TECNOLOGIA & SCIENZA
Indivuata sfruttando la fotocamera digitale più grande del mondo
di cui è dotato il telescopio Canada-France-Hawaii Telescope sul monte Mauna Kea
La materia oscura esiste
scoperta enorme "ragnatela"
"Risultato senza precedenti, una pietra miliare per l’astronomia"
di LUIGI BIGNAMI *
Se la si potesse vedere assomiglierebbe a un’immensa ragnatela che da un capo all’altro occuperebbe una porzione di cielo di 270 milioni di anni luce (un anno luce corrisponde a circa 9 mila miliardi di chilometri): ma nessuno la può vedere, perché si tratta di "materia oscura", una materia che si sa che esiste, ma di cui non si conosce la composizione, perché risulta invisibile a ogni tipo di lunghezza d’onda. Gli astronomi la cercano da anni, ne ipotizzano la composizione, ma nulla al momento lascia trapelare di cosa sia realmente fatta. E’ per questo che la sua esistenza è stata addirittura messa in dubbio. Ma ora c’è la conferma della sua realtà.
Il lavoro è stato pubblicato sulla rivista Astronomy and Astrophysics da un gruppo di ricerca canadese e francese coordinato dall’Istituto di astrofisica di Parigi. Spiega Ludovic Van Waerbeke, dell’Università della British Columbia: "Il risultato è senza precedenti, una pietra miliare per l’astronomia". Avere la certezza che esiste la materia oscura significa infatti, lavorare in una certa direzione per comprendere la storia e il destino dell’Universo.
Ma come è possibile aver visto la "materia oscura" se questa risulta invisibile? Gli astronomi hanno usato un trucco che offre la natura. Sfruttando la fotocamera digitale più grande del mondo di cui è dotato il telescopio Canada-France-Hawaii Telescope (Cfht) posto sul monte Mauna Kea nelle Hawaii, i ricercatori hanno analizzato migliaia di immagini per individuare gli "effetti gravitazionali" della materia oscura sulla luce visibile, un fenomeno chiamato effetto della "lente gravitazionale debole". In altre parole la luce che arriva sulla Terra da galassie lontane, mentre viaggia nello spazio, è deviata dalla "materia oscura" a causa della sua massa. Confrontando migliaia di immagini è possibile posizionare in tal modo la sua distribuzione nello spazio e verificarne la quantità ossia proprio la sua massa.
Con questa scoperta giunge la conferma a ciò che si ipotizzava da tempo: la materia visibile che compone l’Universo - tutti i pianeti, le stelle e gli oltre 120 miliardi di galassie - costituiscono solo il 4%. Il resto, il 96%, non si sa cosa sia, ci è "oscuro". Il 70% di questa "oscurità" è "energia oscura", il 26% è la materia oscura di cui gli astronomi canadesi e francesi hanno scoperto l’esistenza.
I dubbi che l’Universo non è composto solo da ciò che vediamo emersero attorno agli anni ’70, quando gli astronomi cominciarono a notare che c’era qualcosa nel nostro Universo che non filava esattamente con le leggi della fisica. Scoprirono, infatti, che applicando le leggi della forza di gravità note fino ad allora, le galassie a spirali, quelle cioè che hanno forma come la Via Lattea, avrebbero dovuto ruotare a una velocità tale che si sarebbero dovute sbriciolare già da tempo, spargendo le stelle per ogni dove. Se si considerano, infatti, gli astri che stanno nelle parti più esterne delle galassie, che si muovono a una velocità di circa 150-200 chilometri al secondo, e si ipotizza che le galassie stesse siano composte solo dalla materia che vediamo, le stelle in questione le avrebbero già dovute abbandonare da tempo. La loro forza centrifuga, infatti, avrebbe dovuto prendere il sopravvento sulla gravità. Ma questo non succede.
Così gli astronomi si chiesero se c’era qualcosa che impediva al fenomeno di verificarsi, un qualcosa che tratteneva la materia visibile impedendole di allontanarsi. Fu così che riscoprirono quanto aveva già ipotizzato nel 1933 l’astronomo Fritz Zwicky. Questi, studiando il comportamento degli ammassi di galassie della Vergine e della Chioma, ipotizzò che per spiegare i movimenti delle stelle che si vedevano vi doveva essere 400 volte più materia rispetto a quella che si poteva desumere dalla luce delle stelle visibili. Zwicky chiamò quella massa mancante "materia oscura" e nessuna definizione poteva calzare meglio di quella.
Ma la domanda d’obbligo con le quali si scontrano gli astronomi è ovvia: cos’è questa materia oscura e quanta ce n’è in più rispetto alla materia visibile? Le ipotesi si sprecano anche se molte si stanno perdendo per strada, lasciando spazio soprattutto a quelle che vogliono la "materia oscura" composta da "assioni" o da "neutralini", particelle subatomiche la cui esistenza è ancora tutta da dimostrare.
Altre ipotesi sostengono che, almeno in parte, la materia oscura potrebbe essere costituita da "nane brune", ossia stelle mai nate per la ridotta quantità di idrogeno di cui sono composte che ha impedito l’innesco delle reazioni nucleari.
Sulla quantità di "materia oscura" è importante conoscere il valore assoluto perché esso potrebbe aiutarci a capire il destino dell’Universo. Ce n’è così tanta da impedire che esso si espanda per sempre e lo faccia ricadere su se stesso o ce n’è solo al punto tale da rallentare semplicemente l’espansione, ma da permettergli di espandersi per sempre? Secondo le teorie che ci raccontano come si è formato l’Universo dal Big Bang e qual è la sua struttura a grande scala la "materia oscura" e la materia visibile ne devono costituire il 30% circa. E il rimanente 70%? Il resto sarebbe l’"energia oscura" che permea l’Universo. Ma questa è un’altra storia.
