James Hillman Un saggio del grande analista junghiano su psicoanalisi e religione
Spiritualità La ricerca del rapporto col divino non è solo «appannaggio» dei credenti
La fantasia è il potere dell’anima
Costruisce il mondo in cui siamo
Esce per le edizioni Moretti&Vitali (da oggi in libreria) il saggio di James Hillman «La ricerca interiore», un «libro d’anima», in cui lo psicoanalista e filosofo fa dialogare la psicoanalisi e la religione.
di James Hillman (l’Unità, 06.10.2010)
L’interesse per la fantasia è una caratteristica della maggior parte delle discipline spirituali, sia come metodo psicologico nell’«immaginazione attiva» di Jung, sia nelle tecniche descritte nella mistica alchemica, o nei testi cristiani, indù, persiani e altri. Ma la fantasia passiva non è mai sufficiente, perché la fantasia è un continuo tessere un velo, un confondere immagine e azione.
La fase successiva alla fantasia è l’immaginazione, che è il lavoro di trasformare i sogni a occhi aperti e le fantasie in visioni sceniche interiori dove si può entrare, e che sono popolate di figure vivide con le quali si può conversare, provare sentimenti, toccare la loro presenza. Questa sarebbe, allora, ricerca interiore psicologica.
Una simile immaginazione costa una grande fatica. Il lavoro di convertire la fantasia in immaginazione è la base delle arti. È anche alla base dei nuovi passi che facciamo nella vita, perché la visione del nostro futuro personale viene prima come fantasie. Di nuovo, quindi, c’è una buona ragione per trattenerle dentro, all’inizio, per immaginarle come progetti molto dettagliati e su vasta scala, prima di decidere se è il caso di provarle nel mondo oppure seguirle ancora all’interno, se viverle all’esterno o viverle dentro.
L’immaginazione e il suo sviluppo sono probabilmente un problema religioso, perché l’immaginazione diventa reale soltanto credendo a essa. La teologia, il credere, è un atto di fede, oppure è la fede stessa, come primario investimento di energia in qualcosa, a rendere «reale» quel qualcosa. La vita interiore è pallida ed effimera (proprio com’è il mondo esteriore negli stati depressi) quando l’Io non vi ritorna, non ci crede, non la fornisce di realtà.
Questo investimento, questa dedizione alla vita interiore accresce la sua importanza e le dà sostanza. L’interesse che si presta ripaga rapidamente con l’interesse. Le forze che spaventano diventano più pacate e più gestibili, la donna interiore più umana e affidabile. Non seduce e pretende soltanto, ma comincia a rivelare il mondo in cui ci attira, e dà anche conto di sé, della sua funzione e del suo scopo.
Via via che questa «lei» diventa più umana, gli umori a cui si è soggetti diventano meno difficili e personali e sono sostituiti da un sottofondo emozionale più stabile, un tono di sentimento, un accordo. Non essendo più in conflitto con lei, adesso è disponibile più energia per la coscienza, il che dimostra che l’energia spesa in questa disciplina è restituita in una forma nuova. Tuttavia, come in un sistema fisico, non può uscire niente di più di quanto sia entrato. Solo un’attenzione devota e fedele può trasformare la fantasia in immaginazione.
Questa attenzione fedele al mondo immaginale, questo amore che trasforma le pure immagini in presenze, fa di esse degli esseri viventi o, per meglio dire, rivela che l’essere vivente che naturalmente contengono non è nient’altro che la «ri-mitologizzazione». I contenuti psichici diventano «poteri», «spiriti», «dèi». Sentiamo la loro presenza, come la sentivano in passato tutte le persone che avevano ancora anima. Queste presenze, questi poteri, sono i nostri equivalenti moderni degli antichi pantheon di esseri viventi, di parti dell’anima animate, di dèi protettori della famiglia e di sinistri demoni. Questi dèi erano «mitici» in quanto erano parte di un «racconto» o di un dramma psichico.
Gli stessi drammi archetipici sono messi in scena in noi e da noi,e attraverso di noi e per noi, una volta che sia data attenzione all’aspetto immaginale delle nostre vite e della vita stessa. L’attenzione è la virtù psicologica cardinale. Da essa dipendono probabilmente le altre virtù cardinali, perché non può esserci né fede, né speranza né amore per nessuna cosa, se prima non le viene data attenzione.
Ma c’è un’altra conseguenza del credito che diamo alle immagini dell’anima: comincia a diffondersi e a circolare un senso di auto-indulgenza e di accettazione di sé. È come se il cuore e la parte sinistra stessero estendendo il loro dominio. Gli aspetti ombra della personalità continuano a giocare i loro pesanti ruoli, ma adesso all’interno di un «racconto» più vasto, il mito di sé stessi, semplicemente quello che uno è, e che cominciamo a sentire come se fosse proprio così che si è destinati a essere. Il mio mito diventa la mia verità, la mia vita simbolica e allegorica.
Auto-indulgenza, accettazione di sé, amore di sé; ma ancora di più: ci si scopre peccatori ma non colpevoli, grati per avere i nostri peccati e non quelli degli altri, pieni di amore per il nostro destino, fino al punto di desiderare di avere e mantenere sempre questa intensa connessione interiore con la propria parte individuale.
Simili forti esperienze di emozione religiosa sembrano di nuovo essere il dono dell’Anima. Questa volta l’Anima ha una qualità particolare, che potremmo meglio definire cristiana, e che comincia a rivelarsi dopo che è stata dedicata una lunga e attenta cura a gran parte della psiche che potrebbe anche non essere cristiana.
Il terzo passo è gratuito. Riguarda la libera e creativa comparsa dell’immaginazione, come se ora il risveglio del mondo interiore cominciasse ad agire spontaneamente, da solo, non diretto, senza che la coscienza dell’Io se ne occupi. Il mondo interiore non solo comincia a prendersi sempre più cura di sé, producendo delle crisi e risolvendole all’interno delle sue trasformazioni, ma si prende anche cura di te, delle preoccupazioni dell’Io e delle pretese dell’Io. Questo è la femminile Shakti dell’India, a uno stato superiore; è anche le nove Muse responsabili della cultura e della creatività. Ci si sente come vissuti dall’immaginazione.
©James Hillman published by arrangement with Agenzia Letteraria Roberto Santachiara
Sul tema, nel sito, si cfr.:
IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI ATEI E DEVOTI.
Le storie che curano /
James Hillman, il peso dell’anima
di Ivan Paterlini (Doppiozero, 30 Agosto 2021)
In Le storie che curano, ripubblicato ora da Raffaello Cortina con una nuova Prefazione di Luigi Zoja, Hillman, in modo coerente con tutto il suo impianto filosofico e clinico, ripone la psicoterapia con le sue pratiche e ritualità dentro uno stile narrativo correlato a un’attività più estetica e poetica che scientifica.
L’efficacia terapeutica passa attraverso i fili sottili della narrazione con le storie immaginative che ci raccontiamo e riraccontiamo all’infinito. Zoja nella Prefazione scrive che “l’analisi aiuta il paziente non perché restituisca alla sua vita un ordine interpretativo, ma perché le dà un ordine narrativo”. Per Hillman leggere Jung, Freud, Adler per la loro immaginazione, dove appunto si situa il potere terapeutico delle loro cure, può portare lo scrittore a riporre fiducia nell’efficacia terapeutica delle sue narrazioni. Per guarire l’anima dalla sua condizione prosaica dobbiamo avvicinarla al fare poetico (poiesis), una condizione di fondamentale importanza non tanto per fuggire la realtà ma per poterla immaginare diversamente soprattutto attraverso vite non vissute. La terapia diventa quindi la forma massima di riscatto di quel mondo immaginale che sa risvegliare il cuore dei ricordi e delle sensibilità per volgere l’anima verso gli dei, offrendo loro scritture infinite. La mente è fondata nella sua attività narrativa, nel suo fare fantasia: questo “fare” è poiesis. L’universo narrativo diventa una biblioteca infinita e interminabile (come l’analisi) dove “la musica e la magia delle parole risuonano incessantemente, in modo sorprendente, intelligente, ironico, oscuro, sinistro...” (Ogden, Vite non vissute, Raffaello Cortina, 2016).
Psicologia del profondo e letteratura convergono per affinità e intrecci sin dall’inizio, in cui la sintassi terapeutica ha fatto ricorso a un’immaginazione mitica letteraria: la storia di Edipo penso possa bastare come esempio. La psicologia ha bisogno di strutture di tipo narrativo per potersi raccontare e sviluppare, di un’attenzione estetica che sappia leggere le immagini e ascoltare le storie come base poetica della mente. Hillman sottolinea che le storie cliniche sono spesso troppo cariche di crudi fatti per potersi liberare verso un’altra storia, quella dell’anima, interiore e simbolica.
Lo sviluppo del pensiero di Freud, di Jung e di Adler si articola in trame da romanzo, che si animano attraverso personaggi come Dora, Anna O., l’Uomo dei lupi, Miss Miller, Filemone, Sabina. Il romanzo psicoanalitico con i suoi personaggi, le sue lettere, le rivelazioni, gli incesti... anticipa le teorie, e le teorie si fondano su narrazioni mitiche. In Jung gli archetipi del Briccone, di Mercurio, del Puer, della Madre ecc. sono anche invenzioni creative di personaggi romanzeschi, biografie primordiali. Accanto ai generi eroici, picareschi, erotici, saturnini, Jung propone con i suoi casi un genere che sa interpretare “lo spontaneo immaginare della psiche, la cui materia è narrativa anche se viene definita materiale inconscio” (Le storie che curano). Il suo stile assume varie forme: dall’apocalittico allo sperimentatore comportamentista, dall’antico gnosticismo del vicino Oriente alla fisica moderna, con un’ermeneutica fuori dallo spazio e dal tempo, dove tutto per le sue ricerche psicologiche è prima materia sotto la tutela indiscussa del dio Ermes.
James Hillman potremmo definirlo senza riserve uno dei più importanti medici della cultura, un medico che ha saputo relativizzare l’importanza dell’analista in favore di una psicologia archetipica: esiste qualcosa di più grande e di molto più potente a dominare la scena, qualcosa che nell’uomo, da sempre, si ripete istintivamente, ricercando le forme adatte alle diverse culture e nei diversi luoghi per incarnarsi e autorappresentarsi. Gli archetipi compaiono ovunque, scrive Hillman (Il lamento dei morti, Bollati Boringhieri, 2014): nel cinema, nella pittura, in manicomio, nei bambini, nello studio dell’analista... Sono forme mitiche universali che lui andrà a ricercare soprattutto nella Grecia antica.
La sua fantasia ritorna in quei luoghi, in quegli spazi, per diventare metafora privilegiata di un regno immaginale che sa ospitare i principi originari sotto forma di dei. “E per scoprirlo occorre quello che Creuzer (curatore dei testi neoplatonici di Proclo e Olimpiodoro) considerava il dono ermeneutico, la capacità di immaginare in modo mitologico, un’arte simile a quella del poeta” (L’anima del mondo e il pensiero del cuore, Adelphi, 1981). Di fronte alle tante difficili prove della vita, la psiche può re-immaginarle da un diverso punto di vista. La Grecia diventa così uno specchio che riflette configurazioni “naturali” molto ampie, che sanno raggiungere la piccola vita quotidiana delle nostre personalità e della nostra civilizzata coscienza.
Hillman si situa “nel punto in cui psicologia e religione, la religione intesa come rapporto con la divinità e come rapporto con la collettività, sfumano l’una nell’altra, nel punto, dunque, dove la psicologia è indotta a prendere in considerazione la teologia e la politica” (La vana fuga degli dei, Adelphi, 1991). Il mondo infero e pagano, inferiore e istintuale, che sfugge al controllo del soggetto volitivo e all’ingenuità delle psicologie egoiche, ha da sempre i suoi rappresentanti divini, e la loro presenza o assenza può essere fattore di cura o di malattia, di crescita o di entropia nel tentativo, con le parole di William James, di adattarsi armonicamente all’ordine invisibile. Recuperare la salute significa spesso “recuperare il divino da dentro la malattia, vedere come il contenuto di essa sia autenticamente religioso”.
Il ritorno alla Grecia tramite il dio Pan, Dioniso, Hermes, Apollo, Hestia, Afrodite, Demetra, Eros e Psiche, e tutte le altre divinità, non è estetismo romantico, ma una discesa nella caverna che ci aiuta nella ricerca individuativa attraverso le vie dell’immaginazione. Spesso le divinità che ci abitano chiedono ascolto e riconoscimento perché l’inconscio cerca di compensare le unilateralità del mondo cosciente: anche se solo in piccole dosi l’uomo può avvicinarsi alle loro cure, perché esse esprimono qualità assolute e potrebbero dominarci e inflazionarci. Il cavallo nero nel Fedro di Platone è poco dominabile e non può essere lasciato solo, ha bisogno del cavallo bianco e di una misura ragionevole al centro che sappia riconoscerli entrambi.
