La leggenda di Melusina *
Melusina è la protagonista di delicate e suggestive leggende medievali e romantiche: donna-pesce bellissima che consola e inganna, guida alla giusta scelta e innamora di sé, appare e scompare dalle profondità dei laghi nelle foreste incantate, mostro soprannaturale e donna splendida, amorevole e abile, essere crudele, ma anche una sorta di dea dell’abbondanza che costruisce palazzi e colma i campi di frumento.
Esistono diverse versioni della leggenda di Melusina, che si inserisce nella tradizione medioevale dell’incontro tra fate e umani, ma la codifica definitiva si ha intorno al 1400, per volontà di due nobili famiglie, entrambe lontane eredi dei Lusingano (antica casata francese distintasi già intorno al X° secolo), che vogliono dar lustro al proprio nome fornendo alla propria stirpe un’antenata mitica.
Intorno al 1390 il duca di Berry, erede dei castello dei Lusignano, chiede allo scrittore Jean d’Arras di stendere un romanzo che ricordi l’origine per così dire "soprannaturale " della stirpe di cui egli è erede. L’opera vedrà la luce nel 1392 e porterà il titolo di Roman de Mélusine.
Pochi anni dopo a Partenay, non lontano da Lusignano, il signore del luogo ‑ anch’egli discendente dei Lusignano ‑ incarica il suo cappellano Couldrette di redigere un’opera in versi sullo stesso tema.
Il protagonista, Raimondino, mentre è a caccia nella foresta di Colombiers, uccide per errore suo zio. Sconvolto dall’accaduto si rifugia in un bosco e presso una fonte si imbatte in tre fanciulle. Una di queste, rispondente al nome di Melusina, gli rivela di essere al corrente dell’incidente occorsogli e di poterlo aiutare, offrendosi di sposarlo, a patto che lui non cerchi mai di vederla il sabato. Poiché la ragazza è di splendido aspetto, Raimondino è lieto di accettare. Il matrimonio è assai felice e prospero: nascono numerosi figli e la prosperità della coppia sembra riversarsi anche sui possedimenti della famiglia, nei quali si accresce la produzione agricola e sorgono nuovi castelli. Tuttavia, il fratello dello sposo sparge voci malevole sulle misteriose assenze della giovane, tanto da indurre al sospetto persino Raimondino, che infrange il tabù. La ragazza, mutatasi in serpente, scompare per sempre nel regno delle acque, e ricomparirà solo di tanto in tanto come presagio di sciagure, ma i suoi figli daranno gran lustro alla stirpe da lei fondata.
La funzione di Melusina per la stirpe che la rivendica come antenata è quella di un’antica divinità della Madre Terra, che porta la fecondità e la prosperità: il semplice suo passaggio in un bosco crea radure e campi da seminare, portando dunque la civiltà degli uomini lì dov’era il confine con il mondo delle belve e degli esseri non‑umani.
Ma la spiegazione più interessante e degna di nota del mito di Melusina è quella offerta dai medievalisti Jacques Le Goff e Emmanuel Le Roy Ladurie per i quali alla base ci sarebbero racconti mitologici greco‑romani, protagoniste dei quali sono spesso le ninfe, creature semidivine. La cristianizzazione dell’impero conduce a una demonizzazione delle divinità dell’antico Pantheon pagano, che tuttavia rimangono ben vive nell’immaginario e spesso nel culto popolare anche perché si legano a substrati cultural‑religiosi ben più antichi della colonizzazione romana, come i miti celtici. E quando, a partire dal XII secolo, le credenze popolari cominciano ad essere riprese e codificate dalla cultura letteraria, si incontrano numerosi rimaneggiamenti di tali leggende.
Il nome di Melusina è altresì associato all’opera di Paracelso, per il quale essa è analoga di Ninfe e Sirene e vive nell’”Aquaster”, il principio acqueo, il principio psichico quasi materiale legato al lunare, dal quale verrebbe anche Maria. Melusina è da un lato una visione psichica, ma è anche, tenuto conto della capacità di realizzazione immaginativa della psiche (detta "Ares" da Paracelso), una distinta entità obiettiva, come un sogno che diventi realtà per un attimo.
Melusina è simbolo dell’anima che appartiene a quei fenomeni di frontiera che si verificano in particolari condizioni psichiche. Nelle circostanze di un crollo di valori, quando sul futuro si fa il buio, Melusina giunge come presenza reale e soccorrevole: l’inconscio appare come visione mentale, e Melusina emerge dal reame delle acque assumendo sembianze umane, per poi scomparire di nuovo.
Essa aiuta, ma anche inganna. E’ parente dell’ingannevole Morgana (che significa "nata dal mare"), di Afrodite e di Ishtar. Ishtar era rappresentata in epoca ellenistica come sirena a due code ed era legata alle feste nuziali di Maggio. E a Maggio avvengono le nozze mistiche o chimiche degli alchimisti: e l’anima si ricongiunge con lo spirito.
Guarda, assisa, la vaga Melusina,
Tenendo il capo tra le ceree mani,
La Luna in arco da’ boschi lontani
Salir vermiglia il ciel di Palestina.
Da l’alto de la torre saracina,
Ella sogna il destin de’ Lusignani;
E innanzi al tristo rosseggiar de’ piani,
Sente de ’l suo finir l’ora vicina.
Già, già, viscida e lunga, ella le braccia
Vede coprirsi di pallida squama,
Le braccia che fiorian sì dolcemente.
Scintilla inrigidita la sua faccia
E bilingue la sua bocca in van chiama
Poi che a ’l cuor giunge il freddo de ’l serpente.
G. D’Annunzio
* Fonte: Maria Paola Vannucchi
TRA SCIENZA E ALCHIMIA
«Gnomi, silfidi, ninfe e ondine: Dio ha dato dei custodi alla natura»
di PIRMIN MEIER *
Nel sesto trattato del Liber de Nymphis, Paracelso spiega «perché Dio ha creato questi esseri». In primo piano c’ è la funzione di difesa, «infatti Dio ha dati dei custodi alla natura, a tutte le cose, e non lascia nulla di incustodito».
Niente nella natura è incustodito! Gli gnomi custodiscono materie prime come oro, argento, ferro, affinché i giacimenti non vengano sfruttati troppo in fretta «ma vengano distribuiti poco a poco e fra tutti, prima in una regione, poi in un’ altra», giacché i tesori della terra e le materie prime devono bastare fino all’ ultimo giorno della creazione. Anche gli spiriti del fuoco svolgono la funzione di custodi. Essi tengono a bada la pericolosità di quell’ elemento, un compito noto anche allo sciamano siberiano Dersu Uzala che dà il titolo al noto libro di Wladimir Arseniew. Il cacciatore e mago asiatico intreccia subito una conversazione con il fuoco crepitante.
Le silfidi, secondo il Liber de Nymphis, sono le guardiane delle formazioni rocciose esterne e proteggono la superficie della terra dalle devastazioni. Le ondine custodiscono i grandi tesori dell’ acqua. Che non siano i metalli nobili a costituire il grande tesoro della terra, ma le acque stesse, va interpretato come un importante segreto rivelato.
Sia nella saga sia in Paracelso viene sottolineata l’ indole benevola degli spiriti elementari. Solo bugie e inganni, infedeltà e un’ eccessiva curiosità da parte dell’ uomo - il vizio della curiositas - provocano gesti vendicativi oppure, in generale, la scomparsa degli gnomi. Questi ultimi popolano soprattutto le regioni alpine. Spesso fanno la loro comparsa anche gli Züsler o Zündelmänner, le scintille. Le ondine preferiscono vivere ad altitudini intermedie, al di sopra dei 600 metri se ne trovano poche.
Renward Cysat insiste sul compito di custodia definita da Paracelso la funzione principale di tali spiriti. Degli «gnomi» riferisce «che tengono animali selvatici nelle loro abitazioni fa i monti, soprattutto i camosci, e che li trattano come animali domestici». I cacciatori accaniti vengono invitati a moderarsi.
Secondo la psicologa junghiana l’intera mitologia degli spiriti elementari, così come ci viene tramandata da Paracelso, rappresenta una miniera di archetipi, preziose metafore e figure psicologiche.
Nelle sue lezioni su Paracelso Jung si è concentrato soprattutto sulla figura di Melusina che, secondo lui, rappresenterebbe un «simbolo dell’anima» e, in particolare, l’espressione della parte femminile dell’ anima, il femminino presente in ogni essere umano.
Il Liber de Nymphis è particolarmente interessante come parte della critica sociale di Paracelso. Il testo contiene alcuni passi in cui l’elemento fantastico si rovescia improvvisamente nella relativizzazione, se non addirittura negazione, di norme sociali vigenti: con i suoi riferimenti a sette e partiti, declino di principi e signori, acquista l’ aspetto di un monito escatologico.
La beatificazione del prologo con una grandiosa figura retorica rimanda a una scala di valori su cui, alla fine del secondo millennio dopo Cristo, si offre l’ occasione di riflettere.
La priorità accordata a ninfe, melusine, gnomi e giganti, rispetto agli ordini della civilizzazione, principalmente non è altro che l’ espressione delle riserve e delle obiezioni della natura nei confronti del raziocinio e della stoltezza umane. Il fine delle visioni sociali paracelsiane è quello di un uomo nuovo in sintonia con Dio, con la natura e il regno degli spiriti che simboleggia questo rapporto.
A differenza del suo contemporaneo Martin Lutero, al quale il «Lutero della medicina» non ama venire paragonato, questo regno degli spiriti non è semplicemente da ricondursi a Satana, bensì esprime la magnificenza della creazione. E quest’ultima - questa la somma della filosofia e della teologia della natura di Paracelso - ha sempre più importanza di quella civilizzazione frutto dello sforzo umano, anche più delle belle cattedrali dell’ Occidente: «La costruzione dell’ uomo non è altro che un cumulo di pietre. E tutti i suoi templi e le chiese e ogni cosa decadranno. Solo il tempio in cui vive il Signore rimarrà: questo è l’ uomo».
Questa è la versione teologica della relativizzazione della civilizzazione umana contenuta nella beatificazione del trattato sulle ninfe. Nella dottrina degli spiriti elementari si tratta di richiamare l’ attenzione su un ordine prioritario nel quale appaiono importanti altre cose rispetto a quelle comunemente ritenute tali. Si scorge l’ orizzonte etico della filosofia paracelsiana che mira a conciliare tutti gli enti con l’ essere assoluto nella conoscenza di sé. Quest’ ultima, ottenuta - come nella mistica - in uno stato di abbandono in cui interviene la grazia, equivale alla pietra filosofale: il fine dell’ alchimia.