Cosmologia dell’invisibile
di Emilia Margoni (Doppiozero, 29 Luglio 2023)
A chi avesse voglia di una lezione d’umiltà, basterà farsi un giro per i territori della fisica contemporanea. A dispetto dei radicati convincimenti di fine Ottocento, secondo cui la fisica aveva raggiunto un’invidiabile completezza, i rissosi strepiti di inizio Novecento ruppero ogni illusione. È probabile che, a loro volta, le nuove generazioni, a lavoro per colmare le insospettate lacune, credessero di trovarsi a un passo dal compimento. Eppure, a cento anni di distanza, più si va avanti in questo campo più cresce la percentuale di dati che ci mancano: il 95% circa, secondo le stime dei modelli ad oggi più accreditati. E il problema più grande è che non si sa dove guardare. Se non fosse bastata la ridda di misteri che ancora annebbiano il territorio della meccanica quantistica - e di lì tutti i paradossi, di gatti vivi e morti, e di monete che a grandissima distanza puntualmente si accordano sulla propria condotta - pare al momento che una delle chiavi per la comprensione del nostro universo sia un tipo di materia che nessuno degli strumenti attualmente in uso sarebbe in grado di rendere percettibile e quindi misurabile - non fosse per le sue relazioni ambigue con qualcosa che invece conosciamo piuttosto bene, la forza gravitazionale. Si tratta della cosiddetta materia oscura, la quale, in base alle stime odierne, rappresenterebbe più dei cinque sesti di materia complessiva disponibile nel nostro universo.
A fare il punto su tutto questo è un recente libro di Ersilia Vaudo, Mirabilis (Einaudi 2023). Il testo offre una ricostruzione sintetica, in uno stile che aspira all’autoriale, degli snodi più rilevanti per la definizione degli attuali modelli astrofisici e cosmologici. Tra questi: lo sviluppo della meccanica newtoniana e la conseguente equiparazione dei moti celesti e terrestri; la pubblicazione nel 1905, a firma Albert Einstein, dell’articolo Sull’elettrodinamica dei corpi in movimento, in cui il principio di relatività galileiana e il postulato di invarianza della velocità della luce vengono combinati in una teoria, la relatività speciale, che ha come principale conseguenza la caduta del concetto di simultaneità; la sua successiva intuizione, nel 1907, del principio di equivalenza, secondo cui essere vincolati al suolo in presenza di gravità è equivalente a muoversi nello spazio in una navicella che accelera, e viceversa trovarsi in caduta libera all’interno di un ascensore che precipita è equivalente a viaggiare in una navicella che si muova nello spazio a velocità costante; la formalizzazione di tale intuizione, nel 1915, attraverso la pubblicazione di quattro articoli, successivamente raccolti con il titolo Le equazioni di campo della gravitazione, in cui il campo di gravità viene identificato con lo spaziotempo (quest’ultimo ripensato quale struttura elastica, opportunamente modulata dalla presenza di materia ed energia); la messa a punto, a partire dagli anni Venti del Novecento, sulla base dei tentativi e delle riflessioni dello stesso Einstein, dei primi modelli cosmologici, sino all’ipotesi del Big Bang, suggerita da una serie di osservazioni sperimentali, come l’espansione delle galassie e la radiazione cosmica di fondo; la “spectacular realization”, nel 1979, a opera di Alan Guth, di un’ipotesi utile a risolvere alcuni dei problemi aperti dallo scenario del Big Bang, vale a dire il modello di inflazione cosmica, secondo cui l’universo, nelle sue primissime fasi di vita, avrebbe attraversato una fase di espansione rapidissima in grado di spiegarne la vastità e l’omogeneità rispetto alle condizioni prossime al Big Bang; le bizzarre conseguenze che l’equazione di Dirac, introdotta dall’omonimo fisico britannico nel 1928 come punto di congiungimento tra relatività speciale e meccanica quantistica, sembrava implicare circa l’esistenza, accanto a ciascuna particella di materia sino ad allora nota, di una “gemella” di antimateria dotata di pari massa ma carica opposta.
Come si anticipava, l’impressione che se ne trae - al di là dei meritevoli sforzi di attori e attrici che hanno ricoperto un ruolo cruciale negli sviluppi di tale branca di ricerca della fisica contemporanea - è che la messe di dati, formalismi, ipotesi, modelli accumulati non consente di sciogliere un complessivo senso di spaesamento: “Nella storia che ne emerge, l’invisibile è la regola. Ciò che possiamo osservare, solo un’eccezione [...] Siamo quindi immersi, più o meno consapevolmente, in una realtà cosmica che non si manifesta, che non possiamo vedere” (p. 132). Ed è in effetti un problema di visione quello che attraversa gli sviluppi più recenti della disciplina, se è vero che le osservazioni astrofisiche finora raccolte, perlopiù basate su tecnologie (telescopi, rivelatori, strumenti) utili a misurare la radiazione elettromagnetica nello spettro inaccessibile a noi esseri umani, nulla possono dirci su quel 95% cui sopra si faceva riferimento, mentre una qualche risposta potrebbe forse giungerci dalla gravità.
Se pure ci si concentra sulla sola materia, si trova che appena il 15% di essa corrisponde a quella che forma l’insieme di galassie osservabili, con i loro miliardi di stelle, pianeti, comete, meteoriti e asteroidi. Il restante 85% costituisce a tutt’oggi una presenza invisibile. Le prime ricerche a dar credito all’ipotesi della materia oscura risalgono agli inizi degli anni Trenta del Novecento, quando l’astronomo svizzero Fritz Zwicky si avvide di alcune incongruenze sui calcoli relativi alla massa di un agglomerato di galassie a diversi milioni di anni luce dalla Terra (le cosiddette galassie della Chioma).
La stima della massa di tali agglomerati venne effettuata secondo due metodi: il primo teneva conto della loro luminosità; il secondo, basato su un teorema della meccanica statistica, calcolava la massa delle galassie a partire dalla loro velocità. Zwicky si rese allora conto che la velocità di moto delle galassie risultava essere molto più significativa rispetto a quella compatibile con la quantità di materia visibile osservata. Fu così che, nel 1933, egli avanzò l’ipotesi secondo cui le galassie, e così lo spazio intergalattico, fossero permeati da un nuovo tipo di materia dalle proprietà affatto singolari, da lui denominata Dunkle Materie (materia oscura) - là dove il termine “oscura” sta a indicare che essa, oltre a non emettere né assorbire alcuna forma di radiazione elettromagnetica, sembrerebbe non interagire con la materia ordinaria, se non appunto attraverso la gravità.