Anche gli stili narrativi e i generi letterari scelti per raccontare l’anima secondo Hillman si possono connettere a divinità diverse, ricordandoci che la psicologia è anzitutto politeistica e non dovrebbe mai esprimersi in modo schematico: va immaginata come prospettiva e traiettoria tra le moltitudini cromatiche e poetiche dell’anima stessa. Le storie che raccontiamo o scriviamo, veicolate dagli dei, si fanno ermetiche quando le connessioni aprono possibilità e amplificazioni, afrodisiache quando le sensazioni si posano “sul valore del sensibile”, dionisiache quando prevale il fluire inarrestabile della vita, cangianti con Mercurio e veementi con Marte. Lo stile narrativo del Senex o del Vecchio Saggio Hillman lo ritrova sia in Jung sia in Freud: per entrambi la forza persuasiva poggia sullo stesso fondamento archetipico, che proietta su noi lettori la riconfigurazione ontogenetica delle varie dinamiche primordiali presenti nei diversi personaggi della Trama. La psicoanalisi accoglie costitutivamente diversi volti e appartenenze, a partire da quello tecnico-clinico sino a raggiungere quello speculativo-teorico; per Hillman, il volto è quello di una psicoanalisi narrativa che con un procedere metaforico e poetico si avvicina di più alle arti che alla medicina occidentale.
Il sogno per Jung parla almeno due lingue, espresse bene nella duplicità ermetica, e le include entrambe contemporaneamente nella loro ambiguità. La voce della natura per Jung si esprime in questo modo, e nei sogni è lei a parlarci. Per capire la struttura del sogno non possiamo che ricollegarci al dramma, all’invenzione poetica nel teatro della psiche. E come i sogni, anche le fantasie interiori hanno la logica avvincente del teatro, riportandoci alla Grecia antica e al teatro di Dioniso (signore delle anime), che con le sue maschere sa vedere oltre, in trasparenza, lungo i processi di guarigione. Del resto, se pensiamo che la psicoanalisi nasce come “cura attraverso la parola” - espressione coniata dalla paziente di Freud Anna O. -, il suo primato diventa senza alcun dubbio letterario e narrativo. L’analista si fa scrittore della storia narrata dai suoi pazienti, trasformando la psicologia in un romanzo. Una scoperta di Freud è che la storia attraverso la memoria spesso si separa dai fatti effettivamente accaduti: “Il trauma non è ciò che è accaduto, ma il modo in cui vediamo ciò che è accaduto”. La storia “dei fatti” viene dimenticata, negata, rimossa, la memoria può essere “non storica”: i ricordi di copertura e le invenzioni di precoci traumi sessuali non si legherebbero dunque necessariamente ad avvenimenti accaduti letteralmente. Se sappiamo liberarci dal bisogno che il ricordo richiami un fatto accaduto realmente, i ricordi possono evocare immagini archetipiche e gli eventi richiamati dal cassetto della memoria diventare primordiali e mitici, nel senso platonico di non esser mai accaduti e tuttavia di essere sempre. Potremmo quindi dire con Hillman che “il padre della terapia può essere Freud, ma la madre è Mnemosine, memoria, madre delle muse”. Mnemosine significa vedere gli eventi della storia come immagini. E a cosa serve tutto questo? Penso serva anzitutto a trovare una giusta distanza rispetto agli eventi della vita, sul confine tra i due mondi, e nello stesso tempo a riconfigurare e revisionare chi siamo e la narrativa dei nostri vissuti.
Le storie che curano /
James Hillman, il peso dell’anima
di Ivan Paterlini (Doppiozero, 30 Agosto 2021)
L’anima non abita solo dentro di noi, ma anche fuori, nel mondo. Quando siamo in un giardino, un qualsiasi giardino con i suoi alberi, i suoi fiori, le sue metafore, scrive Hillman (“Nei giardini: un ricordo psicologico”, in Politica della bellezza, Moretti&Vitali, 2005), si rende presente qualcosa che richiama l’anima mundi, l’anima del mondo. L’anima mundi per Hillman non è semplicemente un sentimento romantico e panteista dove il tutto si fa anima, perché in questa accezione tradiremmo la specificità di ogni singolo elemento sia soggettivo (io che guardo) sia oggettivo (gli abitanti del mondo) e la storia del loro incontro. Quindi non tutto ha un’anima, ma solo ciò che sappiamo incontrare. Per Hillman il giardino giapponese rende presente più di altri questa possibilità di incontro riflessivo tra l’anima soggettiva e l’anima del mondo. Ponti, piccoli sentieri, fioriture, caducità, lo schiudersi dei germogli, la fine dell’inverno, i piccoli corsi d’acqua... metafore tra le più pertinenti della nostra vita psichica. La complessità della psiche plana sugli elementi primi della natura come sulla topografia e la geografia di un giardino. La psiche può riflettersi nella semplice natura, e in questo riconoscere ciò che Jung definiva “psiche oggettiva”, presente ovunque attorno a noi. La psiche ha i suoi corrispettivi nel costante fluire delle cose. Questo mi ricorda il movimento delle fantasticherie di Rousseau, per il quale il bisogno di determinate posture psico-fisiche (come quelle del camminare) diventava imprescindibile affinché l’immaginazione si attivasse: nel silenzio, in un certo luogo, con una certa pianta...
Dal punto di vista clinico, la confusione e la non armonizzazione tra mondo interno e mondo esterno possono sollecitare pensieri o agiti di grande sofferenza. Il suicidio dell’anima di Hillman (Adelphi, 2010), da questo vertice di prospettiva, rappresenta la storia dell’anima come esperienza che nasce principalmente dai sogni e dalle intuizioni che sanno organizzare e ricostruire la nostra carta d’identità simbolica, fondamentale per non perderci nell’anonimato collettivo. Nessuna analisi riduttiva riuscirà mai a rimuovere il senso di questi simboli identitari con il riferirli semplicemente a traumi esterni. “La storia clinica riporta i successi e i fallimenti della vita rispetto al mondo dei fatti. Ma per l’anima successi e fallimenti non sono gli stessi perché l’anima non funziona allo stesso modo [...] l’anima immagina e gioca, e il gioco non è riportato nelle cronache [...] fare la storia dell’anima significa catturare emozioni, fantasie e immagini partecipando al gioco e sognando il mito insieme al paziente” (Il suicidio dell’anima). Sognare il mito insieme al paziente pone la storia clinica e la storia dell’anima dentro un processo continuo di riflessione e di espansione. Il sogno del paziente, come quando ascoltiamo un brano musicale, non richiede un’interpretazione, ma un “equivalente atto di immaginazione; il tuo sogno evoca in me un sogno, il mio lo evoca in te - non in senso letterale [...] ma il sogno come fantasticheria, fantasia, risonanza immaginativa, come un frammento del fare anima la cui finalità non è ermeneutica, ma è un gesto di comprensione” (Le storie che curano, cit., p. 50).
Hillman ci ricorda che per Jung la psiche non è dentro di noi, ma siamo noi dentro la psiche. L’emergenza ecologica di questi anni richiama con urgenza questa idea di psiche dove l’interiore si riflette nell’esteriore... perché percependo l’estinguersi della natura, dovremmo percepire anche l’estinguersi della nostra vita psichica e quindi umana. La psicologia dell’anima sembrerebbe un buon punto di partenza per salvare il pianeta e recuperare la connessione tra tutti gli “oggetti” del mondo. Il cittadino per Hillman ha priorità rispetto al paziente, riportando l’attenzione del clinico a quel terreno sullo sfondo del quale Jung e Freud descrissero l’individualità: “il collettivo, l’istinto gregario, l’orda primaria, quella folla, quel fluire che è la polis [...] non sarà più cogito ergo sum, ma convivo ergo sum” (Politica della bellezza).
“Briser l’historie! Rompere la storia!” è la presa di posizione più rappresentativa del pensiero di Hillman. Significa uscire dalle maglie strette delle priorità del pensiero come successione di nessi causali dove il tempo lineare si fa esclusiva misura della storia. Hillman non è mai stato interessato a ciò che determina causalmente un evento perché ciò è considerato a-psicologico; è interessato maggiormente al valore associato a quella presunta causa. La priorità sta quindi nel valore, non nel tempo cronologico degli eventi. Che cosa significa pensare il tempo in termini di valore? Significa anzitutto includere l’idea di telos, che sa conferire valore a ciò che accade, “perché considera ciascun evento come dotato di uno scopo. Le cose avvengono per un qualcosa.
Hanno un’intenzionalità [...] telos conferisce valore agli eventi [...] la ghianda non si comporta tanto come una guida personale, quanto piuttosto come uno stile mobile, una dinamica interna che conferisce alle occasioni il sentimento che abbiano uno scopo” (Il codice dell’anima, Adelphi, 2009). La “ghianda” di cui parla Hillman riguarda quindi più gli aspetti animici degli eventi e ciò che fa bene all’anima. “Si spiega allora perché il daimon di Socrate lo esortasse a non sottrarsi alla prigione e alla condanna di morte”, il che per Jung significa “divenire familiari con i demoni, dischiudersi ad essi e ascoltarli, cioè conoscerli e distinguerli” (Le storie che curano) nella ricerca di se stessi. Le divinità sono diventate malattie, ammoniva Jung.
Pensando all’idea di tempo di Agostino, siamo sempre avanti (il futuro come ansia) o indietro (il passato come lutto) e il tempo presente spesso ci divide, ci rende assenti, vuoti, schiacciati, “bipolari”. Per Hillman il presente non è semplicemente un momento, un istante impercettibile e ogni volta superato, ma embricazione continua di tanti tempi che si estendono ovunque. La consapevolezza del presente non è epifania del tempo già passato, ma connessione costante con il molteplice presente. Con il linguaggio di Hillman dovremmo chiederci: qual è il tempo vero che vive l’anima? E potremmo rispondere: il tempo infinito dell’accadere psichico. Questo tempo include storie passate (pensiamo ad esempio alla ripetizione dei traumi subiti nell’infanzia) e storie future (i nostri infiniti propositi), tutte insieme contemporaneamente. Chi ha sufficiente esperienza clinica riconosce che, anche nei momenti più bui e traumatici della vita di una persona, l’inconscio sa parlare di altro, sa parlare un’altra lingua, sa parlare con un’altra esperienza della vita psichica. Se non ci avviciniamo a questo modo di procedere dell’inconscio, tutto si chiude sulla storia, sulla ripetizione, sulle presunte abreazioni e confessioni catartiche e così via: Hillman ci invita ad avvicinarci al tempo come Kairos, come opportunità e apertura al possibile. La consapevolezza di Kronos (il tempo che ingoiamo in ogni istante di vita) è tra le origini primarie delle malattie, e tutti in qualche modo ne siamo coinvolti.
Il dio principale di tutte le patologie infatti per Hillman è Ade. Uno degli epiteti di Ade era “colui che chiude la porta”. Tutto dipende da come ci posizioniamo davanti a quella porta. Per Eracle, ci ricorda Hillman in Il sogno e il mondo infero (Adelphi, 2005), fu una lotta continua con Ade, nella quale l’io erculeo pone la coscienza separandola dal mondo infero, con un rapporto tra i mondi opposti molto faticoso. Questo è un procedere tipico della medicina allopatica, che cerca la cura contrastando un processo patologico combattendo o iniettando ciò che difetta: “stimola elementi endogeni o ne introduce di estranei che si oppongono alla malattia” (Il sogno e il mondo infero). Se percepiamo invece che l’opposto è già compresente, e che ogni esperienza psichica si costituisce nell’identità di almeno due parti opposte, entriamo nel mondo simbolico e nella concezione di cura più vicina a Hillman: “non c’è niente da introdurre da parte di nessuno, perché l’opposto è già presente [...] ciascun sogno ha il suo fulcro e il suo equilibrio, si compensa da sé, è completo così com’è”. Se impariamo a guardare attraverso le nostre capacità ermetiche, da Briccone o da Arlecchino, il confine diviene luogo di scambio e non di conflitto tra ciò che è familiare e ciò che è estraneo, dove le porte e i cancelli diventano luoghi di attraversamento e l’ingresso significa iniziazione e non conflitto. Nella Grecia antica, i daimones erano figure del mondo intermedio. Erano terrificanti, benevole, guide, messaggeri e sapevano rappresentare lo specifico del paganesimo politeistico. Jung è stato tra i primi a ridare loro vita in relazione all’anima, tracciando per certi versi il solco dell’eretico e del demoniaco nell’immobilità dogmatica del Cristianesimo.
Questa capacità di tenere unito il mondo psichico con il mondo fisico penso possa aiutare molto soprattutto in tutti i casi in cui la malattia ci relega in un solo mondo, fatto di lotta e opposizione tra il sapere diurno e quello notturno, incapaci di vedere il mondo con occhi ermeneutici. Gli dei possono salvarci! I crocicchi dove vivono i templi improvvisati di Ermes ci ricordano che c’è qualcosa da portare oltre la soglia, e da barattare e tradurre in un’intuizione... il lavoro sui sogni e sulle nostre storie è anche un’opera di abile ermeneutica.
