto assai difficile mantenere oggi una definizione stabile del genere letterario, se non in senso storico, poiché il pur sperabile dinamismo delle forme letterarie risente attualmente di una certa leggerezza e di una pesante ridondanza, non sempre disinteressate, nella classificazione.
Voci correlate
umorismo, la capacità di suscitare la risata.
* Wikipedia, l’enciclopedia libera.
ENCICLOPEDIA TRECCANI: SATIRA
"L’UMORISMO" DI PIRANDELLO: UN "URLO" MAGISTRALE PER BENEDETTO XV ... E BENEDETTO XVI.
PER RATZINGER, PER IL PAPA E I CARDINALI, UNA LEZIONE DI GIANNI RODARI. L’Acca in fuga
charlie hebdo
La vignetta di Charlie Hebdo spiegata a mia madre
di Fabio Salamida *
Chi scrive ha passato 9 anni della propria esistenza in una stanza di tre metri per tre, sotto una nube di fumo passivo, a scrivere per un noto programma TV satirico italiano in onda dal 1988.
Visto che oggi si e’ fatto un gran parlare di satira, ho deciso di fare uso privatistico di un mezzo pubblico e approfittare degli Stati Generali * per dialogare con mia madre su Charlie Hebdo e la famosa vignetta.
Mamma: “QUELLA VIGNETTA FA SCHIFO!”
Io: Giusto. Fa veramente schifo. E sai perché? Perche’ e’ la satira stessa a fare schifo.
Ti ricordi il più grande autore satirico italiano? No, non Maurizio Crozza. Dante Alighieri.
Ti ricordi, nell’Inferno, il trattamento riservato ai Simoniaci, incluso Papa Niccolo’ III, con il viso immerso nello sterco e il sedere all’aria? E Maometto? Altro che Charlie, Dante lo raffiguro’ aperto in due da un taglio verticale lungo tutto il corpo, con le interiora a penzoloni, a spruzzare sangue e nutrirsi tramite “il tristo sacco che merda fa di quel che si trangugia“.
E gia’ che ci siamo, ricordi i grandi commediografi che la satira se la sono inventata, a cominciare da Aristofane? Non sto a raccontarti le zozzerie narrate ne “Le nuvole” perché non finiremmo più, ma credimi: e’ dall’inizio dei tempi che, per sua natura, nelle opere satiriche troviamo incesti, atti di coprofagia, bestemmie, vilipendi di cadavere e tanti altri atti schifosi e schifosissimi.
Il fatto che la vignetta di Charlie Hebdo ti abbia fatto schifo ci dice quindi una cosa: che si trattava di vera satira.
Mamma: MA CROZZA A ME FA RIDERE! QUESTO SCHIFO NO!
Io: Giusto anche questo. E sai perché? Perche’ Crozza non fa satira. Quando parla emiliano e dice che vuole smacchiare il giaguaro, Crozza sta facendo la parodia di Bersani. Capisci? Parodia, non satira. La parodia e’ fatta per far ridere, e’ la sua ragione sociale. La satira a volte fa ridere, a volte no. La sua ragione sociale e’ indurre una riflessione. E’, insomma, una cosa diversa.
Al pari di Crozza, non fa satira neppure Fiorello o Ezio Greggio o Gene Gnocchi o uno a caso delle decine di comici che in anni recenti sono stati presentati come “comici satirici”. Se qualcuno li ha presentati come tali, e’ stato per effetto di un grande corto-circuito avvenuto in anni molto bizzarri, anni in cui anche uno come Enrico Bertolino - la cui battute hanno la stessa pericolosità del Danette Danone - veniva messo all’indice.
Giudicare la satira con il metro del “quanto mi fa ridere” e’ come giudicare un editoriale di un quotidiano con il metro del “quanto le natiche dell’editorialista sono sode”: non c’entra nulla.
Se tu preferisci farti una bella risata, e quindi alla satira preferisci la parodia, lo sberleffo, la faccetta, il doppio-senso, il cabaret tutto ciò e’ assolutamente normale: la satira e’ una nicchia che più nicchia non si può. Lo sa benissimo il conto in banca di chi la fa: infatti generalmente dopo un po’ la abbandona e passa a fare altro (Benigni, Grillo).
MA NON SI PUO’ FARE SATIRA SUI MORTI!
Piano un momento.
La satira, abbiamo visto, ha a che fare con lo schifo. Deve, per sua natura, suscitare una reazione forte, di pancia. Deve shoccare, nauseare. E come fa la satira a ottenere questo effetto? Attraverso la rappresentazione di immagini e simboli che una certa società, in un certo momento storico, ritiene sacri (altrimenti non ci sarebbe la reazione) che vengono usati, dal satirico, come mezzi per dire qualcosa su quella stessa società.
Se in una societa’ a essere considerato Sacro e’ il Clero, ecco che la rappresentazione del satirico avrà a che fare con i Papi (Dante Alighieri). Se Sacra e’ l’immagine del profeta, ecco le vignette a carattere religioso.
Da noi, che di sacro abbiamo pochissimo, la satira spesso si serve di bare e altre disgrazie. Attenzione pero’: l’obiettivo della satira, come detto, non sono certo le rappresentazioni.
Se si mostra Maometto su una nuvola che rivolto verso il basso dice “Insomma, basta! Abbiamo finito le vergini!” l’obiettivo non e’ certo lui e tantomeno l’Islam, quanto i kamikaze e la loro folle cultura.
Allo stesso modo, mostrando l’immagine delle bare di ritorno dall’Iraq o le macerie del Terremoto o...
I BAMBINI! L’ANNO SCORSO SE LA SONO PRESA CON I BAMBINI MORTI!!
...ecco, appunto, il bambino siriano morto in riva al mare. Ho visto che oggi le tue amiche lo hanno citato in lungo e in largo. Pero’ si sono dimenticate che quella vignetta non mostrava solo il bambino, ma - in lontananza - anche un cartellone di Ronald Mc Donald che pubblicizza l’Happy Meal.
Quella vignetta, in una sola immagine (che faceva “schifo” e si serviva di una rappresentazione “sacra”) mostrava il paradosso dei migranti che muoiono nel tentativo di raggiungere una Terra Promessa, dove la Terra Promessa altro non e’ che quel delirio di centri commerciali e fast-food, di sogni infranti e economie depresse, di pubblicita’ e consumismo sfrenato che e’ oggi l’Occidente - dove l’infanzia, per giunta, e’ ridotta a segmento di mercato da conquistare a suon di offerte tipo Happy Meal.
Se la vignetta sia riuscita o no e’ un altro discorso. Qui e’ bene che tu capisca che il senso non era ridere di un bambino morto, ma riflettere (di nuovo: riflettere e non ridere, perché si tratta di satira) attraverso quella morsa allo stomaco sul dramma di milioni e milioni di persone che si trovano nella stessa situazione di quel bambino, per le quali il nostro Inferno appare loro come il Paradiso.
Quindi, secondo te, era più offensivo Charlie Hebdo, o i tanti giornali e giornalisti subdoli che hanno usato quella foto per fare click-baiting e avere più visite, in modo da guadagnare più soldi dalla pubblicità incorporata nell’articolo (pubblicità’, vedi, proprio come il Mc Donald della vignetta) ?
Allo stesso modo, la vignetta di oggi non vuole fare ridere delle persone schiacciate sotto le macerie. Vuole usare quell’immagine per far riflettere (di nuovo: riflettere, non ridere, e’ bene ripeterlo fino allo sfinimento) sul fatto che in tutti i Paesi sviluppati ad eccezione dell’Italia un terremoto di 6.2 non ti uccide.
