BASILICATA
Nasce nella Regione il terzo parco letterario ed è dedicato al grande sacerdote-scrittore
Un giardino per don De Luca
Presso il Palazzo di famiglia potrebbe trovare posto la sua ricca e importante biblioteca. Un’opera idealmente pensata anche per i giovani, afferma Rotundo
Da Sasso Di Castalda (Pz), Giorgio Agnisola (Avvenire, 15.09.2006)
È intitolato alla figura e all’opera di Don Giuseppe De Luca il terzo Parco Letterario della Basilicata, promosso in collaborazione con la Fondazione Nievo, dopo quelli dedicati a Carlo Levi e Isabella Morra, rispettivamente ad Aliano e Valsinni, in provincia di Matera.
La dedicazione al prete-scrittore, che ha segnato una parte importante della storia cattolica del ’900, vuole riproporre la testimonianza di uno studioso di raffinata cultura e di saggia intelligenza politica, che seppe esprimere la sua vocazione con uno spirito di grande modernità. Don De Luca soleva ripetere di essere interessato non alla politica, ma ai politici, che invitava a tenere alta la bandiera della ricerca intellettuale, tralasciando le barriere tipiche e caratteristiche di ogni ideologia.
Fu amico di Papini, Ungaretti, Prezzolini, Palmiro Togliatti e soprattutto di Papa Montini e Papa Roncalli. Nutrì interesse per la situazione del clero nei paesi dell’Est e memorabile fu il contributo che apportò a favore dell’avvicinamento tra Urss e Santa Sede.
Ma è la sua opera letteraria, soprattutto, al centro degli interessi del nuovo Parco che avrà come centro ideale Sasso di Castalda, la piccola, deliziosa cittadina circondata da faggete, situata ad una trentina di chilometri da Potenza, a poco meno di mille metri di altitudine, in cui De Luca nacque nel 1898 e dove si spera venga presto collocata, presso il Palazzo di famiglia donato al Comune e attualmente in corso di ristrutturazione, la sua biblioteca ricca di oltre ottantacinquemila tra volumi, appunti e carteggi, depositati presso la Biblioteca Vaticana.
Inteso come un contenitore di eventi e strutture culturali anche stabili, ispirati ai luoghi, ai personaggi, ai percorsi intellettuali dell’universo letterario di De Luca, il Parco coinvolgerà anche altri centri del potentino, come Brienza, comune di nascita di Francesco M. Pagano, e Tito, dove ha sede il Fondo Alianello, che conserva scritti e manoscritti inediti dell’autore, in un conte sto ambientale segnato da una forte identità culturale, che ha radici nella Magna Grecia, come lo stesso De Luca ebbe a scrivere con forti accenti lirici nella sua nota Ballata alla Madonna di Czestochowa.
Un Parco, dunque, che non ha un preciso confine territoriale, ma piuttosto spirituale, come voleva Stanislao Nievo, lo scrittore pronipote di Ippolito, scomparso poco tempo fa, a cui si deve l’ideazione dei Parchi Letterari. «D’altra parte - afferma il sindaco di Sasso, Giuseppe Rotundo - il parco De Luca si propone anche come opportunità di iniziative di aggregazione e di attività economiche ad ampio raggio, soprattutto per i giovani: da quelle turistico-culturali, a quelle artigianali, a quelle produttive e legate alle specificità del luogo, nel segno della creatività locale e della continuità con la tradizione, ma anche della innovazione tecnologica».
La nuova struttura si avvale della collaborazione della Comunità Montana Melandro e di altri enti territoriali, tra cui l’Università di Basilicata, e di sponsor privati, avendo come motore operativo un’ associazione del capoluogo regionale, il Circolo Angilla Vecchia, di cui è presidente Vincenzo Fierro. Si devono a quest’ultimo, in particolare, l’idea del parco e la proposta di un quadro di iniziative di significativo interesse culturale, la prima delle quali è stata la presentazione ufficiale del Carteggio 1933- 1962 (l’anno della morte di De Luca), tra lo studioso, Loris Francesco Capovilla e Giovanni XXIII, curato da Marco Roncalli.
«Il nostro desiderio - dice Fierro - è di far conoscere soprattutto alle nuove generazioni, attraverso l’opera di De Luca e il suo vissuto, la cultura spirituale del nostro territorio, che l’autore seppe interpretare con straordinaria e moderna sensibilità, rafforzando il valore simbolico delle nostre radici, ma anche guardando al presente con una consapevolezza nuova, con un nuovo sguardo interiore».
Tra le iniziative programmate, la realizzazione di un comitato scientifico, racc ordato con i circuiti della ricerca universitaria nazionale ed europea, l’organizzazione di un premio letterario De Luca, in coordinazione con le Edizioni di Storia e Letteratura che lo stesso studioso fondò, un progetto di diffusione dell’opera di De Luca, rivolto soprattutto alle scuole della Basilicata e la realizzazione di un documentario sul sacerdote e sull’intellettuale.
carteggio
E il «prete lucano-romano» dialogava con Papa Giovanni
Tre ecclesiastici diversi per indole, ruolo, anagrafe, e però «uniti nell’intensità del loro servizio al Vangelo», accomunati dall’«amore per la cultura»: Angelo Roncalli, prima visitatore e delegato apostolico a Sofia e a Istanbul, nunzio a Parigi, poi patriarca di Venezia, infine pontefice; Giuseppe De Luca, «prete lucano-romano» di straordinaria erudizione, storico e filologo; Loris Capovilla, sacerdote veneziano che si trovò a «vivere dieci anni della sua vita come collaboratore del patriarca Roncalli, poi di Giovanni XXIII» diventando di necessità il filtro fra De Luca e il Pontefice. Sono loro i protagonisti del «Carteggio 1933-1962», appena uscito a cura del giornalista e saggista Marco Roncalli per i tipi delle romane Edizioni di Storia e Letteratura (pagine 312, euro 38).
UN VIAGGIO IN BASILICATA CON DON GIUSEPPE DE LUCA.
Cammino sinodale e discernimento comunitario
Parola, alleanze e pietà popolare
di Paolo Scarafoni e Filomena Rizzo *
Una delle priorità del cammino sinodale della Chiesa italiana, nella chiamata al discernimento comunitario, è riportare al centro la Parola nelle comunità reali, le parrocchie e le famiglie. Non c’è autentico discernimento cristiano senza la luce della Parola di Dio. Per il timore dell’eresia della libera interpretazione, la Bibbia di fatto scomparve dalle case dei cattolici. Il concilio Vaticano ii con la costituzione dogmatica Dei Verbum ha riproposto l’ascolto e la proclamazione della Parola nel cammino della Chiesa.
Come farla tornare al centro della vita cristiana affinché si realizzi la Chiesa comunità? Indichiamo le «alleanze» come chiave di lettura antropologica e teologica della Parola. Mostrano il rapporto vivo di Dio con il popolo. Lungo la storia, Dio ha stabilito alleanze con l’umanità, legami d’amore e promesse per concedere i suoi doni e ricevere la risposta dell’uomo. Sono reali, non ideologiche, e ne sono prova i tanti fallimenti.
L’alleanza della creazione, di Adamo ed Eva: è il Paradiso. Fallita per il peccato e per l’orgoglio, è vigente perché Dio continua a volerci tutti in Paradiso. È l’alleanza della felicità.
L’alleanza di Noè, con tutta l’umanità. Dio si impegna a non distruggere mai più ciò che ha creato. Il simbolo è l’arcobaleno fra il cielo e la terra. È fallita per l’orgoglio umano e la dispersione dei popoli, e sempre fedele nella regolarità delle stagioni. È l’alleanza della pace.
L’alleanza di Abramo, la scelta del popolo ebraico, come primogenito. Un vincolo segnato nella carne con la circoncisione. È fallita perché il popolo eletto, invece di essere «un pedagogo che conduce a Dio» tutti i popoli, ha interpretato la sua elezione come privilegio. Essa permane perché il popolo ebraico non è maledetto, conserva la primogenitura. È l’alleanza della vocazione.
L’alleanza di Mosè: Dio rivela il suo nome, libera dalla schiavitù, dona la terra e la legge, che è luce e cammino sicuro per tutta l’umanità, e istituisce il rito come elemento di relazione. Fallisce per la sfiducia in Dio e si trasforma in legalismo e ritualismo. È mantenuta viva dai profeti che invitavano alla speranza. È l’alleanza della legge, dell’attaccamento e della memoria.
C’è poi la sorpresa della nuova ed eterna alleanza di Gesù Cristo, il Figlio di Dio fatto uomo, che compie le profezie. Da parte di Dio è un’alleanza definitiva, universale e irreversibile, che non abolisce le precedenti, ma «aggiunge», «porta a compimento» dando nuova vita a tutte le altre alleanze.
Il nuovo Adamo riapre il Paradiso e ci chiama “fratelli tutti”. L’alleanza di Gesù Cristo svela che Dio vuole una comunione di amore e di pace e non di dominio e di violenza. È l’alleanza dell’amore nonostante i fallimenti da superare e gli sbagli da correggere.
Il popolo nella Chiesa cattolica si relaziona con Dio nella liturgia, nella carità, nel rapporto con il creato e nella pietà popolare. Anche se solo una minoranza vi partecipa, la liturgia è il luogo teologico privilegiato per la Parola. I testi del lezionario delle domeniche e dei “tempi forti” sono stati selezionati alla luce delle alleanze, in modo che nel rapporto fra Antico e Nuovo testamento appaia chiaro il cammino di relazione fra Dio e umanità che apre al futuro di salvezza: promessa, compimento e pienezza. È importante, specialmente in parrocchia, preparare comunitariamente, alcune volte durante l’anno, la celebrazione domenicale e la predicazione, come suggerito in Evangelii gaudium, 135-151.
Negli ambiti della carità, specialmente con la scelta preferenziale per i poveri, e del rapporto con il creato, verso i quali molti si sentono oggi spontaneamente attratti, la Parola non è stata ancora sufficientemente valorizzata e talvolta è stata usata in modo riduttivo e ideologico; ma la teologia delle alleanze potrebbe apportare luce anche sulle grandi tragedie umanitarie di oggi.