Tale ipotesi venne accolta con una certa diffidenza, fin quando, quasi quarant’anni dopo, l’astronoma Vera Rubin e il suo collega Kent Ford si accorsero di una seconda anomalia: mentre la relatività generale, e così le osservazioni registrate sul Sistema Solare, implicano che la velocità di rotazione delle stelle nelle galassie cresca in senso proporzionale dal centro alla periferia, i dati da loro raccolti sembravano indicare che, da un certo punto in poi, la velocità di allontanamento delle stelle dal centro rimanesse costante. Di nuovo, era come se ciascuna galassia fosse permeata da una componente non visibile ma gravitazionalmente attiva.
L’ipotesi della materia oscura verrà infine accettata negli anni Ottanta, dopo la morte del suo primo fautore, sebbene ad oggi non esista un modello considerato soddisfacente, atto cioè a spiegarne l’origine e il comportamento. Ciononostante, come ricorda Vaudo nel capitolo conclusivo di Mirabilis, i modelli attuali offrono alcune importanti stime: estesa nello spazio intergalattico e nelle galassie stesse, conferirebbe loro la struttura che rileviamo, dacché si suppone svolga un ruolo decisivo nella formazione ed evoluzione dell’universo. Risulterebbe inoltre più stabile della materia ordinaria, poiché si ritiene non interagisca con il campo elettromagnetico, portando così alla formazione di strutture compatte più durature. La sua influenza gravitazionale, tra l’altro, avrebbe consentito alla Via Lattea e alle altre galassie di sopravvivere all’espansione complessiva dell’universo, impedendone la disgregazione.
L’interpretazione della materia oscura è oggi al centro di un vivace dibattito, affidato soprattutto a chi lavora nel campo della fisica delle alte energie. Il modello cosmologico standard, che offre una sintesi di quanto sappiamo sulla formazione e l’evoluzione delle strutture cosmiche, propone di concepire la materia oscura come composta di particelle “fredde”, a bassa energia, debolmente interagenti. Ma non mancano proposte alternative, come i cosiddetti modelli di dinamica newtoniana modificata (cui ci si riferisce con l’acronimo MOND), che tentano di introdurre variazioni sul secondo principio della dinamica, quello cioè che lega l’effetto di una forza esercitata su un sistema al prodotto tra la sua massa e l’accelerazione impressa. Questi modelli provano così a rendere conto delle anomalie menzionate eludendo ogni riferimento alla materia oscura (per un’interessante discussione sul tema, si veda l’articolo dell’astrofisico e scrittore Ramin Skibba). O ancora, progetti avveniristici, quale quello avanzato dai fisici Lasha Berzhiani e Justin Khoury, che tentano di conciliare le due prospettive.
Ma la partita su come si sia originato l’universo, su quale la sua evoluzione e sulle componenti che vi figurano, è tutt’altro che chiusa. A rendere la scommessa ancora più ardimentosa sta il fatto che, oltre alla materia oscura, sembrerebbe necessario, affinché i modelli cosmologici restituiscano dei parametri compatibili con le osservazioni sperimentali, postulare l’esistenza di una forma di energia oscura che agisce quale pressione negativa, favorendo l’espansione dell’universo. Questa forma di energia, che nell’ipotesi si ritiene mantenga la stessa densità nello spazio e nel tempo, oltre a permeare il cosmo nella sua interezza, costituirebbe il 69% circa della densità energetica totale. Insomma, la sfida volta a rintracciare l’origine e le proprietà di materia ed energia oscura è tutt’altro che completata, e questo tanto più perché “[l]e componenti oscure emergono dal cosmo mostrandosi attraverso i propri effetti, lasciando qualche indizio qua e là, ma nessuna prova della propria natura, finora” (pp. 145-146). Questo, va da sé, in parte solletica, in parte sgomenta. Con tutte le dovute discrepanze, vale quanto Julien Green sostiene in Parigi (Adelphi 2023, p. 14), allorché ricorda che “[p]er un romanziere ogni esistenza, foss’anche la più semplice, serba il suo irritante mistero, e la somma di tutti i segreti che una città racchiude ha qualcosa che a volte lo stimola e a volte lo schiaccia”.
Serve un’enorme immaginazione per figurarsi il mondo
Il lato oscuro dell’universo
di Michela Dall’Aglio (Doppiozero, 13.03,2019)
L’oscurità ha un fascino innegabile. Nell’oscurità si entra con timore ed eccitazione per scoprire un mistero, per sapere e capire. Paradossalmente ci spinge ad avventurarci nelle tenebre il desiderio di farvi luce. E quando, alla fine, l’enigma si scioglie, insieme all’entusiasmo c’è la preoccupazione che ormai tutto sia noto e non rimanga più niente da scoprire. L’universo se ne ride della nostra ingenuità presuntuosa e quando siamo tentati di pensare di averne quasi capito ogni cosa, ci rilancia una sfida. Emblematico esempio è l’affermazione attribuita a lord Kelvin, fisico tra i più eminenti del secolo scorso, il quale, attorno al 1900, quando si riteneva che l’elettromagnetismo e la fisica newtoniana potessero spiegare tutta la realtà, sentenziò: «Non c’è più nulla da scoprire in fisica, resta solo da fare misure sempre più precise». E dopo soli cinque anni Albert Einstein pubblicò la teoria della relatività ristretta e nel 1915 quella della relatività generale rivoluzionando completamente la cosmologia.
Da allora gli scienziati si sono fatti più prudenti e, nonostante le straordinarie scoperte degli ultimi decenni attorno alla natura intrinseca della realtà e alle dinamiche del cosmo, nessuno ha avuto l’ardire di esprimersi con la sicumera di lord Kelvin. E giustamente, perché ultimamente sull’orizzonte della scienza si sono affacciate due grandi nuove entità, ancora ben lungi dall’essere chiarite. La prima è la materia oscura (dark matter), espressione dal duplice significato che ben le si attaglia: si tratta, infatti, di un argomento oscuro, perché complesso e ancora ignoto, e, allo stesso tempo, di una sostanza oscura, perché non riflettendo la luce è assolutamente inosservabile, ma produce degli effetti sulla materia visibile. La seconda, ancora più misteriosa della prima, è l’energia oscura, una forza della cui esistenza gli scienziati hanno prova certa, però non ne sanno assolutamente nulla. A causa loro l’universo, che ormai ci sembrava quasi a portata di mano (almeno intellettualmente), c’è sfuggito di nuovo.