E se in Italia ti uccide e’ perché, a causa della mentalità italiana - rappresentata con uno degli elementi più italiani di tutti, ovvero il cibo - da noi, come diceva Flaiano, tutto e’ grave eppure nulla viene affrontato seriamente, tanto meno la prevenzione sismica.
Quando ci offrono 80 euro in più in busta paga, o ieri 1000 euro in più per ogni bebe’, invece di mandarli a fare in culo e dir loro di occuparsi di cose serie - come la messa in sicurezza degli edifici - corriamo in massa a dargli il nostro voto.
Quando vediamo le immagini di terremotati di 20, 30 anni fa che ancora vivono nei container invece di indignarci cambiamo canale (e infatti nel famoso programma satirico di cui sopra quando ci si occupava di terremotati i servizi andavano in onda al sabato, quando l’ascolto non conta, perché a metterli in settimana si andava incontro a terribili debacle in termini di audience).
Quando accadono tragedie come queste siamo pronti a mobilitarci e a dare prove di coraggio e solidarietà straordinarie, ma quando si passa all’ordinario torniamo quelli di sempre, una scrollatina di spalle, un “e che vuoi farci, siamo in Italia!” e continuiamo ad auto-assolverci, facendo finta di non vedere, facendo finta di non sapere, quando invece vediamo e sappiamo benissimo, si tratti di evasione fiscale o mafia o messa in sicurezza degli edifici...
Questo voleva dire Charlie Hebdo: che quei morti non sono morti di terremoto. Sono morti di Italia.
NON ME NE FREGA NIENTE! QUELLA ROBA VA PROIBITA!
Di nuovo: che tu dica questo non solo e’ giusto ma e’ pure naturale: del resto volevano proibire anche Aristofane e Dante. Proprio perché deve provocare reazioni forti, proprio perché palpeggia la societa’ nei suoi elementi sacri, e’ doveroso che essa si ribelli alla satira e ne chieda la testa. La richiesta di censura, per la satira, e’ come il Viagra. Sono le risatine forzate, i sorrisini a favore di camera dei politici da Floris quando Crozza li imita ad ammosciare l’autore satirico: non certo la minaccia di censura, che e’ cio’ per cui il satirico vive e per cui - come si e’ visto il 7 gennaio 2015 - e’ disposto a morire.
Ed e’ qui l’importanza decisiva che la satira gioca in una società: come una cartina di tornasole, la satira ne misura la liberta’ di espressione - di cui ci beamo quanto ci rapportiamo a modelli di società alternative alla nostra - che altrimenti sarebbe impossibile da determinare. Come fare, infatti, a capire quanto una società sia libera se le opinioni espresse sono tutte, più o meno, aderenti all’ideologia ovvero rispettose del Sacro?
E’ proprio attraverso l’aggressione del Sacro che la satira si carica su di se’ il compito - ingrato, viste le denunce, i licenziamenti, e da qualche anno pure gli attentati terroristici - di testare quotidianamente il valore fondante di ogni democrazia.
“Darei la vita per difendere la tua liberta’ di espressione, ma ti staccherei la testa per le idiozie che stai dicendo” diceva Voltaire (più o meno). La satira mette la società davanti a una sfida costante, ci obbliga ogni giorno a confrontarci con noi stessi, divide i fautori della società aperta da quelli della società chiusa, ci aiuta a capire chi dobbiamo eliminare dagli amici di Facebook.
Se una societa’ ha la forza di sopravvivere al disgusto provocato dalla satira, allora e’ una società libera. Ed e’ per quello che, un anno e mezzo fa, si gridava Je Suis Charlie. Non certo perché eravamo tutti diventati fans di una rivista che esiste da decenni ed era pure in crisi di vendite.
Ma perché e’ grazie anche a quella rivista se noi oggi possiamo definirci liberi. Chissà ancora per quanto.
*
di Raffaele Licino - ( Caratteri Liberi, settembre 3, 2016)
Sulla vignetta (sulle vignette) di Charlie Hebdo sul terremoto nel Centro Italia ho taciuto sinora. Ma ho letto - volente o nolente - centinaia di interventi su facebook, decine di articoli sui giornali, decine di dichiarazioni di politici (parecchi sedicenti politici), intellettuali e personaggi vari. Sono allibito. Ma non posso negare che me l’aspettavo.
C’è in giro un enorme vuoto culturale - una bolla di conoscenze approssimative, orecchiate, superficiali o elaborate per sentito dire, quando non del tutto inesistenti - su che cosa sia la satira, un vuoto che fa davvero paura.
Leggo di gente disgustata perché quelle vignette non fanno ridere. O perché quelle vignette sono se non irrispettose, offensive. O perché i morti vanno sempre rispettati (i vivi, no?). O perché colpirebbero solo le vittime, non i responsabili. E queste sono le prime, generalizzate ammissioni di ignoranza su che cosa sia - da secoli - la satira. Confusa con la comicità. Con le barzellette. Con l’umorismo. E talvolta con le vignette della Settimana enigmistica.
Satira che non dovrebbe essere aggressiva, cattiva, feroce, irriguardosa, non dovrebbe colpire come un pugno nello stomaco le ipocrisie, gli stereotipi, l’esercizio e i limiti del potere, i privilegi, le idiozie, le forme di sfruttamento e di subordinazione, non dovrebbe colpire i morti, i vivi, gli ammalati, le donne, i giovani, gli anziani, i sacerdoti, le religioni, i militari, i ricchi che fanno beneficenza, i ricchi che non fanno beneficenza, i governanti, i disoccupati, gli insegnanti, gli dei eccetera (e dunque, praticamente, non dovrebbe far pensare e anzi non dovrebbe esistere). No, la satira la si vuole soft, accomodante, piacevole, ammiccante, gentile, amica di tutti, un buffettino sulla guancia e via, e soprattutto, non deve scandalizzare, deve far ridere (sic!) o presentarsi in versione umoristica, altrimenti non è satira.
Tutte le opinioni - alcune difficili o impossibili da accettare - sono legittime, non mi iscrivo al partito che sostiene che non bisogna esprimere commenti anche quando sono commenti del tutto sbagliati, o approssimativi, o semplicemente “emozionali”, fondati su scarsa conoscenza della natura e dei compiti della satira, o anche mossi da un netto rifiuto del messaggio veicolato dalle vignette. Se uno dice o scrive “Quelle vignette non mi sono piaciute”, è nel suo diritto. E’ chiaro questo?
Ma se uno dice “Questa non è satira”, sta scrivendo una sciocchezza tipica di chi la questione o non l’ha mai studiata, o non l’ha mai capita, e usa per interpretare la satira proprio quelle categorie su cui la satira satireggia. Lui non lo immagina nemmeno, ma pronunciando quella frase, esprimendo quel concetto, si sta proponendo a sua volta come oggetto di satira.
Se poi uno dice: “Questa non è satira, dunque la smettano di disegnare vignette come queste”, allora siamo di fronte ad una delle forme di cui si nutre la censura, perché quell’uno non conosce la Costituzione (e mi fermo alla Costituzione), che nei suoi articoli garantisce la libertà di manifestazione del pensiero e di piena e totale elaborazione artistica e scientifica, e soprattutto non conosce la storia, o l’ha studiata solo come successione di dinastie, di battaglie e di date.
Per questo, e per altro ancora che non mi è possibile sintetizzare qui in un post breve, io continuo, motivatamente, ad essere Charlie e a lottare per il diritto pieno e irrinunciabile alla libertà di pensiero. Perché, se non lo avete ancora capito, la satira è arte. Come è arte Hieronymus Bosch, per fare solo un nome, l’arte di chi ha scelto di colpire gli altri violentemente e direttamente al cuore, allo stomaco, e al cervello.