Varie sofferenze sono spesso evidenti rimozioni di parti o esperienze appartenenti alla vita, nel tempo che scorre, inesorabile. In questo caso il sintomo diventa un portatore di senso teleologicamente orientato. Vi è l’occasione per farne qualcosa. Jung aveva già intuito come la maggior parte delle patologie nascondesse una mancanza di direzione, di visione e di immaginazione: “Non pochi cosiddetti pazienti [...], pur non essendo affetti da una nevrosi clinicamente classificabile, consultano il terapeuta a causa di conflitti psichici e altre difficoltà della vita [...] spesso queste persone sanno benissimo [...] che i loro conflitti riguardano il problema fondamentale del loro atteggiamento” (Jung, Questioni fondamentali di psicoterapia, in Opere, vol. XVI, Bollati Boringhieri). Atteggiamento che condiziona la costruzione dei nostri pensieri etici e filosofici e del nostro percepire e vivere il mondo. Il nostro modo di sentire le varie sintomatologie racconta anche della nostra inquadratura sul mondo, della nostra postura in esso.
Come recepiamo un sintomo? Per Hillman, rifacendosi alla medicina antica, gli organi non sono solo sani o malati, ma sviluppano ciascuno uno specifico grado di coscienza. Anche Jung ne parla, soprattutto in Psicologia e alchimia. Che tipo di coscienza hanno i nostri organi? E come si sviluppano nel mondo? Il mito di riferimento è Dioniso che viene fatto in tanti pezzi e smembrato; in alcune versioni neoplatoniche si narra che venne disperso in tutta la natura riflettendo così i tanti organi del nostro corpo che chiedono coscienza, soprattutto nei periodi disfunzionali. Solo quando sentiamo dolore spesso diventiamo consapevoli dei nostri organi e del nostro corpo. Apollo cura e pensa le sintomatologie in modo del tutto differente perché usa la razionalità e il pensiero lineare. “Mentre la storia clinica espone una sequenza di fatti che conducono ad una diagnosi, la storia dell’anima mostra piuttosto un brulichio concentrico che rimanda sempre oltre se stesso. I suoi fatti sono i simboli e i paradossi” (Il suicidio dell’anima).
Dioniso, scrive Hillman (in AAVV, Lo spirito e l’ombra, Moretti&Vitali, 1996), rispetto ad Apollo è molto più legato al corpo che si muove sul palcoscenico della vita con i vari organi che si fanno attori principali, ognuno con un proprio stile e una propria specifica intelligenza. Tutto ciò che si allontana dalla coscienza diventa sintomo trascinando con sé, perché fuori del campo controllabile, anche il daimon che dovrebbe invece essere ospitato come spinta desiderante verso la nostra vita più autentica e compiuta nell’esperienza individuativa. La morale immaginativa e seduttiva contenuta nel discorso non sta nel giudicare i demoni come buoni o cattivi, bensì nel riconoscere le immagini religiosamente, in qualità di potenze che ci pongono delle richieste. Secondo un’antichissima visione, si sa che gli spiriti sono anche i nostri guardiani e custodi e noi lo siamo di loro. Solo una coscienza che non sa entrare nel mondo immaginale, per Hillman, si pone il problema morale, e non si pone il conosci te stesso, vivibile dall’interno delle immagini stesse. In sostanza, poiché non siamo noi a inventare queste immagini, teoricamente non siamo noi a fornire le risposte, ma sono le immagini a darcele, con una funzione di guida e di psicopompo. Il coinvolgimento con le nostre immagini più autentiche e profonde porta con sé la propria morale, spostando sul nostro demone il luogo della moralità, e non più sulla nostra piccola coscienza. La nostra immaginazione così non sarà più demonizzata con proverbiali lotte eroiche senza confine, ma assunta ad anima guida votata alle potenze della molteplicità.
I demoni hillmaniani non sono più contraddizioni come pensavano ad esempio Jasper o Barth, ma sanno parlarci con la parola politeista dentro questo mondo. Gli dei sono nel mondo e nella natura (vero luogo degli archetipi: il Vecchio Saggio ad esempio, disse Jung, in realtà è uno scimmione), non al di là, e solo attraverso questa percezione e consapevolezza si può comprendere cosa intende Hillman per linguaggio dell’anima ed essere nell’anima. Essere nell’anima ci riporta nel mondo perché essa non ha necessità di ambienti chiusi e segregati, la si può incontrare ovunque. Non ci sono due mondi, sacro e profano, ma uno solo.
Hillman riesce quindi a recuperare la dimensione politica unita all’etica e all’estetica, conducendoci verso una specifica visione del bello da portare e vivere nel mondo. E questo recupero di cittadinanza ci riporta anche a concepire la città come psiche e la polis come “l’altra metà del mythos”, come già era nell’antichità. L’immaginazione, nel senso in cui Hillman ce la presenta, diventa possibilità di abbattere i confini: gli archetipi con i loro demoni parlano a tutti con un ethos collettivo, non solo individuale. Il senso di una nuova partecipazione risuona nella consapevolezza e nell’urgenza di restituire al mondo le nostre più profonde emozioni, attraverso infinite narrazioni immaginabili.
James Hillman tra ricerche e ironia svela il legame cibo-psicoanalisi
Il cuoco con Edipo alla tavola di Freud
di Marino Niola (la Repubblica, 13.12.2016)
Panini, Coca-Cola, tramezzini, spaghetti precotti e hamburger. È questa la vera psicopatologia della vita quotidiana. L’origine di tutte le nostre nevrosi. A dirlo è Sigmund Freud. Anzi no. È il celebre psicanalista James Hillman che con la complicità del mitologo Charles Boer, uccide il padre della psicanalisi e cucina i suoi frammenti in un banchetto cannibalico. Il risultato è “La cucina del dottor Freud”, un libro a metà tra “Psycho” e Woody Allen, appena uscito da Raffaello Cortina con la traduzione di Vittorio Serra Boccara.
Apparso negli USA nel 1985, questo spaesante cookbook freudiano, che sembrava solo un divertissement da psicanalisti consumati, alla luce della cibomania dilagante di oggi, si rivela in tutta la sua profetica attualità. E diventa una sorta di analisi dei lapsus, delle fissazioni, delle rimozioni, delle ossessioni, delle fobie di homo dieteticus. Cioè il cittadino globale che ha fatto del cibo il vero luogo della libido. Altro che il sesso. Perché Hillman e Boer fanno confessare al grande Sigmund che la psicoanalisi non è nata dietro il divano, ma davanti ai fornelli.
In questo senso è vero che la pratica analitica e la cucina hanno avuto molto in comune, perché sono entrambe delle fantaisies de bouche. Solo che all’origine di tutto non c’è il sesso, ma la gola. E le nevrosi non nascono a letto, ma a tavola.
Questo libro costituisce dunque una clamorosa retromarcia dell’oralità, che restituisce alla bocca un ruolo non semplicemente metaforico, sostitutivo, ma letterale, alimentare, funzionale. Come dire che le gratificazioni genitali derivano dalle voluttà orali e non viceversa: se repressione c’è stata, è stato il sesso a reprimere e sublimare il cibo e non viceversa. E a muovere la pulsione orale non è il desiderio ma la gourmandise.
Insomma attraverso i frammenti di lettere, appunti biografici, testi della figlia Anna messi insieme da Hillman e Boer emerge un Freud severo verso se stesso e feroce verso i suoi seguaci, colpevoli di aver ridotto la pratica analitica a un formulario di ricette precotte, a «cucina psicologica freudiana». E il padre della psicanalisi se la prende anche con i medici che, in generale, non sanno mangiare e hanno sublimato le loro frustrazioni orali con tetre ammonizioni. Per cui, conclude, «noi dovremmo mangiare come le mucche e i cavalli, vale a dire verdure crude, cereali integrali, pasti misurati, equilibrati. Quelle famose diete equilibrate, che generano menti squilibrate». E aggiunge che in fondo tutti i protagonisti dei suoi casi clinici più celebri avevano trasformato i totem alimentari in tabù.
Anna O. si nutriva unicamente di arance. Dora era una «mediocre mangiatrice e rivendicava il suo disinteresse per qualsiasi cibo». Mentre Miss Lucy R. era afflitta da strane dis-percezioni olfattive. In questo senso la ricetta del fegato d’anitra isterica che si trova nel libro è idealmente dedicata a loro.
Mentre il piccolo Hans ha ispirato quella dell’Hansburger, la succulenta polpetta di carne equina che il grande viennese avrebbe consigliato come terapia per far superare al bambino la paura dei morsi di cavallo. All’insegna del meglio mangiare che essere mangiati.
E questo è solo l’antipasto. Perché il libro propone un menu ricchissimo fatto di transfert, nonsense, giochi linguistici davvero gustosi. Dalle fettuccine libido, al barattolo di déjà-vu, dalla crostata edipica alla torta paranoica. Sono a tutti gli effetti ricette vere, che mescolano tradizione viennese, gastronomia ungherese, umori yiddish. Come l’oca al forno con salsa di mele del pranzo di Natale, che mamma Amalia preparò per il suo goldener Sigi, l’adorato Sigi, fino all’età di novantacinque anni, senza fargli mai capire se lo chiamasse così perché lo adorava davvero o per fargli fare la figura dello scemo. Di qui al complesso di castrazione il passo è breve.
Ma il triangolo edipico Hillman-Boer-Freud si spinge ancora più in là. E liquida senza rimpianti un topos analitico come la scena primaria. All’origine di ogni sofferenza nevrotica ci sarebbe infatti la cena primaria, non la scena. A turbare il bambino non è il sadismo fantasmatico di mamma e papà che fanno sesso. Ma il sadismo autentico dei genitori che impongono di smettere di giocare per ingurgitare un’orribile purea di spinaci.
E ce n’è per maestri, colleghi, rivali e seguaci, da Charcot ad Adler, da Ernest Jones a Melanie Klein. Anche se la rasoiata più feroce lo pseudo-Sigmund la riserva alla mania dilagante dello Jung Food. Un cibo pronto e di largo consumo, con una spiccata zodiacalità, caramellata ed edulcorata, un po’ esotica, un po’ esoterica. Una spazzatura analitica insomma. Proprio come le teorie di Carl Gustav in versione new age.
Così tra il serio e il faceto, tra salsa Narciso e involtini Thanatos, insalata Ave Cesare Lombroso e lingua di bue afasica, rognoni di Abraham e abbassamento del pisello mentale, affiora tra le parole d’ordine e le figure chiave della psicanalisi, un immenso laboratorio di gastronomia potenziale. Che sta fra la cucina dell’inconscio e l’inconscio della cucina. Fra Totem e tabù e totem e ragù.
Una pietra di inciampo sulla strada dell’inconscio
Saggi. «Psiche» dello psicoanalista Luigi Zoja per Bollati Boringhieri
di Claudio Vercelli (il manifesto, 12.01.2016)
Scriveva Carl Gustav Jung, in termini quasi profetici: «è conforme alla moderna ipertrofia della coscienza essere immemori della pericolosa autonomia dell’inconscio e spiegarla solo negativamente come assenza di coscienza». Colmiamo sempre più spesso l’incapacità di guardare prospetticamente l’abisso pulsionale che dimora in noi stessi con il rimando autoassolutorio ad una presunta indisponibilità all’introspezione, facoltà che nei dispositivi ideologici dominanti dovrebbe invece contribuire a «fare chiarezza», poiché nulla di oscuro ci è permesso abitare. Temiamo l’ombra non perché sia oscura ma in quanto immagine riflessa di noi stessi.
Luigi Zoja, eminente studioso di estrazione junghiana e analista, consegna al pubblico italiano un’opera preziosa, quasi un vademecum dedicato a Psiche (Bollati Boringhieri, pp. 160, euro 11). Opportuno il fatto che compaia nella agile collana intitolata ai «sampietrini» poiché il suo testo è come una pietra d’inciampo, sulla quale bisogna soffermarsi non per virtù bensì per necessità. Camminando a passo spedito, ma anche a tratti vertiginoso, nell’esistenza quotidiana si incontra la realtà immateriale di noi stessi, della nostra complessa e stratificata immagine, dell’immaginazione che di esse si alimenta, dell’immaginario che si rigenera permanentemente.
L’autore ci invita a pensare che non ci sia nulla di più consistente e persistente di ciò che, con estrema fallacia, reputiamo invece essere le aleatorie categorie dello spirito. Psiche ne è, per l’appunto, il contenitore, esso stesso mobile, permeabile, poroso e mobile.
Un intimo sdoppiamento
Il libro ne ricostruisce la storia, ovvero il modo in cui il più delle volte non abbiamo interagito con essa, le raffigurazioni che ci siamo fatti ma anche lo scacco che spesso ci ha giocato. Poiché la sensazione che si ha, leggendo le pagine di Zoja, è che il rapporto con il proprio «intimo» sia una sorta di vero e proprio corpo a corpo, dove lo sdoppiamento con l’oggetto della propria riflessione si trasforma nel rapporto dialettico con un soggetto a sé stante. La psiche assume così la fisionomia e la sostanza di una vita che si presenta dinanzi a noi.
Si tratta della nostra esistenza, della quale cogliamo gli aspetti di anarcoide irriducibilità ai dettami di un esangue razionalismo, e contro la quale ci esercitiamo, non rendendoci conto che è parte di noi stessi, qualcosa di «terribilmente reale», e non un altro “noi” al quale, alternativamente, associarci o dissociarci in base alle circostanze del momento.