Il tema, benché non proprio elementare, è intrigante anche per i profani e sono usciti di recente molti libri che ne trattano. Tra questi ne segnalo due in particolare. Il primo, L’altra faccia dell’universo (il Mulino) è scritto da Luca Amendola, docente di Fisica Teorica in Germania presso l’Università di Heidelberg. In esso l’autore vuole raccontare lo stato attuale delle conoscenze in materia spiegando anche come sono state acquisite e quali prospettive teoriche e applicazioni pratiche ne possano derivare. Del secondo, L’universo oscuro (Carocci), è autore Andrea Cimatti, professore di Fisica e Astronomia all’Università di Bologna. Egli intende «offrire a un pubblico di non esperti un quadro introduttivo e aggiornato sulle attuali conoscenze dell’universo», o meglio sarebbe dire, come subito precisa, sulle attuali non conoscenze. Si tratta di due saggi brevi che grazie alle competenze degli autori e alla loro scrittura chiara e divulgativa interessano certamente a fisici e cosmologi, però sanno catturare l’attenzione anche di chi è semplicemente curioso di sapere qualcosa dell’incredibile realtà in cui siamo immersi.
Se la materia oscura non emette né assorbe radiazione elettromagnetica (luce) ed è perciò totalmente invisibile agli occhi e agli strumenti, come mai si è arrivati a immaginarne e poi a provarne l’esistenza, per di più senza sapere di che cosa sia fatta? Il primo scienziato a parlarne, negli anni Trenta del secolo scorso, fu il fisico svizzero Fritz Zwicky, il quale fu anche il primo ad analizzare il moto delle galassie anziché quello delle singole stelle. Per effetto dell’attrazione gravitazionale, le galassie tendono a raccogliersi in ammassi più grandi «muovendosi come molecole in un gas» (Amendola).
Studiando il moto dell’ammasso di galassie chiamato Chioma di Berenice, Zwicky giunse a un risultato che definì - con un certo aplomb, va detto - «piuttosto inaspettato»: la massa necessaria a tenere insieme le galassie nell’ammasso doveva essere di circa centocinquanta volte maggiore di quella rappresentata dalle stelle visibili. Diversi anni dopo, nel 1974, grazie a nuovi strumenti, in particolare al telescopio di Mount Palomar in California, Vera Rubin, astronoma americana la cui famiglia era originaria dell’Europa dell’Est, osservando il moto di altre galassie a spirale come la nostra, notò che le stelle esterne «ruotavano molto più velocemente di quanto predetto dalla legge kepleriana, come se fosse presente molta più massa di quella visibile nel bulge», cioè nel massiccio rigonfiamento che sta al centro delle galassie (Amendola). Trovò così una prima importante conferma l’osservazione di Zwicky, e a partire dagli anni ’80 del secolo scorso un numero crescente di scienziati si convinse della sua esistenza, fino ad arrivare all’odierna quasi unanimità.
Si stanno facendo diverse ipotesi su cosa sia la materia oscura, ancora nessuna sufficientemente testata. Ad ogni modo, si sa che «le galassie sono distribuite in una struttura che assomiglia a una ragnatela cosmica», afferma Andrea Cimatti, che assomiglia molto alle reti neuronali del cervello - il che non significa niente, ma è molto suggestivo. Le galassie e gli ammassi di galassie si trovano al centro di una immane sfera di materia oscura, il cui compito potrebbe essere proprio quello di tenerle insieme impedendone la disgregazione. «La nostra visione un po’ naïve di un universo composto da oggetti luminosi - avverte - viene quindi stravolta... gli oggetti luminosi sono solo punte di iceberg che nascondono grandi quantità di materia non direttamente osservabili».
Nell’universo, la materia ordinaria, composta di particelle note, rappresenta circa il 5% della materia esistente; quella oscura, dotata di massa ma invisibile, ne rappresenta circa il 25%. E il restante 70% cos’è? Energia oscura, rispondono gli scienziati. Qualcosa di ancora più grande e misterioso della materia oscura. Se ne cominciò a ragionare diversi anni fa quando, in seguito alle osservazioni di Georges Lemaître, Edwin Hubble e altri, si comprese che l’universo, fino ad allora considerato statico, si sta espandendo e da circa cinque miliardi di anni lo sta facendo a una velocità crescente e francamente impressionante: le misure attuali, precisa Andrea Cimatti, parlano di un’espansione di 70 km al secondo per ogni megaparsec (un Mpc=3,086x1019km, cifra incomprensibile per i più ma utile per farci un’idea dell’immensità dell’universo!). Per spiegare l’espansione accelerata, attraverso calcoli e considerazioni che sia Amendola che Cimatti riferiscono con dovizia di particolari, si è arrivati a postulare l’esistenza di una forza repulsiva che, come in un gioco alla fune, contrasta la forza di gravità causando un’accelerazione dell’espansione e impedendo che «quattordici miliardi di anni dopo la sua nascita, l’universo non [sia] né svuotato né collassato» (Amendola). E questa potrebbe essere una risposta parziale, ma comunque soddisfacente alla domanda: a cosa serve l’energia oscura.
Se ci si chiede, invece, cosa sia, il buio è assoluto: la natura di questa componente determinante e maggioritaria dell’universo per ora è del tutto ignota. Tra le ipotesi fatte è che possa essere l’energia intrinseca dello spazio vuoto, il quale non è, come si tende ancora a pensare tra profani, uno spazio senza niente dentro. Infatti, anche togliendo da una porzione di spazio particelle, radiazioni e campi elettromagnetici e gravitazionali, quello che resta è comunque uno spazio quantistico in cui particelle e antiparticelle virtuali - un tipo di particelle dalle caratteristiche peculiari - fluttuano vorticosamente annichilendosi istantaneamente; «l’energia collettiva di queste particelle è chiamata energia del vuoto» (Cimatti). Dunque, in realtà, in natura il vuoto assoluto non esiste. Quello che chiamiamo così è il vuoto quantistico, ed è pieno di particelle e di campi (manifestazioni diverse di una stessa realtà materiale) che vibrano, si muovono velocissime, interagiscono, scompaiono o si trasformano.
Ed è interessante notare, senza spingerci oltre in una materia che si fa decisamente difficile, come scrutare il cosmo infinitamente grande sia possibile soltanto attraverso la conoscenza dell’infinitamente piccolo, ossia della costituzione fondamentale della materia. Di questo si occupa la meccanica quantistica che, mostrando la trama del tessuto di cui è fatto il mondo, rivela una realtà completamente diversa da quella percepita dai sensi, governata da leggi surreali, controintuitive, che contraddicono la nostra esperienza o ne esulano. Gli scienziati considerano la meccanica quantistica una stupenda descrizione del funzionamento di ogni cosa; per quanto ancora nessuno sia in grado di dire esattamente perché, essa funziona talmente bene che le sue applicazioni pratiche -trasmissioni satellitari, internet, computer e medicina nucleare - hanno cambiato radicalmente la nostra vita.