SATIRA: “Composizione poetica che rivela e colpisce con lo scherno o con il ridicolo concezioni, passioni, modi di vita e atteggiamenti comuni a tutta l’umanità, o caratteristici di una categoria di persone o anche di un solo individuo, che contrastano o discordano dalla morale comune (e sono perciò considerati vizi o difetti) o dall’ideale etico dello scrittore”.
http://www.treccani.it/enciclopedia/satira/ (e almeno quest’articolo, leggetevelo tutto, male non fa)
Terremoto, il Comune di Amatrice querela Charlie Hebdo *
Il Comune di Amatrice ha depositato questa mattina, presso la procura del tribunale di Rieti, una denuncia-querela per diffamazione aggravata relativa alla vicenda delle vignette pubblicate dal periodico francese Charlie Hebdo. L’atto è stato presentato dall’avvocato Mario Cicchetti, in qualità di legale dello stesso Comune colpito dal sisma del 24 agosto.
Il periodico francese, nella prima vignetta dedicata al terremoto nel centro Italia, secondo quanto espongono nella querela i legali del Comune di Amatrice, aveva raffigurato le vittime del sisma "in modo tale da somigliare a degli stereotipati piatti della tradizione culinaria italiana", mentre una seconda vignetta "aveva attribuito la colpa della devastazione del centro Italia alla mafia". "Si tratta di un macabro, insensato e inconcepibile vilipendio delle vittime di un evento naturale", spiega l’avvocato Mario Cicchetti; "la critica, anche nelle forme della satira, è un diritto inviolabile sia in Italia che in Francia, ma non tutto può essere ’satira’ e in questo caso le due vignette offendono la memoria di tutte le vittime del sisma, le persone che sono sopravvissute e la città di Amatrice".
Ad avviso dello stesso legale "appare assolutamente configurabile la diffamazione aggravata e non si può ritenere in alcun modo sussistente l’esimente del diritto di critica nella forma della satira". Relativamente alla competenza territoriale, l’avvocato Cicchetti evidenzia "come il reato si sia, senza dubbio, consumato sul territorio italiano in quanto la condotta diffamatoria, per quanto intrapresa con la pubblicazione della vignette in Francia, si è perfezionata in Italia attraverso la loro percezione e diffusione sia sui media tradizionali sia sui social network".
Con la denuncia-querela si chiede che il Procuratore della Repubblica di Rieti disponga le indagini al fine di accertare se nella vicenda della pubblicazione delle vignette siano configurabili ipotesi di reato a carico degli autori, Felix e Coco, e dei direttori responsabili della testata.
* la Repubblica, 12 settembre 2016 (ripresa parziale).
DAL ’MONDO’ DEL "QUO VADIS?" AL ’MONDO’ DEL "QUO VADO?". PER UNA CRITICA DELLA LUNGA MARCIA DELLA CIVILIZZAZIONE VIDEO-CATTOLICA:
"QUO VADIS, DOMINE? - SIGNORE, DOVE VAI?): "LA FIABA E’ LA FIABA, LA FAVOLA E’ LA FAVOLA, IL ROMANZO DI FORMAZIONE E’ IL ROMANZO DI FORMAZIONE - E IL MESSAGGIO EVANGELICO E’ IL MESSAGGIO EVANGELICO
Note su "Quo vadis? (romanzo storico e film" e su "Quo vado?" (il film diretto da Gennaro Nunziante, interpretato da Luca Pasquale Medici, nei panni di Checco Zalone)":
A.
Di ritorno dalla regione di Tiro, passò per Sidone, dirigendosi verso il mare di Galilea in pieno territorio della Decàpoli.
E gli condussero un sordomuto, pregandolo di imporgli la mano.
E portandolo in disparte lontano dalla folla, gli pose le dita negli orecchi e con la saliva gli toccò la lingua;
guardando quindi verso il cielo, emise un sospiro e disse: «Effatà» cioè: «Apriti!».
E subito gli si aprirono gli orecchi, si sciolse il nodo della sua lingua e parlava correttamente.
E comandò loro di non dirlo a nessuno. Ma più egli lo raccomandava, più essi ne parlavano
e, pieni di stupore, dicevano: «Ha fatto bene ogni cosa; fa udire i sordi e fa parlare i muti!».
B.
INTERVISTA A Luca Pasquale Medici
Checco Zalone, dagli sms con Matteo Renzi al pranzo con Silvio Berlusconi: "Zalone starebbe sulle palle anche a me"
di Redazione (L’Huffington Post, 15/01/2016 - ripresa parziale)
Un successo trasversale, senza colori politici. Lo dimostrano gli sms con il premier Renzi e il pranzo a casa Berlusconi.
Forse, come racconta lui stesso in un’intervista a "Sette", Checco Zalone ha un solo difetto, un’eccessiva indulgenza verso gli italiani e i loro vizi. "È vero - dice a Vittorio Zincone - Di questo schifo che siamo noi italiani, penso che qualcosa vada salvato. È il motivo per cui ho successo. Non mi piace puntare il ditino dall’alto di un piedistallo".
Eppure, ormai, Zalone con Quo Vado?, è entrato prepotentemente nell’Olimpo del cinema italiano, quantomeno per i numeri strabilianti registrati ai botteghini, numeri che fanno da cassa di risonanza a un talento ormai appurato, attirando anche l’interesse del premier, che non nasconde di essere un suo fan.
Ma nella vita di Zalone non ci sono solo sms da Palazzo Chigi, ma anche un pranzo ad Arcore.
Poi il racconto della sua "storia" con Gennaro Nunziante, il regista con cui hai realizzato i suoi film.
Inevitabile un rapido passaggio sugli incassi delle pellicole: 14 milioni con Cado dalle nubi, 43 con Che bella giornata, 52 con Sole a catinelle, con Quo vado? più di 60.
Infine i complimenti da parte del ministro della Cultura Dario Franceschini e del regista Gabriele Muccino, entrambi concordi sul fatto che Zalone serviva al cinema italiano perché i soldi degli incassi possono essere spesi per finanziare film belli. Il pugliese si diverte.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
LA "PROFEZIA" DI MARSHALL MCLUHAN. Cedere occhi, orecchie e nervi a interessi commerciali è come consegnare il linguaggio comune a un’azienda privata o dare in monopolio a una società l’atmosfera terrestre.
LA QUESTIONE MORALE, QUELLA VERA - EPOCALE.
IL "ROMANZO DI FORMAZIONE" EUROPEO: LA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO DEI "DUE SOLI".
A un anno dalla strage
Ma Charlie è blasfemo?
di Carlo Melzi d’Eril e Giulio Enea Vigevani (Il Sole-24 Ore, Domenica, 10.01.2016)
Un anno dopo la strage, la copertina di Charlie Hebdo mostra l’immagine del carnefice: è Dio con il mitra in spalla, che ancora fugge con l’abito insanguinato. Questa è un’immagine blasfema? E, se blasfema, è illecita? Sicuramente aiuta ad avere gli strumenti per deciderlo un bel libro curato da Alberto Melloni, Francesca Cadeddu e Federica Meloni, Blasfemia, diritti e libertà, fresco di stampa per il Mulino. È un confronto tra storici, teologi, filosofi e giuristi sul tema della parola che offende il sacro: si va dall’evoluzione del concetto di blasfemia, al racconto di episodi di vilipendi storici - con qualche esempio in forma di immagine - e di persecuzioni, fino al tentativo di definire i limiti dell’intervento statale nella punizione. Il volume mantiene quel che Melloni promette nell’introduzione, ovvero «fornire [...] conoscenze giuridiche, politiche, storiche e teologiche che servano a comprendere e giudicare fatti, atti, ragioni, sfondi - incluso quello ambivalente della “blasfemia”».