Il nesso tra l’inconscio («la parte della nostra mente di cui non abbiamo percezione diretta») e la proiezione (la pratica di attribuire ad altri, o ad altro, ciò che non si vuole riconoscere come proprio) istituisce buona parte del campo psichico e, con esso, «il problema morale», ossia quello dell’assunzione di responsabilità. Poiché il soggetto unitario è quello che se ne fa carico mentre quello scisso, figura che oggi abbonda e che trova nel mainstream fondamentalista e paranoide la sua compiuta soddisfazione, rigettando una parte di sé si pronuncia per la traslazione di ciò che considera esclusivamente come delle colpe a carico degli altri. Peraltro, ben sa lo storico che è questo un criterio che implica l’azzeramento del campo della politica, dove invece il rapporto tra etica delle responsabilità ed etica dei convincimenti dovrebbe rimanere una dialettica irrisolta, in quanto motore di quel conflitto che ci muove verso il mutamento negoziale e la trasformazione identitaria.
Capacità di immaginazione
A tale riguardo, rimanendo nella sfera della soggettività, Zoja ci rammenta che nell’incapacità di negoziare con se stessi le parti che compongono ogni persona si trova il fondamento non del difetto di razionalità ma della povertà dei simbolismi e, con essa, della capacità di immaginazione.
Il simbolo non è l’inverso della ragione bensì una funzione dell’economia psichica. Ha diversi risvolti, non tutti necessariamente positivi, ma attiva la competenza della condivisione. «Nelle condizioni più oggettive e fitte di norme in cui viviamo, questa agilità delle immagini interiori ha (invece) poco spazio tra gli adulti».
Più che una lamentazione sui buoni tempi trascorsi, in realtà mai esistiti, quella dell’autore è una ricognizione sull’andamento del rapporto con la propria sfera immateriale, in una età dove al ritrarsi nell’individualità corrisponde un generalizzato disinvestimento psichico sia dalla dimensione affettiva che in quella sociale. Mentre l’esperienza emotiva si individualizza, avanza un’età dove la rinuncia alle passioni diventa il suggello di un mondo reificato, nel quale la pace interiore corrisponde ad un’emotività generalizzata e gratuita, senza reale affettività. Si tratta di quel complesso di atteggiamenti per cui all’identificazione profonda si sostituisce il clamore del momento, all’empatia il narcisismo.
Dimissioni dalla vita
Stati di coscienza deboli poiché non riescono più a confrontarsi con l’iceberg capovolto della pulsionalità profonda. Non è un caso, allora, se la nozione stessa di conflitto, e con essa di società, stiano subendo una torsione negativa, essendo l’uno e l’altra sostituiti dalla memoria come narrazione di una sorta di obbligazione collettiva al ricordo di qualcosa di perduto per sempre. Zoja parla, in alcuni passaggi, di «dimissioni dalla vita». Una nostalgia del nulla sembra così sostituirsi al desiderio del futuro. Passioni sì, quindi, ma tristi perché basate sulla destrutturazione del soggetto, non sul progetto in divenire.
La lezione del mio maestro Enrico Guaraldo Dopo, la letteratura non fu più la stessa
Immaginazione
La vera sapienza
Costruitevi un harem nella testa e affollatelo di sogni e fantasie Aiuta a vivere, ha ragione Flaubert
di Alessandro Piperno (Corriere della Sera/La Lettura, 19.01.2014)
Ero all’ultimo anno di università quando mi imbattei in quello che ben presto sarebbe diventato il mio maestro. Per quanto pomposo possa apparire è così che gli aspiranti accademici chiamano i propri mentori: maestro. Un po’ come in Guerre stellari fanno i giovani Padowan con gli Jedi.
Il mio maestro si chiamava Enrico Guaraldo. È morto l’anno scorso.
Quando lo incontrai, il mio disincanto per gli studi accademici aveva bucato il muro del suono dell’insostenibilità. Sebbene mi fosse stato inculcato un severo rispetto per le istituzioni, non ero riuscito ad accettare che una cosa splendida e scapestrata come la letteratura fosse trattata in modo così tedioso, supponente, pedestre e burocratico da individui privi di talento e fantasia. Frattanto gli ultimi fuochi dello strutturalismo avevano incenerito le ormai risicatissime foreste vergini del pensiero. Com’era possibile che i capolavori dell’umanità fossero commentati da saggisti il cui stile si riduceva al birignao torbido e oscuro di una losca tecnocrazia orwelliana?
Ecco lo stato del mio umore quando per la prima volta entrai nella classe in cui il professor Guaraldo teneva il suo corso sulla Bovary. Non era un uomo avvenente. Vestiva in modo lezioso (la lunghezza della cravatta superava disastrosamente le colonne d’Ercole della cintura di coccodrillo). Per timore dei germi, al posto del microfono messo a disposizione dalla facoltà, utilizzava un karaoke personale. Chiuse la porta a chiave. Per non dare adito a equivoci, ci spiegò che era permesso uscire dall’aula solo su una barella nel pieno di un attacco cardiaco. Poi lesse un pezzo di une delle lettere scritte dal giovane Flaubert a Luise Colet. Una specie di mantra ad uso di giovani scrittori. Da allora me lo sono ripetuto così tante volte che ho finito per impararlo a memoria: «Il faut se faire des harems dans la tête, des palais avec du style, et draper son âme dans la pourpre des grandes périodes». «Bisogna farsi degli harem nella testa, dei palazzi con lo stile, drappeggiare la propria anima della porpora dei grandi periodi».
Quando il mio futuro maestro prese a commentare queste strane parole, accadde qualcosa che ho seria difficoltà a descrivere. Fummo invasi da una specie di voluttà. Investiti da una freschezza balneare poco confacente a un’aula universitaria. Trascinati in un mondo diverso da quello in cui vivevamo, ma che, allo stesso tempo, in un bizzarro paradosso, sembrava scaturire dai luoghi più oscuri e misteriosi di noi stessi. L’ironia, l’arguzia, la competenza, l’erudizione, l’irriverenza, la spregiudicatezza, il gusto per l’analogia e per la divagazione, e una dose assolutamente irresistibile di piacioneria, tutto al servizio di una didattica impeccabile. Da allora le parole di Flaubert divennero il nostro grido di battaglia.
Gli harem nella testa
Bisogna farsi degli harem nella testa. È un’esortazione che Flaubert rivolge a se stesso. Che forse andrebbe allargata a chiunque. Bisogna riempirsi la testa di concubine o di gigolò. Bisogna abbandonarsi al fascino corrotto della molteplicità. Perché la mente è il solo luogo del nostro corpo in cui l’abbondanza non è insana; il solo angolo di mondo in cui l’omicidio non è punito, e l’incesto non giudicato; la sola alcova in cui accogliere la donna dell’amico senza per questo tradirlo.
Ciò di cui Flaubert sta parlando è l’immaginazione. L’unica cosa che conti realmente nella vita. Il guaio è che Flaubert non è Diderot. La folla che ingolfa la sua mente non è fatta di pensieri, ma di immagini. Di immagini lussuose e variopinte, di marmi, di palmeti marocchini, di donne e di uomini (già, pare che il Nostro avesse gusti anfibi). Immagini romantiche e truculente, gotiche e romantiche, talvolta persino stucchevoli e triviali, ma chi se ne importa... Un altro vantaggio della nostra mente è che là dentro è abolito il buon gusto.
I tempi lunghi della fantasia
Ecco uno dei consigli più preziosi che mi dava il mio Maestro: «Non legga avidamente. Legga con lentezza. E quando finalmente incontra una grande immagine, per carità di Dio, chiuda il libro. Non vada avanti. Se la goda un po’, quella immagine. Se la porti a letto, al bagno, al ristorante. Non se la lasci scappare. Ci giochi un po’. La stravolga se necessario. La modifichi a suo piacimento. Se ne appropri. A questo serve la letteratura».
Allora credevo che questo fosse il segreto di un vero lettore. Avrei imparato sul campo che questo è ancor più il segreto di chi scrive. Chiunque svolge questa professione sa che scrivere non è sempre una luna di miele. La paura di sbagliare, l’influenza mefitica di chi ti ha preceduto, l’orrore di te stesso, il senso di gratuità... Eppure ci sono momenti che qualsiasi imbrattacarte conosce, in cui improvvisamente sei visitato da un’immagine, una sola. Che ti sembra preziosa solo perché originale, solo perché non è corriva come tutte quelle che ti vengono in mente abitualmente. Ti senti felice, euforico. Per un momento ti sembra di capire ciò che intendevano i modernisti con il termine «epifania». È questa cosa qui. La gioia di un’immagine che ti si dona. Che ti gonfia il petto. Che un po’ ti fa ridere, un po’ ti commuove. Non è detto che sia un granché, ma almeno è tua come il tuo spelacchiato peluche. E allora che fai? Ti metti a scrivere? Ma sei matto? Vuoi rovinarti la festa? Neanche per sogno. Te la tieni per te. La smonti e la rimonti a piacimento. Usi parecchio il replay e il fermo immagine. I più spregiudicati ricorrono a una specie di photoshop interiore. Malgrado per me si tratti di un ricordo remoto, direi che gli amori dell’adolescenza (tanto meglio se non corrisposti) favoriscono certe euforiche fantasticherie. Trastullarsi con l’immagine di ciò che probabilmente non capiterà mai può regalare gioie insperate.
Ne Le botteghe color cannella - il più immaginifico memoir mai scritto - Bruno Schulz narra la strana avventura di suo padre. Un piccolo bottegaio askenazita che sceglie di staccarsi dalla realtà, per abbandonarsi sfrenatamente al suo mondo interiore fatto di immagini colorate, bizzarre e spaventose. Schulz racconta l’impazzimento paterno, l’irriducibile alienarsi dal mondo che coincide con il progressivo rimpicciolimento delle membra, degno di Alice nel paese delle meraviglie. Ma invece di condannarlo o assolverlo, Schulz lo glorifica, tributandogli retrospettivamente l’onore delle armi: «Soltanto oggi comprendo il solitario eroismo con cui egli, da solo, mosse guerra all’elemento sconfinato della noia che soffocava la città. Senza alcun appoggio, senza alcun riconoscimento da parte nostra, quell’uomo straordinario difese la causa persa della poesia».
Quindi, da una parte c’è la noia che soffoca la città, dall’altra la causa persa della poesia. E non è mica detto che per proteggersi dalla prima e per difendere la seconda uno debba per forza impazzire. Basta aprire l’album di fotografie interiori. Riesumare ricordi, talvolta persino inventarseli di sana pianta. Oppure prevedere il futuro, profetizzare. Che ne sarà dell’Imu nel 2530? E della Tares? E naturalmente ci sono sempre le stelle, gli alieni, altre civiltà del tutto inimmaginabili. Poi c’è l’arte, che resta pur sempre la vita interiore dell’umanità. Avete presente quando Woody Allen in Manhattan si mette lì a enumerare tutte le ragioni per cui vale la pena vivere? Ecco, una cosa del genere, ma con le immagini. Che so: Anna Karenina nello scompartimento del treno con un libro in mano mentre fuori imperversa una tempesta di neve. E, a proposito di bianco, il bicchiere di latte tracannato da Christoph Waltz in Inglorious Bastards. Gli occhi di Lucrezia Panciatichi dipinti da Bronzino. La Londra avvolta in una nebbia azzurrina delle prime indimenticabili pagine di Casa desolata. Il colpo di testa di Simeone contro la Juve che ci regalò lo scudetto. Una vacanza in Cornovaglia del 1984. Per non dire delle immagini lascive di cui è meglio tacere...
La regina delle facoltà
Del resto, enfatizzare l’aspetto ludico, per così dire disneyano, dell’immaginazione, è un modo fin troppo demagogico di porre la faccenda. Almeno per i miei gusti. L’immaginazione merita rispetto. Per questo è tempo di affidarsi a colui che ha scritto le pagine definitive sull’immaginazione. Sto parlando di Charles Baudelaire naturalmente, uno degli uomini più intelligenti del XIX secolo. Può esistere intelligenza senza ironia? Altroché se può! Baudelaire è la dimostrazione che forse l’intelligenza pura non conosce l’ironia. Lui non scherza mai. Lui si prende sempre dannatamente sul serio. Certe volte provo a immaginarmelo ridere a una barzelletta di un amico. Be’, non ci riesco. Baudelaire non ride. Baudelaire è sempre di una solennità insostenibile. Eppure non sbaglia un colpo. Ha una lucidità sovrannaturale. Soprattutto quando parla dell’immaginazione, che definisce la regina delle facoltà. «Tutto l’universo visibile non è che un deposito di immagini e di segni ai quali l’immaginazione deve attribuire un posto e un valore relativo: una sorta di nutrimento che l’immaginazione deve assimilare e trasformare. Tutte le facoltà dell’anima umana vanno subordinate all’immaginazione, la quale le requisisce tutte in una».
C’è chi ha amato vedere in questa idea baudelairiana una deriva fricchettona, una sorta di prefigurazione della famigerata «fantasia al potere».
Ora, basta conoscere Baudelaire per sapere che le cose non stanno così. Baudelaire detesta la democrazia non meno di quanto detesti la sovversione, in qualsiasi forma essa si manifesti.