Insomma, l’universo è un luogo molto strano e siamo ben lontani dall’averne chiariti i misteri. Soprattutto quello che Albert Einstein considerava il più grande di tutti, l’unico vero mistero dell’universo: la sua comprensibilità. Come mai la mente dell’uomo lo capisce e lo può descrivere perfettamente con la matematica? Qualcuno tra gli scienziati più inclini alla poesia, suggerisce che l’essere umano stia all’universo come la mente sta al corpo; in questa prospettiva potremmo essere l’autocoscienza di sé dell’universo. Chissà se lo sapremo mai. Certo è che, come disse il grande fisico Richard Feynmann, «serve un’enorme immaginazione per figurarsi com’è fatto davvero il mondo» (Le battute memorabili di Feynman, Adelphi).
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA LUCE, LA TERRA, E LA LINEA DELLA BELLEZZA: LA MENTE ACCOGLIENTE. "Note per una epistemologia genesica"
Federico La Sala
A Stoccolma il premio per la fisica
Si sono rivelate decisive le ricerche sulle emissioni di luce delle supernove
L’acceleratore dell’Universo
Il Nobel a tre studiosi della materia oscura che espande il tutto
Una forza ancora enigmatica tra stelle e galassie che pervade il 70% del cosmo
di Barbara Gallavotti (La Stampa/TuttoScienze, 05.10.2011)
Il Novecento è stato il secolo delle grandi emozioni scientifiche: abbiamo scoperto che alla base della vita c’è l’espressione di un bellissima molecola chiamata DNA, abbiamo imparato a spezzare l’atomo (nel bene e nel male), abbiamo dato un’identità al manipolo di particelle che costituiscono la materia, e molto altro. Alla fine degli Anni 90 potevamo forse ritenerci soddisfatti. E invece no: il secolo doveva chiudersi con un ultimo fuoco d’artificio e nel 1998 abbiamo saputo che l’Universo non si espande a velocità costante, ma accelera sospinto da un motore misterioso chiamato «energia oscura».
Una scoperta che ha lasciato senza fiato i cosmologi e fatto immediatamente pensare al più ambito dei premi. Un Nobel atteso, dunque, quello che è stato assegnato ieri per metà a Saul Perlmutter e per l’altra metà a Brian P. Schmidt e Adam G. Riess. Come già avvenuto nel 2010, anche stavolta si tratta di tre ricercatori non certo attempati: il più «anziano», Perlmutter, è nato nel 1959, gli altri due nel 1967 e nel 1969.
All’inizio degli Anni 90 i cosmologi erano convinti che l’Universo fosse in espansione: galassie e corpi celesti avrebbero risentito ancora dell’effetto del Big Bang: l’ultimo alito di un soffio remoto, che tuttavia li avrebbe portati alla deriva sempre più lontano, a meno che l’attrazione reciproca della forza di gravità non avesse prima o poi avuto la meglio. All’epoca Perlmutter guidava un gruppo di ricerca, mentre Schmidt si trovava a capo di un altro, nel quale c’era Riess. Entrambi i gruppi intendevano localizzare alcune supernove particolarmente distanti, così da tracciare una mappa più precisa dell’ Universo. Il momento sembrava il più opportuno, perché a disposizione c’era una rete di telescopi sofisticati, computer potenti e apparecchi CCD con cui ottenere immagini digitali in modo veloce. La ricerca si prospettava interessante, ma non foriera di emozioni straordinarie. Invece le emozioni sono arrivate, perché lo studio delle emissioni di luce delle supernove non ha lasciato dubbi: i corpi celesti più lontani accelerano e di conseguenza ci deve essere qualcosa che li sospinge, un’«energia oscura», appunto, di cui ignoriamo la natura.
Negli ultimi anni astronomi e cosmologi hanno accumulato nuove prove a favore della sua esistenza, cogliendo tracce della sua ombra anche nel fondo di radiazione cosmica, quel debole mare di fotoni che si è formato circa 14 miliardi di anni fa, quando l’Universo aveva «appena» 300 mila anni, e che ancora oggi lo pervade. Eppure, il volto dell’energia oscura resta nascosto. I pochi indizi che trapelano ci dicono che è una entità estremamente forzuta e anche che la sua «stazza» è notevole. L’energia oscura, infatti, rappresenta il 70% dell’energia dell’Universo. Il restante 30% è sotto forma di materia (secondo l’equazione di Einstein E=Mc2, materia ed energia si equivalgono). In particolare il 5% è la materia che conosciamo e che compone ciò che ci circonda, dai nostri corpi alle galassie, e il restante 25% è materia oscura, un’altra signora cosmica dall’identità misteriosa. Di certo l’energia oscura non è una forma di materia, e neppure di radiazione. Si pensa che sia una forma di energia associata a un «campo»: possiamo immaginarla come una versione moderna dell’impalpabile etere che un tempo si riteneva pervadere le sfere celesti. Stranamente, l’Universo non sembra aver risentito della sua forza per gran parte della propria esistenza e questo effetto tardivo è uno dei grandi interrogativi che la circondano.
Scoprire la natura dell’energia oscura è molto difficile anche perché al momento non è possibile immaginare esperimenti che permettano di ricrearla in laboratorio. Per ottenere indizi, ancora una volta, non resta che puntare i telescopi verso il cielo, contando su tecnologie sempre più avanzate per osservare corpi celesti ancora più lontani, così da misurare la loro apparente accelerazione ai confini dell’esistente. Così i cosmologi mirano anche a capire se l’energia oscura fa sentire la sua forza in modo omogeneo in tutto l’Universo o è più intensa in alcuni punti. Altre indicazioni potranno poi venire da studi sulla radiazione di fondo cosmica. Alla fine qualcuno riuscirà a sollevare il velo e allora capiremo quale sarà il destino dell’Universo, sapremo cioè se la sua espansione è destinata a fermarsi o se continuerà all’infinito, diluendo tutto ciò che esiste in un nulla cosmico.