Meier Pirmin
ESOTERISMO Esce la «biografia spirituale» di uno degli uomini rinascimentali più complessi e controversi.
PARACELSO La medicina nell’antro del mago
Distillava farmaci dagli alambicchi e credeva negli spiriti dell’ aria
di CESARE MEDAIL *
Teophrast Bombast von Hohenheim, più noto come Paracelso (1493-1541), filosofo e profeta, alchimista e soprattutto medico, rappresentò meglio di chiunque lo spirito del Rinascimento in tutte le sfaccettature e ambivalenze. In sintesi, la sua opera consiste nell’ aver applicato l’alchimia e l’ astrologia all’ arte medica. Base teorica, l’intuizione delle corrispondenze fra macrocosmo e microcosmo, propria della tradizione ermetica fiorita nel suo tempo.
Le biografie di Paracelso sono spesso parziali: da un lato c’è chi si ferma alla dimensione esoterica, dall’ altro chi lo vede come precursore della modernità, come l’ uomo che ha dato un calcio a Galeno e alle terapie basate sugli «umori» del corpo, aprendo la via alla medicina chimica.
L’ originalità della nuova opera di Pirmin Meier, lo studioso svizzero considerato uno dei massimi conoscitori di Paracelso, è quella di uscire dallo specialismo per offrire di lui un’ immagine storica senza privarla dello spessore mitico-spirituale.
Meier scardina il meccanismo delle biografie tradizionali costruendo appunto una biografia spirituale, che legge opere e fatti alla luce dei percorsi speculativi e anche teologici dell’ alchimista. La vita di Teophrast, nato presso Zurigo, si svolge fra Austria e Svizzera, dopo un lungo vagabondare per l’ Europa, come i chierici vaganti medioevali.
Divenuto dottore a Ferrara, ebbe la cattedra di medicina a Basilea, poi perduta per conflitti accademici. Era personaggio scomodo, pronto a battersi con furore per le sue verità: alto 1,50, mezzo gobbo, cranio grosso, non conobbe il sesso, ma ebbe fama di uomo trasandato, bevitore e allergico alle chiese.
Vicino alla Riforma non fu nemmeno contro Roma, preferendo una propria via teologica che anteponeva la «Chiesa del cuore alle chiese di pietra», perdendo così ogni alleato.
Tra una fuga e l’ altra, trovò requie presso figure benestanti, colte e bisognose delle sue cure (guarì per corrispondenza Erasmo da Rotterdam e Frobenius); ma trovò il modo di scrivere oltre ottanta opere, senza contare le notti trascorse in laboratorio a torturare i metalli dai quali distillare la quintessenza, «la sostanza più sottile e di massima virtù», in grado di curare chi soffre. Quella di Paracelso fu una sorta di «alchimia etica»: «Non è come dicono, che l’ alchimia fabbrichi oro e argento. Attraverso di essa devi fabbricare gli arcana e rivolgerli contro le malattie».
Paracelso ha un’ idea moderna della cura: sa che il terapeuta non deve guardare solo alla parte malata ma all’intera persona, la quale deve sentire l’amore del medico e di chi le sta attorno. Parla di «cordiale atmosfera attorno al letto del malato». Suo modello è Cristo, «il medico più grande, venuto a salvare i malati di questo mondo».
La chimica di Teophrast si fonda sui tre principi alchemici dell’Universo: «quello che, bruciato, subirà la combustione sarà lo Zolfo, quello che produrrà il fumo il Mercurio, quello che produrrà le ceneri il Sale». Applicando per via analogica la relazione fra i tre principi al corpo umano, specchio dell’ Universo, si persegue il perfezionamento della persona, e quindi la cura.
La triade Sale-Mercurio-Zolfo corrisponde a un concetto proprio dell’ antica «filosofia perenne», è la sostanza eterna che sottende i fenomeni: va quindi intesa in senso bio-spirituale più che bio-chimica, anche se Paracelso lavorava sulla materia, traendone medicine efficaci.
Quella di Teophrast, insomma, è medicina olistica dove convivono punti di vista anticipatori e medicina popolare, magia e alchimia, fede in Cristo e nella natura, nei simboli e negli spiriti dell’ aria; e la trasmutazione dei metalli era per lui la vera trasmutazione dell’ uomo che porta alla conoscenza di sé e quindi a Dio, di cui l’ uomo è immagine; conoscenza che equivale alla pietra filosofale.
Cesare Medail
Pagina 25
(20 novembre 2000) - Corriere della Sera
SUL TEMA, IN RETE E NEL SITO, SI CFR.:
DONNE, UOMINI, E INGIUSTIZIA EPISTEMICA:«CHANGING THE IDEOLOGY AND CULTURE OF PHILOSOPHY»!
ARALDICA:
(araldica) figura araldica chimerica che rappresenta la fata Melusina che ha perduto la sua coda di serpente per una coda di pesce; diviene così una variante della sirena da cui differisce solo per l’acqua del bagno: il mare ondoso della sirena è un tino da bagno per la melusina. Alcuni autori danno il nome di melusina alla sirena con la coda doppia
LA #SIRENA, "NON SEMPRE NUOCE": #IMMAGINAZIONE "CINEMATOGRAFICA" E #ARCHEOLOGIA ANTROPOLOGICA.
UN OMAGGIO ALLA CITTA’ DI #NAPOLI ("#PARTHENOPE") E A #VIRGILIO...
PURTROPPO E SPESSO NEI "#LIBRI DI #STORIA" SULLE VARIE "#ITACHE" SI TRAMANDANO "CERTEZZE" CHE NON STANNO "NE’ IN CIELO NE’ IN TERRA" E FANNO SOLO "BUIO", ANCHE IN UNA "LUMINOSA" SALA CINEMATOGRAFICA. Riguardo alle conoscenze che i napoletani e le napoletane si crede e si pensa abbiano della loro vulcanica, geologica, e "terronica" #antropologia, della loro stessa terrestre #Neapolis, per lo più, è del tutto ignorato che l’intera #Città custodisce nel suo #cuore, come #DanteAlighieri, il suo maestro e il suo spirito-guida, Virgilio. Così è scritto sulla sua tomba: "Mantua me genuit, Calabri rapuere, tenet nunc / Parthenope; cecini pascua, rura, duces" ("Mantova mi generò, la Calabria - il Salento mi rapì, e ora mi tiene Napoli; cantai i pascoli, le campagne, i condottieri".
Per "re-#shakepeare" più a fondo e riflettere meglio sull’ amletico "essere, o non essere" ... neapolitano, forse, è opportuno rileggere non solo la #Scienza Nuova di #Giambattista Vico ma anche la #Ginestra di #Giacomo #Leopardi (e, possibilmente anche le pagine di Walter Benjamin e Asia Lacis sulla "Napoli porosa").
La voce e il corpo della Sirena: archeologia di una fiaba
di Erika Maderna (Written by Amici di LibriCalzelunghe, 01.12.2021).
Una fiaba non è mai scritta per la prima volta, è sempre una riscrittura di qualcosa che è stato già narrato tanto tempo fa. Molti pensano alle fiabe classiche come a racconti obsoleti, stereotipati, lontani dallo spirito del nostro tempo; in realtà, nessun altro genere di narrazione ci invita più di questo a uscire dallo stereotipo. Per entrare nell’archetipo.
Certe storie nascono nel sottosuolo della memoria, e andare a scavare fra le stratificazioni è un lavoro simile a quello dell’archeologo: si trovano cocci, si ripuliscono, si prova pazientemente a farli combaciare. Non sempre il restauro risulta perfetto, e bisogna allora esporre i frammenti in vetrine separate; ma anche quei pezzi sono una parte importante dell’opera di ricostruzione.
Partiamo dalla fine, cioè dal finale, che in realtà segna sempre, paradossalmente, un inizio. Di solito, dopo il “felici e contenti” i protagonisti sembrano svanire nel nulla, come se il seguito non fosse degno di essere raccontato; e invece, dove finisce la narrazione, lì comincia la nostra esistenza, la vita della nostra anima. Perché sempre dell’anima e all’anima parlano le fiabe. La fanciulla che soffre, che cerca, che si perde, che osa, che diventa preda, non è una ragazzina in carne e ossa: siamo noi quella ragazzina, sempre e soltanto noi. È sempre Psiche la protagonista, come suggerisce una delle più belle storie mai scritte, e l’anima non è nemmeno maschio o femmina; è anima e basta, e questo spazza via anche tante obiezioni al presunto sessismo di racconti tradizionali di principi e principesse, fidanzamenti e sposalizi.
Anche la fiaba de La Sirenetta parla dell’anima. Forse, prima di tutto, di quella dell’uomo che l’ha pensata, Hans Christian Andersen, che in quel racconto struggente ha messo se stesso, la sofferenza per un amore impossibile, il senso di isolamento, il suo sentirsi profondamente “diverso”.
Si tratta di un racconto d’autore, per l’appunto: non attinge, dunque, al sostrato archetipico del folclore popolare e del mito come avviene per altre fiabe della nostra infanzia. Eppure, Andersen è riuscito a recuperare temi e simboli universali che appartengono all’immaginario. Sceglie come protagonista una sirena, creatura mitologica e antichissima che da sempre abita le fantasie dell’uomo, e intesse una storia che ha inizio nelle profondità marine, e dalle profondità procede verso la superficie. Potremmo intenderlo come un percorso inverso rispetto a quello che solitamente l’eroe compie visitando gli inferi per poi tornare nel mondo dei vivi. Qui è la superficie il luogo dell’iniziazione e una creatura degli abissi ne è attratta fino a essere disposta a perdere tutto.
La giovane protagonista sogna da sempre di scoprire cosa c’è oltre il mare e finalmente al compimento dei suoi quindici anni potrà spingersi al di là di quella soglia. È l’età giusta per innamorarsi, la sua, e infatti, fatalmente, si innamora. Per quel bellissimo giovane è disposta a rischiare tutto: a lasciare l’oceano, a separarsi dal padre, dalla nonna che l’ha cresciuta, dalle amate sorelle. Ma di quel mondo c’è anche altro che la attrae irresistibilmente: il destino degli umani, che vivono un’esistenza breve ma amano intensamente e possiedono un’anima immortale. Si convince che in quell’immortalità debba esserci un grande bellissimo segreto.