Come dicevo, le sue idee non indulgono mai in alcun tipo di edonismo. Per lui l’immaginazione è davvero la cosa più seria di tutte. Come quando scrive: «L’immaginazione ha una parte decisiva anche nella morale; poiché, se mi è concesso di spingermi fino a questo punto, che cosa diviene la virtù senza immaginazione? È come dire la virtù senza pietà, la virtù senza il cielo; qualcosa di duro, di crudele, di sterile, che in certi luoghi si è risolta nella bigotteria, e in altri nel protestantesimo». Che idea magnifica! Pensate a quei censori, di cui oggigiorno il nostro Paese è pieno, sempre pronti a castigare i costumi altrui, a giudicarli. I professionisti dell’indignazione e del civismo. Cosa dire di questi inflessibili Robespierre, se non che sono uomini privi di immaginazione? Che cos’è l’empatia se non la forma più intima di immaginazione? Solo provando a immedesimarsi nelle debolezze degli altri si riesce a essere indulgenti e misericordiosi.
Allora forse Baudelaire ha ragione: l’immaginazione, a dispetto di quel che si potrebbe credere, è la sola vera sapienza. Semmai è la cosiddetta «realtà», ammesso che la si riesca a definire, a essere talmente pleonastica da risultare irrilevante e tediosa. «Trovo inutile e fastidioso - scrive ancora Baudelaire - rappresentare ciò che è, poiché niente di ciò che è mi appaga. La natura è laida, preferisco i mostri della mia fantasia alla volgarità del reale». Non mi sorprende che a un secolo di distanza, uno degli allievi più riottosi di Baudelaire, ossia Vladimir Nabokov, rincari la dose, anche se con toni più scanzonati: «La mente non afferra nulla senza l’aiuto della fantasia creativa, di quella goccia d’acqua che sul vetrino dà nitore e rilievo all’organismo osservato».
Dopo tutte queste elucubrazioni capisco perché fui tanto colpito dalla prima lezione sulla Bovary del mio Maestro. Quel modo fantasioso di insegnare e concepire la letteratura era davvero contagioso. Era aria di montagna per polmoni intossicati. «Non importa se un’idea è giusta e ragionevole» mi diceva sempre il mio Maestro. «L’importante è che non sia troppo noiosa». Chissà che, dopo tanto ciarlare, non serva a questo l’immaginazione? A non annoiarsi troppo.
Alessandro Piperno
Hillman inedito
Un libro esoterico e un grande viaggio nei colori. Torna la voce dell’eretico studioso dell’anima
Il nero della Nigredo, il bianco dell’Albedo ma anche il mistero del blu nei ricordi di un genio musicale
di Luciana Sica (la Repubblica, 18.06.2013)
Emoziona riascoltare la voce di James Hillman, l’avventura del suo pensiero imprevedibile, la sua scrittura coltissima ed elegante. È un viaggio nei colori Psicologia alchemica (Adelphi), un libro esoterico e ammantato di mistero, ma laico per non dire pagano, privo di ogni deriva spiritualista.
Non molto tempo prima di morire nell’ottobre di due anni fa, lo stesso Hillman ha raccolto gli articoli e gli interventi scritti tra il ’77 e il 2004 sull’alchimia, un tema di decisa derivazione junghiana. Per sua scelta, il libro è uscito nel 2010 da Spring, l’editore americano che sta pubblicando tutta l’opera hillmaniana. Ma da noi era inedito, tranne il capitolo su L’azzurro alchemico e la unio mentalis.
È l’anima che cambia colore, la sofferenza può avere tonalità molto diverse. Come il blu che con il suo presagio d’argento tende a liberarsi dall’oscurità, e somiglia tanto alla tristezza che emerge dalla disperazione. O come la volta del caelum che consente la perdita di sé in un’estasi della mente.
Qui sorprende la lunga citazione dall’Autobiografia di Miles Davis, la devozione di Hillman per quel genio musicale e anche la sua competenza in fatto di jazz. Il primo ricordo del grande trombettista - aveva tre anni - è legato a «una fiamma blu che saltava fuori da una stufa», a emozioni fortissime come il calore così vicino alla faccia e la paura più profonda, ma anche un senso d’avventura e una gioia selvaggia: «Ho sempre pensato e creduto fin da allora che i miei movimenti avrebbero dovuto spingersi in avanti, oltre la sommità di quella fiamma».
Incantato dall’esperienza infantile del musicista, Hillman ragiona sull’attrazione di Miles Davis per quella fiamma di un colore imprevisto. La vede come una sfida ad affacciarsi sull’orlo «con il suo uso inventivo della sordina, gli a solo come se “pensasse” la musica, i titoli dei suoi pezzi migliori, Kind of Blue, Blue in Green... ». Ma da Novalis a Goethe, da Proust a Cézanne, tante storie si intrecciano prima di arrivare alla conclusione - con Merleau-Ponty - che la coscienza satura di azzurro illimitato è il cielo stesso. È unus mundus.
Prima di ogni altro colore, c’è comunque l’assolutezza del nero - della Nigredo - che costituisce la base dell’opus alchemico e spesso un passaggio obbligato dell’opus analitico. Quando a prevalere è la voce del corvo, si è impigliati nella rete traumatica del passato e in una dolorosa unilateralità del pensiero, alla base di ogni nevrosi. Lo spirito nero che abita il mondo depressivo della notte va allora “decapitato”, con un gesto netto che libera l’anima dalla sue cupe identificazioni, come del resto indicava già Jung. La decapitazione è la risposta degli alchimisti alla “seduzione del nero”: è una ritrovata capacità di separare, di compiere distinzioni.
È solo allora che la Nigredo potrà cedere il passo all’Albedo, il pallore della Luna nel simbolismo cromatico dell’alchimia, il bianco con la sua luminosità, il colore dell’analisi. Una meta sembra raggiunta, una modalità più impersonale di pensare e di immaginare, senza coincidere con l’esperienza soffocante dell’identità. È uno stato che non desidera altra luce, altro calore: per dirla con Hillman che cita Figulus, l’erede di Paracelso: «La materia, portata a bianchezza, rifiuta di essere corrotta». E invece a imporsi sarà proprio la corruzione, altra parola-chiave dell’alchimia che - in un’accezione nient’affatto negativa - indica la possibilità del cambiamento, anche il pericolo di regredire o invece di affrettare il passo.
Il viaggio continua e Hillman - d’accordo con gli alchimisti sconsiglia di precipitarsi nell’irrossimento della Rubedo, termine che allude solo con apparente chiarezza a una più sanguigna colorazione dell’anima.
Qui siamo in piena “opera al giallo”, in un capitolo stupefacente, con un post- scritto dell’autore datato ottobre 2009. Se il giallo ha connotazioni negative come la codardia e la gelosia, ne ha anche di solari come il grano, i fiori primaverili, il miele... In più, da Edgar Allan Poe a Van Gogh, a Kandinskij, nel campo dell’arte la pazzia si colora di giallo. Ma questa doppia polarità non consente di cogliere «l’importanza del giallo per una psicologia che sia alchemica».
Il punto è un altro: se il bianco rifiuta di essere corrotto, rischia di rimanere uno stato astratto, “morto”. Sarà l’ingiallimento a infondere vita, a rappresentare simbolicamente una “resurrezione” (citrinatio est resuscitatio).
Alla mente ingiallita non basta più la coscienza imbiancata, la consapevolezza, perché si contamina con lo sporco del mondo, riconosce la complicazione delle emozioni. Quando è il giallo a insinuarsi, «ci sentiamo più acutamente vivi »: usciamo dai recinti della soggettività, più fuori di noi, più dentro l’Anima Mundi.
A Hillman non interessa però l’alchimia come un manuale di istruzioni da adattare alla psiche. A catturarlo è il suo linguaggio metaforico - fluido e oscuro - così vicino alla base poetica della mente, così distante dalle «parole prosciugate del loro sangue». Anche con insofferenza per certe concettualizzazioni che vorrebbe “deletteralizzate”, tanto da scrivere con amabile sfrontatezza: «“l’Io” e “l’Inconscio”... Chi li ha mai incontrati, se non nei libri di psicologia?». Una boutade da fuoriclasse che farà tanto arrabbiare alcuni geometri della psiche.
Ma non Luigi Zoja, grande nome dello junghismo e grande amico del fondatore della psicologia archetipica: «La prima volta l’ho incontrato allo Jung Institut di Zurigo, era il ’68. L’ultima volta a New York, nel 2009... È un percorso eccentrico il suo, ma rigoroso, comunque segnato dalla scelta a poco più di sessant’anni di non fare più analisi individuali. È Hillman a dirlo con la relazione che tiene al congresso di Parigi dell’89, ora in Psicologia alchemica. Da allora, l’anno della sua svolta, l’ho sempre visto come un sublime narratore dell’anima, con l’idea che la psicoanalisi debba smetterla di contemplarsi allo specchio e invece guardare alla finestra, affacciarsi sul mondo... Non è però mai stato un saggista pop e lo dimostra questo libro a tratti impossibile, di così evidente impronta junghiana».
Il grande eretico, il traditore del maestro, alla fine della sua vita torna alle origini, all’amato-odiato Jung. Non a caso il suo estremo lascito sarà un libro Sulle immagini, scritto con Silvia Ronchey, a partire dalla celebre visione di Jung nel 1913 al mausoleo di Galla Placidia di Ravenna (uscirà da Rizzoli il prossimo anno). Restando nel mood alchemico, le scelte di Hillman fanno venire in mente l’Ouroboros, quel serpente che si morde la coda, un simbolo molto antico per rappresentare l’eterno ritorno, la natura ciclica delle cose, un processo che una volta concluso è destinato a ripetersi.
Addio a Hillman
così si muore da filosofo antico
Il grande psicanalista americano si è spento a 85 anni
Malato di cancro, ha rinunciato alla morfina per ragionare fino all’ultimo con i discepoli sulla sua esperienza estrema
UN NUOVO MODO DI PENSARE "Ci dava non solo le risposte ma le domande. Le correggeva, le guariva dalla loro inerzia"
UN TACCUINO VICINO AL LETTO La moglie trascriveva le parole che pronunciava nel sonno per poi analizzarle insieme
di Silvia Ronchey (La Stampa, 28.10.2011)
THOMPSON (CONNECTICUT) «James è morto questa mattina a casa, a Thompson. È rimasto fedele a se stesso fino alla fine». Così, dal Connecticut, in un messaggio email indirizzato ai famigliari e agli amici più stretti, Margot McLean ha annunciato ieri la scomparsa di suo marito, James Hillman. Il grande psicanalista americano, nato a Atlantic City 85 anni fa, era da tempo malato di cancro. In un altro messaggio di pochi giorni fa la moglie aveva informato che «James ci sta lasciando con magnifica grazia», e in un altro ancora aveva scritto che «parla in molte lingue, a volte per tutta la notte. Sorride e continua a essere incredibilmente spiritoso».
Lo psicanalista e filosofo americano James Hillman era nato nel 1926. Allievo di Carl Gustav Jung, è stato il fondatore della psicologia archetipica. È autore di oltre venti libri tradotti in 25 lingue I 10 libri fondamentali Il suicidio e l’anima (Suicide and the Soul, 1964), Astrolabio-Ubaldini 19992; Adelphi 2010 Saggio su Pan (An Essay on Pan, Adelphi 19822 1972), Il mito dell’analisi (The Myth Adelphi 19913 of Analysis, 1972), Re-visione della psicologia (Re-visioning Psychology, 1975), Adelphi 19922 Il sogno e il mondo infero (The Dream and the Underworld, 1979), a cura di Bianca Garufi, Ed. di Comunità, Milano 1984; Il Saggiatore, Milano 19962; Adelphi 2003 Il codice dell’anima: carattere, vocazione, destino (The Soul’s Code, 1996), Adelphi 1997 L’anima del mondo (con Silvia Ronchey), Rizzoli 1999; Bur 20042 La forza del carattere: la vita che dura (The Force of Character and the Lasting Life, 1999), Adelphi 2000 Il piacere di pensare (con Silvia Ronchey), Rizzoli 2001; Bur 2004 Un terribile amore per la guerra (A Terrible Love of War, 2004), Adelphi 2005
“Socrate, sei come una torpedine marina. Quando parli dai la scossa», è scritto in un dialogo di Platone. James Hillman, fra i massimi pensatori dei nostri tempi, aveva una personalità socratica. Ci insegnava a conoscere noi stessi, secondo il motto inciso sul marmo di Delfi. Si metteva sempre in contrasto con l’opinione corrente. E aveva una grande esperienza nel dialogo. Ogni volta che si dialogava con Hillman ci si trovava in contatto con quell’ironia socratica, quella capacità di rovesciare ed elettrizzare ogni discorso, che è propria di chi ha inventato un nuovo pensiero e un nuovo modo di far pensare gli altri, sovvertendo completamente le loro abitudini logiche e psicologiche. Hillman ci dava non solo e non tanto le risposte, Hillman ci dava le domande.
Correggeva le nostre domande, le guariva dalla loro inerzia e dalla loro patologia. Da anni aveva scelto di psicanalizzare non più singoli pazienti, ma tutti noi. Era un terapeuta della psiche collettiva, aveva preso in cura l’Anima del Mondo. Meraviglioso scrittore, ispirato oratore nelle prodigiose conferenze tenute per tutta la vita in tutto il mondo, Hillman era un cosmopolita. Aveva studiato alla Sorbona e a Dublino, era stato allievo di Jung a Zurigo, alla sua morte aveva diretto lo Jung Institut.