Fin da subito invece si può ridare valore alla Parola di Dio nella pietà popolare. Una bella definizione di pietà popolare è di don Giuseppe De Luca: «La pietà è presenza amata di Dio; non è pietà una fiammata momentanea, per essere pietà deve essere come una vita. Si è pii come si è vivi». La pietà è consuetudine d’amore, tradizione assimilata, dal cuore del popolo. Non è mai solitaria e manifesta la vigenza delle alleanze. La comprensione teologica si trova in Evangelii nuntiandi, 48, dove si abbandona l’espressione “religiosità popolare” perché di sapore sociologico, e si chiede di prediligere l’espressione “pietà popolare”. Essa è naturalmente mistagogica, evangelizzatrice, perché contamina le generazioni in modo orizzontale e verticale, cioè sincronico e diacronico (Evangelii gaudium, 122). È universale come fenomeno che si riferisce a Dio, ma è particolare e locale come realtà vissuta, con testimoni conosciuti e amati e in rapporto con il creato in quel luogo specifico attraverso elementi simbolici.
Non sono bastati la lectio divina, i predicatori esperti, i gruppi selezionati, le élite, i movimenti, le scuole, perché sono cammini dall’alto. Per il popolo cattolico la pietà popolare è il luogo teologico per eccellenza “dal basso”, e in quel terreno fecondo da dissodare da ogni superstizione è importante che rifiorisca la Parola letta alla luce delle alleanze.
* Fonte: L’Osservatore Romano, 24 agosto 2021
L’enigma di Sasso di Castalda
di Nicola Fanizza (Nazione indiana, 26 marzo 2018)
L’ombra della Montagna Sacra cominciò ad abitare nei mei pensieri sin da quando frequentavo la scuola elementare. Ricordo che quel pomeriggio nel gennaio del 1959 faceva davvero molto freddo. Il vento invernale aveva costretto Benedetto ad aprire la porta di casa sua a noi ragazzini che giocavamo nella strada. Appena fummo seduti intorno al braciere, Benedetto ci regalò dei tarallini zuccherati. Subito dopo iniziò il suo racconto che era incentrato sulla sua permanenza a Sasso di Castalda, un villaggio della Basilicata, che aveva lo stesso nome della montagna.
Disse che era stato lì, come confinato, per più di un anno. Vi era giunto da Mola, verso la fine del 1941, per aver pronunciato una battuta irriverente nei confronti del regime fascista: «Saluti al Duce. Di sera senza luce, di giorno senza pane, e la notte con l’areoplano!».
La Commissione provinciale di Bari, sulla scorta della denuncia di un delatore, era stata inesorabile nei suoi confronti. Per una sola battuta, lo aveva condannato a due anni di confino.
I diciotto mesi passati a Sasso di Castalda - così ci disse - erano stati tra i più belli della sua vita. Era rimasto incantato dal suo cielo, dai suoi boschi, dalle sue acque, dai suoi luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Aveva imparato ad amare la generosità dei contadini lucani, la loro disponibilità a ospitare persino lo straniero di cui non conoscevano neppure il nome.
I pastori gli avevano detto che la montagna era situata a una distanza pari fra l’Adriatico, lo Ionio e il Tirreno e che dalla vetta, quando il cielo era limpido, era possibile vedere scintillare insieme le tre marine!
Da qui il suo desiderio di raggiungere la sua sommità più alta. Un’esigenza che diventa comprensibile se si tiene presente che nel nostro immaginario la Montagna rimanda da sempre al legame fra la Terra e il Cielo.
Quando Benedetto arrivò in cima alla montagna, il cielo azzurro gli apparve così vicino da poterlo toccare. Vide scintillare insieme le tre marine e si rese subito conto che in quell’inedito spazio esistenziale non avvertiva più la differenza fra l’alto e il basso, fra il vero e il falso, fra la salita e la discesa.
Il racconto di Benedetto mi aveva a tal punto coinvolto sul piano emotivo da farmi dimenticare i dolci che avevo nelle mani. Cominciai a sognare ad occhi aperti. Salivo anch’io sulla cima di quel monte fantastico e vedevo da lontano lo scintillio delle tre marine. Mi ripromisi che, non appena ne avessi avuta la possibilità, sarei andato anch’io in Basilicata per salire sulla vetta di quella montagna meravigliosa.
Benedetto lo chiamavano «u fascianaise» (il fasanese), poiché era nato per l’appunto a Fasano. Si era poi trapiantato a Mola e abitava in via Pascasio, ossia nella stessa strada in cui era ubicata la casa dei miei genitori. Era un contadino benestante e senza figli. Possedeva un bellissimo sciaraballe* (calesse), impreziosito sulle sponde del cassone da due dipinti simmetrici in cui erano raffigurati, sullo sfondo celeste, due cesti di uva nera.
Mentre la moglie Francesca era piuttosto minutina - la chiamavano «a cordelécchie» (la piccolina) -, Benedetto, invece, era longilineo. Il suo viso era roseo sul fondo scuro della barba incolta; aveva gli occhi di poeta e parlava in modo frizzante e saporito. Era simpatico, carico di sorrisi e di cordialità, allegro e generoso con tutti.
Era un uomo che sapeva vivere. Ogni fine settimana organizzava delle feste, in cui si beveva a volontà, si discuteva di politica, si parlava del libero amore, si ascoltava la musica e si cantava.
Benedetto era anarchico e tuttavia non si perdeva mai una processione. Andava in giro con la giacca piena di «pizzini» su cui riportava gli aforismi dei pensatori anarchici e quando gli capitava l’occasione li tirava fuori e li leggeva.
D’altra parte, rivendicava la sua devozione per San Nicola, di cui raccontava un’antica leggenda: «San Nicola mentre si recava attraverso la steppa russa a un incontro con Dio, non poté impedirsi di arrivare in ritardo, poiché si era attardato a liberare dal fango la vettura impantanata di un mugik!».
Grazie agli insegnamenti di San Nicola - il santo della carità -, Benedetto era penetrato fino al midollo di quel senso universalistico della fraternità che si configura come ciò che accomuna tutte le religioni e che sta a fondamento di ogni cultura. La carità per Benedetto era coestensiva alla pietà. Era insomma una categoria antropologica.
Quando dopo alcuni anni feci notare a mia madre la sua contraddizione, lei mi disse che ero ancora troppo piccolo per capire certe cose e che «Benedetto era un uomo straordinario, un individuo che trovava il tempo e il modo per fare tante cose insieme!».
Benedetto era un individuo sovrano, un uomo che aveva fatto della sua vita un dono. Era, infatti, generoso con i poveri e, in modo particolare, con Ciccillo «u mamaune» (lo scemo), il quale era goloso di maccheroni.
Ricordo che quest’ultimo era anche egli altissimo, aveva una corporatura massiccia, l’andatura era callosa e si trascinava a passi lenti e pesanti. Viveva da solo e nell’ora di pranzo si recava ogni giorno dai suoi parenti per ricevere il «rancio» quotidiano, che consumava, però, a casa sua.
Ciccillo aspettava sempre con ansia le festività più rilevanti, poiché in quelle occasioni avrebbe mangiato i suoi adorati maccheroni. E tuttavia proprio nel giorno della festa patronale accadde l’imponderabile.
Ciccillo si recò come al solito dai suoi parenti per prelevare ciò che aspettava da diversi mesi, ma, quando tornò a casa, fu investito da una triste meraviglia: nel piatto non c’erano i maccheroni, bensì le fave!
Lo vidi fare avanti e indietro nella strada, e lo sentii manifestare la sua amarezza, ripetendo ad alta voce: «Nooo. Oggi è la festa della Madonna, io le fave non le mangio: voglio i maccheroni con la carne!».
I vicini uscirono in strada per commentare - divertiti - l’accaduto, ma solo mia madre e Benedetto recepirono la sua accorata richiesta. Ciccillo, però, accolse l’invito di Benedetto: sapeva che alla sua tavola non mancavano mai i maccheroni con la carne!
L’occasione per andare a Sasso di Castalda mi capitò solo dodici anni dopo, grazie a mia sorella Caterina, la quale conosceva il mio desiderio di salire sulla vetta della montagna di quel paese. Caterina si era sposata da appena due anni con Francesco, un funzionario del Banco di Napoli. Tuttavia, subito dopo il matrimonio, il marito fu inviato dalla sua banca presso la filiale di Senise in Basilicata, in provincia di Potenza, e Caterina era stata costretta a seguirlo. Da qui il suo invito a raggiungerla a Senise, che dista settanta chilometri dal paese in cui Benedetto era stato confinato.
Prima di giungere nel paese, vidi che stavano costruendo una diga in terra battuta, che frenando il corso del fiume Sinni creava un lago artificiale. Caterina aveva cominciato ad amare quel lago che era appena nato per l’azzurro delle acque, il giallo ocra della sabbia, il verde dei suoi boschi. Tutto ciò - mi disse Caterina - contribuiva a rendere quello specchio d’acqua un «angolo di pace e tranquillità».
Il giorno successivo al mio arrivo a Senise, ci mettemmo in cammino, con la macchina di mio cognato, per raggiungere Sasso di Castalda. La strada era sconnessa e tortuosa come un cavatappi. Da lontano vidi un pugno di case, abbarbicate a uno scoglio aspro, coperto a tratti dal muschio di colore verde.
Quando iniziammo la salita, si unì a noi un uomo che era già avanti negli anni. Capelli bianchi, corporatura esile, viso lentigginoso, occhi verdi, l’uomo che camminava, col passo lento, al nostro fianco sembrava un norvegese e, invece, ci disse che era francese. Senza che nessuno lo invitasse a parlare, asserì che quello per lui era un bel giorno. Aveva cercato per trent’anni il luogo in cui si trovava la Montagna Sacra e, finalmente, l’aveva trovata: era a Sasso di Castalda!
Dopo aver ascoltato le sue parole, gli chiesi di parlarmi del mistero di Sasso di Castalda e del perché la ritenesse una Montagna Sacra.
Il Francese rispose solo in parte alle mie due domande. Si limitò a dire: «ragazzo ricordati che ogni ascesa è anche una discesa!».