Per sperimentare la felicità umana, però, il prezzo da pagare è alto: la strega, che può darle il corpo di donna che lei tanto desidera, in cambio vuole la sua voce. Ma la voce per una sirena è tutto, si sa, perché nel canto risiede l’incanto. L’amputazione della lingua segna una riduzione definitiva al silenzio, una menomazione che la storia ha inflitto infinite volte alle donne. Ma non solo. Per ottenere le agognate gambe dovrà accettare di soffrire enormemente: sarà come se una spada la tagliasse in due e a ogni passo le sembrerà di camminare su affilate lame di coltello, ma lei dovrà sorridere e nascondere il tormento anche quando i piedi sanguineranno. Infine, la sentenza più crudele: se non riuscirà a farsi amare da lui... tutto sarà perduto e lei morirà, trasformandosi in schiuma marina. Ma come si può riuscire a farsi amare, quando non si ha voce?
In questa fiaba, il tema della voce è potente: riconduce all’immaginario della sirena, ma evoca anche, in uno schema rovesciato, le figure delle antiche profetesse, delle sibille, delle pizie. Della sibilla cumana, per esempio, che aveva chiesto ad Apollo l’immortalità dimenticandosi di reclamare anche l’eterna giovinezza: invecchiò, e il suo corpo si consumò inesorabilmente, come quello di una cicala, fino a scomparire lasciando di lei solo la voce. Apollo le promise di farla tornare giovane, ma solo se si fosse data a lui. La sibilla rifiutò, scegliendo il disfacimento. In apparenza, ma solo inizialmente, nella nostra fiaba sembra avvenire il contrario, ma pur sempre si tratta di scegliere fra voce e corpo, di accettare una menomazione, una scissione dall’esito necessariamente tragico.
Nel mito, quello della sibilla non è l’unico corpo femminile che si dissolve in voce. C’è anche la ninfa Eco, che come la Sirenetta sperimenta un amore disperato per il bellissimo Narciso, che esattamente come l’uomo amato dalla Sirenetta non riesce a cogliere la profondità dei suoi sentimenti. La voce di Eco non verrà soppressa, ma si ridurrà a riverbero delle parole dell’altro, distorte e mutilate. C’è un destino comune in queste due fanciulle, quasi una ferita archetipica che si replica per linea femminile: e sono la voce e il corpo a narrarla. Per Eco, un corpo consumato dalla sofferenza d’amore; per la Sirenetta, costretto in una trasformazione innaturale e dolorosissima. Quante altre donne Eco ci sono state e ci sono, innamorate di Narciso? Invisibili, inascoltate, prive di una voce intatta... Così come Narciso non vede Eco, il principe non ode la voce della sirena: accomuna entrambi un’incapacità di stabilire un vero contatto emozionale.
Le sirene sono creature leggendarie, antichissime. Possiedono una natura chimerica ma non sono sempre state entità acquatiche: in origine avevano busto di donna e zampe e piume di uccello, e con voce suadente incantavano i marinai per poi condurli alla follia e alla morte. Più tardi vennero associate ai culti funerari: si pensava indugiassero sulla soglia degli Inferi per consolare con la dolcezza del canto le anime dei defunti, e un loro simulacro proteggeva le tombe.
Soltanto nel medioevo si trasformarono in bellissime fanciulle dotate di una luccicante coda di pesce, simili alla misteriosa Melusina, che era per metà donna e per metà pesce, ma sulla terraferma sfoggiava una coda serpentina. Tutte queste creature, eternamente dimezzate, sembrano esprimere una scissione insanabile. Nel tempo sono state serpenti, pesci e uccelli: appartengono alla terra, all’acqua e all’aria.
Nella figura della nostra Sirenetta rivivono tutte le sue antenate: qui l’archeologo può condurre con una certa soddisfazione il suo lavoro di scavo e ricognizione. Ma è con la fiaba danese che questa creatura perde per la prima volta la natura di monstrum, grazie ai tratti che la rendono umana: ama, soffre, e per amore è pronta al sacrificio estremo.
L’antica scissione si manifesta nella sua profonda inquietudine: ogni sua decisione prevede una lacerazione del corpo e dell’anima. Forse l’immagine che la rappresenta al meglio è proprio quella che ci è più famigliare: intenta a scrutare l’orizzonte da uno scoglio, sospesa fra i due mondi. Fra mare e cielo.
Oggi siamo abituati a pensare a questa fiaba nella riscrittura edulcorata elaborata dalla Disney nel 1989. È ingiusto che l’ultima versione di un racconto debba essere quella che lo cristallizza e lo consegna alla memoria. Ingiusto e strano, quando tutta la ricchezza si raccoglie intorno alle radici. Il finale Disney risponde a un bisogno di rassicurazione attraverso un lieto fine, dimenticando che la potenza di questo racconto sta nel brivido tragico che riesce a trasmetterci. Andersen certamente voleva che ne rimanessimo turbati e commossi, che sostassimo nella sospensione di una domanda, di un dubbio, di una riflessione: non sempre abbiamo bisogno di tirare un sospiro di sollievo al termine di una storia.
La poetica di questa fiaba sta infatti nella nostalgia struggente della protagonista, nel suo desiderio, nel suo dolore; nel lieto fine disneyano, tutto ciò che vi è di sublime e di metafisico viene svilito. Il finale di Andersen invece è coerente con la vena malinconica che attraversa tutto il racconto, ma gli restituisce anche un senso profondo. La Sirenetta scopre che se colpirà al cuore il giovane che ama potrà tornare nel mondo acquatico e vivere ancora per centinaia di anni: ma lei aveva fatto la sua scelta per amore, non per vendetta. Deciderà dunque di lasciarlo vivere, accettando di dissolversi in spuma marina, ma questa volta libera dall’attaccamento che è stato causa di tanta infelicità. Il suo non sarà un sacrificio di se stessa, ma un sacrificio per se stessa.
È solo a questo punto che, inaspettatamente, il suo corpo invece di sciogliersi in schiuma si fa leggero ed etereo, trasformandola in una figlia dell’aria, come la ninfa Eco, come la sibilla cumana. Questo è il vero riscatto, il sorprendente lieto fine: anche lei potrà avere un giorno un’anima, ma la ricompensa non sarà subordinata all’amore di un uomo.
LE SIRENE, TRA SILENZIO E CANTO
DI GIUSEPPE ZUCCARINO (La dimora del tempo sospeso,, 3 giugno 2009)
Una delle Nuove poesie di Rilke introduce una insolita trattazione del tema dell’incontro fra Ulisse e le sirene. L’eroe greco, non nominato ma facilmente identificabile, confessa la difficoltà che sperimenta quando, nel narrare la storia dei suoi viaggi, tenta di trasmettere agli ascoltatori un’adeguata sensazione di spavento, allorché giunge a parlare «di quell’isole // la cui vista fa sì che muti volto / il pericolo, e non è più nel rombo, / non nel tumulto come sempre era; / ma senza suono assale i marinai // i quali sanno che là su quell’isole / dorate qualche volta s’ode un canto, / ed alla cieca premono sui remi, / come accerchiati // da quel silenzio che tutto lo spazio / immenso ha in sé e nelle orecchie spira / quasi fosse la faccia opposta del silenzio / il canto cui nessun uomo resiste»(1).
La lirica è volutamente ambigua, e si offre a diverse interpretazioni. I marinai della nave di Odisseo sono forse impauriti da ciò che hanno sentito dire sull’efficacia micidiale del canto delle sirene e si affrettano per timore che esso li raggiunga loro malgrado; ma secondo la narrazione omerica hanno le orecchie turate con la cera, quindi un simile timore parrebbe privo di fondamento. D’altro canto la cera che li protegge impedisce loro di appurare se il silenzio che odono è effettivo o illusorio. Chi non dovrebbe avere dubbi al riguardo è Ulisse, ma su di lui e sul suo ascolto i versi rilkiani si mostrano reticenti: non sappiamo dunque se l’idea, suggeritagli da Circe, di farsi legare all’albero maestro della nave per poter udire senza pericolo il canto delle sirene abbia avuto un senso, o se invece la precauzione si sia rivelata vana, poiché nessuna voce melodiosa è risuonata a partire dalle isole dorate. Neppure il fatto che nel finale si dica che il canto irresistibile può essere pensato come l’altra faccia del silenzio ci soccorre, intanto perché non sappiamo se tale riflessione abbia origine dall’esperienza dei marinai o da quella (che in ogni caso sarà stata diversa) di Ulisse, e poi perché ignoriamo in quale rapporto si trovino fra loro le due facce. La loro differenza potrebbe infatti essere estrema, come quella che separa due realtà di natura opposta, oppure assai minore, analoga a quella che distingue i due lati, inseparabili, di una stessa moneta o medaglia.
C’è un altro testo del primo Novecento che, se scioglie il dubbio sul prodursi o meno del canto, ne crea però altri. È un famoso brano di Kafka, rimasto inedito durante la vita dell’autore ma incluso da Brod fra i racconti postumi col titolo Il silenzio delle sirene(2). Se lo si ricolloca nel contesto originario costituito dai quaderni di appunti kafkiani, esso può prestarsi ad essere letto, oltre che in chiave narrativa, anche in modi differenti, ad esempio come una riflessione o una parabola(3). In questa annotazione, di cui conosciamo con esattezza la data (23 ottobre 1917), Kafka trasforma la versione omerica della storia, arricchendola di implicazioni inattese. Qui i marinai non compaiono più, e il confronto fra Odisseo e le sirene si fa diretto. È lui stesso che ha turato le proprie (e non le altrui) orecchie con la cera e si è legato alla nave. Si tratta, a ben vedere, di vani espedienti, in quanto «il canto delle sirene penetrava tutto, figurarsi la cera, e la passione di coloro che venivano sedotti avrebbe spezzato ben altro che catene e alberi maestri». Ma l’eroe non sospetta che i mezzi di difesa da lui adottati siano inefficaci, così come ignora che l’arma più terribile delle sirene non è la loro voce bensì il loro silenzio, capace di suscitare in chi ritenga di averle sconfitte un orgoglio smisurato e rovinoso. «E davvero, quando Odisseo arrivò, le potenti cantatrici non cantavano, sia che credessero che solo il silenzio potesse aver la meglio su quell’avversario, sia che la vista della felicità sul viso di Odisseo, che non pensava ad altro che a cera e catene, facesse loro dimenticare ogni canto». Il silenzio, però, non viene avvertito come tale da Ulisse, il quale, nella sua ingenuità, crede che le sirene stiano cantando, e che solo la cera gli impedisca di udirle. Esse, pur essendo munite di artigli, devono così accontentarsi di «afferrare, finché era possibile, il riflesso lucente degli occhi immensi di Odisseo». La loro arma più potente, il silenzio, è stata neutralizzata dall’eroe, ma la sconfitta non le ha condotte all’annientamento, come sarebbe accaduto «se le sirene avessero coscienza»: anche per loro dunque, come per Ulisse, l’inconsapevolezza sembra essere il mezzo migliore per garantirsi la sopravvivenza.