Dai saggi non emerge una risposta univoca, anzi le posizioni sono diverse e a volte in contrasto tra loro. Ciò non ci pare discendere soltanto dalle credenze personali ma anche dalle differenti prospettive delle scienze di cui gli autori sono esponenti. Gli studiosi della società - antica o contemporanea - hanno un’ottica che consente di affermare l’inopportunità e financo la pericolosità di alcune espressioni oltraggiose, specie in alcuni passaggi storici o in contesti culturalmente non omogenei, con diversi gradi di tolleranza all’irrisione.
Il giurista, invece, lo evidenzia bene Giancarlo Bosetti, sembra avere una via maestra: quella di riconoscere che il diritto a non essere offesi nei propri sentimenti religiosi debba passare attraverso una porta stretta. Il poco spazio che gli ordinamenti liberali possono riservare ai reati a presidio delle fedi deriva dalla constatazione che le religioni sono anche dei poteri che condizionano la vita pubblica. E come ogni altro potere, esse meritano, con le parole di Rushdie citate da Mauro Gatti, «le critiche, la satira e tutta la nostra impavida irriverenza».
Del resto, in una società laica, le convinzioni religiose non hanno maggiore dignità e valore rispetto a quelle filosofiche, politiche o di altro genere. E quindi, come nessuno può invocare la forza dello Stato per offese a una propria qualunque ideologia, analogamente, in una società davvero aperta, i fedeli non hanno strumenti giuridici per opporsi alla critica, anche feroce o irrisoria, alle religioni, soprattutto quando queste non si curano solo d’anime.
A conferma di ciò, non è certo un caso che in Europa negli ultimi decenni le leggi che puniscono la blasfemia siano sempre meno e sempre meno applicate. E pure negli Stati Uniti, ove nel Primo Emendamento sono incise una accanto all’altra la neutralità nei confronti delle religioni e la libertà di parola, già negli anni ’50 la Corte Suprema ha stabilito che «lo Stato non ha alcun legittimo interesse a proteggere una qualsiasi religione, o tutte le religioni da espressioni a loro sgradite», come ricorda ancora Gatti.
La violenza contro Charlie ha mutato il clima e ha fatto sostenere a taluno, forse per un principio di prudenza, che vietare l’offesa alla religione fosse una buona soluzione.
Al contrario, grazie anche alla lettura del libro, a noi piace ancora un legislatore che rinuncia a usare lo strumento penale contro il blasfemo, invece di cercargli «l’anima a forza di botte», come nella Spoon River di De Andrè.
Mai più mi chinai e nemmeno su un fiore,
più non arrossii nel rubare l’amore
dal momento che Inverno mi convinse che Dio
non sarebbe arrossito rubandomi il mio.
Mi arrestarono un giorno per le donne ed il vino,
non avevano leggi per punire un blasfemo,
non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte,
mi cercarono l’anima a forza di botte.
Perché dissi che Dio imbrogliò il primo uomo,
lo costrinse a viaggiare una vita da scemo,
nel giardino incantato lo costrinse a sognare,
a ignorare che al mondo c’e’ il bene e c’è il male.
Quando vide che l’uomo allungava le dita
a rubargli il mistero di una mela proibita
per paura che ormai non avesse padroni
lo fermò con la morte, inventò le stagioni.
... mi cercarono l’anima a forza di botte...
E se furon due guardie a fermarmi la vita,
è proprio qui sulla terra la mela proibita,
e non Dio, ma qualcuno che per noi l’ha inventato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato,
ci costringe a sognare in un giardino incantato
ci costringe a sognare in un giardino incantato.
* FONTE: VIA DEL CAMPO - Testi NON AL DENARO NON ALL’AMORE...
UNA LEZIONE DI JOYCE (da "FINNEGANS WAKE").
OBBEDIENZA CIECA: TUTTI, PRETI, VESCOVI, E CARDINALI AGGIOGATI ALLA "PAROLA" DI PAPA RATZINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006). Materiali per riflettere (federico la sala)
Quando si poteva ridere degli Dei
I travestimenti di Dioniso, i tradimenti di Afrodite, i riti e le commedie.
Così gli antichi si prendevano gioco del divino
di Maurizio Bettini (la Repubblica, 23.09.2015)
Esistono religioni in cui ridere della divinità è possibile anche da parte di coloro che, contemporaneamente, questa stessa divinità la venerano: e ciò è considerato perfettamente “naturale”. Solo la nostra lunga, ben più che millenaria assuefazione ai quadri mentali delle religioni monoteistiche, fa sì che la possibilità di ridere della divinità ci sembri incompatibile con la pratica religiosa - tanto che, per poterlo fare, si deve necessariamente essere dei non credenti, persone che alla religione guardano da fuori.
Tutto al contrario, esistono religioni in cui ridere degli dèi è stata ed ancora è pratica comune. È quello che accadeva, per esempio, presso i Krachi, una popolazione della zona del Volta, in Africa, oggi parte dello stato del Ghana, nei cui racconti trovano posto una divinità che si allontana dagli uomini perché ogni mattino una vecchia la colpisce col pestello; o addirittura taglia un pezzetto del suo corpo per metterlo nella zuppa. A questo proposito Italo Calvino si domandava se «già in origine le religioni di questi popoli» non fossero «imbevute di realismo e di autoironia».
Ma anche senza uscire dal nostro ristretto orizzonte geografico, ossia l’Europa, basterà ricordare che anche la cultura antica, quella propria dei Greci e dei Romani, ammetteva tranquillamente la possibilità di ridere della divinità. Il fatto è che troppo spesso noi giudichiamo naturali, ossia propri della natura umana, abitudini e comportamenti che sono invece costruzioni culturali: tant’è vero che basta voltare pagina, nel libro delle culture, per scoprire che altri, diversi da noi, hanno avuto e hanno comportamenti diversi da quelli che noi riteniamo imposti direttamente dalla natura. Ed è questo il caso di quelle culture, come le antiche, in cui si poteva ridere degli dèi.
Siamo ad Atene, nel 405 a.C., in piena guerra del Peloponneso, un periodo particolarmente drammatico per la città. Per l’esattezza ci troviamo fra i mesi di gennaio e febbraio, giorni in cui si celebravano le Lenee, una festa dedicata a Dioniso (con l’epiteto di Leneo) in cui si svolgevano importanti agoni teatrali.
È questo il momento in cui Aristofane mette in scena le Rane , una delle sue commedie più celebri. La trama è la seguente. Accompagnato da un servo, Xanthias, il dio Dioniso decide di scendere all’Ade per riportare in vita il poeta Euripide, di cui è un ammiratore. Si tratta di un viaggio non privo di rischi, ragion per cui il dio decide di assumere l’identità dell’unico personaggio che, da vivo, è stato capace non solo di scendere all’Ade, ma anche di uscirne: ossia Eracle. Dioniso indossa dunque la pelle di leone, tipica dell’eroe, ne impugna la celebre clava, e così travestito si mette in cammino. La prima tappa è costituita, per l’appunto, da una visita a Eracle. Il quale però, vedendo Dioniso con indosso i suoi tipici attributi, non può far a meno di notare che, da sotto la gloriosa leonté , spunta il bordo di una tunica gialla, tipicamente femminile; e che la terribile clava si accompagna a una calzatura dal tacco alto, anch’essa femminile. «Non riesco a non ridere», commenta Eracle vedendo Dioniso combinato così. E con queste parole siamo già entrati nel nostro tema: ridere degli dèi.