L’esperimento Ams alla ricerca di antimateria, materia oscura e strana
C’è molta Italia nell’ultimo viaggio dello shuttle Endeavour che, salvo imprevisti, partirà venerdì 29 aprile dal Kennedy Space Center alla volta della Stazione Spaziale Internazionale, in orbita a 400 chilometri di altezza.
di Pietro Greco (l’Unità, 27.04.2011)
Italiano è Paolo Nespoli, uno degli astronauti che riceverà l’equipaggio dello shuttle. Italiano è Roberto Vittori, uno degli astronauti che viaggerà con Endeavour. Ma per la gran parte italiano è, soprattutto, il rivelatore Ams (Alpha Magnetic Spectrometer), lo strumento che - come dicono all’Istituto Nazionale di Fisica Nucleare - porta la Big Science nella «casa spaziale comune».
Ams è uno spettrometro molto particolare. Progettato per rilevare la presenza di una serie di particelle elementari che è pressoché impossibile incontrare sulla Terra o anche produrre nei grandi acceleratori. Gli obiettivi di Ams in realtà sono tre: rilevare antimateria, materia oscura e materia strana. Il primo tipo di materia di cui andrà a caccia Ams, l’antimateria, è conosciuta da poco (non più di ottant’anni) ma molto bene sulla Terra. È costituita di particelle (antielettroni, antiprotoni, antineutroni) del tutto simili a quelle della materia ordinaria - fatta di elettroni, protoni e neutroni - con una sola differenza: hanno carica elettrica opposta.
L’antimateria si produce ogni qual volta, dal vuoto quantistico, si produce materia. Inoltre ogni colta che una particella di materia ne incontra una di antimateria si annichilano. Queste affermazioni generano una domanda cui i fisici cercano di rispondere: perché allora nell’universo c’è materia - perché nella battaglia cosmica ha vinto per ragioni ancora non chiare o perché la fuori ci sono stelle e galassie di antimateria? A questa domanda fondamentale Ams cercherà di trovare una risposta.
Il secondo tipo di materia che Ams cercherà è chiamata «materia oscura». Oscura nel doppio senso: perché non la vediamo e perché non ne conosciamo la natura. Sappiamo - se le nostre teorie cosmologiche sono giuste - che là fuori ce ne deve essere tanta: solo il 4% del cosmo, infatti, è costituito da materia ordinaria, oltre un quarto è costituito da questa «materia oscura» e la restante parte è costituito da «energia oscura». Ams ha il compito di dare un grosso contributo ad attenuare la nostra ignoranza sugli elementi costitutivi dell’universo. Il terzo tipo di materia di cui Ams sarà a caccia è detta «materia strana» ed è costituita da particolari tipi di quark.
Perché l’esperimento Ams, diretto dal premio Nobel Samuel Ting, parla bene l’italiano? Per molti motivi. Perché il vice responsabile è l’italiano Roberto Battiston, perché hanno dato un contributo determinante a realizzarlo i fisici e i tecnici dell’Infn e dell’Asi, perché molta tecnologia è stata prodotta in Italia, anche da piccole e media aziende. A dimostrazione che in questo nostro strano paese, malgrado tutto, sappiamo ancora eccellere in molti settori scientifici di punta. Una capacità che costituisce un patrimonio da non disperdere.
CHE COS’È E CHE COSA INDAGHERÀ
Ams (Alpha Magnetic Spectrometer) è un rivelatore di particelle progettato per essere collocato sulla ISS, l’avamposto dell’uomo nello spazio, che orbita a 400 km di altezza. Il suo compito è quello di intercettare e identificare con i suoi rivelatori tipi di particelle elementari che non si possono riprodurre sulla Terra con gli acceleratori. Particelle che potrebbero rivelare l’esistenza di antistelle e antigalassie o darci qualche indizio in più sulla natura della materia oscura, che dovrebbe costituire circa un quarto di tutto l’Universo. Ams registrerà il passaggio di decine di miliardi di raggi cosmici provenienti dalle profondità dello spazio, misurandoli prima che si scompongano o si annichiliscano nell’interazione con l’atmosfera del nostro pianeta. Setacciando e analizzando questa enorme quantità di dati con tecnologie avanzatissime, i ricercatori sperano di trovare tracce preziose di questa materia sconosciuta, di poterla misurare e comprendere, in uno straordinario sforzo scientifico e di conoscenza.
Intervista
“Parte il cacciatore dell’Universo invisibile”
Dopodomani verrà lanciato con lo shuttle l’esperimento “Ams”
Dovrà scoprire i segreti della materia oscura e dell’antimateria
di Gabriele Beccaria (La Stampa TuttoScienze, 27.04.2011)
Sei giorni per portarlo in orbita e installarlo sulla Stazione Spaziale e poi il settimo - come in un’epifania biblica - inizierà a raccogliere dati e li invierà a Terra. L’occhio sull’Universo e sui suoi misteri sta per partire: l’appuntamento è per dopodomani, a bordo dello shuttle «Discovery». Grande quanto un autobus, pesa quasi 7 tonnellate e costa 1 miliardo e mezzo: si chiama «Ams», acronimo di Alpha magnetic spectrometer», ed è un peccato che ingegneri e scienziati non gli abbiano trovato un nome più evocativo, adeguato all’enfasi della sua missione.
Professor Roberto Battiston, lei è viceresponsabile dell’esperimento ideato con il Nobel Paul Ting e coordinatore italiano: «Ams» dovrà rispondere a domande da brivido sul passato e sul futuro del cosmo, legate alla ricerca di 3 tipi di materia: l’antimateria, la materia oscura e la materia «strana».
«E’ così. La prima domanda è questa: se nei primi momenti dell’Universo c’era una perfetta simmetria, con tante anti-particelle quante particelle, che fine hanno fatto le prime? Sappiamo che almeno una parte su 10 miliardi di materia è sopravvissuta all’annichilazione iniziale, e questa parte siamo noi e l’Universo visibile, ma allora dov’è la corrispondente parte di antimateria?».
Finora quale risposta ci si è dati?
«L’antimateria potrebbe essere sparita, perché la simmetria nascosta delle leggi della fisica l’avrebbe fatta “morire” più facilmente della materia. Finora, però, non abbiamo trovato indizi di questa possibilità. Un’altra teoria è che si sia creata un’isola di antimateria, anche se non la vediamo, perché, quando studiamo le galassie più lontane, non capiamo se siano fatte di materia o antimateria».