Però a proposito del greco, precisa Kafka, «la tradizione aggiunge un’appendice», da cui si apprende che forse la sua fama di scaltrezza era giustificata, in quanto egli potrebbe aver finto di non accorgersi che le sirene tacevano, recitando una commedia rivelatasi comunque efficace. Questa aggiunta rende ancor più problematico il senso della storia, poiché se già non si capiva come un Ulisse ingenuo potesse evitare di incorrere in quell’orgoglio che - a detta del narratore - costituisce l’effetto più temibile prodotto dal silenzio delle sirene, tanto meno dovrebbe esserne esente l’individuo capace di una così abile finzione di inconsapevolezza. Se quel che Kafka si proponeva inizialmente di dimostrare era che «anche mezzi insufficienti, anzi infantili, possono servire alla salvezza», dobbiamo dedurne che né l’ingenuità né l’astuzia riescono a sottrarsi ai difetti di insufficienza e infantilismo, pur potendo risultare, in qualche caso, salvifiche.
Ma non sempre, in Kafka, le sirene tacciono. In una lettera, commentando una missiva di mano femminile che giudica «tanto bella quanto ripugnante», egli osserva: «Anche le sirene cantavano così, si fa loro torto se si pensa che volessero sedurre, sapevano di avere gli artigli e il grembo sterile, di ciò si lamentavano a gran voce, non avevano colpa se il loro lamento era così bello»(4). All’origine del canto delle sirene vi sono quindi, secondo lo scrittore praghese, dei gemiti di dolore. Esse soffrono di una sorta di complesso di inferiorità nei riguardi delle donne, o in genere degli esseri femminili di una sola specie, che a differenza degli ibridi hanno la possibilità di trovare un compagno e di riprodursi. Ciò che le rende infelici è la loro natura biforme: gli artigli fanno pensare che si tratti di donne-uccello, secondo la tradizione più antica (certo condivisa da Omero, che peraltro non le descrive), e non di donne-pesce. Il fatto che i loro lamenti risuonino come un canto non ne allevia il dolore, e nel contempo le rende un pericolo per chi ascolta. La condizione delle sirene è dunque per certi versi paragonabile a quella di un’altra creatura kafkiana, l’agnello-gatto del racconto Un incrocio, innocuo e amato dai bambini (i quali però, in un momento di lucidità, non mancano di chiedersi «perché non ha cuccioli») e tuttavia isolato dagli altri animali, tanto che il suo proprietario, che pure gli è affezionato, non può impedirsi di pensare che per un simile essere «il coltello del macellaio» sarebbe forse la migliore liberazione(5).
Che quello delle sirene non sia un canto felice è anche l’opinione di Maurice Blanchot: «Pare che cantassero, ma in un modo che non soddisfaceva, che lasciava appena intendere in quale direzione si aprissero le vere sorgenti e la vera felicità del canto. Tuttavia, coi loro canti imperfetti che erano un canto ancora a venire, guidavano il navigante verso quello spazio dove il canto potrebbe cominciare veramente»(6). E si tratta di uno spazio insidioso, raggiunto il quale non resta che sparire. Ignoriamo quale difetto contrassegnasse il modo di cantare delle sirene, conferendogli al tempo stesso un potere irresistibile: forse suonava come disumano, estraneo all’uomo, oppure somigliava al nostro, ma a un punto tale «da suscitare in chi lo ascoltasse il sospetto della non umanità di ogni canto umano». Blanchot aggiunge: «C’era qualcosa di meraviglioso in questo canto reale, canto comune, segreto, canto semplice e quotidiano, che tutto a un tratto si dava a riconoscere, cantato irrealmente da potenze estranee e (diciamolo) immaginarie, canto dell’abisso: che, ascoltato una volta, apriva in ogni parola un abisso e invitava con forza a sparirvi dentro». Lo scrittore non vede in un simile invito alcun intento malevolo, e trova ingiusta l’accusa tradizionalmente rivolta alle sirene di essere menzognere e ingannevoli. Il suo biasimo si rivolge semmai ad Ulisse, a colui che perfidamente ha voluto «godere dello spettacolo delle Sirene, senza rischio e senza accettarne le conseguenze, vile, mediocre e pacifico godimento, misurato come si addice a un Greco della decadenza che non meritò mai di essere l’eroe dell’Iliade».
E nonostante ciò, l’illusione, da parte di Ulisse, di essersi liberato delle sirene, di averle sconfitte con il suo buon senso, si è rivelata infondata, perché «esse l’attirarono là dove egli non voleva cadere, e, nascoste dentro l’Odissea divenuta il loro sepolcro, lo impegnarono, lui e molti altri, a quella navigazione felice, infelice, che è il racconto». Ulisse, dunque, ha avuto bisogno di accostarsi alle sirene tanto da ascoltarne il canto, per avere un’esperienza realmente profonda da raccontare, ma ha dovuto sottrarsi a questo canto per poter sopravvivere e dar vita alla narrazione. Così - riassume in una fulminea sintesi Blanchot - «Ulisse diventa Omero»(7).
Michel Foucault ci aiuta a capire meglio il senso del discorso blanchotiano, e nel contempo lo sposta leggermente; finisce, come tutti, col narrare a suo modo la stessa storia, che cessa quindi di essere la stessa. «Le sirene sono la forma inafferrabile e proibita della voce che attrae. Non sono altro che canto. [...] La loro musica è il contrario di un inno: nessuna presenza scintilla nelle loro parole immortali; solo la promessa di un canto futuro ne percorre la melodia. È per questo che le sirene seducono, non tanto per ciò che fanno udire, ma per ciò che brilla nella lontananza delle loro parole, l’avvenire di quel che stanno per dire. Il loro fascino non nasce dal canto attuale, ma da quello che s’impegna a essere. Ora, ciò che le sirene promettono a Ulisse di cantare è il passato delle sue stesse imprese, trasformate per il futuro in poema: “Noi conosciamo le sventure, tutte le sventure che gli dèi nei campi della Troade hanno inflitto alle genti di Argo e di Troia”. Offerto come in cavo, il canto non è che l’attrazione del canto, ma non promette all’eroe nient’altro se non la copia di quel che ha già vissuto, conosciuto, sofferto, nient’altro se non lui stesso»(8). Ciò che le sirene promettono è falso, perché chi si lasciasse sedurre dalla loro voce incontrerebbe la morte, ma nel contempo è vero, «poiché è attraverso la morte che il canto potrà elevarsi e narrare all’infinito l’avventura degli eroi»(9). L’astuto greco, quindi, si è fermato sulla soglia dell’abisso, e grazie a ciò ha potuto in seguito raccontare quel poco che gli è giunto del canto delle sirene. E tuttavia - ipotizza Foucault - «può darsi che sotto il racconto trionfante di Ulisse regni il pianto inudibile per non aver ascoltato meglio e più a lungo, per non essersi immerso il più vicino possibile alla mirabile voce, là dove il canto forse si sarebbe compiuto»(10).
Degli autori finora citati, Foucault è il solo a far presente che quello udito da Ulisse non è, nel poema che ce ne ha trasmesso la storia, un canto senza parole. Cos’abbiano detto - o meglio, cominciato a dire - le sirene, ci è noto grazie all’eroe stesso, che ce lo riferisce: «Qui, presto, vieni, o glorioso Odisseo, grande vanto degli Achei, / ferma la nave, la nostra voce a sentire. / Nessuno mai si allontana di qui con la sua nave nera, / se prima non sente, suono di miele, dal labbro nostro la voce; / poi pieno di gioia riparte, e conoscendo più cose. / Noi tutto sappiamo, quanto nell’ampia terra di Troia / Argivi e Teucri patirono per volere dei numi; / tutto sappiamo quello che avviene sulla terra nutrice»(11). Come notava Foucault, la promessa contenuta in questi versi è quella di cantare le vicende della guerra di Troia, quindi anche la storia dello stesso Ulisse. Che un passo del genere presenti forti implicazioni metapoetiche è stato rilevato con acume da Italo Calvino: «Cosa cantano le Sirene? Un’ipotesi possibile è che il loro canto non sia altro che l’Odissea. La tentazione del poema d’inglobare se stesso, di riflettersi come in uno specchio si presenta varie volte nell’Odissea, specialmente nei banchetti dove cantano gli aedi; e chi meglio delle Sirene potrebbe dare al proprio canto questa funzione di specchio magico?»(12). Benché Calvino richiami subito dopo, elogiandolo, il testo di Blanchot, il ragionamento che propone nel passo citato conduce di fatto a una diversa conclusione: per lui sono le sirene, e non Ulisse, a diventare Omero.
In un saggio successivo, tornando ad esaminare in modo più articolato i diversi effetti di autoreferenzialità presenti nel poema, Calvino riprende la tesi che già conosciamo, ma con una correzione di non poco rilievo: «Ulisse incontra le Sirene che cantano; che cosa cantano? Ancora l’Odissea, forse uguale a quella che stiamo leggendo, forse diversissima»(13). L’ultima ipotesi nasce dalla constatazione che nell’opera omerica la storia di Ulisse viene raccontata varie volte in modi differenti, da altri personaggi ma anche dallo stesso protagonista, che del resto ha fama di essere un provetto ingannatore. A questo punto risulta difficile stabilire quale sia la versione più «autentica» delle avventure dell’eroe, e a fortiori immaginare se proprio quella e non un’altra sarebbe divenuta oggetto del canto delle sirene.
Forse, si potrebbe aggiungere, la lusinga irresistibile legata a quel canto dipendeva proprio dal fatto che esso offriva ad ogni navigante una versione, se non fantasiosa, quanto meno abbellita, e resa dunque più affascinante, della sua storia. Anche per questo le sirene si prestano a diventare un’immagine del discorso letterario, che, proprio perché sa mentire (e sa di mentire), è sempre persuasivo e coinvolgente. Questa capacità di trasformare i dati del reale è ciò che, più di ogni altra cosa, accomuna davvero quelle tre entità mitiche - e sia pure diversamente mitiche - che sono le sirene, Ulisse ed Omero. Infatti anche quest’ultimo appare per molti versi assimilabile ai personaggi dei poemi che la tradizione gli attribuisce: «Come gli antichi hanno sempre saputo, l’esistenza di Omero poeta è mitologia, come partecipa della mitologia il leggere Omero»(14). Chi legge l’Odissea può percepire le vicende narrate come irreali, ma può ugualmente - come infatti avviene da un buon numero di secoli - farsi catturare nello spazio della finzione, fino a interrogarsi e fantasticare su simili eventi. Fra questi l’incontro di Ulisse con le sirene è stato e continuerà ad essere uno dei più suggestivi, specie per quei particolari lettori (ricettivi, ma inclini a reinventare) che sono gli scrittori.