Eravamo giunti a un centinaio di metri dalla vetta, quando mi resi conto che il Francese non era più con noi. Rivolsi più volte il mio sguardo sia in alto sia in basso, ma non lo vidi più. Avrei voluto sapere come si chiamava. Avrei voluto parlare più a lungo con lui. Avrei voluto fargli altre domande ... Niente. Il Francese senza nome era scomparso!
Ci fermammo, infine, su una radura e di lì, grazie all’assenza di nubi, vedemmo le tre marine inondate dalla stessa luce color verde-oro, iridescente. Era una luce meravigliosa. Una luce reale e, insieme, irreale!
Dopo quella salita sulla vetta di Sasso di Castalda, mi accadde di pensare più volte alle parole che il Francese senza nome aveva detto nel corso della nostra ascesa. Ma col passare del tempo la mistica dell’alpinismo si fece sempre meno pervasiva, fino a scomparire del tutto dai miei pensieri.
Ciò che riaccese in seguito il mio interesse per l’enigma di Sasso di Castalda fu il mio amico Federico La Sala. Quest’ultimo mi parlò di uno scritto autobiografico di don Giuseppe De Luca, il quale era nato proprio a Sasso di Castalda.
De Luca aveva svolto la sua funzione di «mediatore» fra la cultura profana e quella sacra, era stato amico e collaboratore di Giovanni XXIII, e va ricordato soprattutto per aver dato il via al progetto e al lavoro dell’«Archivio italiano per la storia della pietà».
Grazie anche alla sua scrittura ispirata, De Luca aveva attribuito una notevole valenza simbolica a Sasso di Castalda. Nella sua rappresentazione la vetta della montagna si trovava sul vertice di una piramide, la cui base era delimitata dai lati di un triangolo, su cui battevano le onde di tre mari diversi: il Tirreno, lo Ionio, l’Adriatico. Sul Tirreno, c’era Elea, la città in cui era nato Parmenide, il fondatore della metafisica (immanenza); sullo Ionio, Metaponto, la città in cui aveva vissuto Pitagora, il fondatore della filosofia religiosa (trascendenza).
E, tuttavia, De Luca aveva taciuto sul terzo tassello, capace di risolvere l’enigma di Sasso di Castalda!
E’ probabile che abbia taciuto volontariamente. De Luca era un uomo dotato di una grande cultura sapienziale. E come spesso accade, i sapienti non mettono per iscritto tutto ciò che sanno, per lasciare al lettore la possibilità e il piacere di svelare ciò che essi hanno volutamente taciuto o nascosto.
In seguito mi sono venute in mente le parole con cui il Francese senza nome mi aveva invitato a mediare fra ciò che sta in alto e ciò che sta in basso. Ho ripensato, inoltre, a Benedetto che voleva rinnovare lo spazio sociale con le pratiche che stazionano nell’atmosfera del dono. Ho rivolto, infine, l’attenzione alle città che sono disseminate sulla costa del Mar Adriatico e, in particolare, alla Terra che mi ha visto nascere. Qui i miei occhi si sono fermati - improvvisamente - sulla città di Bari, che custodisce le reliquie di San Nicola, il santo della carità ...
* Carro a un solo asse piuttosto elegante trainato da un cavallo, generalmente adibito al trasporto di persone. Il termine deriva dal francese «char à banc», che designava il carrozzino utilizzato, per lo più, dai proprietari terrieri per recarsi in campagna a controllare i loro poderi o per fare delle passeggiate con la famiglia.
Nota a "L’enigma di Sasso di Castalda" di Nicola Fanizza
STORIA, LETTERATURA, E UN "ORIGINALISSIMO PONTE” TRA LE MONTAGNE! UN BEL LAVORO E UN BRILLANTE OMAGGIO ALLA MEMORIA DI DON GIUSEPPE DE LUCA e AL LAVORO DELL’”Archivio Italiano per la Storia della Pietà” e delle “Edizioni di Storia e Letteratura”...
Fondato da don Giuseppe De Luca nel 1951 come raccolta di testi non genericamente religiosi ma significativi di un incontro dell’uomo con Dio, tali, insomma, che consentano di guardare «al cuore dell’uomo» per vedervi «il suo amore o il suo odio di Dio», l’«Archivio italiano per la storia della pietà» ha ripreso a essere pubblicato nel 1996 aprendosi a prospettive più ampie e non soltanto a quelle genericamente individuabili con la religione cattolica. Pubblica saggi che indagano il rapporto che l’uomo ha con l’Assoluto comunque inteso, comunque esso si manifesti nella storia umana, nelle religioni monoteistiche come nei movimenti religiosi sviluppatisi in Asia o nelle Americhe o altrove, dalle epoche più remote fino ai giorni nostri(http://www.beniculturali.it/mibac/export/MiBAC/sito-MiBAC/Contenuti/MibacUnif/Eventi/visualizza_asset.html_1556572476.html).
Nel 2015, le Edizioni di Storia e Letteratura hanno pubblicato proprio nella collana dell’”Archivio italiano per la storia della pietà”, il volume XXVIII, dedicato al tema de “I sacri Monti: itinerari ascetici cristiani” (cfr.: http://storiaeletteratura.it/archivio-italiano-per-la-storia-della-pieta-xxviii/).
A MIO PARERE, Nicola Fanizza ha saputo evidenziare con grande sensibilità teoretica e artistica (di scrittura) il filo antropologico-politico dell’impresa di don Giuseppe De Luca e della sua casa editrice “Edizioni di Storia e Letteratura” (http://storiaeletteratura.it/).
Federico La Sala
Rodano, il comunista sulla via di Cristo
di Filippo Rizzi (Avvenire, 19 luglio 2013)
Uno dei padri nobili del Compromesso storico tra Dc e Pci nel lontano 1978, l’abile consigliere ( definito per questo «l’eminenza grigia», «il consigliere del principe») di Palmiro Togliatti ed Enrico Berlinguer, l’antifascista, ma soprattutto Franco Rodano è stato associato da un appellativo che ha quasi cadenzato la sua breve e intensa vita (1920-1983): il cattocomunista. Sono trascorsi 30 anni dalla scomparsa di questo complessa figura di cattolico sui generis , avvenuta il 21 luglio del 1983 a causa di una crisi cardiaca a Monterado nelle Marche, che con la sua azione di intellettuale atipico e «cristiano nella sinistra» tentò, come disse l’allora presidente della Repubblica Sandro Pertini, di «conciliare nel movimento dei cattolici comunisti i valori della tradizione cristiana e cattolica con quelli della rivoluzione d’ottobre».
E non è forse un caso che stelle polari della speculazione filosofica e politica di Rodano nell’arco della sua vita siano stati soprattutto Karl Marx e Tommaso d’Aquino. A colpire ancora oggi di questo cattolico irregolare perché militante del Pci è il suo retroterra spirituale di riferimento: pur essendo nato a Roma frequenta le elementari a Bologna (avendo tra i suoi compagni di classe il coetaneo Enzo Biagi); fondamentale sarà soprattutto negli anni dell’adolescenza il passaggio a Roma con l’iscrizione dal 1935 al 1940 al prestigioso liceo classico Ennio Quirino Visconti, (uno degli ultimi focolai antifascisti nella Capitale come il D’Azeglio di Torino).
Saranno questi gli anni decisivi per l’impronta cattolica di Rodano: frequenta la congregazione mariana La Scaletta diretta dai padri gesuiti; milita nell’Azione Cattolica e nella Fuci. Una traccia indelebile nella vita del giovane Rodano sarà l’incontro con gli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio e con il padre gesuita Giuliano Prosperini. È questo il periodo delle grandi turbolenze giovanili di Rodano, delle intense letture (da San Tommaso, alla Bibbia a Giovanni della Croce), dell’apostolato giovanile, delle penitenze pietistiche in perfetto stile gesuitico ma anche delle grandi decisioni: tra il 1938 e il 1940 partecipa al Movimento dei cattolici antifascisti.
Sono gli anni degli incontri con grandi personalità del suo tempo, ideologicamente e culturalmente diverse tra loro: da Luigi Gedda a Giuseppe Lazzati, da Giaime Pintor a Giulio Andreotti (con cui esprimerà il suo personale disaccordo per la posizione ufficiale della Fuci sulla guerra civile spagnola, sposando invece la tesi di Bernanos), da Adriano Ossicini a don Giuseppe De Luca. Toccherà, strano a pensarsi, proprio a Rodano sotto pseudonimo firmare per le pagine dell’“Osservatore Romano” il 14 marzo del 1942 un articolo dal titolo asettico «Alessandro Manzoni antiMachiavelli». Il 18 maggio dell’anno successivo verrà arrestato dalla polizia fascista e poi, dopo la caduta del fascismo (25 luglio 1943), liberato.
Tappa fondamentale della biografia di Rodano sarà la notte di Natale del 1944 nella sua abitazione di via dei Fienili, a due passi dal Campidoglio. Commensali di quel banchetto natalizio, oltre a Rodano e la moglie Marisa Cinciari (conosciuta giovanissima al Circolo San Pietro), don Giuseppe De Luca, l’uomo di fiducia degli allora monsignori della Curia pacelliana Alfredo Ottaviani e Domenico Tardini, e il più prestigioso leader comunista occidentale Palmiro Togliatti. «Si avvertì dietro ai richiami al Risorgimento a Cavour a San Paolo in quella notte - ha raccontato uno dei testimoni di quella storica cena, Filippo Sacconi - che in realtà Togliatti e De Luca esplorassero due mondi così diversi e lontani: il mondo cattolico e quello comunista, Mosca e il Vaticano. E non fu certo una coincidenza, auspice Franco, che avvenisse nella sua casa... ».
E sarà proprio l’attenzione al mondo cattolico e alla sue istanze che convincerà Togliatti a non dimenticare mai i suggerimenti e le indicazioni del suo fidato consigliere: spetterà al 27enne Rodano spiegare sulle colonne di “Rinascita” nell’aprile del 1947 la posizione del Pci sull’articolo 7 della Costituzione sull’inserimento delle norme concordatarie al fine di salvaguardare la pace religiosa nel Paese.