Non si tratta però solo di Aristofane: l’uso di ridere degli dèi in Grecia è presente già a partire da Omero. Molti ricorderanno la celebre scena, narrata nell’Odissea, in cui Ares fa all’amore con Afrodite, che è presentata come sposa di Efesto. Ma il fabbro divino si è accorto del tradimento, per questo imprigiona i due amanti in una rete infrangibile - di quelle che solo lui sa costruire - e li espone al ludibrio delle altre divinità (Odissea 8, vv. 306 e ss.): «Padre Zeus e voi altri beati dèi eterni, venite a vedere l’azione ridicola e intollerabile, come sempre mi oltraggia Afrodite figlia di Zeus, me che sono zoppo, e invece ama Ares inviso e funesto, perché lui è bello e veloce, mentre io sono storpio». Ares e Afrodite, goffi amanti esposti al ludibrio degli altri dèi, sono personaggi ridicoli. Ridono gli dèi di questa scena, ma insieme agli dèi dell’Olimpo ridono anche i lettori dell’ Odissea.
È un fatto che il politeismo antico accetta una pratica - ridere della divinità - che stupisce (quando non indigna) noi uomini di oggi, islamici, cristiani o anche laici che della divinità, anche se le siamo estranei, abbiamo comunque ereditato l’immagine che per secoli e secoli ne hanno dato le religioni monoteiste.
Ora, se si guarda bene come funziona le religione antica, si vede che anche con il dio si possono stabilire prati-camente tutte le relazioni che sono attive anche fra gli uomini. Con la divinità si può comunicare attraverso la preghiera; l’offerta di frutti o il sacrificio di animali - ossia doni di carattere molto concreto - costituiscono una forma di omaggio ma anche di scambio, servono a stabilire amicizie e alleanze con la divinità; ancora, gli dèi antichi non sono solo tanti e molteplici, ma sono divinità presenti, lo sono nei templi della città, in quelli sparsi sul territorio, nelle case dei cittadini, che li onorano con il culto domestico, le loro immagini sono ovunque e di ogni forma. «Tutto è pieno di dèi», diceva Talete, la loro presenza fra i mortali è diffusa è continua.
Neppure la natura degli dèi, se ci si pensa bene, è radicalmente diversa da quella degli uomini: a differenza di questi essi sono esseri immortali, è vero, ma entrambe le stirpi, quella divina e quella umana, hanno comunque una stessa origine, tutte e due provengono da Gaia, la Terra. Gli dèi antichi sono non solo vicini agli uomini, sono soprattutto “partner” dei mortali, esseri potenti e immortali che però, a dispetto di ciò, possono anche porsi “in relazione” con gli umani sotto molteplici punti di vista. Ecco perché si può anche ridere di loro: allo stesso modo in cui si può averli in casa propria, proporre loro scambi offrendo frutti o animali, combatterli, amarli, sognarli. Perché ridere non è diverso da tutto il resto: prendersi gioco di qualcuno fa parte dell’intero bouquet di relazioni che gli uomini stabiliscono fra loro.
A questo punto non ci resta che concludere con un breve parallelo fra il modo in cui gli antichi hanno rappresentato i loro dèi e quello in cui le religioni dette monoteistiche si rappresentano invece la propria divinità.
Lasciamo da parte il cristianesimo, che si è costruito sul racconto di un Dio che si è fatto uomo per essere ucciso e così redimere i peccati del mondo: una religione come questa, che si fonda sulla passione e la morte del figlio di Dio, si oppone costituzionalmente alla possibilità di ridere.
Quanto al Dio ebraico e islamico - ma questo vale anche per colui che i Cristiani chiamano Dio Padre - a differenza delle divinità antiche questa non solo è unica, maè soprattutto lontana : è un dio che, in quanto costituisce l’origine di tutto ciò che esiste, ed è egli stesso il Tutto - increato ed eterno, infinito, assoluto - per lo stesso motivo è anche remoto, inafferrabile negli spazi siderali che costituiscono solo una particella della sua immensità. Con Lui non si interagisce offrendogli doni concreti, ma gli si rivolgono solo offerte metaforiche e spirituali. Di lui non esistono immagini, la sua è una presenza tanto totale quanto astratta, anzi, astratta proprio perché totale. L’unica relazione che con lui si può avere è di totale sottomissione, di piena accettazione ai suoi voleri, l’esecuzione della sua volontà in un progetto che è addirittura cosmico e, come tale, va ben oltre ciò che riguarda la minima presenza dei singoli uomini. Come si potrebbe ridere di una divinità come questa?
La parola è potente e il segno lascia il segno
di Michele Serra (la Repubblica, 11.01.2015)
QUASI MI VERGOGNO , adesso, del paio di querele per “vilipendio della religione” che meritai in quanto fondatore e direttore di Cuore, più di vent’anni fa. Scaramucce che mi parvero, ai tempi, grande battaglie. E non lo erano perché la civilizzazione ci ha portato, tra i suoi tanti vantaggi, quello della mediazione giuridica dell’offesa. Il massimo disturbo era cercarsi un buon avvocato. Il massimo rischio, perdere del tempo.
Quanto alla “religione” vilipesa devo aggiungere subito, perché non è un dettaglio, che la maggior parte delle (poche) seccature giudiziarie che ci toccarono, a Cuore, scaturirono non dalla suscettibilità dei bigotti, ma da quella delle aziende. La sacralità del Prodotto e del Marchio, già vent’anni fa, era decisamente superiore non solamente a quella degli déi; anche a quella degli esseri umani. Con Grillo - quando lavoravo con lui - avevamo stabilito, in sintesi, che offendere Andreotti era molto meno rischioso che offendere Coccolino.
Uso il verbo “offendere” perché non è intelligente né leale defalcare la satira a semplice attività spiritosa, innocuo divertimento. Non erano simpatici pagliacci, i caduti di Charlie Hebdo. Erano artisti e intellettuali che sapevano di usare un linguaggio di confine, non facile da pronunciare e neppure da capire: il malinteso, ogni satirico lo sa, è pane quotidiano.
Sapevano che la parola è potente e che il segno lascia il segno. E sapevano di rischiare la vita, perché la comunità degli offesi, nel loro caso, non riconosce la mediazione giudiziaria (che è dialettica per definizione). Conosce solo, per “lavare l’onta”, il sangue dell’altro. Ed è esattamente questo, per la nostra etica di civilizzati, l’aspetto mostruoso, rivoltante dell’accaduto: imbatterci nella risoluzione pre-civile, primitiva, di un contenzioso culturale.
Allora come oggi non ho mai condiviso, e neppure mai capito fino in fondo, che cosa intende dire chi dice che “la libertà d’espressione non può avere limiti”. Mi sembra una concezione davvero riduttiva della libertà, quasi una sua “neutralizzazione”. Un renderla - appunto - inoffensiva, comoda e facile per tutti, comprensibile a tutti.
Invece la libertà (da sempre!) è uno scandalo. Disturba e offende. Urta certezze e conformismi, irrita i repressi, scompiglia convenzioni sociali sedimentate. Il suo “limite” è il cozzo, costante, con sensibilità e usanze altrui. Si pensi, per fare solo un esempio, alla ricaduta sociale della rivoluzione sessuale degli anni Sessanta e Settanta: non è forse per rimediare a quella “offesa” - l’offesa della libertà - che parecchi maschi patologici picchiano e uccidono le loro compagne quando queste scelgono di liberarsi di loro? Non sono forse, costoro, i lanciatori di acido, gli accoltellatori, artefici di un terrorismo diffuso contro l’autodeterminazione delle donne?