Tratto da: Giuseppe Zuccarino, Da un’arte all’altra, Novi Ligure (AL), Edizioni Joker, “Materiali di Studio”, 2009.
Note
(1) Rainer Maria Rilke, L’isola delle sirene (1907), in Nuove poesie - Requiem, tr. it. Torino, Einaudi, 1992, p. 203.
(2) Franz Kafka, Il silenzio delle sirene, in Racconti, tr. it. Milano, Mondadori, 1970, pp. 428-429.
(3) Lo si veda in F. Kafka, Il silenzio delle sirene. Scritti e frammenti postumi (1917-1924), tr. it. Milano, Feltrinelli, 1994, pp. 44-46 (da cui si cita).
(4) F. Kafka, lettera a Robert Klopstock del novembre 1921, in Lettere, tr. it. Milano, Mondadori, 1988, p. 430.
(5) Cfr. F. Kafka, Un incrocio (1917, ma pubblicato postumo nel 1931), in Racconti, cit., pp. 422-424.
(6) M. Blanchot, Le chant des Sirènes, I. La rencontre de l’imaginaire, in Le livre à venir, Paris, Gallimard, 1959; 1986, p. 9 (tr. it. Il canto delle Sirene, I. L’incontro con l’immaginario, in Il libro a venire, Torino, Einaudi, 1969, p. 13).
(7) Per tutte le citazioni, cfr. ibid., pp. 10-14 (tr. it. pp. 13-16).
(8) M. Foucault, La pensée du dehors (1966), Montpellier, Fata Morgana, 1986, pp. 41-42 (tr. it. Il pensiero del fuori, Milano, SE, 1998, pp. 43-44).
(9) Ibid., p. 42 (tr. it. p. 44).
(10) Ibid., p. 44 (tr. it. p. 45).
(11) Omero, Odissea, XII, vv. 184-191, tr. it. Torino, Einaudi, 1963; 1984, p. 339.
(12) I. Calvino, I livelli della realtà in letteratura (1978), in Una pietra sopra (1980); ora in Saggi, Milano, Mondadori, 1995, p. 396.
(13) I. Calvino, Le Odissee nell’Odissea (1981), in Saggi, cit., pp. 888-889.
(14) Giorgio Manganelli, Omero: Odissea (1981), in Laboriose inezie, Milano, Garzanti, 1986, p. 18.
IL CANTO DELLE SIRENE: CON ULISSE, OLTRE SCILLA E CARIDDI, OLTRE LE COLONNE D’ERCOLE.
A SCUOLA DA CICERONE, PER COMPRENDERE MEGLIO L’ODISSEA DI OMERO E LA COMMEDIA DI DANTEALIGHIERI... E USCIRE DAL LETARGO. Alcuni appunti...
A) "IL SOMMO BENE E IL SOMMO MALE": "C’è, innato in noi, un amore così grande della conoscenza e della scienza che nessuno può dubitare che la natura umana sia spinta verso queste cose senza essere allettata da alcun guadagno. [...] E a me sembra senz’altro che Omero abbia visto qualcosa di questo genere in quei versi che ha composto sui canti delle Sirene. E infatti sembra che non fossero solite richiamare coloro che passavano di lì grazie alla soavità delle voci o ad una certa novità e varietà del canto, ma poiché dichiaravano di sapere molte cose, cosicché gli uomini si incagliavano ai loro scogli per bramosia d’imparare. Così infatti invitano Ulisse. [...].
Omero vide che la storia non poteva essere accettata, se un uomo tanto grande fosse trattenuto, irretito da delle canzonette; (le Sirene) promettono la scienza, che non era sorprendente che fosse più cara della patria ad un (uomo) desideroso di sapienza. E desiderare di conoscere tutte le cose, quali che siano, deve essere ritenuto proprio dei curiosi, invece essere condotti tramite la contemplazione delle cose più grandi al desiderio della scienza deve essere ritenuto proprio degli uomini sommi."(Cicerone, "De finibus bonorum et malorum", V, 18).
B) LA "FEMMINA BALBA" E LA "DOLCE SIRENA" E IL BRUSCO RISVEGLIO DAL SONNO DOGMATICO: LA DIVINA COMMEDIA. Con l’aiuto della memoria della figura paterna (Virgilio) e della figura materna (Beatrice), la donna "santa e presta", Dante Alighieri riesce a portarsi oltre le illusioni del "sommo bene" e del "sommo male" e a proseguire il suo viaggio al di là dell’inferno e del #purgatorio, verso la sua piena rinascita e fuori dallo "stato di minorità" (Kant):
* STORIA E LETTERATURA: MARIA CORTI, “IL CANTO DELLE SIRENE".
Maria Corti: Il canto delle sirene e la Santa Sapienza
di Giovanna Di Marco *
Il canto delle sirene di Maria Corti è un’opera che venne pubblicata nel 1989 per Bompiani con prefazione di Cesare Segre, che dichiarò l’imprescindibile importanza dell’elemento strutturale all’interno del testo: una struttura che “si rivela persino nei numeri com’è giusto per una medievalista”. I capitoli che compongono l’opera ci presentano vari dialoghi tra le sirene, alternati a dei racconti. L’ultimo è di carattere autobiografico.
Il primo, invece, ci porta in una Puglia - terra a cui Corti fu legatissima - medievale e ha come titolo Il silenzio della sirena: un richiamo a Kafka, confermato dalla citazione esplicita. Il protagonista della storia è Basilio, un pittore inquieto, ben lontano da una visione medievale dell’artista: riproduttore, a quel tempo, di canoni, legato a testi, quasi sempre sacri. Basilio invece è un artista romantico: è deracine, irregolare, quasi maledetto; ama una ragazza, Cosima, e per questo non è ben visto dal padre di lei, che la vorrebbe maritata a un ricco, certamente a un uomo più conformista. Ma Basilio, che crede nelle sirene e che ogni tanto, in mare, sente delle strane voci, non si accontenta di quell’unico amore terreno, è proprio attratto da un’altra forma di tensione, quella creativa. E per questo ne soffre: “La creazione non ha felicità; te lo nasconde per un po’ di tempo, poi lo scopri da te. Ma tale conclusione non era terrificante; gli dava solo una gran voglia di scendere al molo, staccare la barca e andare al largo. Era un po’ come viaggiare verso un ignoto”.
Basilio è consapevole dell’esistenza di una seduzione intellettuale, che, nella sua accezione etimologica - del condurre fuori di sé - possa portarlo alla perdizione: “Credo che qualcosa possa sedurre le mente dell’uomo e incantarlo sino a farlo morire. Questo sì”.
Questa inquietudine è il terreno fertile dove possa sbocciare e prendere corso l’ispirazione, il furor poetico, in quanto creativo, che si concretizza in una prima immagine, la celebre iconografia dell’eroe Ulisse, rapito dal canto delle sirene, sofferente ma legato, che sfida questi esseri attraverso gli espedienti della ragione, quei lacci che lo avvinghiano all’imbarcazione: “Ulisse legato all’albero maestro grida, comanda che lo sciolgano, anche se il suo grido sul cassone non ha suono; egli sprofonda nella voragine della conoscenza, che lo attrae, lo calamita e insieme gli fa orrore perché in essa si perderebbe”.
Ma arriva presto una seconda immagine, accuratamente descritta. Basilio si reca in un luogo ipogeo, fra Otranto e il casale di Uggiano, dove dei monaci possedevano delle cripte. Il giovane artista, sfidando l’idea tradizionale del sacro, preconizza una sorta di religione dell’arte, che, attraverso il dato sensibile, conduca a una forma di conoscenza più alta: “Basilio rifletté che esisteva una seconda religione, quella creata dagli affreschi e dalle tavole dipinte. Si sentì guardato da tanti occhi allungati sotto le sopracciglia arcuate”.
Ed ecco che sotto lo sguardo dei santi dipinti nella cripta, avviene il prodigio, accompagnato da una narrazione precisa del soggetto che lo turba. Si tratta di una figura di donna, la Santa Sapienza:
Sofia, in silenzio, sollecita in Basilio un’ansia: nella sua iconica solennità sta generando un meccanismo creativo che può agire soltanto su uno spirito predisposto. Da questo momento in poi, il sacro e il profano si intrecceranno, senza più distinguersi, in una mescolanza di arte e di fede, e, come già anticipato, di fede nell’arte. L’arte viene ribadita come un credo, come il viatico per il raggiungimento del sapere più sommo.
Ed ecco che entrano in gioco le sirene: “Secondo l’egumeno, le sue sette ancelle, le arti liberali sono più seducenti delle sirene”. La seduzione del canto delle sirene non è limitato dunque al turbamento erotico, ma alla smania per il sapere. Attraverso Basilio, Corti vuole dunque proporci un novello Ulisse, l’eroe dal multiforme ingegno, mosso da una hybris votata a ‘divenire del mondo esperto’. E Basilio ribadisce di avere già ascoltato delle voci in mare, quel loro canto fatale: “La mia anima è piena di curiosità [...]. In mare ne fa di tutti i colori: si lascia sedurre da grandi desideri e ode persino delle voci [...]. Qualcosa che assomiglia al canto delle sirene.”
La Santa Sapienza, che ha l’immagine di una donna, riflette la dimensione di un amore altro, quello che non si può riscontrare in un rapporto ordinario con una donna comune: Cosima, seppur amata. E la dimensione sacra e sapienziale di questa personificazione in donna ha a che fare con l’arte, anzi, è talmente sostanziale la relazione con essa, da suscitare il confronto con motivi ascetici: “Il fatto è un altro. Qualche volta a uno capita di andare oltre il punto a cui la sua mente può arrivare. Sono degli sprazzi, dei lampi. Se quella luce improvvisa fosse continua, tu ti perderesti come succede ai santi nell’estasi”.