Resterà un cattolico fedele alle sue convinzioni, anche quando l’anno successivo (il 1948) sarà colpito da un interdetto personale del Sant’Uffizio di Pio XII di ricevere i sacramenti, in particolare l’Eucarestia. Una dolorosa condizione (vissuta in silenzio e secondo lo storico Pietro Scoppola come il segno di «una fedeltà spirituale alla Chiesa») da cui sarebbe uscito molti anni dopo. Il Concilio Vaticano II come l’apertura e l’azione di disgelo verso l’Unione Sovietica attuata da Giovanni XXIII rappresenterà per Rodano in un certo senso una nuova rinascita della «sua anima credente »; non è certo un caso che sia stato tra i principali sponsor dell’ Ostpolitik vaticana.
Oltre alla storica collaborazione con il periodico “Quaderni della rivista trimestrale” o “Paese Sera” Rodano negli anni del post-Concilio deciderà di firmare alcuni articoli per il mensile dei dehoniani di Bologna “Il Regno”; (si prodigherà, tra l’altro, a garantire ogni anno l’abbonamento di questo mensile a una monaca di clausura indigente perché sarà la sua convinzione: «è importante, oggi, pregare in silenzio»). Sono questi gli anni della conoscenza personale di un teologo di razza come Marie Dominique Chenu o dello studio di pensatori cattolici molto in voga come Edward Schillebeeckx o Hans Kung (di cui è critico per la sua visione ecclesiologica).
Anni che lo vedranno confrontarsi sull’arena pubblica dei giornali proprio sul tema del cattolicesimo e comunismo, sempre con grande garbo e rispetto, con il filosofo Augusto Del Noce o criticare, per esempio, apertamente il preposito generale dei gesuiti Pedro Arrupe per non aver accettato dentro le province latino-americane della Compagnia di Gesù l’insegnamento dell’analisi marxista.
A 30 anni dalla sua scomparsa rimangono vive la storia e la cifra intellettuale di questo personaggio politico atipico dentro il Pci, di «cattolico ’romano’ posto ’extra-ecclesiam» come lo definì Giovanni Tassani. Un «combattente appassionato» secondo Enrico Berlinguer che in fondo è giusto forse ancora oggi ricordare e inquadrare storicamente con le stesse parole scritte il giorno della sua morte su “Le Monde” da Philippe Pons: «Fino al termine della sua vita, volle rimanere rigorosamente coerente con i principi che aveva elaborato».
Rodano, la speciale laicità del cattolico comunista
di Marcello Musté (l’Unità, 21 luglio 2013)
A distanza di trent’anni dalla morte (21 luglio 1983), l’opera di Franco Rodano potrebbe apparire inattuale, o persino superata. Inattuale, perché costituita da pensieri, sì politici, ma sorretti da ardue meditazioni filosofiche e da ampi squarci storiografici, a cui un po’ tutti ci siamo disabituati; e superata perché testimone di un mondo che non è più il nostro.
Ma per la sostanza dei problemi evocati (la questione cattolica, la democrazia, il capitalismo), e per la qualità delle analisi, certe sue pagine sembrano scritte ieri e continuano a parlarci.
IL CONFRONTO CON TOGLIATTI
Al centro della sua riflessione restò la ricerca di un altro modo di intendere la laicità. Questa fu la forma specifica in cui (oltre Gramsci e Togliatti, ma mantenendone viva la «lezione») ripensò la «questione cattolica».
Rodano recuperava, per esempio attraverso le lettere di san Paolo, il valore di una positiva accettazione del limite, della finitezza dell’uomo, e di conseguenza vedeva nella tesi della «negatività del finito» (da Parmenide a Hegel, fino alla frase di Engels per cui «tutto ciò che esiste merita di morire») la sorgente di una confusione fatale tra sfera di natura e sovrannaturale. La sua idea di laicità aveva conseguenze importanti sul modo di concepire la cultura cattolica e quella comunista. A differenza di quanto si è affermato, non fu l’ispiratore (o l’«architetto») del compromesso storico. Questa strategia trovava radici nella storia del comunismo italiano, specie nel periodo togliattiano. Ma Rodano (anche con gli appunti che, attraverso Tatò, fece pervenire a Berlinguer) cercò di conferirvi ampiezza e spessore, fino a considerarla come una trasformazione delle correnti ideali della repubblica.
Questo fu il suo massimo sforzo teorico e il momento di maggiore notorietà. Con il compromesso storico si dava l’occasione per oltrepassare i limiti che avevano segnato sia l’esperienza del partito cattolico che di quello comunista. L’interpretazione del compromesso storico richiamava l’analisi che aveva condotto sulla storia dei due maggiori partiti italiani.
Nei saggi dedicati al partito cattolico, che partivano da Lamennais e De Maistre, aveva contestato il carattere aclassista e integralista di quel partito, fino ad auspicarne il superamento. Indagini non meno acute aveva rivolte al pensiero di Marx, non solo distinguendo (fin dagli scritti giovanili, dialogando con Felice Balbo) il materialismo storico e il materialismo dialettico, ma sottolineando il «residuo signorile» dell’ideale del comunismo, nonché l’insufficienza del modo di concepire il conflitto di classe e la rivoluzione. In definitiva, al fondo del pensiero cattolico e di quello comunista riposava lo stesso difetto di laicità: la logica dell’incontro avrebbe dovuto operare una critica, persino un trascendimento, delle rispettive «ideologie», riconducendole a una visione pienamente laica della politica e della storia.
Naturalmente Rodano conservava molta fiducia nell’idea di rivoluzione, sia pure ripensata (come fece in alcuni articoli pubblicati nel 1963 sulla «Rivista trimestrale») oltre la formulazione marxiana. Era un problema che lo impegnò a lungo, con forti discontinuità. Dopo uno scritto del 1957 sul «neocapitalismo, tra il 1962 e il 1965 riconsiderò (sulla scia di Galbraith) la forma stessa del capitalismo maturo, attraverso la categoria di «società opulenta»: una società dominata dal principio di efficienza e dall’inedita figura del «servo-signore».
GRAMSCI E L’EGEMONIA
Alla fine degli anni settanta corresse questa lettura, introducendo il tema (fondamentale anche per intendere il compromesso storico) dell’antitesi di democrazia e capitalismo: di fronte alla tendenza disgregativa del capitalismo contemporaneo, la democrazia (dimensione «permanente ed essenziale » della politica, oltre la visione togliattiana della «democrazia progressiva »), in quanto aspirazione di eguaglianza universale, ne avrebbe superato la «forma individuale del vivere». Idea che si reggeva sul recupero del concetto gramsciano di egemonia, quale iniziativa politica destinata a innervare e promuovere il valore democratico, e su una politica economica centrata sulla conversione in senso sociale del consumo e non più (come ancora in Marx) sul primato della produzione.
Dopo il 1978, Rodano avviò un riflessione sulle radici della crisi. Riflessione che restò incompiuta, anche di fronte agli sviluppi della politica comunista, che lo impegnarono, nel 1982, nella discussione sul così detto «strappo» dall’Urss: nella quale sembrò a molti quasi un apologeta del modello sovietico. In verità, anche negli articoli che allora scrisse per « Paesesera », volle sottolineare che, con la «negazione semplice» della «seconda fase», non si sarebbe entrati nella «terza fase», quella della laicità della politica, come il compromesso storico sembrava invece consentire, ma in un periodo di ripiegamento e, forse, di confusione.
Pessimismo e lucidità, errori di valutazione e intuizioni feconde, si unirono, senza ben saldarsi in un pensiero coerente, nelle sue ultime, drammatiche meditazioni.
DON GIUSEPPE DE LUCA
Il ricordo del Migliore
«Lui sacerdote io non credente»
Palmiro Togliatti stimava il prelato, tanto che scrisse un testo su don Giuseppe in occasione del primo anniversario della sua morte.
In questa pagina dedicata a don De Luca ripubblichiamo quel testo, che apparve su «Rinascita» il 15 giugno 1963.
Gli incontri. «Qualcosa di comune negli orientamenti della nostra cultura»
di Palmiro Togliatti, da Rinascita (l’Unità, 15.03.2012)
Con don Giuseppe De Luca io ebbi soltanto un certo numero di incontri. Non molti. Eppure bastarono a stabilire tra di noi una corrente che non era soltanto di comprensione e simpatia, ma di amicizia. Vi era qualcosa di comune, mi pare, negli orientamenti della nostra cultura. In questo senso, che entrambi avevamo vissuto, anche se partendo da posizioni diverse e con diverso punto di arrivo, la grande crisi e svolta del Novecento. Mi era sembrato strano, quando lo venni a conoscere, che la mente di quel sacerdote si fosse travagliata attorno alle stesse opere, agli stessi contrasti di idee e di costume, attorno al contenuto delle stesse riviste e rivistine, persino, che erano state l’oggetto del travaglio nostro, di Antonio Gramsci, mio, di altri giovani ora scomparsi, in anni da oggi tanto lontani. Mi è parso perciò di avere acquistato più precisa coscienza, nel contatto con lui, del fatto che una generazione è qualcosa di reale, che porta con sè certi problemi e ne cerca la soluzione, soffre di non averla ancor trovata e si adopra per affidare il compito di trovarla a coloro che sopravvengono. E in questo modo si va avanti.
Ma eravamo approdati a diverse rive. Lui sacerdote, io non credente. Ed ora mi chiedo, ciò che conversando e discutendo con lui non mi ero chiesto mai, perché noi potessimo così ampiamente e liberamente comunicare e trovare contatto. È vero, questioni di religione non ne affrontavamo. L’ultima volta che ci vedemmo ci fu una certa malizia, da parte mia (avevo da poco letto i Trattati antimanichei, nella recente edizione che ne è stata fatta in Francia), nel citargli una espressione di Sant’Agostino, nella quale coglieva il germe e un germe ben dispiegato di dottrine hegeliane. Lasciò cadere. Non era quello il terreno su cui dovevamo confrontarci. E non era neanche quello della politica, nel senso ristretto, tradizionalmente chiuso, di questa espressione.