E per non parlare sempre degli altri: anche io che sono ateo, e non ho tabernacoli da difendere, mi offendo sovente, per esempio per l’arroganza con la quale i bigotti giudicano strano e divagante il mio punto di vista, come se non fosse strano e divagante, piuttosto, venerare il calcagno di San Vattelappesca. Ma considero l’offesa - come dire - parte del mestiere di vivere e soprattutto del vivere in società. È un urto gestibile, mediabile, a volte addirittura utile perché innesca (capita, mi è capitato) un processo di comprensione reciproca. E qualora non trovassi requie alla mia offesa, potrei sempre rivolgermi a un giudice.
Perfino il duello - aggiungo - rientrava nella mediazione giuridica, sia pure in forma cruenta. Era ad armi pari e intriso, per i duellanti e i loro padrini, di un sentimento di lealtà tra chi si odia. Ripeto: lealtà tra chi si odia. Il contrario della vile esecuzione di inermi praticata, ormai su vasta scala, dagli assassini jihadisti.
Non è dunque l’offendersi di fanatici musulmani, siano essi pochi o tanti, il vero scandalo. Ogni essere umano e ogni comunità hanno pieno diritto di considerarsi offesi. Lo scandalo, di tale portata da configurarsi anche “tecnicamente” come una dichiarazione di guerra, è la totale incapacità di quegli offesi di accettare la loro offesa come parte integrante, inevitabile, vitale del confronto culturale e della mediazione giuridica. Vuol dire, tout court, negare alla radice il confronto culturale e la mediazione giuridica.
Ai tempi di Tango ( predecessore di Cuore) Sergio Staino sintetizzò in una vignetta-manifesto la questione satirica, che è poi un sunto “specializzato”, ma molto rappresentativo, della questione della libertà. Un Bobo guerriero, con lo spadone sguainato, lanciava il suo urlo di guerra. “Chi si incazza è perduto”. Sapeva bene, Bobo, che la satira è una spada, metaforica ma tagliente quanto basta a produrre ferite. E sapeva che può anche fare “incazzare”, che anche una matita può essere così ben temperata da diventare acuminata. Ma assegnava giustamente agli offesi il compito di gestire l’offesa.
All’epoca non potevamo immaginare che la gestione dell’offesa (la sua elaborazione, direbbe uno psicanalista) sarebbe diventata una questione di vita e di morte; nonché una questione di civiltà. Di vita e di morte della civiltà. Non “la nostra” civiltà: quella di chiunque riconosce la mediazione dei conflitti, ovvero la democrazia, come base della convivenza. Ci consola e ci illumina considerare che, nel vecchio slogan di Staino, “perduto” è chi si incazza. Chi perde il lume della ragione e del rispetto perde prima di tutto se stesso. Il fanatico è sempre perduto in partenza. Ha sempre perduto in partenza.
L’UMORISMO DI PIRANDELLO: LA FILOSOFIA DEL LONTANO. *
Nella teoria dell’umorismo di Pirandello, la figura che rimane impressa è quella del "forestiere dalla vita", colui che "ha capito il giuoco", e diviene un personaggio "fuori chiave", che ha preso coscienza del carattere del tutto fittizio del meccanismo sociale e si esclude, si isola, guardando vivere se stesso gli altri dall’alto della sua superiore consapevolezza, rifiutando di assumere la sua "parte", osservando gli uomini imprigionati dalla "trappola" con un atteggiamento "umoristico", di irrisione e insieme di pietà. É quella che Pirandello chiama "filosofia del lontano": essa consiste nel contemplare la realtà come da un’infinita distanza, in modo da vedere in una prospettiva straniata tutto ciò che l’abitudine ci fa considerare "normale", e in modo quindi da coglierne l’assurdità, la mancanza totale di senso.
* Mario Guarna, Filosofia del lontano, Bonanno editore, 2010.
Dopo aver telefonato ad Aldo, Giovanni e Giacomo: http://www.youtube.com/watch?v=_IsKQy7qDHo
Berlusconi interrompe l’Angelus del Papa [Video Youtube, 6 feb 2011]
Vignetta contro il Papa: Una santa indignazione?
di Alberto Senatore *
La vignetta presentata dal disegnatore Vauro, nella puntata di Annozero del 20 gennaio, ha scatenato un vespaio di polemiche. La causa: l’irriverente accostamento tra le presunte licenziosità di Silvio Berlusconi e la pedofilia clericale. Nel disegno, il Santo Padre parlando del premier dice: “ Se a lui piacciono tanto le minorenni, può sempre farsi prete “.
Le reazioni sono state immediate e risolute. In particolar modo, coloro che hanno come punto di riferimento spirituale la persona di Papa Ratzinger, si sono sentiti offesi e infangati. Il quotidiano d’ispirazione cattolica Avvenire, in un duro editoriale titola: “ Non si possono infangare i preti “. Don Maurizio Patriciello, un parroco della diocesi di Aversa scrive: “ Sono un prete. Un prete della Chiesa cattolica. Uno dei tanti preti italiani. Seguo con interesse e ansia le vicende del mio Paese. Sono un prete che lavora e riesce a dare gioia, pane, speranza a tanta gente bistrattata, ignorata, tenuta ai margini. Un prete che ama la sua Chiesa e il Papa .......... Sono un prete, non sono un pedofilo.” Condivido il rammarico e l’amarezza di don Patriciello. Forse è proprio nelle parole del parroco che si può intravedere la causa dell’atteggiamento di Vauro. Probabilmente il vignettista, a differenza di don Maurizio, non ama né la Chiesa né il Papa. La pedofilia clericale potrebbe essere una della ragioni di questo mancato amore.
Da segnalare anche l’iniziativa giudiziaria intrapresa dal sito cattolico Pontifex, che ha presentato una denuncia, a firma del suo direttore Bruno Volpe, alla questura di Bari contro l’autore della vignetta, ipotizzando il reato di “ offesa a capo di stato estero “. Reazione comprensibile, ma a mio modesto parere, imbarazzante e giuridicamente sbagliata. Imbarazzante perché contraria ai principi del Cristianesimo, infatti Gesù disse: dal Vangelo di San Matteo 5: 11 -12 “ Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti hanno perseguitato i profeti prima di voi. “ Sbagliata per due motivi. Il primo, perché non tiene conto della sentenza n. 9246/2006 della Prima sezione penale della Corte di Cassazione, in cui viene redatta la definizione giuridica della satira e della sua finalità. La sentenza afferma che la satira è “ Quella manifestazione di pensiero talora di altissimo livello che nei tempi si è addossata il compito di castigare ridendo mores, ovvero di indicare alla pubblica opinione aspetti criticabili o esecrabili di persone, al fine di ottenere mediante il riso suscitato, un esito finale di carattere etico, correttivo cioè verso il bene“.