Basilio incarna il ruolo di un antesignano maudit, in un perenne viaggio di ricerca e scoperta e, dopo questa ekphrasis, sente più vicino e convulso il richiamo verso il superamento di ogni limite: “C’era qualcosa di nascosto a cui ci si avvicinava solo con pericolo di morte e la morte nasceva da un amore speciale per questo qualcosa di nascosto, a cui si aspirava solo se si era segnati: un navigante, un poeta, un suicida. Questo diceva il canto”.
Ad accelerare la risoluzione della vicenda, arriva un’altra folgorazione, anticipata dalla visione dell’affresco della Santa Sapienza. Mosso da un orgasmico stato creativo, sarà suggestionato dall’opera pittorica di uno uomo preistorico: dentro una grotta sconosciuta vicino al mare, vedrà i suoi graffiti, mai svelati prima a uomo alcuno. Lì si confronterà, come pittore, con i lavori di un altro pittore. Quelle scene di caccia lo porranno di fronte a un abisso, un perturbamento che è la voragine del tempo. Per Basilio, lo sconosciuto pittore di cui sta scoprendo le opere sarà adamitico, sarà il primo uomo e il primo artista in preda al suo stesso furore, al mistero della mimesis e della creazione. Seguirà quindi, inesorabile, la volontà di compiere a sua volta un atto creativo: ritornare in quella grotta, sfidando il mare, per dipingere anch’egli.
Anche stavolta, nel raccontare il suo viaggio in mare, Corti farà ricorso a Ulisse. Ma non farà assomigliare Basilio all’Ulisse omerico, bensì a quello dantesco, colui che si lancia nel ‘folle volo’. Quasi ad affermare - reinterpretandolo in modo sotteso - che il personaggio dell’eroe proposto da Dante e sfuggito alle sirene la prima volta, fosse stato condotto alla morte dal loro richiamo perché esse, in fondo, incarnano la conoscenza: “La grotta mi ha sedotto, sissignore. Voglio dipingere non posso morire ora, non posso; è inconcepibile”.
Corti sembra riscrivere in prosa e in chiave moderna l’episodio del XXVI Canto dell’Inferno (Tre volte il fé girar con tutte l’acque; / a la quarta levar la poppa in suso/ e la prora ire in giù), a cui si aggiunge la citazione afferente alla montagna (del Purgatorio, in Dante): “La tempesta di tramontana spazzava terra e mare e ora la barca vorticava: si spostava in tutte le direzioni [...]. Poi sorse davanti una montagna d’acqua che la barca a fatica scalò per ripiombare di colpo dall’altra parte”.
Basilio ripercorre l’ultimo viaggio di Ulisse, come lui tracotante, perché l’arte è un gesto di tracotanza e di sfida, che mette l’artista in competizione con Dio nella creazione. Cosima, come Penelope, starà ad attenderlo invano: il debito d’amor anche per lei non varrà, perché Basilio ha osato infrangere il senso comune solitamente sposato dai più. Le sirene sono quindi, e non in modo blasfemo, da identificarsi con la Divina Sapienza ed è per questo che forse si spiega l’epigrafe iniziale, di Kafka, relativa al loro silenzio: la Santa Sapienza, immagine sulla roccia, sta lì, silente e bellissima, a turbare e a sorridere. E a suscitare la creazione.
* Fonte: Morel. Voci dall’isola, (09 marzo 2021 (ripresa parziale, senza immagini).
ULISSE/KAFKA E "IL SILENZIO DELLE SIRENE". Una storia di lunga durata...
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Sirene
di Serena Cacchioli *
Per dimostrare che anche mezzi insufficienti, persino puerili, possono procurare la salvezza.
Per difendersi dalle sirene Ulisse si empì le orecchie di cera e si fece incatenare all’albero maestro. Qualcosa di simile avrebbero potuto fare beninteso da sempre tutti i viaggiatori, tranne quelli che le sirene adescavano già da lontano, ma in tutto il mondo si sapeva che ciò era assolutamente inutile. Il canto delle sirene penetrava dappertutto, e la passione dei sedotti avrebbe spezzato altro che catene e alberi maestri! Ma non a questo pensò Ulisse, benché forse ne avesse sentito parlare. Aveva piena fiducia in quella manciata di cera e nei nodi delle catene e, con gioia innocente per quei suoi mezzucci, navigò incontro alle sirene.
Sennonché le sirene possiedono un’arma ancora più temibile del canto, cioè il loro silenzio. Non è avvenuto, no, ma si potrebbe pensare che qualcuno si sia salvato dal loro canto, ma non certo dal loro silenzio. Nessun mortale può resistere al sentimento di averle sconfitte con la propria forza e al travolgente orgoglio che ne deriva.
Di fatto all’arrivo di Ulisse le potenti cantatrici non cantarono, sia credendo che tanto avversario si potesse sopraffare solo col silenzio, sia dimenticando affatto di cantare alla vista della beatitudine che spirava il viso di Ulisse, il quale non pensava ad altro che a cera e catene.
Egli invece, diremo così, non udì il loro silenzio, credette che cantassero e immaginò che lui solo fosse preservato dall’udirle. Di sfuggita le vide girare il collo, respirare profondamente, notò i loro occhi pieni di lacrime, le labbra socchiuse, e reputò che tutto ciò facesse parte delle melodie che, non udite, si perdevano intorno a lui. Ma tutto ciò sfiorò soltanto il suo sguardo fisso alla lontananza, le sirene scomparvero, per così dire, di fronte alla sua risolutezza, e proprio quando era loro più vicino, egli non sapeva più nulla di loro.
Esse invece, più belle che mai, si stirarono, si girarono, esposero al vento i terrificanti capelli sciolti e allargarono gli artigli sopra le rocce. Non avevano più voglia di sedurre, volevano soltanto ghermire il più a lungo possibile lo splendore riflesso dagli occhi di Ulisse.
Se le sirene fossero esseri coscienti, quella volta sarebbero rimaste annientate. Sopravvissero invece, e avvenne soltanto che Ulisse potesse scampare.
La tradizione però aggiunge qui ancora un’appendice. Ulisse, dicono, era così ricco di astuzie, era una tale volpe che nemmeno il Fato poteva penetrare il suo cuore. Può darsi - benché non riesca comprensibile alla mente umana - che realmente si sia accorto che le sirene tacevano e in certo qual modo abbia soltanto opposto come uno scudo a loro e agli dèi la sopra descritta finzione.
* Nazione Indiana, 04.10.2020 (ripresa parziale, senza immagine - c.vo, fls).
Materiali sul tema, nel sito, si cfr.:
"Pietà per il mondo, venga il nuovo sapere"(M. Serres, Distacco, 1986) !!!
LA STATUA DELLA LIBERTÀ DEGLI U.S.A. - CON LA SPADA SGUAINATA: "GUAI AI VINTI"!!! LA LEZIONE DI FRANZ KAFKA, IL MAESTRO DELLA LEGGE : RIPENSARE L’AMERICA. E il sogno del "nuovo mondo"!!!
Federico La Sala
Religione.
L’Africa animista riletta col Vangelo
Cosa significa essere animisti, ma soprattutto cosa vuol dire arrivare al cattolicesimo dalla religione degli antenati. Il lucido sguardo di un africano, teologo gesuita, alla luce di papa Francesco
di Agbonkhianmeghe E. Orobator (Avvenure, martedì 17 settembre 2019)
"Animismo’ è stato ed è tuttora un’etichetta peggiorativa e dispregiativa. Nel passato e nel presente ha fornito a sociologi, storici e teologi uno strumento utile per interpretare e codificare la religione del-l’altro, in questo caso quella africana. È dimostrato che questo esercizio di interpretazione e codificazione ritrae il suo referente come primitivo e pagano. Non c’è dubbio che questo approccio sia irrazionale e riduttivo. Semplifica una realtà molto complessa. Tuttavia, accettando l’etichetta ’animista’, si può portare avanti un discorso e analizzare l’esperienza religiosa africana basata su un incontro diretto piuttosto che su stereotipi e pregiudizi. Mi interessa particolarmente esprimere un giudizio critico, ma rispettoso dei valori insiti nella religione africana, pur restando al tempo stesso fedele al Vangelo come principale depositario del messaggio cristiano.
Com’è davvero essere animista? Nel rispondere a questa domanda, lo scopo principale è delineare i fondamenti di un immaginario, di una pratica e una coscienza religiosi solitamente denigrati dai seguaci delle cosiddette religioni del mondo. Dai miei ricordi, e mentre continuo a trarre ispirazione da questa tradizione, emerge come fondamentale per l’intero sistema religioso in Africa una fede profonda nella vitalità del creato. In altre parole, questa tradizione rappresenta una profonda e intensa convinzione che nulla è privo di vita nel mio ambiente naturale, e che «esiste un potere invisibile insito in qualsiasi cosa in ogni momento». Trasposto nelle parole di papa Francesco nella sua enciclica Laudato si’. Sulla cura della casa comune, ciò significa che «ogni creatura ha una funzione e nessuna è superflua [...] Suolo, acqua, montagne, tutto è carezza di Dio» (n. 84).
Dall’albero ancestrale, chiamato ikhinmwin ( Newbouldia laevis), che sorgeva al centro della nostra proprietà, al fiume che scorreva a est della città e al turbine di vento che spesso credevamo trascinasse le persone nel mondo degli spiriti, tutto nell’immediato ambiente naturale della mia formazione trasudava forza, energia e vitalità. Difficilmente c’era qualcosa che non incutesse un certo grado di rispetto, e tutto aveva uno scopo. L’albero ancestrale era oggetto di reverenza e contrassegnava lo spazio sacro e il luogo di culto e delle pratiche rituali per la nostra fattoria.
Il premio Nobel Wangari Maathai avvalora questa credenza nell’affermare che alberi come questo sono «riconosciuti dalle comunità come punti nodali che connettono il mondo celeste con quello terrestre [...] luoghi dove risiedono gli antenati e/o i loro spiriti. Era così che consideravamo e ci riferivamo al sempreverde ikhinmwin. Una stanza delle medicine non è semplicemente la stanza di una casa, un albero non è soltanto un albero.
Non c’è da stupirsi, dunque, che oltre a collegare due mondi, costituisca uno spazio di riunione e comunione per famiglie e comunità in cui le differenze vengono messe da parte per ristabilire rapporti e connessioni fondamentali. La sua importanza sta anche nel fatto che facilita la fondamentale capacità di relazione delle dimensioni orizzontale e verticale dell’esistenza. Anche il fiume esigeva rispetto, era oggetto di venerazione da parte degli adoratori della dea dell’acqua. Il turbine di vento incuteva religioso timore.