La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel contatto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti. Cercava e metteva in luce la sostanza della nostra comune umanità; lo interessava che vi fosse in noi una comune coscienza dei problemi che alla umanità si presentavano, oggi, in un momento così grave, così terribile della sua storia, come è il momento presente. Nel momento in cui ci attende o un nuovo inesauribile slancio di creazione, oppure la distruzione ad opera delle nostre stesse mani.
Ho sempre avuto la visione precisa ch’egli considerasse cosa certa che le fratture, gli abissi che oggi lacerano e contrappongono gli uni e gli altri, i gruppi sociali e le società umane saranno colmati. Penso sia normale, in un credente, questa aspirazione. Ciò che trovavo nelle sue parole era però anche la convinzione che per colmare questi abissi si può e si deve agire subito, e per agire subito, non basta essere vicini e conoscersi, ma bisogna comprendersi. E questo non è sempre facile. Richiede uno sforzo, uno scontro, talora, ma uno scontro che sia insieme ricerca comune di cose nuove. In questo modo io capisco, ora, e credo di collocare giustamente, nell’immagine che mi è rimasta di lui, quel suo acuto senso della realtà e quei suoi giudizi diretti, crudi, a volte persino violenti, e che colpivano in tutte le direzioni. Che non creavano una barriera, però, anzi, portavano a comprendersi meglio, creavano una condizione e un animo tali che consentivano di guardare assieme, lontano a mète comuni.
Conserverò in me sempre, profonda, circondata d’affetto e di venerazione, l’immagine di quest’uomo, la cui fiducia ferma nell’avvenire e nella salvezza dell’umanità ha dato maggior forza e tranqullità alla stessa fiducia che anch’io nutro.
Quel prete che non amava la DC degasperiana
di Agostino Giovagnoli (l’Unità, 15 marzo 2012)
Don Giuseppe De Luca, di cui si ricorda il 19 marzo il cinquantesimo anniversario della morte, non ha occupato posizioni importanti, non ha compiuto una brillante carriera ecclesiastica e non ha fondato un partito politico. Eppure la sua memoria è ancora viva e il suo insegnamento continua ad interrogarci. Senza mai assumere ruoli di primo piano, nell’Italia cattolica del secondo dopoguerra ha rappresentato un riferimento importante per quanti cercavano un’alternativa al progetto democristiano. Molto vicino a Tardini ed Ottaviani, è stato, perciò, contrapposto ad un altro importante ecclesiastico del suo tempo, Giovanni Battista Montini - Sostituto della Segreteria di Stato, poi arcivescovo di Milano e, infine, Papa con il nome di Paolo VI -, il più convinto sostenitore dell’iniziativa degasperiana per portare i cattolici alla guida del Paese.
Era inevitabile che De Luca diventasse l’interlocutore di tanti che si opponevano a quel progetto, soprattutto a destra, come i sostenitori del «partito romano», ma in qualche caso anche a sinistra, come i cattolici che continuarono a guardare al Pci negli anni della guerra fredda. E questa singolare figura di «prete romano », come egli amava definirsi, ha favorito l’incontro o, quantomeno, tentativi di reciproca comprensione non solo tra il Vaticano e i comunisti italiani, negli anni 40 e 50, ma anche tra la S. Sede e Mosca durante il pontificato di Giovanni XXIII, amico e ammiratore di De Luca.
Tale contesto aiuta a capire l’interesse di Togliatti per la sua figura, ma un’interpretazione banalmente politica sarebbe riduttiva e fuorviante. De Luca, infatti, credeva nell’importanza di una cultura, in primis quella più elevata e raffinata, svincolata dalla politica e, soprattutto, dall’ansia dell’azione. Più ancora di Montini - che tra l’altro aveva una grande ammirazione per la cultura religiosa deluchiana - il suo vero antagonista fu Agostino Gemelli, fondatore dell’Università Cattolica.
Malgrado la sua eccezionale erudizione, tuttavia, egli è sempre rimasto anzitutto un uomo del Sud. Proveniva da un Mezzogiorno continentale molto lontano da Napoli, per secoli una delle più grandi città europee, e dal Mediterraneo, da sempre animato da intense correnti di scambi commerciali e di incontri culturali. Nato in un piccolo paese vicino a Potenza nel 1898, egli aveva ascoltato i racconti di quanti ricordavano i tempi in cui l’unico contatto con il mondo esterno degli abitanti dei piccoli paesi della Basilicata era costituito dalle visite pastorali del vescovo, di gran lunga il più importante evento nonsolo religioso ma anche sociale e civile.
Don De Luca è stato uno dei pochissimi capace di dar voce a questo mondo, chiuso e arretrato, apparentemente senza storia e invece denso di una storia amara e terribile, di miseria e di sofferenze, cui per secoli - fino oltre la metà del Novecento - milioni di uomini e di donne sono stati legati da un destino apparentemente invincibile e in cui la preghiera ha rappresentato una delle poche forme in cui riusciva ad esprimersi la loro umanità.
Proprio seguendo l’insegnamento deluchiano, Gabriele De Rosa ha scritto che non si prega mai nel vuoto e che un legame profondo unisce preghiera e storia. De Luca, non a caso, ha concepito un progetto di grande originalità e di forte impatto storico-culturale avviando L’Archivio per la storia della pietà, un’iniziativa che si trova agli inizi delle Edizioni di Storia e Letteratura da lui fondate intorno al 1940-’41.
La sua convinzione che un profondo legame unisce sempre umanità, storia e preghiera era, ovviamente, molto lontano dall’idea di preghiera quale oppio dei popoli, così come la sua conoscenza del ruolo della Chiesa nel Mezzogiorno era distante dalle teorizzazioni gramsciane sul legame tra clero e classi dominanti. Egli conosceva bene, infatti, quei preti «cafoni » delle campagne meridionali, sin troppo simili ai loro fedeli, di cui condividevano interamente le difficili condizioni di vita, compresi il vino e il gioco quali uniche forme di evasione.
L’interesse di Togliatti per una personalità indubbiamente straordinaria ma anche culturalmente molto lontana da lui, è indicativa di un ampiezza di vedute non comune e rimanda ai caratteri specifici del comunismo italiano, per molti versi originale forse grazie anche all’influenza del mondo religioso di cui De Luca è stata una delle più alte espressioni.
Vaticano - Urss
L’incontro segreto che avviò il disgelo
di Giuseppe Vacca (l’Unità, 19.03.2012)
Don Giuseppe De Luca e Palmiro Togliatti si conobbero a cena da Marisa Cinciari e Franco Rodano la vigilia di Natale del 1944. Non si frequentarono molto, ma come risulta dalle testimonianze e dai pochi documenti che abbiamo, fra loro nacque un’amicizia. Le testimonianze riguardano il ruolo di don De Luca e di Togliatti nell’avvio del disgelo tra il Vaticano e l’Unione Sovietica. I documenti sono assai significativi dei contenuti intellettuali e morali che sostanziarono non solo il loro rapporto, ma anche la stagione del dialogo fra comunisti e cattolici a lungo cercata da Togliatti e giunta con il pontificato di Giovanni XXIII.
IL VIAGGIO
L’11 ottobre del 1961, alla vigilia della partenza di Togliatti per Mosca, dove era in programma il XXII congresso del Pcus, si incontrarono a cena in casa Rodano e don De Luca propose a Togliatti di suggerire a Krusciov di dare un segnale distensivo anche al Vaticano. Il disgelo fra Usa-Urss aveva già segnato un momento di grande valore simbolico nell’incontro fra Kennedy e Krusciov a Vienna nel giugno 1961, e la costruzione del muro di Berlino (13 agosto) aveva avviato un periodo di stabilizzazione dell’assetto europeo che sarebbe durato fino alla sua rimozione (9 novembre 1989).
Nel nuovo clima internazionale caretterizzato dalla presenza di tre grandi figure carismatiche Kennedy, Krusciov e Papa Giovanni che facevano sperare nel superamento della contrapposizione fra Est e Ovest, De Luca ebbe l’approvazione del Papa e Togliatti portò a Krusciov la sua proposta.
Fra le carte di Togliatti c’è un appunto di mano di De Luca che dice: «Nell’80° del Papa, farsi vivi. Cioè non ereditare i rancori della Chiesa russa, superando anche in questo il nazionalismo. Non fosse altro come un possibile tramite di propaganda, il cattolicesimo romano è più diffuso del protestantesimo inglese e tedesco e del cristianesimo russo. Roma è l’unico ponte possibile». L’annotazione autografa di Togliatti, «da don D. L. prima del 22», rivela quale fosse il suggerimento di don De Luca: far inviare da Krusciov un telegramma di auguri al Papa per il suo 80° compleanno. Il telegramma giunse a Roma il 25 ottobre e fu reso noto dall’Osservatore Romano.
Ma, fatto ancora più rilevante, si avviarono anche trattative per un evento di grande impatto simbolico, che si sarebbe verificato il 7 marzo 1963 con l’udienza in Vaticano di Alexiej Adjubei, direttore delle Izvestia, accompagnato dalla moglie Rada, figlia di Krusciov. Poche settimane dopo, con la pubblicazione dell’enciclica Pacem in terris l’11 aprile, Papa Giovanni abrogava di fatto la scomunica del 1949 poiché, nel ribadire la condanna del marxismo, introduceva la distinzione fra «l’errore» e «l’errante» restituendo alla valutazione dei comportamenti politici e morali dei singoli, il giudizio della Chiesa sui comunisti.
Tornando a De Luca, il 30 novembre del 1961 egli commentò il telegramma di Krusciov nei suoi diari: «É un immenso fatto (dal 1917, silenzio, odio), e sarà il seme della storia futura». Si riprometteva quindi di dar seguito alla sua azione e il 17 gennaio 1962, rispondendo agli auguri di Togliatti per l’anno nuovo, rievocava la cena che aveva originato il telegramma e scriveva: «Torno a ringraziarla di quella sera, di quello che si disse, di quello che ne seguì, torno a dirle che volentieri sempre parlo con lei e lei è per me tra quei pochi che, vivendo, della mia vita sono stati un po’ la compagnia e un po’ la fierezza». Come ha ricordato Marisa Rodano nelle sue memorie, stavano cercando di organizzare un’altra cena, che però non ebbe luogo per il precipitare della malattia e della morte di don De Luca.