Il secondo motivo è la formulazione del reato. La vignetta non “ offende “ il capo dello Stato Vaticano, ma la confessione religiosa che il Papa Ratzinger rappresenta, cioè la Chiesa Cattolica Apostolica Romana. Quindi, nella vignetta di Vauro, al massimo si può ipotizzare il reato contemplato nell’articolo 403 del codice penale ( Offese a una confessione religiosa mediante vilipendio di persone ), che prevede una multa da 2.000 a 6.000 euro. Se l’obiettivo di Pontifex è questo, Vauro risponderà con un’altra vignetta. in fede, Alberto Senatore. Giffoni Valle Piana 24 gennaio 2011
* Il Dialogo, Lunedì 24 Gennaio,2011 Ore: 14:14: http://www.ildialogo.org/lettere/indice_1295874956.htm
La satira e il bavaglio della politica
Umberto Eco, Filippo Ceccarelli, Simonetta Fiori, Plantu e Luciano Canfora commentano uno degli aspetti del regime vigente. La Repubblica, 21 aprile 2009 *
Satira
di Umberto Eco *
Da un po’ di tempo tutto quello che accade in Italia, e che crea subbuglio e inquietudine, è dovuto ai comici, alle molte vignette. Vi ricordate il tempo in cui i mali d’Italia erano denunciati dall’Espresso (capitale corrotta, nazione infetta), dall’opposizione , dalla magistratura? Finito. Che cosa accada in parlamento non interessa più nessuno (Berlusconi dice che non vale la pena di andarci per ripetere cose che sanno tutti). È sano un paese dove solo i comici danno il via alle polemiche, al dibattito, senza ovviamente poter suggerire le soluzioni? Ma, a ripensarci bene, questo non è dovuto al fatto che i comici stanno andando al parlamento, bensì al fatto che il governo è caduto in mano ai comici, o che molti che in altri tempi sarebbero stati figure da avanspettacolo sono andati al governo.
di Filippo Ceccarelli
Dopo il caso delle vignette di Vauro si riapre la discussione sui confini di questa arte antica e sul suo rapporto contrastato con il potere politico. «Satira è un piangere antico» proclamava Gaio Fratini, sommo epigrammista. Satira, insisteva, è credere all’arte «come esplosione, rovesciamento, irrisione. Satira è saper correre i cento metri sotto i nove secondi».
Ecco: nel tempo delle vignette proibite, forse è bene che tocchi proprio a un artista della parola, a un poeta, ricordare che questo scatto fulmineo, questa emozione dolorosa e questo potere dissacrante hanno tuttavia un prezzo: la censura, appunto, che della satira certifica il valore al di là di qualunque conseguenza.
E quindi al di là di pressioni, divieti, denunce, oscuramenti, addomesticamenti, soppressioni, emarginazioni, condanne, multe, anche galera, a volte. Tanto più netta e variegata la censura, quanto più ambigua la nozione di satira. E tuttavia, è la minacciata punizione che forgia la creazione satirica e ne alza il livello, e gli dà spessore.
«Alla Rai non esistono organi né attività di carattere censorio»: così, nel 1974, l’allora direttore generale Ettore Bernabei rispose a una pubblica lettera di Alberto Moravia. Non era tanto vero, essendo i dispositivi dissuasivi ieri e oggi in uso a viale Mazzini un po’ più complessi. Eppure colpisce, a distanza di oltre trent’anni, la serena risolutezza disciplinare con cui l’altro giorno l’odierno direttore generale Masi, nel suo primo atto pubblico, ha comunicato a Vauro la sospensione da Annozero.
Di solito i censori non sanno di esserlo, oppure riconoscono il loro ruolo dopo molto tempo; in genere quando è troppo tardi - ammesso che il potere stia lì a controllare l’orologio. Nel 1962 Bernabei bloccò uno sketch di Dario Fo e Franca Rame che a Canzonissima avevano messo in scena - c’era un padrone molto ricco e volgare e la sua vistosa amante impellicciata - la questione degli omicidi sul lavoro. C’erano appena stati dei violenti scontri a Roma tra polizia e lavoratori edili: «Non so se debba chiamarsi censura, del resto io non ho paura delle parole - ha poi ricordato Bernabei - Sì, censurai Dario Fo, non volevo fargli usare la tv per mettere le parti sociali una contro l’altra. Non me ne sono pentito per niente e se tornassi indietro lo censurerei un’altra volta».
Nel caso di Dario Fo, che negli anni a venire ebbe grane anche più serie - intimidazioni fasciste, questori che vietavano gli spettacoli con tanto di poliziotti in sala - molto porta a ritenere che esista una qualche correlazione tra i diversi sbarramenti della censura e successivo trionfo del premio Nobel.
Lo stesso Roberto Benigni, che pure a fatica si può designare autore satirico, ebbe i suoi guai e le sue purghe Rai. Quando all’Altra domenica, per dire, cantò l’Inno del corpo sciolto; e poi nel 1980, a Sanremo, per quel "Wojtylaccio" che gli costò addirittura un’incriminazione, oltre che la messa al bando dal video. E anche per Benigni è possibile che biasimo e controlli abbiano a loro modo affinato l’arte e quindi favorito il successo.
Ora, non si vuole dire che in futuro Vauro sarà studiato nelle scuole e nelle università. Non è obbligatorio farsi piacere la satira. Occorre piuttosto togliersi di mente l’equivoco che debba necessariamente far ridere, perché a volte deve far piangere, e comunque la satira più riuscita, la più tagliente e mordace e corrosiva, è quella che fa scoppiare di rabbia. E se è certo che prima o poi tutti i grandi e veri artisti, da Totò a Sordi passando per Eduardo, sono dovuti passare sotto il giogo della censura, altrettanto sicuro è che da questa prova sono usciti migliori perché le difficoltà frapposte dai censori - ottusi bacchettoni o autentici difensori del sacro che fossero - non solo aguzzano l’ingegno, ma lo purificano anche, rendendo la libertà più sacra della paura.
Fare satira senza rischi e senza sanzioni è troppo comodo, è uno spreco, una furbata che si accartoccia su se stessa. Ma siccome questo accade di rado, va a finire che le vittime non si contano. Per una caricatura di Carletto Manzoni, che sul Candido aveva ritratto il presidente della Repubblica Einaudi mentre passava in rassegna le bottiglie del vino da lui prodotto, Giovannino Guareschi (già condannato per certi falsi scritti di De Gasperi) finì in prigione. Alla Rai Vianello e Tognazzi ebbero diverse grane per aver fatto indignare Gronchi; Alighiero Noschese fu a lungo sorvegliato speciale; Beppe Grillo pagò cara una barzelletta sui socialisti craxiani; e sempre per una vignetta, nel 1999, Forattini si vide chiedere tre miliardi di lire dal presidente del Consiglio D’Alema.
Tra costi e benefici, sbarramenti ed equivoci, blasfemia e autoritarismi, la faccenda ha tutta l’aria di essere cominciata qualche millennio fa; e per uno di quei formidabili cortocircuiti che a volte la cronaca offre su un piatto d’argento nel 2002 accadde che al festival dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa Luca Ronconi avesse messo in scena Le rane di Aristofane arricchendo il fondale della scenografia con i ritratti di Berlusconi, Fini e Bossi, oltre a uno dei loro slogan nell’ultima campagna elettorale "La forza di un sogno". Bene: apriti cielo, insorse il sottosegretario Micciché, si vergogni il regista, disse, via quei personaggi! La questione venne poi risolta, pare su indicazione di Veronica Lario (che ha lavorato con Ronconi), grazie a un comunicato di Berlusconi che inneggiava alla libertà dell’arte, proclamava di «non sapere neanche cosa sia la censura» dichiarandosi addirittura preoccupato dell’«autocensura a dispetto».