Non era un vento come gli altri, era lo strumento degli dei. Quando successivamente sono venuto a conoscenza della dottrina della creazione nel cristianesimo e della sacralità presente nel cattolicesimo, aveva senso pensare al ’vento’, all’’alito’ o allo ’spirito’ di Dio che aleggiava sulle acque, accarezzando l’universo e risvegliando la natura alla vita all’alba della creazione (Gen 1,1). La mia visione del dominio «su ogni essere vivente che striscia sulla terra» (Gen 1,28) acquista significato da questa formazione religiosa. Da convertito al cristianesimo cattolico, come milioni di altri africani ho compiuto una transizione dalla mia fede ancestrale alla fede cristiana.
Non è un passaggio facile. Sarebbe pretenzioso sostenere che ho compiuto una rottura netta col mio passato, penso che ciò sia praticamente impossibile. Il presente è sempre impregnato del passato; da qui deriva la mia predilezione per termini come viaggio, percorso, traiettoria e pellegrinaggio quando parlo della mia esperienza religiosa. Forse sarebbe stato più facile tagliare il legame col passato se fosse consistito semplicemente in credenze, dottrine e dogmi sostituibili. Invece, era e continua a essere uno stile di vita.
E, per citare un proverbio africano, «per quante volte un leopardo attraversi il fiume, non perderà mai le macchie». Ho resistito e continuo a opporre resistenza alla concezione secondo cui il mio stile di vita africano, radicato nella fede di mio padre e animato dallo spirito di mia madre, non sia altro che una ricerca irrazionale di Dio «nelle ombre e sotto le immagini», per ricorrere a un’altra espressione negativa del documento del Vaticano II Lumen gentium( n. 16).
Il modo di vivere dei miei genitori si basava su immagini per facilitare l’incontro con un regno del mistero luminoso e tangibile; irradiava energia ed evocava mistero e rispetto, piuttosto che ombre. Allo stesso modo, non mi sento lacerato fra due tradizioni religiose. E mi rifiuto di accettare l’etichetta di ’schizofrenia della fede’ o di ’doppia mentalità religiosa’ che certi teologi regolarmente impongono agli africani che credono che Dio continui a parlare attraverso il loro stile di vita ancestrale, nonostante egli si sia rivelato in Gesù Cristo. È un’esperienza di tensione piuttosto che di divisione, di ispirazione anziché di disperazione. È una ricerca di integrazione e armonia piuttosto che un’esperienza di alienazione e conflitto.
Per questa ragione, mi sono di immenso conforto le parole di Paolo VI quando afferma che «l’africano, quando diviene cristiano, non rinnega se stesso, ma riprende gli antichi valori della tradizione ’in spirito e verità?’». Non è mia pretesa lasciar intendere che la religione africana sia un’oasi incontaminata di purezza etica. Soltanto, ritengo che etichettarla per quello che non è distorce e limita l’esperienza religiosa di milioni di persone. Sostengo quindi che la religione africana, esperienza religiosa vitale e immaginario spirituale ancora attivo in molte parti dell’Africa, possieda un vero talento in grado di rinnovare la comunità globale dei credenti.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
Dal film "Amistad", l’arringa davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti di John Quincy Adams.
Da molto abbiamo rinunciato a chiedere ai nostri antenati di assisterci
GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE. La lezione di Nelson Mandela.
Federico La Sala
“Le muse ermetiche. Esoterismo e occultismo nella letteratura italiana tra fin de siècle e avanguardia” di Mauro Ruggiero
Intervista *
Dott. Mauro Ruggiero, Lei è autore del libro Le muse ermetiche. Esoterismo e occultismo nella letteratura italiana tra fin de siècle e avanguardia pubblicato da Jouvence: quale valore culturale riveste nelle società occidentali l’esoterismo? L’esoterismo riveste nella società occidentale un valore considerevole, e questo è stato ampiamente dimostrato da vari e importanti studiosi come Antoine Faivre; Frances Amelia Yates; Brian J. Gibbons; Nicholas Goodrick-Clarke, Marco Pasi ecc. che ormai da qualche decennio si stanno occupando o si sono occupati in modo scientifico di questo argomento che troppo a lungo è stato considerato non scientifico e, in Italia, addirittura un tabù.
Ma per rendere l’idea di quanto importante e fondante sia la presenza del pensiero esoterico nella nostra società, basti citare come esempio gli studi di Wouter Jacobus Hanegraaff, professore presso l’Università di Amsterdam di “Storia della Filosofia Ermetica e Correnti Affini”, che ha affermato che accanto ai tre pilastri dell’identità culturale europea, e cioè la tradizione religiosa giudaico-cristiana, la filosofia razionalista e la scienza moderna, ve ne è un altro che, molto spesso, viene quasi completamente ignorato. Questo quarto pilastro sarebbe proprio il pensiero esoterico o, com’è stato definito più di recente in ambito accademico: l’ “Esoterismo occidentale”.
Possiamo dire senza timore di essere smentiti che dall’età ellenistica, attraverso la cabala e la magia in epoca rinascimentale, proseguendo con la naturphilosophie tedesca, Paracelso e l’alchimia, passando per la mistica e i movimenti rosacrociani del XVII secolo, la massoneria e gli ordini iniziatici del XVIII secolo, fino ad arrivare ai più moderni fenomeni dello spiritismo e delle Società Teosofica e Antroposofica, e addirittura alla New Age dei nostri giorni, le idee di scuole, movimenti esoterici e personalità a questi legate hanno esercitato molta influenza sulla società e nei diversi campi del sapere praticamente, anche se con diversa intensità, in tutte le epoche della storia dell’Occidente e senza dubbio la esercitano ancora oggi.
Questo, sia chiaro, non solo in ambito culturale e letterario nello specifico, come riportato in “Le muse ermetiche”, ma anche, è bene ripeterlo, in tutti gli altri ambiti del sapere umano, anche al di fuori di quello umanistico.
Che rapporti esistono tra l’occultismo e la letteratura italiana?
Dalle ricerche condotte da studiosi che si interessano proprio del rapporto tra esoterismo/occultismo e letteratura italiana, risulta chiara e ben documentata anche in questo contesto la frequentazione di alcuni scrittori, pensatori e poeti della nostra migliore letteratura, di ambienti legati allo spiritismo, alla magia e all’occultismo che sono sempre stati più o meno presenti e radicati nella società italiana, e non solo a cavallo tra Ottocento e Novecento come riportato in questo libro. D’altra parte gli studi italiani su questo tema si inseriscono in un ambito più ampio che riguarda i rapporti tra letteratura ed esoterismo nel contesto europeo e americano. Proprio perché il fenomeno è riscontrabile in tutte le letterature dei paesi occidentali spesso in maniera di gran lunga superiore al contesto italiano.
Forse potrà sorprendere, ma per quanto riguarda l’indagine sulle relazioni tra letteratura italiana e pensiero esoterico, uno dei primissimi studiosi ad affrontare l’argomento in Italia fu Giovanni Pascoli che, tra gli ultimi anni dell’Ottocento e i primi del Novecento, diede una interpretazione controcorrente e in chiave esoterica della “Divina Commedia” di Dante negli scritti di critica dantesca “Minerva Oscura”, “Sotto il Velame” e “La Mirabile Visione”. Questi studi di Pascoli sono da considerarsi pionieristici e, sebbene non ebbero fortuna, perché la critica non ha mai rivolto loro la giusta attenzione, aprirono la via ad alcuni studiosi che da allora cercano di portare alla luce questi rapporti tra la produzione letteraria italiana e il pensiero esoterico.
C’è tutto un filone molto interessante di lettura in chiave esoterica della “Divina Commedia” di Dante, che da Pascoli, passando per Luigi Valli e arrivando fino ai nostri giorni, mette in evidenza il sapere esoterico presunto o vero che si trova alla base di questa opera straordinaria, patrimonio della letteratura mondiale. L’interesse in Italia per lo studio accademico del pensiero esoterico nacque anche grazie all’attenzione verso l’ermetismo rinascimentale da parte di alcuni studiosi come Ferdinando Gabotto (1866-1918), Paul Oscar Kristeller (1905-1999), ed Eugenio Garin (1909-2004) sulle base delle cui ricerche, nel 1964, Frances A. Yates pubblicò il suo “Giordano Bruno e la Tradizione Ermetica” che portò questo genere di studi all’attenzione dei ricercatori internazionali.
Bisogna però sottolineare come in Italia l’interesse per quello che riguarda nello specifico i legami tra letteratura e pensiero esoterico, nonostante l’abbondanza di materiale e le numerose evidenze, siano stati a lungo ignorati, e i primi studi sull’argomento devono essere considerati in parte pionieristici ed “eretici”, al contrario, invece, di quanto accaduto in altri paesi in cui il tema è studiato da più tempo e senza pregiudizi. Le ragioni di questa mancanza di interesse sono state sia di tipo metodologico (non dimentichiamo, ad esempio, che già Giovanni Gentile aveva ignorato le opere magiche di Giordano Bruno e, più in generale, la componente magica del suo pensiero), sia di tipo - se possiamo dire così - “politico”, ma da quando qualche studioso ha scoperchiato il “vaso di Pandora”, non è stato più possibile ignorare questo aspetto della cultura e della letteratura che mette in discussione molti vecchi stereotipi e concezioni che per troppo tempo hanno impedito una presa di coscienza totale del fenomeno anche in Italia.
Crediamo di poter affermare, ormai senza temere di cadere in errore, che l’esoterismo e l’occultismo abbiano dato un impulso particolarmente importante alla produzione letteraria italiana soprattutto in quel contesto sociale e culturale in cui era sentito forte il bisogno di un umanesimo alternativo a quello di stampo prettamente cristiano che dalla nuova generazione di intellettuali italiani era percepito spesso come inadeguato e limitante. La presenza importante del pensiero esoterico nella poesia, nella narrativa e persino nelle riviste letterarie, che molto impulso diedero alla diffusione di nuove idee in ambito filosofico e alla divulgazione di tanta letteratura straniera in Italia, è forse l’aspetto più interessante di questo fenomeno e testimonia una rivoluzione culturale i cui effetti sono, per certi aspetti, visibili e in atto ancora oggi.
In che modo, nel periodo a cavallo tra Ottocento e Novecento, si ebbe in Italia un intreccio particolarmente fecondo tra letteratura e pensiero esoterico?