La lettera citata echeggia il carattere della loro amicizia con toni analoghi a quelli usati da Togliatti nel ricordo scritto poco dopo la sua morte («Lui sacerdote, io non credente», ripubblicato da l’Unità il 15 marzo scorso). Ma, per cogliere il senso più intimo del desiderio di riconoscimento reciproco che animò la loro relazione, vorrei ricordare il passo di un’altra lettera, la prima delle tre conservate fra le carte di Togliatti, che illumina il motivo centrale del suo successivo ricordo.
Dopo anni d’interruzione dei contatti personali, il 20 febbraio 1960 Togliatti aveva inviato a De Luca una sentita lettera di condoglianze per la morte del fratello Luigi, che si occupava delle Edizioni di Storia e Letteratura. Rispondendo, il 4 marzo, don Giuseppe scriveva: «Dirle che ne ebbi conforto grande è un dirle cosa che a lei non farà meraviglia perché sa come le sono legato e come la sento legata a me in un sentimento umano e dell’umano che non domanda nulla per esistere e per valere, ma ha in sé la sua ragion d’essere ed è, se non beato, contento e rende contento (o mi sbaglio?)». Quel «sentimento umano e dell’umano» troverà una corrispondenza profonda nel ricordo di Togliatti: «La sua mente e la sua ricerca mi pare fossero volte, nel confronto con me, a scoprire qualcosa che fosse più profondo delle ideologie, più valido dei sistemi di dottrina, e in cui potessimo essere, anzi, già fossimo uniti (...). La sostanza della comune umanità».
IL DISCORSO DI BERGAMO
Si può fondatamente ritenere che l’amicizia e lo scambio spirituale con don De Luca abbiano contribuito a far maturare definitivamente in Togliatti la persuasione della irriducibilità e dell’autonomia del fatto religioso che furono al centro del suo discorso di Bergamo, «Il destino dell’uomo», tenuto non a caso nella città di Papa Giovanni il 20 marzo del 1963, tre settimane prima della Pacem in terris. Va sottolineato che quel discorso segnò il punto più alto della revisione togliattiana del comunismo in tema di dottrina della guerra e teoria delle relazioni internazionali. Forse la chiave di lettura più feconda per capire l’incidenza della relazione con don Giuseppe De Luca sul pensiero di Togliatti è quella suggerita dalla bellissima biografia del «prete romano» che dobbiamo a Luisa Mangoni, «In partibus infidelium».
La cifra della straordinaria figura intellettuale del sacerdote lucano era nella visione culturale dei problemi politici, religiosi e umani del suo tempo. E questa sensibilità l’aveva portato a scrivere il 21 aprile del 1947, agli albori della guerra fredda: «Il comunismo è più che un partito, è una religione. Una religione non la si combatte né con l’irreligione né con la violenza, così anzi la si fa riardere più potentemente. Ma il comunismo è anche un partito e una politica (...). Bisogna scindere tra i due elementi: la forza religiosa dell’idea, la forza politica di chi quest’idea ha monopolizzato. Questa bisognerebbe isolare e battere, nell’interesse stesso delle idee eccellenti, anzi ammirabili, che bisogna riconoscere nella predicazione comunista». Forse questa percezione non fu estranea alla mente dello stesso Togliatti almeno negli ultimi anni della sua vita, segnati da un profondo travaglio per la crisi del comunismo sovietico.
UN VIAGGIO:
SUI LUOGHI DELLA METAFISICA. IN COMPAGNIA DI DON GIUSEPPE DE LUCA **
Tutte le volte, e non furono tante, che io son tornato nella casa dove nacqui (è in un paese montano, sul margine di faggete eterne che mai nessuno ha traversato, nel cuore più nascosto della Basilicata; e sì che vi si è a distanza pari, lassù, tra l’Adriatico, lo Ionlo, ll Tirreno, e io fanciullo coi pastori spiavo se, di tra una radura e l’altra della sommità più alta, si vedessero in lontananza scintillare insieme le tre marine); tutte le volte che sono tornato a casa, dicevo, giungendovi da Salerno per il Vallo di Diano, non appena oltrepassato il crinale che il Vallo separa dalla vallata del Pergola, d’ún subito scoprivo, là sulla costa di fronte, il mio paese nel sole, e poco più giù sulla destra il camposanto, dove dorme colei che, dando in cambio la vita sua per la mia, mi fece uomo; e accanto ad essa, dorme il prete che fece me prete.
Voi direte: il Pergola, peuh! gran fiume che è! e poi anche la valle di cotanto fiume, e poi... Adagio, lettore. Da quei monti dietro il mio paese, da quelle faggète, scende il Melandro; il Melandro per ùna matassa lenta di andirivieni va a riversarsi nel Pergola, il Pergola nel Tanagro; e così, dolce dolce, una valle appresso all’altra ora costeggiando l’uno ora.l’altro paese, antiquos subterlabentia muros, quei magri fiumi si gettano alla fine nel Sele
e il Sele entra nel mare a Pesto, dove I’acqua del mare serba ancora una sua certa luce: poco più su insomma dell’antica Elea, dove nacque un giorno la metafisica, come sullo Ionio a Metaponto, ora coltivata ma sempre solitaria, nacque un giorno la filosofia religiosa.
Lettor mio, vuoi proprio levarti la voglia e il gusto di darci di “area depressa”? Padrone. Io pure, rintronato sin da fanciullo tra nomi come Melandro, Tanagro, Sele, Palinuro, Elea, Metaponto, anche io mi sento quando perplesso e quando depresso. Non forse in quel senso che dici tu, ma è un fatto, sento che mi opprime, quasi un peso troppo grande, il peso di tre millenni continuati nella luce della civiltà; e se non ti dispiace, mi sento turbare tutte le volte da quelle terre, quei cieli,.quei boschi, quelle acque, quei luoghi senza gloria, così poveri e antichi. Tutte le volte. Te ne accorgerai tu pure, un giorno non lontano *.
*
Questo è il paesaggio in cui si trova Contursi Terme, e questo è il sorprendente avvio dell’articolo, intitolato Ballata alla Madonna di Czestochova (“Osservatore Romano”, 25.2.1962), scritto da don Giuseppe De Luca (su invito di Giovanni XXIII, in occasione della visita a Roma del primate polacco, il cardinale Wyschinski), a meno di un mese dalla sua repentina morte avvenuta il 19.3.1962 (cfr. “Bailamme”, nn. 5-6, 1999, pp. 11 e sgg.). Egli era nato a Sasso di Castalda, in provincia di Potenza, il 15.09.1898, da una famiglia contadina.
Della sua instancabile e preziosa attività culturale, degna di nota (per i problemi qui trattati) è la cura e la risrampa, accresciuúa con ricchi dati bibliografici, della dissertazione del 1907 di Angelo Roncalli su Il Cardinale Cesare Baronio. Per il terzo centenario della morte, cfr. Angelo Roncalli, Il Cardinale Cesare Baronio, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 1961.
** Cfr. Federico La Sala, Della Terra, il brillante colore. Note sul “poema” rinascimentale di un ignoto Parmenide carmelitano (ritrovato a Contursi Terme nel 1989), Prefazione di Fulvio Papi, Edizioni Ripostes, Salerno-Roma 1996, pp. 14-15.
TRENTACINQUE ANNI FA LO SBARCO SULLA LUNA [2004] *
Rocco Petrone, la tigre di Cape Canaveral
"Gli astronauti erano come figli miei. Dovevano avere completa fiducia in me. E io cercavo di guadagnarmela comportandomi, appunto, come un padre che vede partire i figli allo sbaraglio".
di Generoso D’Agnese *
Credo che il maggior merito dell’esplorazione spaziale sia stato quello di aver dato all’umanità un obiettivo comune, un motivo d’orgoglio e di esaltazione che non conosce frontiera. L’impresa di Armstrong, Aldrin e Collins sarà sempre ricordata non come una conquista degli Stati Uniti, ma di tutti gli uomini. Erano parole romantiche quelle che Rocco A. Petrone affidava ai rarissimi cronisti capaci di avvicinarlo nell’ormai lontano luglio 1969. Alla vigilia di un evento che avrebbe cambiato le pagine della storia umana, lui sembrava calmo e non tradiva emozioni, mantenendo fede al soprannome che gli avevano affibbiato gli amici della Nasa. Per tutti, Rocco era il computer, o meglio, il computer con un’anima perché in quell’uomo coabitavano inflessibile tenacia, una memoria prodigiosa e un approccio umano verso le grandi imprese dei suoi amici cosmonauti.
Sono passati trentacinque anni da quella esaltante cavalcata nello spazio, e Rocco Petrone è uscito di scena dalle imprese spaziali. Oggi vive in California. Quando mio figlio mi domandava perché ero sempre assente - ricorda Petrone - io gli parlavo delle grandi conquiste dell’uomo e dello straordinario privilegio che lui e milioni di persone sparse nel mondo avrebbero avuto nell’assistere alla conquista della Luna. Soffrivo, ma non ho mai avuto dubbi. In otto anni di preparazione, dai razzi Saturno ai primi lanci di Apollo, ho accumulato più esperienza tecnologica di quanta una persona normale ne faccia in tutta la vita, e arrivai all’appuntamento sicuro di poter contare su una squadra eccezionale.
Nato nel 1926 ad Amsterdam di New York, Petrone non fu un semplice protagonista di quei giorni gloriosi dell’era spaziale. Rappresenta ancora oggi uno dei massimi protagonisti dell’astronautica, capace di esaltare il progresso dell’uomo nelle più ardue sfide con l’Universo. Figlio terzogenito di un carabiniere nato a Sasso di Castalda, Potenza, che si era inventato un lavoro negli Stati Uniti, nel settore dei trasporti, Rocco aveva solo sei anni quando suo padre morì. Fu il cugino (docente a soli trent’anni) che aveva conosciuto quanto lui i patimenti della fame, a intuirne le potenzialità per la matematica e a indirizzarlo agli studi tecnici. Dopo gli ottimi voti scolastici, Petrone partecipò a un concorso per entrare nella prestigiosa Accademia militare di West Point; concorso che vinse, nono-stante il grave handicap delle origini italiane: siamo nel 1943, in piena seconda guerra mondiale.