Che cosa vi aspettate di scoprire?
«O l’antimateria è davvero scomparsa, e in questo caso dovremo concentrarci sul perché, oppure - e sarebbe un esito clamoroso - vedremo qualche antinucleo di carbonio, ossigeno o elio e potremo dedurre che ce ne sono quantità enormi in qualche zona lontana dell’Universo».
Perché l’esito sarebbe clamoroso?
«A parte l’idrogeno e l’elio, gli atomi della tabella di Mendelev sono stati costruiti nel cuore delle stelle attraverso fusioni ad altissima temperatura tra atomi leggeri. Succede anche nel Sole: quando morirà, espellerà frammenti di materiali pesanti, che a loro volta si ricompatteranno in nuove stelle, che genereranno atomi ancora più pesanti, dal ferro all’uranio. La storia della Terra e dell’evoluzione è esattamente questa: una serie di trasformazioni realizzate in grandi fucine nucleari. Se trovassimo anche un solo antinucleo di carbonio o di ossigeno, significherebbe che ci sono delle antistelle al lavoro, che realizzano gli stessi processi di cui parlavo, ma a partire dall’antimateria».
Basterebbe un solo antinucleo?
«Sì. Avremmo l’indicazione che ne esistono quantità enormi, con intere galassie e “isole” nell’Universo. Sarebbe una scoperta straordinaria».
Seconda questione: la materia oscura: esiste e come la si trova?
«E’ noto che nell’Universo esiste una massa invisibile 6 volte maggiore di quella che vediamo e che emette luce. Ecco perché è stata chiamata materia oscura: non sappiamo che cosa sia, ma determina la forza gravitazionale delle galassie. Ora stiamo cercando in tanti modi le sue particelle: sulla Terra, nei laboratori del Gran Sasso, per esempio, e nello spazio, studiando le distorsioni delle distribuzioni dei raggi cosmici noti».
Il terzo tipo di materia che cercherà di intercettare «Ams» è quella «strana»: che caratteristiche ha?
«Se ne parla a proposito delle stelle di neutroni: quando una stella troppo grossa implode, può produrre un “nocciolo” che non è più formato di atomi, ma è un unico e gigantesco nucleo atomico di neutroni. I fisici teorici hanno dimostrato che questi neutroni potrebbero contenere un tipo particolare di quark, i quark “strani”».
E che stelle sarebbero?
«Sarebbero stelle debolmente cariche e frammenti di queste stelle potrebbero arrivare sulla Terra con caratteristiche peculiari: una massa molto grossa, 100 volte quella di un nucleo di idrogeno, ma una carica elettrica debolissima. Ecco perché saremmo di fronte alla materia “strana”: vìola il rapporto di equivalenza tra protoni e neutroni nella massa atomica. Ma non basta ancora. A parte antimateria, materia oscura e materia “strana”, la ragione più affascinante che ci spinge a fare tutte queste misure di precisione è la speranza di scoprire qualcosa che non ci aspettiamo: la logica che ci guida è la sorpresa».
Sorprese che rivoluzioneranno la concezione dell’Universo?
«Viviamo un momento storico incredibile: se apriamo i libri di testo, dobbiamo ammettere di conoscere meno del 4-5% del bilancio materiaenergia dell’intero Universo, mentre c’è un 95% di cui sappiamo di non sapere nulla. Stiamo andando un po’ alla cieca, ma le domande esistono».
E per tentare delle risposte quando comincerete a leggere i dati in arrivo dai 650 computer di «Ams»?
«Prestissimo. Il braccio robotico dello shuttle consegnerà “Ams” a quello della Stazione e sarà questo a collocarlo a un’estremità della struttura orbitante: a quel punto ci sarà un clic, anche se nello spazio non si sentirà, e si attiveranno tutte le connessioni elettriche, dando immediatamente il via all’esperimento».
In pratica, che cosa osserverete?
«A differenza di un telescopio che deve mettere a fuoco un “pezzo” di cielo, e si tratta di un’operazione che richiede tempo, “Ams” dovrà misurare e identificare le particelle che lo attraversano: già dopo pochi minuti dall’accensione vedremo subito se tutto funziona regolarmente».
Sarà un diluvio di dati, giusto?
«In effetti si tratta di un ritmo impressionante, anche 2 mila particelle al secondo che satureranno i software e in tempo reale riempiranno i database per la consultazione. Poi seguirà la seconda fase, con l’analisi raffinata delle caratteristiche delle particelle stesse: ci vorranno settimane, mesi e anche anni, soprattutto per gli eventi più rari e anomali, che richiederanno lunghe catene di verifiche e controlli».
All’esperimento partecipano 600 ricercatori di 16 nazioni e 60 sono italiani: è un ruolo di primo piano.
«Sì. Il nostro è un contributo molto importante - che vale il 25% del progetto - grazie all’Infn e all’Asi e per questo avremo un accesso facilitato ai dati e per molto tempo: “Ams” sta per diventare parte integrante della Stazione e quindi funzionerà almeno fino al 2020 e forse fino al 2028. Non ci sono elementi di consumo a bordo: si spegnerà quando si spegnerà la Stazione».
Ansa» 2008-02-21 18:18
SCOPERTA LA PIU’ GRANDE STRUTTURA DI MATERIA OSCURA
ROMA - E’ un’enorme ragnatela invisibile che si estende per circa 270 milioni di anni luce e che, se potesse essere vista ad occhio nudo, occuperebbe una parte di cielo grande quanto la luna piena: è la più grande struttura fatta di materia oscura mai scoperta, descritta sulla rivista Astronomy and Astrophysics da un gruppo di ricerca canadese e francese coordinato dall’Istituto di astrofisica di Parigi.
"Il risultato è senza precedenti, una pietra miliare per l’astronomia", osserva uno degli autori dello studio, Ludovic Van Waerbeke, dell’università della British Columbia. Si tratta infatti di una conoscenza cruciale per comprendere la storia e il destino dell’universo, misurare tutte le sue componenti, sia la materia oscura che occupa il 20% del cosmo, sia quella visibile che occupa il 5% del cosmo.