Conosceva non solo molte lingue - incluse quelle morte, come il greco antico degli dèi pagani che amava e frequentava - ma anche il linguaggio dell’inconscio, la lingua dei sogni, il dialetto dei simboli e delle immagini. Non era solo «cittadino del kosmos », del mondo ordinato del visibile, ma anche e forse soprattutto un cittadino del sottomondo , di quell’universo di fantasie, archetipi e miti, di quell’universo sotterraneo, fatto a strati come le rovine dell’antica Troia scavata da Schliemann, che sta dentro ognuno di noi, e che sta anche intorno a noi, sebbene pochi sappiano vederlo.
A questo secondo kosmos di cui era cittadino Hillman aveva dedicato i suoi molti libri, pubblicati in tutte le lingue, che hanno fatto dell’autore stesso un mito. Sono veri capisaldi del Novecento libri come Il suicidio e l’anima o il Saggio su Pan oIl mito dell’analisi o la Re-visione della psicologia oIl sogno e il mondo infero , per non parlare degli ultimi grandi bestseller internazionali, dal Codice dell’anima a La forza del carattere aUn terribile amore per la guerra . Chi ha letto i libri di Hillman sa che chi li aveva pensati e scritti non era solo uno scrittore e un pensatore, ma era, come lo aveva definito un celebre critico americano, «uno dei più veri e profondi guaritori spirituali del nostro tempo».
Era questo che faceva, con i suoi libri, le sue conferenze, le verità aggressive, le idee sempre corrosive e eversive che ci offriva: vivificare le nostre menti e le nostre anime, rimetterle in contatto con le loro origini. Quando parlava o scriveva, rovesciando luoghi comuni e abitudini mentali, ci istigava a praticare una conoscenza che andasse anche al di là e al di qua del pensiero razionale.
Lo ha fatto fino all’ultimo istante della sua vita. Nella sua casa di Thompson, nel Connecticut, ha continuato a dialogare con una piccola cerchia di seguaci, amici e discepoli dalle estrazioni più varie, accomunati dalla pluriennale venerazione per lui e da quello che gli antichi greci avrebbero chiamato l’amore per la sophia , ossia, appunto, la filosofia. La sua è stata non solo una morte filosofica, ma da filosofo antico, l’ ars moriendi - anche se non voleva la si chiamasse così - di un laico, pagano maestro di intelletto e soprattutto di anima. Perché alla scommessa, pacata e implicita, di restare pensante, lucidamente pensante e dialogante, di spingere la ricerca razionale fino all’estrema soglia della biologia, si sommava un’incessante attività di ricerca interiore, di introspezione psicologica: un esercizio estremo di quella «visione in trasparenza» di cui aveva parlato nei suoi scritti, e che lo ha portato all’ultima frontiera dell’io in uno stato di continuo ascolto dei messaggi della psiche, e non solo di quella conscia. Uno stato infero, ma sublime, nel senso etimologico latino del termine, sub limine , alla soglia, sul confine.
L’inesauribile curiosità per quello stato, che lo animava e di cui continuamente parlava come di una condizione nuova e sorprendente, era mantenuta a prezzo di un ridotto dosaggio di morfina e dunque di una sofferenza fisica affrontata con assoluto coraggio ma senza ostentazione né retorica, per non rischiare, come diceva, di peccare di hybris . Del resto, con la concentrazione e la lucidità che perseguiva in modo tanto accanito quanto stupefacente, anche il dolore era analizzato in termini sia filosofici sia psicologici, e molto spesso - in sintonia con un altro dei suoi grandi interessi di studio - in termini alchemici.
Le immagini del processo di dissolutio e coagulatio e la descrizione in quel linguaggio di altre condizioni psichiche che via via si affacciavano - la rubefactio immaginativa, che precede la sublimazione nell’estrinsecazione della bellezza, la figura della rotatio , nel cui ciclo non si può mai dire cosa è superiore e cosa inferiore - dominavano spesso la parte più strettamente introspettiva e psicologica della sua analisi del morire.
Uno dei grandi blocchi americani di carta rigata gialla era sempre accanto al suo letto, perché chi si avvicendava a vegliare il suo sonno - Margot, la stoica, coraggiosa moglie, ma anche gli allievi e amici - potessero raccogliere e trascrivere le parole che pronunciava in sogno, per poi leggergliele al risveglio e analizzarle insieme a lui.
Anche in questo esercizio adottava il sistema maieutico del dialogo, e l’ispezione del profondo portava a un’estroflessione e quasi condivisione dell’anima, a dimostrazione di un’altra delle grandi verità che aveva elaborato nella sua opera, prendendo spunto dai pensatori antichi, platonici e neoplatonici: che noi siamo dentro l’anima, e non l’anima in noi, che l’anima è uno spazio fluido che si può condividere. Se l’anima individuale si fa nel mondo (il concetto del «fare anima», tratto dalla definizione che Keats aveva dato del mondo come «la valle del fare anima»), noi tutti partecipiamo dell’Anima del Mondo.
Diceva che le parole gli alleviavano i dolori delle ossa come i cuscini che gli venivano continuamente sistemati nel letto da cui, come sapeva, non si sarebbe più rialzato, e che era stato portato in salotto, al centro della casa, di fronte alla grande vetrata aperta sull’abbagliante autunno del New England. Su un tavolino, a disposizione di chiunque volesse leggerle, una raccolta di poesie giapponesi sulla morte scritte da monaci zen o da autori di haiku. «Una radiosa gradevole / giornata d’autunno per viaggiare / incontro alla morte».
Dall’analisi di Jung ai miti greci addio al poeta dell’anima
Il celebre studioso è scomparso all’età di 85 anni. Aveva allargato l’orizzonte della psicoanalisi convinto che oggi il malessere individuale affondi nella società Individua l’origine della sofferenza nell’incapacità di pensare agli altri con il cuore Ha superato l’insegnamento dei maestri, puntando uno sguardo lucido e critico sul mondo
di Umberto Galimberti (la Repubblica, 28.10.2011)
Chi era James Hillman? Lo psicoanalista che ha allargato l’orizzonte della psicoanalisi al di là della condizione e della sorte dell’anima individuale, partendo dalla persuasione, che quella che oggi va curata è, come lui la chiamava: l’"anima mundi" che ha perso il mondo immaginale, per raccogliersi nel chiuso di una ragione solo concettuale, dove non è più possibile rintracciare quella capacità immaginativa del cuore che sa che cos’è l’amore, la bellezza, la giustizia, e quella verità interiore di cui abbiamo perso sia l’origine, sia la traccia.
Esiste certo un malessere dell’individuo, ma le sue radici oggi non vanno cercate tanto nella sua infanzia, che induce spesso una condizione solipsistica e impotente di sé, ma nel modo con cui l’individuo interiorizza la società in cui vive, le sue forme di potere, la conflittualità che la percorre, l’habitat che lo circonda perché, scrive Hillman. «Io non sono, se non in un campo psichico con gli altri, con la gente, gli edifici, gli animali, le piante».
E allora cos’è quel Terribile amore per la guerra (Adelphi) che aveva reso così inquietante la corrispondenza tra Freud e Einstein? Cosa sono quelle Forme del potere (Garzanti) che fanno smarrire a ciascuno di noi la nozione di "cittadino", che sempre più maschera la nostra condizione di impotenza? Che ne è de La forza del carattere (Adelphi) che rischiamo di conoscere solo nella vecchiaia, quando più nessuno si occupa di noi e, riflettendo, ci accorgiamo che di noi ci si occupava solo a partire dalla nostra efficienza e produttività: puri funzionari d’apparato senz’anima.
E l’Anima (Adelphi), questa parola intorno a cui ruota tutta la riflessione hillmaniana, nulla ha a che fare con sfondi religiosi e neppure con il dualismo platonico e il suo bimillenario conflitto col corpo. L’"anima" di Hillman non è neppure solo la controparte sessuale di ciascun di noi come il suo maestro Jung aveva insegnato, ma è, come lui scrive, quella «fede nelle immagini e nel pensiero del cuore che porta a un’animazione nel mondo. Anima crea attaccamenti e legami. [...] Guardandomi indietro, mi sembra che Anima sia stata alla base di tutto il mio lavoro».
Se la società, nel modo con cui è strutturata e nelle modalità con cui fa vivere gli individui è, più dell’infanzia, la responsabile della sofferenza di cui si occupa Il mito dell’analisi (Adelphi) è perché la nostra società non ha più anima, più non conosce le relazioni tra gli uomini, se non come relazioni di interessi e di profitto, più non si commuove per il dolore del mondo, più non sa immaginare tutto ciò che non rientra nella concettualità, nella funzionalità e nel calcolo delle utilità, in cui ciascun individuo è costretto a vivere, smarrendo quel pensiero del cuore, come scrive Hillman ne L’anima del mondo e il pensiero del cuore (Adelphi), di cui erano capaci i Greci che pensavano col cuore.
Di qui il recupero hillmaniano della mitologia greca non per un intento filologico o erudito, ma per mostrare come "si pensa col cuore", quindi non per concetti, ma per immagini. Apprendiamo così dal suo Saggio su Pan (Adelphi) cos’è il panico, la masturbazione, l’incubo, la seduzione delle ninfe, così come da La giustizia di Afrodite (Edizioni La Conchiglia) apprendiamo come inscindibile sia la bellezza dalla bontà e dalla verità. Concetti che la cultura cristiana ha separato, mentre il mito e la filosofia greca tenevano ben saldi nella parola kalokagathon, bello e buono insieme.
Perché la "vera" bellezza è nella bontà che trasfigura il volto e rende lo sguardo sereno. In gioco qui non c’è la verità concettuale della scienza o della filosofia e ancor meno quella dogmatica delle religioni, ma quell’essere pervenuti alla conoscenza di sé, a cui invitava l’oracolo di Delphi, perché in ciascuno si creasse quell’armonia interiore in cui si radica bellezza. Ma siccome per il Greco antico la bellezza individuale non è raggiungibile senza una Politica della bellezza (Edizioni Moretti & Vitali), di nuovo ritorna il motivo che solo una società ben governata può ridurre la sofferenza di tanti individui.
Ma perché questo ritorno alla Grecità, già percorso da Hölderlin, Nietzsche, Heidegger? Non per motivi poetici o filosofici, ma per resuscitare quel politeismo della mitologia greca che, a differenza del modello monocentrico della cultura giudaico-cristiana che tanto ha influenzato la psicoanalisi di Freud, consente di recuperare quella dimensione policentrica, così essenziale oggi, dove la confluenza delle culture chiede una disposizione dell’anima che consenta quella tolleranza e quell’accoglienza che solo il relativismo, di cui le religioni sono incapaci, sa concedere.
«Gli dèi morirono dal gran ridere quando udirono che un Dio voleva essere il solo» scrive Nietzsche. Hillman non raccoglie sarcasticamente e neppure polemicamente questo riso, ma ci propone tutti gli dèi, celesti e inferi, non come semplici espressioni delle passioni umane e quindi iscritte nella "patologia" («Gli dèi sono diventati malattie» ebbe a scrivere Jung), ma per restituirli alla "mitologia", dove nessun dio vuol essere il solo, perché, nonostante La vana fuga dagli déi (Adelphi) propria dell’Occidente cristiano, indispensabili sono le figure mitologiche in cui l’anima può rispecchiarsi e, rispecchiandosi, avere un’immagine di sé, per non vivere alla cieca, a propria insaputa.
Non si legga Hillman solo per la potente seduttività della sua scrittura. A percorrerla per intero c’è una radicale revisione dello scenario psicoanalitico, a partire dalla persuasione che, se l’uomo è un animale sociale, non c’è sofferenza individuale disgiunta dal mondo in cui si vive. Ed è su questo mondo e sulla sua anima che Hillman ha puntato il suo sguardo lucido e critico.
Calasso: "Un pensatore originale e solitario"
"Certamente non era un uomo da scuole. Ma è impossibile liquidarlo come un brillante bricoleur"
di Luciana Sica (la Repubblica, 28.10.2011)
Roberto Calasso è a Barcellona, in una libreria. Controlla la data del primo libro che ha pubblicato di James Hillman, Saggio su Pan, era il ’77. «Ma poi sono usciti i suoi due saggi fondamentali: Il mito dell’analisi nel ’79 e Revisione della psicologia nell’83...».
Ma quando l’ha conosciuto?
«All’inizio degli anni Settanta, ad Ascona, durante i colloqui di Eranos. Lì c’era gente come Scholem, Corbin, Portmann, Eliade e ricordo come mi è apparso lui: l’unico americano e però perfettamente addentro a tutto il tessuto della cultura europea, era anche il più giovane, ma con una grande intensità e una grande autorità naturale».
Interloquiva con il fior fiore degli intellettuali...
«Ah sì, certamente. Non era affatto in soggezione».
Aveva tutta l’aria di un puer, qualcosa di fanciullesco...
«Fanciullesco forse è troppo dire... Ma sì, era un puer, con un suo slancio molto evidente, di energia e anche di giovinezza».
Il vostro rapporto ha avuto anche una natura affettiva?
«Fin dall’inizio è stato così, e ho seguito le varie fasi della sua vita. Èstato un rapporto molto buono, con le vicissitudini editoriali che si possono immaginare: un libro che ritarda o che si deve rifare, ma è andato sempre tutto bene. L’ultima volta l’ho visto un paio di anni fa, a Milano - veniva spesso in Italia, dov’era più conosciuto che nel suo Paese».