La mamma e gli zii ci tenevano molto a che la prima generazione americana dei Petrone facesse strada, e l’ingresso all’Accademia mi diede una nuova identità, nono-stante odiassi il militarismo, ricorda ancora.
Dopo il servizio militare in Germania, Petrone si iscrisse al celeberrimo Mit (Massachussetts Institute of Tecnology) di Boston. Davanti a lui si schiudevano le porte della carriera militare, ma c’era anche la remota possibilità di uscire dalla divisa per entrare nei progetti spaziali. Affascinato dalle tecnologie aeree e dai missili, ma contrario agli impegni militari, Petrone colse al volo l’opportunità, e in due anni conseguì la laurea in Ingegneria meccanica per poter far parte del Progetto Redstone e della squadra di Von Braun e Debus, scienziati tedeschi riconvertiti alle scienze aerospaziali.
Furono anni indimenticabili. Eravamo tutti amici e tutti convinti che mai e poi mai un missile avrebbe potuto portare l’uomo sulla Luna, io per primo. Quando arrivammo, nel 1953, Cape Canaveral era solo una landa desolata con una carovana di zingari e tante zanzare.
Divenuto maggiore, Petrone fu assegnato allo Stato Maggiore a Washington, ma a toglierlo dalla naftalina ci pensò il presidente John Kennedy. Quando chiese a Kurt Debus se fosse possibile inviare un americano sulla Luna entro il 1969, questi rispose: Sì, a patto che mi diate un certo Rocco Petrone che adesso si annoia in un ufficio del Pentagono.
La tragedia dell’Apollo 11
Rocco Petrone è entrato nella leggenda della conquista dello spazio progettando le rampe di lancio, mettendo in orbita satelliti e astronavi per migliaia di tonnellate, dirigendo il lancio dei razzi del programma Saturno e Apollo, e guadagnandosi la fama di duro. Tutti gli anziani tecnici della Nasa lo avrebbero ricordato negli anni sempre intento a interrogare, uno per uno, i suoi 150 tecnici addetti alle manovre: domande formulate con meticolosa precisione cui bisognava rispondere con altrettanta precisione o con il completo riesame del problema.
Lo chiamavano tigre per i suoi interrogatori - ricorda Tony Reichardt di Air&Space Magazine -, ma erano indispensabili. La lista delle operazioni che bisognava eseguire sul solo Modulo lunare (il famoso ragno Aquila che atterrò sul suolo lunare) per essere sicuri che tutto funzionasse a dovere, era grande quanto il libro della Bibbia, e ogni riga di questo libro significava una giornata di lavoro. Non potevano esserci distrazioni, pena il tragico fallimento dell’intera missione.
Un fallimento che l’ormai pensionato ingegnere poté toccare con mano, in prima persona, durante le tragiche prove di lancio dell’Apollo 11, quando, nel 1967, vide bruciare, sul proprio schermo a circuito chiuso, gli astronauti Grisson, White e Chaffee, che pagarono il prezzo di un’incredibile leggerezza tecnica. Da allora il tigre non permise più alcuna presunzione da parte di ogni singola pedina del programma.
Nei tanti anni passati in sala comandi, tutti mi chiedevano se ero stato io a premere il bottone che ha portato l’uomo sulla Luna. Ho sempre ripetuto la risposta di Eisenhower: il merito è di tutti coloro che hanno preso parte all’impresa. Io mi sono limitato a controllare quello che facevano gli altri. Ma se la spedizione si fosse risolta in un disastro, la colpa sarebbe stata senz’altro del sottoscritto.
Quel 20 luglio 1969 andò tutto bene, e valse al colonnello di Sasso di Castalda la promozione a direttore del programma Apollo, a Washington, al posto del leggendario Samuel Philips.
Quando Apollo 11 sbarcò sulla Luna ricevetti tantissimi attestati d’affetto dai miei parenti italiani. E in tanti anni di vita ricordo sempre il mio primo viaggio fatto in Italia (ne sarebbero seguiti altri quattro, ndr). L’ultimo tratto dovetti farlo in un taxi azionato a manovella. Quando arrivai a casa di mia nonna, rimasi interdetto dalla sua indifferenza, e scoprimmo insieme che la lettera spedita due mesi prima per farmi riconoscere e presentarmi, arrivava con lo stesso taxi che aveva trasportato me. Da allora non riu-scii mai più a dimenticare di essere figlio dell’Italia, nonostante non abbia mai frequentato associazioni e comunità italiane negli Stati Uniti.
Basilicata. Si chiama “Ponte alla Luna” il nuovo macro-attrattore di Sasso di Castalda
Si tratta di un ponte tibetano sospeso nel vuoto, a circa 120 metri da terra Come anticipato nel corso della BIT di Milano dall’APT lucana, sarà inaugurato il prossimo 6 aprile il percorso naturalistico che culmina con un’opera sospesa nel vuoto, a 120 metri da terra. Ponte alla Luna (foto Fullpress Agency)
Si tratta del “Ponte alla Luna”, un omaggio all’ingegner Rocco Petrone, che fece parte dello staff della Nasa responsabile della missione “Apollo 11” che, nel 1969, portò l’uomo sulla Luna.
Il ponte tibetano sarà inaugurato giovedì 6 aprile, a Sasso di Castalda in provincia di Potenza, e costituirà un nuovo “macro attrattore” per una regione per molti ancora da scoprire. In realtà, i ponti saranno due.
Il “Ponte alla Luna” promette un’esperienza mozzafiato: si sviluppa a un’altitudine di circa 975 metri sul livello del mare, con una campata lunga 300 metri che sarà percorsa in non meno di 30 minuti. Assicurati ad alcune attrezzature e vestiti in modo idoneo (il noleggio sarà possibile alla biglietteria), i turisti potranno incamminarsi sui 600 gradini di appoggio: guarderanno un panorama straordinario, fatto di boschi secolari e del borgo di Sasso di Castalda.
Più a valle, però - circa 30 metri più in basso - si trova il “Ponte inferiore Fosso Arenazzo”: lungo 93 metri, l’altezza massima da terra arriva a 70 metri e si devono percorrere “solo” 180 gradini, in un tempo di circa otto minuti. Ma le misure di sicurezza sono le stesse.
Oltre ai due ponti, i turisti potranno visitare una riserva di cervi, una “monumentale faggeta”, un “sentiero della legalità” dedicato a Mimmo Beneventano, vittima della camorra nel 1980, e il “sentiero Frassati”.
Di seguito la scheda completa delle opere
Caratteristiche tecniche “Ponte alla luna”
Altitudine partenza 973 mslm
Altitudine arrivo 975 mslm
Lunghezza campata 300 metri
Altezza massima da terra 120 metri
Diametro funi portanti 30 mm
Gradini d’appoggio n°600
Morsetti totali impiegati n°2500
Tempo di percorrenza stimato 30 minuti
Caratteristiche tecniche “ponte inferiore Fosso Arenazzo”
Altitudine partenza 940 mslm Altitudine arrivo 934 mslm Lunghezza campata 93 metri Altezza massima da terra 70 metri Diametro funi portanti 30 mm Gradini d’appoggio n°180 Morsetti totali impiegati n°720 Tempo di percorrenza stimato 8 minuti
Abbigliamento consigliato
Si raccomanda un abbigliamento sportivo e calzature idonee all’attività sportiva (da trekking o da ginnastica).
Attrezzatura
Il percorso dei ponti è stato realizzato con funi metalliche e gradini per il camminamento in metallo grigliato e devono essere attraversati con l’ausilio di appropriate attrezzature di sicurezza: imbraco, casco, longes (set “Via Ferrata”). L’attrezzatura potrà essere noleggiata presso la biglietteria.
Informazioni
Per maggiori informazioni: Internet: www.pontetibetanosassodicastalda.com
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Articolo completo: http://www.trmtv.it/home/scienza-e-salute/ambiente/2017_04_04/136614.html
L’archivio di don De Luca
di Gianfranco Ravasi (Il Sole 24 Ore, 01.11.2009)
Se nella pur sempre preziosa Garzantina della Letteratura si va a cercare la voce "De Luca", l’unico a venirci incontro è "Erri De Luca", il noto scrittore e traduttore di testi biblici. È una lacuna l’assenza di don Giuseppe De Luca, uno straordinario personaggio lucano trapiantato a Roma, ove morrà a 64 anni nel 1962 (cinque giorni prima del decesso persino il Papa, Giovanni XXIII, s’era recato al suo capezzale all’ospedale dell’Isola Tiberina). Don De Luca è stato un protagonista del dialogo tra cultura religiosa e laica, non esitando ad avventurarsi anche nel terreno della politica, ove gli scontri allora erano, sì, aspri ma di alto tenore ideale. Quel sacerdote era, però, soprattutto un eccezionale studioso di fenomeni culturali, uno dei quali era l’ambito della religiosità popolare e colta, un campo scarsamente dissodato.
Era nato, così, quell’“Archivio italiano per la storia della pietà” che ha continuato a vivere anche dopo la sua morte e che, sia pure a fatica, è giunto ora al suo ventesimo volume. Un testo che offre in apertura una memoria testimoniale plurima su Maddalena De Luca, la sorella altrettanto geniale benché più discreta di don Giuseppe, scomparsa nello scorcio del 2007. Le pagine, però, si allargano a orizzonti più ampi dai quali vengono fatte emergere altre figure emblematiche. Noi ne vogliamo evocare un trittico, lasciando tra parentesi profili altrettanto sorprendenti, come quello di una mistica quasi contemporanea, la lucchese Gemma Galgani (1878-1903) della quale viene studiato - in un saggio imponente di Elisa Tola - il «modello di italiano colloquiale riportato».