Grazie alla fotocamera digitale più grande del mondo di cui é dotato il telescopio Canada-France-Hawaii Telescope (Cfht) sul monte Mauna Kea nelle Hawaii, i ricercatori hanno analizzato migliaia di immagini per individuare gli effetti gravitazionali della materia oscura sulla materia visibile, chiamati effetti della "lente gravitazionale debole".
La luce che arriva sulla Terra da galassie lontane, mentre viaggia nello spazio, spiegano gli esperti, è deviata dalla materia oscura che, lasciando la sua impronta sulla luce delle galassie, si rivela attraverso la sua forza di gravità. L’elaborazione delle informazioni raccolte ha permesso di ricostruire la distribuzione della materia oscura in una porzione di universo larga 270 milioni di anni luce, ovvero 2.000 volte la Via Lattea, svelando una struttura filamentosa simile a un’immensa ragnatela e confermando così la recente teoria della "cosmic web", secondo cui tutta la materia dell’universo, visibile e oscura, è distribuita in modo da formare un’enorme ragnatela.
FESTIVAL
«Spoletoscienza» 20 anni dopo
Si tiene sabato e domenica la ventesima edizione di Spoletoscienza (a Spoleto, Chiostro San Nicolò), appuntamento nato nel 1989 come sezione aggiunta al Festival dei Due Mondi. Sabato, nell’incontro dal titolo «La Scienza al tramonto del secolo breve», dopo una relazione di Martin Bauer, reader in Social Psychology and Research Methodology della London School of Economics, sono previsti gli interventi di Alison Abbott, Paolo Fabbri, Paolo Rossi e dell’astrofico di Cambridge John Barrow.
L’impronta sull’universo
Il cosmo si espande secondo una rotta precisa, l’unica a consentire la nascita della vita.
Parla John Barrow, teorizzatore del «principio antropico»
di LUIGI DELL’AGLIO (Avvenire, 10.07.2008)
L’ universo si espande, ma non a caso. Se crescesse un po’ più rapidamente o un po’ più lentamente, la vita non esisterebbe affatto. Energia oscura: per capire questo mistero dell’universo bisogna ricorrere a una cifra illeggibile, pari a 10 seguito da 120 zeri. Bene, sarebbe bastata la mancanza di uno solo di questi zeri per mandare a monte il programma della vita nell’universo.
John D. Barrow, 55 anni, uno dei più grandi matematici e cosmologi viventi, torna con nuove ragioni a sostenere che l’universo è stato fatto per la vita e per il genere umano, come affermava anche nel libro che gli ha dato fama: The Anthropic Cosmological Principle, del 1986. Docente all’Università di Cambridge, insignito del premio Templeton 2006 («per aver contribuito al progresso della conoscenza in materia di scienza e religione») e del Queen’s Anniversary Prize, Barrow parlerà a Spoletoscienza sabato, presentando il suo ultimo libro, Cosmic Imagery.
Quanto manca perché la ricerca astrofisica possa risalire all’attimo del Big Bang, la grande esplosione che ha dato origine all’Universo?
«Siamo in grado di produrre una ben dimostrata ricostruzione storica dell’universo giovane, tornando indietro fino a un secondo dopo la sua tumultuosa nascita. In quel momento, la materia è un po’ più densa dell’acqua. Poi, entro i primi tre minuti, l’universo si comporta come un grande reattore nucleare che produce deuterio, elio e litio. Subito dopo si espande. E oggi le osservazioni astronomiche confermano il modello Big Bang, accettato da quasi tutti i cosmologi. Non c’è accordo, invece, sulla complicata sequenza di eventi che dal Big Bang porta alla formazione di galassie, stelle e pianeti».
Quand’è che l’Universo comincia a creare le condizioni favorevoli alla vita?
«Per poter disporre dei ’mattoni’ necessari, occorrono elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio che compaiono nei primi minuti dal Big Bang. Gli elementi interessanti dal punto di vista biochimico, come il carbonio, sono prodotti dall’idrogeno e dall’elio nelle fornaci nucleari delle stelle. Quando le stelle muoiono, questi elementi si disperdono nello spazio e trovano la loro via nei pianeti e negli esseri viventi. Il processo dell’alchimia nucleare è lungo e lento. Ha bisogno di miliardi di anni. Perciò, per creare le condizioni favorevoli alla vita, l’universo deve essere grande, vecchio, buio e freddo».
Deve allontanarsi dall’immenso calore dell’universo giovane. E diventare grande. Ma perché anche buio?
«Man mano che ci si allontana dal Big Bang, l’energia cosmica ha una densità troppo bassa perché l’universo sia luminoso di notte. Più in generale, la stessa densità media dell’universo è veramente bassa: stelle e galassie sono separate da crescenti distanze astronomiche. Gli avamposti si allontanano. La vastità e la dispersione che regnano nell’universo avevano indotto non pochi filosofi a negare il carattere teleologico, cioè finalistico, del cosmo. Ma le apparenze ingannano. La scoperta dell’espansione dell’Universo (prevista dalla teoria generale della relatività, di Albert Einstein) ha mostrato la sottigliezza e la complessità della moderna cosmologia».
Perché l’Universo continua a espandersi?
«Ecco un mistero. L’universo segue una ’rotta’, diciamo così, ed è altamente improbabile che sia stata segnata dal caso. È uno spartiacque molto preciso: se l’Universo si espandesse troppo velocemente, non riuscirebbe ad aggregare materiale nelle galassie e nelle stelle (e non si formerebbero i mattoni della vita); se si espandesse troppo lentamente, collasserebbe in un processo di crescente contrazione e non durerebbe quei miliardi di anni necessari perché si formino le stelle. È fantastico che l’Universo abbia mantenuto questa rotta per quattordici miliardi di anni».
In quali direzioni punta oggi la ricerca cosmologica?
«Scopriamo sempre nuove cose sulla ’corsa’ dell’universo. Ma c’è un altro enigma, molto stringente, da spiegare. Come rilevano i più avanzati telescopi, pochi miliardi di anni fa l’espansione sembra aver subito un’accelerazione che è tuttora in atto. È come se il moto inflazionario dell’universo sia ripreso da capo. La spinta verrebbe dall’energia oscura che rappresenta circa il 70% di tutta l’energia cosmica. Secondo tutti i calcoli eseguiti, per poterne valutare l’importanza occorre considerare un numero spropositato: dieci seguito da centoventi zeri. Se questa cifra avesse perduto un solo zero, addio galassie, stelle e forme di vita (compresa la nostra)».