È stato uno psicoanalista o piuttosto un grande umanista?
«È stato il primo e forse l’ultimo di quelli che sono partiti da Jung facendo poi un percorso unico, originale, mentre gli altri sono rimasti più o meno prigionieri di quella che era la loro origine».
Allievo diretto di Jung, Hillman muore esattamente cinquant’anni dopo il maestro zurighese. Che ha "tradito", o no?
«Beh, è una storia complicata. Perché Hillman ha anche diretto l’Istituto Jung fino a quando non l’hanno cacciato via... ».
Ma è stato lui stesso a dire di aver avuto "una crisi di fede", inventando poi la "psicologia archetipica", ribattezzata a dispetto del ridicolo "una terapia degli dei". Lei come la vede?
«Io vedo lui molto solitario, sia in America che in Europa, non un uomo da scuole... La cosa importante è stata il suo modo di rovesciare il rapporto con il mito in genere: non pretendere da psicoanalista di spiegare il mito, che sarebbe stata un’operazione ingenua. E’ il mito che spiega noi, e Hillman ha seguito questa idea con la stessa analisi, dove ad agire - lui dice - è il mito apollineo...».
Contro la parola, il Logos, il cuore della psicoanalisi e della cultura occidentale... Ma non era un po’ troppo quando voleva "stendere l’anima del mondo sul lettino e rimanere in ascolto delle sue sofferenze"?
«"Anima" è la parola chiave per capire Hillman, un’anima che insieme è interna ed esterna, appartiene anche al mondo proprio della natura, non della società e neppure del collettivo».
Qualcuno l’ha liquidato come "un brillante bricoleur".
«Lévi-Strauss diceva che i miti stessi sono un’operazione di bricolage, ma poi ha passato l’intera vita a tentare di capire com’era fatto quel bricolage... Mi spiace non fargli omaggio del libro per gli amici che facciamo a fine anno, una specie di bibliografia ragionata di opere neoplatoniche a partire dal Quattrocento fatta da un grande libraio antiquario che è Paolo Pampaloni e Marco Ariani, uno dei curatori della nostra Hypnerotomachia Poliphili. E’ ancora in bozze, purtroppo non abbiamo fatto in tempo».
Hillman detectve delle tenebre
di Giulio Giorello (Corriere della Sera, 29.10.2011)
Ricordate Stephen Dedalus, il Telemaco dell’Ulisse di Joyce, che solitario sulla spiaggia della baia di Dublino medita sui confini dell’anima? Fin dove essa si estende? Forse, fino all’ultima stella che si scorge all’orizzonte.
Dunque, l’anima non è imprigionata dentro il corpo, come pretendeva molta filosofia - da Platone a Cartesio - ma è il nostro corpo che fluttua nell’anima. Questa tentazione antidualistica, che nell’Occidente ritroviamo nella filosofia della luce di Giovanni Scoto Eriugena (810-877 circa), come negli ultimi Cantos di Ezra Pound, attraversa la riflessione del grande eretico della psicoanalisi James Hillman, scomparso all’età di 85 anni. Hillman è stato accusato di aver «tradito» Carl Gustav Jung, a sua volta traditore di Sigmund Freud; per di più «l’eresia nell’eresia» di Hillman ha fatto irruzione nei campi dell’antropologia, della storia e persino della politica. Sul lettino viene ora «analizzata» l’intera società, con la miriade di relazioni che si stabiliscono tra quelle irripetibili singolarità che sono gli individui.
Se c’è un classico che mi viene in mente quando sfoglio un volume di Hillman, questo è il filosofo Giambattista Vico (1668-1744): l’anima del singolo individuo non è una sostanza ma un’attività, qualcosa che partecipa alla continua trasformazione dell’Anima del Mondo. Ma al Dio unico che come un monarca reggeva la compagine dei cieli, Hillman preferiva l’apparente caos del politeismo, con le sue tante divinità dalle mille facce. Gli antichi dèi non sono mai morti; al più si sono addormentati, e nel loro sonno continuano a sognarci come noi li sogniamo a nostra volta. Ed è un’illusione pensare che si possano esorcizzare riconducendoli con la stessa terapia psicoanalitica alla razionalità dell’esistenza diurna. Ermes ed Ercole, Apollo e Afrodite, il terribile Dioniso e il grande dio Pan si risvegliano nelle pieghe della vita di ogni giorno, nei tanti contrasti e conflitti che costellano la nostra società apparentemente così disincantata e tecnologizzata.
Ma anche il Disincanto, la Tecnica e la Psicoanalisi sono un intreccio di miti: Prometeo, Dedalo o Edipo non sono comparsi invano sulla scena delle idee. Per Hillman non è il mito che va spiegato, ma il mito è la spiegazione stessa. Come ebbe a scrivere in Saggi sul Puer (Raffaello Cortina, 1988): l’esploratore dell’anima cerca «un’apertura nella trama del fato», che è anche «un varco nel tempo, un momento eterno in cui il disegno si fa più complicato o si allenta: il tessitore spinge la spola e la navetta attraverso l’apertura nei fili dell’ordito al momento giusto, perché il varco ha solo un tempo limitato e il colpo va dato mentre esso resta aperto». Così il setting psicoanalitico si tramuta in una incessante investigazione, aperta a tutti coloro che riescono a praticare l’arte di cogliere l’occasione.
Hillman ha saputo raccogliere in questo modo la sfida dell’oracolo di Delfi, che è anche quella della filosofia di Socrate: conosci te stesso. Soleva dire che «il mondo è come un giardino» che ci si offre con l’immediatezza «di un riflesso sul lago». Ma il giardino dell’anima può essere labirintico, e come quello dell’Eden ospitare... il suo Serpente. Il caos del politeismo produce anch’esso dell’ordine, ma è un ordine instabile pieno di fenditure: guai che qualcuno pensi di aver trovato la risposta definitiva alla domanda di Delfi. Conoscere se stessi è l’indagine più difficile, rischiosa e talvolta persino mortale. Nessuna formula pronta per l’uso è a disposizione.
Nel libro di Hillman che ho amato di più, Il sogno e il mondo infero (Edizioni di Comunità, 1984; il Saggiatore, 1996; Adelphi, 2003), quel che impedisce all’ordine della mente di diventare odiosa burocrazia dello spirito è il meccanismo del revel/rebel. Una baldoria (revel) tutt’altro che innocua, ma che getta i semi dell’insurrezione dell’anima. Così i suoi confini ci sfuggono di continuo, e scopriamo che vana è la pretesa di illuminare in modo completo ciò che è dentro di noi. Ma questa non è una maledizione, bensì una grazia che ci viene dal «mondo infero», cioè dagli strati dell’inconscio che sottendono le avventure della nostra consapevolezza. Dopotutto - come dicono i mitici personaggi di Joyce - siamo «tenebra che splende nella luce».
Hillman, lo sciamano dell’anima
È morto a 85 anni lo psicoanalista e filosofo americano. Allievo di Jung ha re-immaginato l’analisi junghiana riportandola nel mondo. Paladino di una psicologia ecologica non voleva curare i singoli, ma «la civiltà»
Nel 1989 lascia l’attività: basta parlare all’io, vuole la città come interlocutore
di Romano Màdera (l’Unità, 29.10.2011)
È morto James Hillman, uno dei pochi psicoanalisti che si era impegnato in un’impresa straordinaria quanto stravagante, forse infantile o donchisciottesca: curare la civiltà, non più i singoli pazienti! Si può dire che la psicoanalisi ci ha sempre provato, ma senza dirselo, perché in fondo il cambiamento di pochi individui, diventati più attenti alle proiezioni del male sugli altri, più disposti a cercare faticosamente la verità su se stessi, dovrebbero essere anche più capaci di autocritica e di tolleranza. Ma insomma, cambiare il mondo non è compito di un analista, la politica deve rimanere fuori dallo studio.
E invece, all’apice del successo, Hillman, nel 1993, ha osato scrivere Cento anni di psicoterapia e il mondo va sempre peggio. Si è interrogato su quello sguardo psicologico che chiude le finestre sul mondo, separa il paziente dalla sua storia, dalla sua cultura, dalle immagini che ne hanno modellato la percezione, e poi rovescia tutto e fa nascere il mondo dai seni della mamma e dalla camera da letto dei genitori. Hillman si è chiesto se la psicopatologia dei singoli non contenesse invece la sofferenza (pathos) dell’anima (psiche) che cerca di articolare un’espressione, un discorso (logos). Il singolo non è messo al mondo dalla famiglia, in realtà la sua nascita avviene nel mondo che dà forma e voce al carattere e alla vocazione di ciascuno, ed è nel mondo che ciascuno incontra il suo destino.
Quali sono le forme e le voci del mondo? Chi ascolto quando ascolto un sintomo, per esempio quando qualcuno è ossessionato da internet, dal telefonino, dal traffico, dagli appuntamenti di lavoro? Hillman è stato capace di divinare, nell’accelerazione del tempo e nella contrazione dello spazio, così tipici della nostra epoca, una epifania drogata di Ermes-Mercurio il dio degli scambi, dei confini, dei commerci. Certo è la storia che mi parla in un soggetto, e nella storia la sua biografia, e tuttavia c’è qualcosa che evoca, da dentro quella stessa esperienza, un modo di essere e di costruire la realtà che intesse i fili del tempo, che collega le civiltà, che è vasto e profondo quanto solo l’immagine può suggerire senza mai chiudersi in una definizione esaustiva.
L’immagine porta nei pressi dell’anima del mondo, della matrice dei nostri vissuti, delle nostre fantasie, delle psicopatologie. Si tratta allora di rimanere aderenti alle immagini, di farle dialogare tra loro senza costringerle nella camicia di forza riduttiva delle spiegazioni, di dischiuderne la forma che le apparenta: queste forme sono archetipali, in se stesse inattingibili, proprio perché origini comuni capaci di generare immagini sempre diverse, per tempi e per culture diverse.
L’anima del mondo è intessuta, secondo HIllman, da queste energie formatrici che si condensano, volta a volta, in immagini guida di altri immagini: gli dei.
Il politeismo di Hillman non ha però niente di teologico: nella mitologia greco-romana, lui, ebreo americano educato in Europa, trova un repertorio che, rivisto come sguardo psicologico, può curare un mondo afflitto da una postura monoteistica, e quindi intollerante, insofferente delle differenze, incapace di scorgere divinità e bellezza nelle infinite variazioni della natura e dell’arte, senza irrigidirle in qualche direttiva moraleggiante.
Tutto si potrà rimproverare a Hillman, tranne il fatto che abbia solo teorizzato la terapia della civiltà, senza provare di persona a imboccare questa diversa strada. Nel 1989, nel bel mezzo di una carriera professionale ricca di riconoscimenti, abbandona la pratica analitica privata e si dedica allo sviluppo della sua idea di psicologia archetipica, cerca di parlare il suo linguaggio fuori dallo studio, di fare della città il suo interlocutore. Hillman ha scritto di questa decisione come di una profonda «crisi morale». Andava tutto bene con i pazienti, ma sentiva che non stava facendo la cosa giusta, che ritagliare il proprio intervento sul soggetto umano significa rimanere in una prospettiva di tipo cartesiano: voler dedurre la realtà dall’io, per quanto corretto con l’aggiunta dell’inconscio.
IL SUO «POLITEISMO»
Avrebbe potuto però fermarsi a questa critica e continuare a praticare l’analisi junghiana, della quale era uno dei più importanti esponenti nel mondo. Neppure Jung, il suo maestro, gli è bastato: sì, Jung era andato in una direzione che potremmo chiamare terapia delle idee, e non più solo del singolo, ma rimaneva nel solco della tradizione cristiana e monoteista: la sua direzione guardava all’asse che congiunge l’io al Sé, dove il Sé è il nuovo centro unitario del rapporto fra coscienza e inconscio. Troppa unità, troppo «io» ancora. La varietà del mostrarsi dell’anima del mondo è irriducibile alle nostre pretese di afferrarla in una qualche rappresentazione unitaria, per quanto complessa essa voglia essere.
E poi via dall’antropocentrismo della nostra civiltà, dalla sua malattia che infetta le architetture delle nostre città insieme alla devastazione delle foreste e degli oceani: Hillman si è fatto paladino di una nuova psicologia ecologica.
Le rutilanti idee-provocazione di Hillman sono state coraggiose e affascinanti, hanno proposto la via di un pensiero psicologico capace di superare il romanzo familiare. Rimane oggi da vedere se il suo radicale antiumanesimo, la sua celebrazione del differire infinito, non sia però, anch’esso, troppo figlio del nostro tempo, troppo post-moderno, troppo collusivo con le varie morti di Dio, dell’uomo, del soggetto, dell’io, della morale, dell’unità ... troppo neonietzscheano, insomma. Forse il corpo del mondo, e quello degli individui, ha invece un disperato bisogno di unità, di progetto, di gerarchie di senso, di ordinato equilibrio.