Sono dichiarazioni da tenere a mente, sia pure con il dovuto scetticismo perché il potere è pur sempre soggetto alla tentazione di fare il suo oppressivo mestiere; e il colmo dei colmi è che a volte lo fa pure meglio in presenza di un automatico, gratuito e ridanciano cupio dissolvi.
di Jean Plantureux, vignettista di "Le Monde" *
Vignettista del giornale Le Monde dal 1972, Jean Plantureux - in arte "Plantu" - applica nel suo lavoro il principio della "autocensura". «Mi muovo su una sottile linea rossa, ho imparato a flirtare con il politicamente scorretto senza sposarlo sempre e comunque».
Cosa significa "autocensura"?
«Non esistono regole universali. Esiste un comune senso di responsabilità, che i vignettisti devono tutti avere, ma poi la concezione dell’ironia resta propria di ogni cultura, paese. In Algeria c’è per esempio un fantastico disegnatore, Dilem, che scherza sulle stragi terroristiche e sui morti sgozzati dagli integralisti islamici. Io non potrei mai farlo».
Non è così che, lentamente, si comincia a frenare la critica?
«Ciò che frena la critica e la polemica è piuttosto la dittatura della "fifa", la paura che domina la nostra epoca. Le faccio un esempio. A Parigi è stato appena censurato il manifesto sull’ultima retrospettiva dedicata a Jacques Tati. Nell’immagine si vedeva il suo mitico personaggio, Monsieur Hulot, con in bocca l’inseparabile pipa. I benpensanti si sono opposti».
Se ci fosse stato un terremoto in Francia cosa avrebbe disegnato su Le Monde?
«Nei primi giorni, probabilmente non mi sarei permesso di mischiare tragedia e ironia. Nel 2001, quando c’è stato l’11 settembre, per quindici giorni ho disegnato solo personaggi che piangevano. Al quindicesimo giorno ho pubblicato la mia prima vignetta polemica, per dire che erano stati gli americani ad armare i Taliban».
Subisce molte pressioni o censure nel suo lavoro?
«L’ultima volta mi è successo un mese fa, quando ho disegnato il Cristo dopo la "moltiplicazione dei preservativi", anziché dei pani, assieme al Papa ovviamente critico e al cardinale Williamson che diceva: "Tanto l’Aids non è mai esistito". In redazione, sono arrivate le rimostranze del Vaticano, ma anche da lettori italiani e da associazioni americane».
Una telefonata di Sarkozy l’ha mai ricevuta?
«Il presidente mi ha scritto qualche volta per protestare. Ma quasi sempre si rivolge al direttore e il caporedattore del giornale che, per fortuna coprono e difendono il mio lavoro. A me direttamente ha detto che non gli piaceva essere raffigurato con delle piccole mosche che svolazzano sopra alla sua testa».
E perché ci sono degli insetti sopra alla testa di Sarkozy?
«Perché ha detto di voler parlare con la "pancia". Quando hai le trippe di fuori, basta un po’ di sole per far svolazzare le mosche. Ma non dico che Sarkozy abbia sbagliato a chiamare: è un suo diritto. L’importante è non farsi influenzare. Anche Carla Bruni ha chiamato il direttore dell’Express per lamentarsi di una delle mie vignette».
Quale?
«Una vignetta in difesa di Siné, un disegnatore licenziato da Charlie Hebdo per antisemitismo. Christophe Barbier (il direttore dell’Express, ndr.) ha risposto che io posso fare quel che voglio. Che tra l’altro non è corretto perché io rispetto appunto l’autocensura».
E dov’è che si ferma?
«Le faccio un esempio. Due settimane fa, quando ho visto alla tv Berlusconi che faceva aspettare la Merkel, ho cominciato a lavorarci sopra. Nella notte c’è stato il terribile terremoto in Abruzzo e allora mi sono vietato di divertirmi con il primo ministro italiano. Ma come dicevo prima è una questione culturale peculiare a ogni paese. I disegni di Vauro sul terremoto non mi sono sembrati affatto scioccanti. Anzi, ci tengo a dire che lo sostengo e lo abbraccio».
di Simonetta Fiori *
«Nell’età d’oro della democrazia ateniese, oltre duemilaquattrocento anni fa, nella censura incappò anche Aristofane, il massimo comico dell’epoca. Il controllo è connaturato al potere, passa attraverso i suoi mille travestimenti, e non ne sono immuni le repubbliche di Atene e Roma». Neppure l’ironia sferzante del più grande rappresentante della commedia antica riuscì a sfuggire all’ira di Cleone, però Aristofane si vendicò scrivendo un’opera contro il suo persecutore. «La storia della censura comincia in età classica e attraversa i secoli, segnando i regimi autoritari, ma anche le democrazie di ispirazione liberale», dice Luciano Canfora, antichista con passione per l’età contemporanea, autore di innumerevoli saggi su libertà e politica, il più recente La natura del potere appena uscito da Laterza.
Anche le democrazie temono la satira fino a censurarla?
«Sì. Se torniamo indietro alla democrazia ateniese, incappiamo nelle primissime forme di censura. E le troviamo proprio a teatro, là dove impropriamente si ritiene che regnasse la libertà più totale. Si è indotti a questo errore dall’abitudine praticata sulla scena di lasciarsi andare all’ingiuria più imbarazzante. Invece proprio sul teatro comico - ancor più che sulla produzione tragica - veniva esercitato un controllo preventivo».
Esisteva una precisa procedura?
«Nel teatro attico, in occasioni delle celebrazioni lenee o delle feste dionisie, l’arconte re o l’arconte eponimo - le due cariche preposte alla censura - dovevano ispezionare il canovaccio della commedia, prima di concedere il "coro", così si chiamava l’autorizzazione. Anche i grandi tragici - Eschilo, Sofocle, Euripide - si sottoponevano al rituale. Naturalmente c’era sempre la possibilità di eludere la censura con la battuta improvvisata sulla scena».
Senza conseguenze?
«Non proprio. Una volta un Aristofane ventiquattrenne - era il 426 a. C. - mise in scena I Babilonesi, un’opera di denuncia contro l’impero ateniese accusato di opprimere i suoi alleati. Tra gli spettatori c’erano anche molti stranieri. Così il commediografo fu portato davanti al consiglio della città con l’accusa di aver procurato danno al demo ateniese. Aristofane ne parla negli Acarnesi. Cleone, demagogo fazioso, lo strapazzò pubblicamente, esercitando un potere di intimidazione non meno micidiale della censura».
Roma non godette di maggiore liberalità.
«La situazione notevolmente peggiorò. Nel De Repubblica, a proposito degli attacchi di cui era stato bersaglio Pericle, Cicerone scrisse che a Roma quelle critiche non avrebbero mai potuto avere cittadinanza. Nevio che attacca gli Scipioni? Inimmaginabile».
La censura della satira non è un tratto esclusivo dei regimi autoritari.
«Negli anni Venti, nell’Unione Sovietica, furono sottoposti a censura scrittori satirici come Bulgakov e Zoscenko. Ma esiste anche una tradizione censoria di segno schiettamente democratico. Per un lungo periodo, il futuro premio Nobel Dario Fo insieme a Franca Rame fu tenuto distante dalla Tv di Stato».
La censura in un’età che promette la massima libertà di parola: non c’è un aspetto paradossale?
«È un problema di difficile soluzione. Scatenarsi oggi per una vignetta mi sembra demenziale. A Mosca, negli anni Cinquanta, usciva un giornale umoristico intitolato Krokodil. Un funzionario politico provvedeva non solo a controllare le vignette, ma anche a spiegarle: sotto il disegno, compariva la didascalia con l’interpretazione. Forse potrebbe essere un modello per i nostri potenti».
* Fonte, Eddyburg: La Repubblica, 21 aprile 2009