Noi, invece, poniamo sulla ribalta innanzitutto una discepola di don De Luca, Romana Guarnieri (1913-2004), una donna dalla biografia stupefacente, iniziata in Olanda e sotto un cielo spoglio di divinità, ma destinata ad approdare all’identificazione con lo stesso oggetto della sua ricerca spirituale. Sì, perché la Guarnieri si autodefinirà, si sentirà e vivrà come una «beghina» (uno dei suoi scritti, pubblicato nel 2003, s’intitola appunto Con occhi di beghina), ossia una di quelle figure misticocaritative, entrate in scena a partire dal XII secolo in Belgio e Olanda e divenute espressione di un cristianesimo creativo, provocatorio, originale, non di rado represso dall’ufficialità ecclesiastica.
A Romana, alla sua fisionomia spirituale e letteraria unica, è stata dedicata una giornata di studio nel 2006 i cui atti sono appunto qui pubblicati. La seconda personalità femminile che appare nel volume è l’indimenticabile Cristina Campo, alias Vittoria Guerrini (1923-1977), un’intelligentissima «vergine quattrocentesca», come l’aveva definita Citati.
A studiare la sua concezione del sacro nell’arte è Alessandro Giovanardi, con un vasto saggio che prende le mosse dall’ultimo libro pubblicato in vita dalla poetessa, Il flauto e il tappeto (1971), e che riesce a svelarci come pietas e bellezza si debbano necessariamente incrociare, perché l’estetica è tale in quanto inabitata dalla verità ultima e ogni perfezione stilistica è indissolubilmente vincolata con l’affinamento etico e spirituale.
Il suo, però, fu un itinerario tutt’altro che pacato e placato, anzi, fu autenticamente "drammatico", e ci sia permesso qui citare pochi versi di Cristina: «Oh quanto ci sei duro / Maestro e Signore! / Con quanti denti il tuo amore / ci morde!». E su questa scia giungiamo alla terza tavola del nostro ideale trittico, desunto dal volume ultimo dell’Archivio italiano per la storia della pietà: sulla scena ora è lo stesso fondatore De Luca, uomo passionale e curioso. Qui lo vediamo all’interno di un groviglio non facilmente dipanabile, quello tra lui, padre Pio e padre Gemelli, ovvero l’incrocio - come scrive già nel titolo del suo saggio Giuseppe M. Viscardi - «tra santità, scienza e intelligenza».
Sappiamo, infatti, che nel 1934 il sacerdote si recò in pellegrinaggio a san Giovanni Rotondo e di questa esperienza egli interloquì a lungo con l’amico Giovanni Papini (una lettera di 12 pagine!), con Prezzolini, Buonaiuti e altri. «Padre Pio, caro Papini, è un cappuccino malingre [gracile] e ignorante e molto meridionalmente grosso e tuttavia ha con e in sé Iddio, quel Dio tremendo che noi intravediamo in fantasia, e lui ha nell’anima e nella carne». Ma a questo punto entra in azione, su incarico del S. Uffizio, p. Gemelli per una verifica "psicologica" sul frate cappuccino, con un esito negativo perentorio e durissimo. Lasciamo al lettore di seguire la vicenda non priva di colpi di scena, anche per l’apparire di Giovanni XXIII.
Noi, invece, vogliamo ora concludere ricordando che a Don De Luca dobbiamo anche la nascita delle Edizioni di Storia e Letteratura che hanno pubblicato testi di grande rilievo.
Ne segnaliamo solo l’ultimo, un importante e suggestivo volume dedicato al Tetravangelo di Rabbula, uno dei tesori della Biblioteca Laurenziana di Firenze, l’unico ampio manoscritto miniato della Siria paleocristiana. Redatto nel 586 in un monastero di quella terra dal monaco copista Rabbula, il codice, coi suoi 291 fogli pergamenacei, conserva i quattro Vangeli nell’antica versione siriaca detta Peshitta (cioè la "Vulgata" di quella lingua), preceduti da un’incomparabile sequenza di miniature a piena pagina che qui si possono ammirare, lasciandosi conquistare dal realismo figurativo che non risparmia un Cristo giovane e semplice dai capelli ricci color ruggine e dalla corta barba crespa.
Nella Lucania dei poeti
di Vito salinaro (Avvenire, 02.12.2011)
«Spalancai una porta-finestra, mi affacciai ad un balcone dalla pericolante ringhiera settecentesca di ferro e, venendo dall’ombra dell’interno, rimasi quasi accecato dall’improvviso biancore abbagliante. Sotto di me c’era il burrone; davanti, senza che nulla si frapponesse allo sguardo, l’infinita distesa delle argille aride, senza un segno di vita umana, ondulanti nel sole a perdita d’occhio, fin dove, lontanissime, parevano sciogliersi nel cielo bianco».
A leggerle velocemente, queste righe del Cristo si è fermato a Eboli di Carlo Levi, si resta forse più ammirati dalla scrittura che dal singolare paesaggio descritto (Aliano, Basilicata). In fondo, si parla di burroni, argille aride, desolazione. Eppure, se Levi decise di farsi seppellire in questo anonimo lembo di Lucania, forse di un simile paesaggio, spoglio e arcano, ci si può anche innamorare. Anche se qui ci sei venuto per forza. Anche se in questa terra ci hai passato 8 mesi e 8 giorni da confinato politico. Qui lo scrittore, pittore e poi senatore torinese, fu destinato dal regime fascista, nel 1935, «siccome pericoloso per l’ordine nazionale per aver svolto... attività politica tale da recare nocumento agli interessi nazionali». Il paese, nelle pagine del famoso libro pubblicato nel 1945 e che denunciò le condizioni di vita di una fetta di Sud, diventerà Gagliano.
Oggi, il piccolo centro lucano, appena 1.100 anime, svettante tra enormi colline di argilla bianca (i calanchi) che tanto evocano paesaggi lunari, è sede del Parco letterario "Carlo Levi". Uno dei tre della Basilicata. Ogni cosa qui evoca le pagine del romanzo leviano. Per certi aspetti lo si rivive. Nei paesaggi, nei gesti, nei dialoghi, nei volti. E nei musei: dalla casa-confino a quello di arte contemporanea, dove trovano spazio le opere pittoriche realizzate, durante il periodo punitivo, dall’indimenticato "torinese del Sud".
Del resto, i parchi letterari servono a tradurre la suggestione dei luoghi con la forza della poesia. E così, quando ti ci ritrovi dentro curiosando per piazze, ruderi, sapori e folclore, sembra di passeggiare tra le pagine di un libro. L’ultimo è stato inaugurato un anno fa a Tursi (Matera). È dedicato ad Albino Pierro (Tursi, 1916 - Roma, 1995), il poeta che, grazie ai suoi versi in dialetto, si è guadagnato un posto d’onore nella poesia italiana del Novecento. Rievocando il paese del ricordo («a terra d’u ricorde»), della fanciullezza, della struggente nostalgia, Pierro ha recuperato e accreditato un linguaggio appartenuto al suo passato e alla sua gente e poi tradotto in tutto il mondo. Negli anni ’90 ha ricevuto la laurea honoris causa dall’Università della Basilicata. Più volte è stato candidato al Nobel per la letteratura.
Oggi il palazzo di piazza Plebiscito dove è nato («u paazze»), ospita, nei piani superiori, la biblioteca Pierro e il Centro studi. Nella graziosa cittadina, i cui primi insediamenti umani risalgono al XII secolo a. C., ci si lascia incantare dal primo nucleo abitativo, sottoposto al castello, denominato Rabatana, circondato da inaccessibili burroni e occupato, tra l’850 e l’890, dagli arabi saraceni che qui stabilirono la loro base. La zona è collegata al resto del paese da una strada, denominata "petrizze", fatta costruire, nel 1600, da Carlo Doria, nipote di Andrea Doria, signore di Tursi. ’A Ravatène è la poesia più significativa e conosciuta di Pierro. Ma non si può venire a Tursi senza visitare il santuario di Anglona (monumento nazionale dal 1931 e pontificia basilica minore dal 1999), luogo simbolo dell’antica diocesi di Tursi-Lagonegro e ultima testimonianza dell’antica città di Anglona. L’attuale struttura è databile tra l’XI e il XII secolo ma risulta l’ampliamento di una preesistente chiesa del VII-VIII secolo.
Viaggiando tra i Parchi letterari della Basilicata, ci si lascia conquistare dalle fedeli rievocazioni storiche che riportano il visitatore al tempo in cui poeti e scrittori hanno composto rime e romanzi. Come accade a Valsinni, sempre nel Materano, sede del Parco letterario "Isabella Morra" (il primo del Centrosud, essendo sorto nel 1993). Isabella è considerata une delle voci più importanti della poesia femminile del ’500. Il suo Canzoniere è assai noto. Una vita cupa quella della poetessa nata intorno al 1520 da una famiglia nobile. Non si allontanò mai dal castello di Favale (l’antico nome di Valsinni), soffrendo la solitudine e trovando conforto nello studio delle lettere e nella poesia. E, più avanti, nella religione, vista come una liberazione dagli affanni dei sogni terreni. Quando Isabella conobbe il vicino feudatario don Diego de Sandoval de Castro, erede del feudo di Bollita (oggi Nova Siri), intravide la possibilità forse di un amore, forse di un sogno di fuga verso terre culturalmente più evolute. Ma i fratelli di lei, accortisi della corrispondenza epistolare tra i due, uccisero Isabella, probabilmente per l’odio nei confronti degli spagnoli. Isabella morì a soli 26 anni.
Fu Benedetto Croce a riscoprirne gli scritti e a recarsi, nel 1928, nei luoghi «dove fu vissuta quelle breve storia e cantata quella dolorosa poesia». Più recentemente, Dacia Maraini le ha dedicato un’opera teatrale. Il Parco letterario di Valsinni di fatto materializza il rapporto tra luoghi e poesia; specie nelle serate estive ("L’Estate di Isabella"), i visitatori sono accompagnati da cantastorie, giullari e menestrelli nei vicoli dell’antico borgo di Favale, dominato dal castello. I personaggi dell’epoca vengono rievocati da attori-animatori in costumi d’epoca. E anche i sapori della tavola meritano un viaggio in quello scenario un po’ onirico che sa ancora regalare una coinvolgente atmosfera rinascimentale.
Vito Salinaro