James Hillman è morto l’altro ieri a Thompson, in Connecticut all’età di 85 anni. Era malato da tempo, ma ha respinto le cure più invasive pur di conservare la sua lucidità e libertà di giudizio. psicologo analista di formazione junghiano, James Hillman nasce nel 1926 ad Atlantic City. Compiuti gli studi di filosofia a Parigi e Dublino, ha studiato psicologia all’Università di Zurigo. Entrato a far parte dell’Istituto di psicologia analitica C.G. Jung, lo dirige tra il 1959 e il 1969. Esponente tra i più originali della psicologia junghiana, è autore di una critica radicale della psicoanalisi, che per lui non deve restare confinata all’interno del rapporto medico-paziente, ma diventare uno strumento di esplorazione della natura umana e di comprensione del disagio dell’uomo nella società.
Hillman, il profeta dell’Anima
di Franca D’Agostini (il Fatto, 29.10.2011)
La morte di James Hillman spinge a riflettere sulla grande vague anti-teoretica, anti-logica, anti-concettuale che ha attraversato la cultura europea e nordamericana a partire dagli anni Ottanta dello scorso secolo, e di cui Hillman è stato un illustre e raffinato esponente. La formidabile carenza di logica e di sensatezza di cui è afflitto il linguaggio pubblico recente, specie italiano (ma anche il dibattito di lingua inglese non scherza, a giudicare da quanto scrive Julian Baggini nel suo repertorio di assurdità Do They Think You’re Stupid?, Granta), ci dice che l’operazione culturale di svilimento del logos a vantaggio del pathos perseguita da Hillman e da molti altri ha avuto gran successo. Ma ci dice anche che forse è il caso di chiudere quel capitolo e che concetti come anima, cuore, emozione interiorità e amore possono tornare tranquilli a fare il loro dovere, senza bisogno di essere lanciati come cubetti di porfido contro il contrafforte del logos che - secondo il paradigma emozionalista - ospiterebbe la potente e venefica città della Scienza, della Tecnica, e (per gli americani) della Filosofia.
PER COMPRENDERE l’operazione di Hillman credo sia necessario collocarla in due contesti ben definiti: il tramonto della psicoanalisi, e la latitanza culturale della filosofia. La psicanalisi nelle diverse forme inizia un suo chiaro e vistoso declino in Europa già negli anni Settanta dello scorso secolo, le psichiatrie alternative e antiedipiche segnalano con chiarezza che il paradigma freudiano, anche nella versione lacaniana, regge male le nuove condizioni dell’immaginario e del linguaggio condiviso, mentre la versione junghiana sempre più chiaramente trascolora in terapeutica culturale astratta.
La situazione non è chiara per il grosso pubblico che ancora pensa a Freud, Jung e Lacan come un’avanguardia culturale, ma non sfugge alla sensibilità di Hillman che procede senz’altro a rivoltare la psicologia analitica come un guanto e a riciclarla come filosofia. La psiche, insegna Jung è abitata e sovrastata dal collettivo, e dai contenuti mitici immaginativi archetipici che l’umanità intera condivide. Perché allora curare i singoli?
La psicanalisi di Hillman esce dallo studio e dalla clinica individuale e diventa terapeutica delle idee, dell’umanità intera, e non delle singole persone. Programma tipicamente filosofico: ecco Hillman incamminato a svolgere il ruolo husserliano di “funzionario dell’umanità”. Il programma destinato a fare di Hillman il maestro e profeta degli animisti mitomani e antilogici di tutto il mondo si annuncia nel Mito dell’analisi del 1972. L’Occidente, così si spiega nel libro, avrebbe umiliato e assoggettato l’immaginazione e l’anima, e in generale il femminile (anima junghianamente è per l’appunto il femminile).
Di qui il rilancio dell’idea di Keats, secondo cui il mondo è la “valle del fare anima”. Cosa si deve fare in questa vita? Semplice: making soul, contro una cultura che ha dimenticato gli dei e l’anima e il potere fantastico dell’invenzione creati-va umana. La critica naturalmente era rivolta al tendenziale positivismo della psicanalisi, specie freudiana, ma il making soul divenne una cifra importante della psicologia archetipica hillmaniana, facendone il paradiso del femminismo differenzialista.
Americano di nascita, ma europeo di formazione (studia alla Sorbona e a Dublino) Hillman torna in America nel 1984, e qui ha una visione chiara del gioco che contrappone i cosiddetti techies e i fuzzies, i tecnocrati e i vaghi, si direbbe. È una guerra politico-culturale che infuria nei tardi anni ottanta, ed è tipica di contesti e culture dove la filosofia (che appunto dovrebbe chiarire le idee sull’irrilevanza della dicotomia: essendo la tecnica stessa estremamente vaga, e le vaghezze necessariamente determinate , dovendo dirsi in parole) è povera o assente.
IN QUESTA GUERRA l’anti-positivismo di Hillman ha buon gioco. Il suo progetto a mano a mano (e con lieve contraddizione rispetto all’assunto) diventa un vero e proprio sistema filosofico, dotato di una metafisica, un’antropologia, un’etica, e anche in prospettiva una politica.I
n breve quella hillmaniana è una metafisica panteistica, e panpsichistica. Il mondo “è pieno di dèi”, Hermes, Afrodite, Ares sono le immagini archetipiche che ci guidano nel vivere amare e soffrire. La psiche inoltre non è solo dentro di noi, è tutto intorno a noi. All’uomo psicologico (che vive “facendo anima”) Hillman oppone l’uomo spirituale (mirante a una perfezione trascendente) e l’uomo normale (che si identifica con l’adattamento pratico e sociale). Il codice dell’anima del 1997, rivede la terapia: si tratta non di crescere ma di decrescere, tornare alle nostre radici, vedere da vicino quale sia il mito o il dio che ci guida, e così conoscere la nostra “vocazione”.
Naturalmente, non è filosofia vera, e pertanto originale e intellettualmente esigente, ma una popularphilosophie gentile, che rielabora materiali largamente presenti nella tradizione della filosofia pratica, ed è piena di colore, di narrazioni, miti e figure. Un fenomeno editoriale insomma (il suo Codice dell’anima fu un best seller in tutto il mondo).
Hillman è stato in definitiva un grande divulgatore e grande narratore dell’inconscio. Ma i contenuti per così dire politici della sua dottrina - al di là delle sue intenzioni - hanno fatto non poco danno in un’epoca che certo aveva bisogno di filosofia, ma non di quella filosofia, e che voleva una scossa da torpedine marina, ma non quella scossa emozionalistica e psichistica. Coloro che hanno fatto del socratismo visionario di Hillman una ideologia a volte sono andati troppo in là. In un libro di un intellettuale hillmaniano, di cui non farò il nome, si legge che le donne sarebbero superiori in quanto avrebbero l’intelligenza dei sentimenti, “e come dice l’etimo della parola stessa, ‘sentimento’ vuol dire: avere il senso, il sentire, nella mente” (?!). Il povero Hillman, conoscitore di molte lingue ed esperto di etimi ingegnosi e sottili, come avrebbe valutato una simile idiozia?
*Docente di Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino
Marc Augé: «Rendiamo eterno il presente per paura del futuro»
L’antropologo francese parla del «nontempo» che caratterizza la nostra epoca e dei rischi di una società globale divisa in classi che ci porterà verso una pericolosa «oligarchia planetaria» piena di disuguaglianze
di Flore Murard-Yovanovitch (l’Unità, 07.10.2010)
Immigrazione e Rom. «Non esiste una “questione Rom”, ma una cattiva accoglienza dei Rom. Quanto alla multietnicità è un fenomeno naturale» L’ultimo suo appuntamento italiano è stato il Festival della Filosofia svoltosi il mese scorso a Modena Carpi e Sassuolo. Ma non sono i «luoghi» a interessare Marc Augé, e neanche il tempo... Al «nonluogo», il neologismo da lui coniato nel ’92, ha ora aggiunto il «nontempo», ovverosia il presente eterno che caratterizza questa nostra epoca recente.
Abbiamo incontrato il celebre antropologo francese in un nonluogo e nel nontempo per chiedergli uno sguardo sulla costruzione di un’Europa multietnica, sulle attuali reazioni di xenofobia che Francia e Italia hanno in comune e sul tema della diversità.
Professor Augé, cominciando dal presente, che fine ha fatto l’idea di uguaglianza nella società contemporanea?
«A livello globale c’è più ricchezza, ma non funziona il meccanismo di redistribuzione e il divario tra ricchi e poveri sta aumentando in modo vertiginoso. La società globale verso cui andiamo è irriducibilmente divisa in classi. Non puntiamo, perciò, verso una “democrazia planetaria”, come pensa Fukuyama, bensì verso una “oligarchia” planetaria... Con il rischio di una disuguaglianza inimmaginabile oggi, perché riguarda soprattutto la conoscenza, tra quelli che saranno alla punta del sapere e quelli chiusi in una permanenza del non sapere».
Ma c’è ancora un futuro, visto che nel suo recente libro «Che fine ha fatto il futuro?» parla del «nontempo» che sarebbe davanti a noi?
«Oggi c’è una sorta di ideologia del presente, si parla molto meno del “tempo”. Siamo accerchiati da strumenti di comunicazione che ci bombardano di messaggi e di immagini. C’è una istantaneità che, combinata alla sovrabbondanza visiva, dà l’impressione di essere rinchiusi dentro una specie di presente “artificiale”, eterno».
Dalle sue parole sembra che siamo condannati all’«eterno ritorno dell’uguale» di nietzschiana memoria...
«È solo una impressione, che corrisponde alla nostra paura del futuro. Anche se la storia e la scienza vanno avanti velocemente, c’è come una sorta di rifiuto del presente. Abbiamo la coscienza che il pianeta è fragile, i nostri sogni di benessere non si realizzano, non c’è uguaglianza sociale e la storia è violenta. Ne sembriamo sorpresi, allorché la storia è sempre stata violenta».
Come spiega che, nonostante il suo tragico passato di nazismo e fascismo, in Europa stiano riapparendo discorsi e atti xenofobi?
«C’è una crescita dei movimenti di estrema destra in Europa occidentale e nei paesi ex comunisti, come avevo già segnalato anni fa. L’Occidente ha una sua reazione di paura, ma non è l’unica, anche altri sono violenti. Ci sono ideologie mortifere nell’ombra, situazioni di tensione che purtroppo possono essere facilmente strumentalizzate».
A questo proposito, esiste una reale «questione Rom» o è una costruzione mediatica e politica?
«Non c’è un “problema Rom”, ma una questione di cattiva accoglienza dei Rom. Le strutture abitative non sono all’altezza, non hanno nemmeno decenti connessioni energetiche di base. Invece ci sarebbero cospicui finanziamenti europei per creare una degna politica di integrazione, ma essi sono sottoutilizzati e persino non utilizzati dai governi. D’altro canto, è una questione fittizia, dal momento che i rumeni sono comunitari, liberi di tornare quando lo desiderano, e che in Francia, i due terzi della cosiddetta “gente del viaggio” sono cittadini francesi. L’argomento, almeno nel mio Paese, è bassamente elettorale, in vista delle prossime elezioni».
Ma in Europa c’è, in generale, un attacco all’essere umano diverso, all’immigrato...
«L’Europa è cambiata molto con l’immigrazione, è in corso un inedito rinnovamento della popolazione. Basta scendere nella metro parigina e la multietnicità salta agli occhi. Ma solo quando ci sono crisi o incidenti, si parla, e in termini negativi, della diversità... Quando invece si potrebbe riconoscere come essa sia “accaduta” in modo del tutto naturale e con una positività dei nuovi rapporti interculturali. Non sono convinto, d’altronde, che il fenomeno di rifiuto del diverso sia maggioritario.
Con questi presupposti, quale rivoluzione culturale e politica è auspicabile?
«L’espressione “rivoluzione culturale” è troppo connotata storicamente. Fermo restando che la nozione di cultura e quella di rivoluzione dovrebbero essere sinonimi. La cultura dovrebbe essere sempre critica se non rivoluzionaria. La cultura non è lo specchio dell’esistente ma la sua disamina, la sua messa in causa; dovrebbe essere attenta, vigile. La cultura non è apolitica. E la politica, come la morale, dovrebbe ispirarsi alla scienza, che è il contrario della ideologia: fondarsi sullo stesso spirito della ricerca, prospettare ipotesi, cercare soluzioni anche provvisorie, formulare idee nuove, senza basarsi sui modelli del passato. Per questo faccio anzi l’elogio del futuro».
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Chi è. Lo studioso che ha «inventato» il nonluogo
MARC AUGÉ Già Directeur d’études presso l’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales di Parigi, dopo aver contribuito allo sviluppo delle discipline africanistiche ha elaborato un’antropologia della pluralità dei mondi contemporanei attenta alla dimensione rituale del quotidiano e della modernità. Ha inoltre focalizzato la sua attenzione su una serie di esperienze contemporanee che attraversano la progettazione urbanistica, le forme dell’arte contemporanea e l’espressione letteraria.
Tra le sue opere tradotte di recente: «Rovine e macerie» (Torino 2004); «Perché viviamo» (Roma 2004); «Tra i confini. Città, luoghi, interazioni» (Milano 2007); «Il mestiere dell’antropologo» (Torino 2007); «Il bello della bicicletta» (Torino 2009); «Il metrò rivisitato» (Milano 2009); «Che fine ha fatto il futuro? Dai non luoghi al nontempo» (Milano 2009). È componente del Comitato Scientifico del Consorzio per il festivalfilosofia.