Per quanto riguarda nello specifico la letteratura a cavallo tra Ottocento e Novecento, c’è da dire che anche in Italia le avanguardie letterarie e artistiche avevano cercato ispirazione nel mondo delle scienze occulte e nelle idee promosse in particolare dalla teosofia, dall’antroposofia, dalla massoneria, dal martinismo ecc., dottrine e organizzazioni particolarmente attive e influenti nella vita culturale del tempo. In un momento di profondi cambiamenti sociali e culturali, gli intellettuali italiani si sentirono chiamati a un impegno maggiore all’interno della società per favorire l’affermazione di nuovi valori, diversi da quelli che avevano caratterizzato la cultura europea fino a tutto il secolo precedente. Questi ideali miravano ad aprire all’uomo una dimensione nuova dell’essere che permettesse, oltre che a svincolarsi dai moralismi e dalla cultura del passato, anche uno sviluppo di quelle potenzialità latenti dell’essere umano, di quelle facoltà che tendevano a sfuggire alle indagini della scienza classica e che potremmo definire “magiche”.
Il pensiero esoterico, pur non negando necessariamente il cristianesimo, metteva in risalto l’idea dell’essere umano come un essere non compiuto, che porta nella sua essenza la possibilità di uno sviluppo ulteriore; una evoluzione in potenza capace di condurlo a un livello superiore di coscienza nel quale si avrebbe accesso a facoltà nuove e speciali poteri della mente latenti allo stato di sviluppo attuale. Non ci vuole molto dunque a capire da dove, ad esempio, un movimento come il Futurismo abbia potuto attingere alcune delle sue idee fondamentali.
E ricordiamo, a tal proposito, uno studio importante di Simona Cigliana “Futurismo Esoterico” (La Fenice 1996) che è una delle prime ricerche sistematiche su questo argomento in Italia. La presenza dell’esoterismo, dell’occultismo e del fantastico nella letteratura italiana sono probabilmente la prova più evidente di quel passaggio epocale che interessò tutti gli ambiti del sapere, in Italia e non solo, nel periodo esaminato; quel passaggio cioè da una visione del mondo di tipo teocratica a una di matrice antropocentrica che mise in discussione ancora una volta il posto dell’uomo nell’universo e che manifestò i suoi effetti nella società e nella cultura dell’epoca. Se dunque l’Esoterismo Occidentale è parte del patrimonio culturale della nostra civiltà, essendo la letteratura da sempre espressione tra le più immediate e dirette della cultura di una società e di un’epoca, ne deriva necessariamente che letteratura ed esoterismo debbano inevitabilmente entrare in contatto in qualche momento del loro sviluppo storico. Naturalmente lo stesso discorso vale anche per le altre branche del sapere, e anche su queste, infatti, esiste ormai una non trascurabile e interessante letteratura scientifica.
Gli ultimi decenni dell’Ottocento e i primi del Novecento costituiscono, come era già accaduto in altri momenti nella storia del pensiero in Italia, proprio uno di quei punti di intreccio tra cultura esoterica e cultura “ufficiale” i cui effetti è possibile oggi analizzare senza pregiudizi. Un intreccio tra questi due rami del grande albero della conoscenza umana il cui contatto ha generato stimoli nuovi sia in ambito culturale sia sociale e che hanno dato nuova energia allo sviluppo del pensiero e all’evoluzione culturale dell’essere umano.
Quali autori e intellettuali si interessarono alla dimensione occulta della realtà e con quali esiti?
Moltissimi, alcuni dei quali “insospettabili”, visto che a scuola non ce lo aveva detto mai nessuno. Tra gli autori più noti basti citare Luigi Capuana che da subito si interessò al dibattito scientifico sui fenomeni medianici che giocarono un ruolo molto importante nell’ambito della sua produzione letteraria. Capuana fu assiduo lettore di Kardec e dell’occultista Eliphas Lévi e partecipò spesso agli eventi organizzati dalla Società di Studi Psichici di cui fu membro onorario. Amico di Capuana e conoscitore di “cose occulte” fu Luigi Pirandello che risentì delle suggestioni occultiste, soprattutto dello spiritismo e della teosofia, nella sua produzione artistica; suggestioni particolarmente chiare in molte delle sue opere. Negli scritti pirandelliani, infatti, abbondano fantasmi, fenomeni inspiegabili, strane presenze e molti altri elementi attinti sia dal giacimento della cultura popolare e dal folklore della sua terra, la Sicilia, sia dai suoi studi e dalle esperienze personali riguardo le caratterizzazioni che l’Esoterismo Occidentale assunse nel periodo in cui lo scrittore operò e cioè, in modo particolare, lo spiritismo e la teosofia di matrice blavatskyana.
Poi c’è Antonio Fogazzaro che è stato il primo ad introdurre in un romanzo italiano il tema della reincarnazione, e che fu considerato dalla chiesa alla stregua di un eretico per via della sua apertura verso il mondo occulto che non solo non vedeva in contraddizione con l’insegnamento cristiano, ma addirittura considerava un completamento di questo. Possiamo poi menzionare Matilde Serao che è stata tra le prime a rendersi conto dell’apertura di alcuni intellettuali del suo tempo a una visione metafisica della realtà, in un’epoca dominata dal positivismo anche in ambito letterario. Tutti quelli menzionati, e molti altri, furono intellettuali coinvolti in quel fenomeno di “Rinascenza dell’anima” che, nato in opposizione alla cultura positivista, può essere riconosciuto come un punto essenziale per lo studio dell’influenza del sapere esoterico sulla cultura letteraria del tempo.
Una prova molto importante dell’influenza dell’esoterismo sulla letteratura italiana dell’epoca va poi ricercata nell’editoria, soprattutto, nelle riviste letterarie fiorentine del primo Novecento, dove la presenza della cultura esoterica è particolarmente chiara. Riviste come “Leonardo”, “La Voce”, “Lacerba” e “L’Italia futurista”, tanto per fare qualche nome. Poi c’è la presenza del pensiero esoterico nella poesia, visibile nella poetica crepuscolare, in Giovanni Pascoli, Gabriele D’Annunzio, Trilussa, Quasimodo... e in poeti considerati minori come Girolamo Comi, Arturo Onofri e Nicola Moscardelli tre scrittori uniti tra loro da legami sia intellettuali sia “esoterici” per via delle frequentazioni comuni di gruppi e circoli esoterici presenti in Italia in quegli anni.
Ma l’elenco non finisce di certo qui, e potremmo menzionare ancora scrittori e artisti come Raoul Dal Molin Ferenzona, Gian Pietro Lucini, Enrico Cardile... tutte personalità legate al mondo dell’esoterismo, nelle cui opere vi è traccia chiara di questa influenza. C’è poi tutto un discorso da fare sui molti autori legati più o meno direttamente all’ambito della massoneria, e all’aspetto di questa che si rifà al pensiero esoterico, e nel libro ci si è soffermati su Giosuè Carducci, Giovanni Pascoli, Giuseppe Chiarini, Salvatore Quasimodo, Ulisse Bacci... la cui iniziazione è documentata, ma anche su autori per i quali, sebbene non esistano prove certe della loro appartenenza alla massoneria, è possibile tuttavia rintracciare nelle loro opere elementi di chiara ascendenza massonica, come nel caso di Gabriele D’Annunzio, Carlo Collodi ed Edmondo De Amicis.
Mauro Ruggiero (Salerno, 1979) è saggista, giornalista e scrittore. Si è laureato in Filosofia presso l’Università degli studi di Salerno e ha conseguito poi un’altra laurea in Lingua e Cultura Italiana per Stranieri a Pisa. Vive a Praga dove ha ottenuto un PhD in Lingue e letterature romanze all’Università Carlo IV. In Repubblica Ceca ha insegnato nei licei e all’università e lavorato a lungo come bibliotecario dell’Istituto Italiano di Cultura (Ufficio culturale dell’Ambasciata d’Italia). Attualmente è l’amministratore dell’Istituto e si occupa anche dell’organizzazione di eventi culturali per la promozione della cultura e della lingua italiana, e per lo sviluppo dei rapporti culturali tra l’Italia e la Repubblica Ceca. Inoltre è consulente accademico della “Czech Academic City” di Erbil, nel Kurdistan iracheno, dove si reca spesso per tenere seminari e per la supervisione del progetto di realizzazione della biblioteca universitaria del campus. È fondatore e direttore della rivista di cultura online www.cafeboheme.cz
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Fonte: Letture.org
Universiadi: De Luca, mascotte? Partenope
Scelta una sirena per la manifestazione che prende via 3 luglio
di Redazione ANSA NAPOLI *
(ANSA) - NAPOLI, 20 MAR - "La Sirena Partenope è uno dei simboli gentili, belli e storicamente significativi di Napoli. Mi pare che abbiamo imboccato la strada giusta". Lo ha detto il presidente della Regione Campania, Vincenzo De Luca, annunciando la scelta come mascotte per l’Universiade di Napoli della sirena che per la leggenda sarebbe morta nelle acque in cui oggi sorge Castel dell’Ovo, uno dei simboli del capoluogo partenopeo. La scelta dopo che nei mesi scorsi erano state bocciate diverse soluzioni, tra cui quella di un Pulcinella.
* ANSA NAPOLI 20 marzo 2019 (ripresa parziale - senza immagine).
Il serpente
di Roberto Mussapi (Avvenire, martedì 8 gennaio 2019)
«Sulla beltà s’accanisce/ E di che prede gioisce/ Crudele: Eva Euridice/ Cleopatra-e/ ne so ancora due o tre». Versi giocosi, questi di Guillame Apollinaire, importante poeta francese (di sangue polacco) del primo Novecento. In un poemetto orchestrato su poesie brevi come quella che qui leggiamo, un intero mondo animale si racconta, dalla capra del Tibet al gatto, dalla pulce al cavallo. E in questa specie di Arca Noè, in questo poemetto intitolato Canzoni per le Sirene, una sorta di incanto svela con semplicità ed eleganza verità sapienziali. Di colpo ci rendiamo conto di come il serpente sia sempre associato alla bellezza femminile, alla bellezza di donne leggendarie. Eva è tentata dal serpente, e da quel momento ha inizio una storia che muta il mondo. Euridice, la giovane sposa di Orfeo, il poeta e cantore che affascina ogni creatura, muore appena morsa da un serpente: e da quella morte nascerà la straordinaria storia d’amore del poeta che scende all’Ade per riportare in vita, alla luce, la donna amata. Cleopatra è la splendida regina di un impero ormai decadente, l’Egitto dei Faraoni e delle divinità auree e solari: e la sua storia, la relazione amorosa con un potente triumviro del nascente impero romano, che coincide con un cambiamento del mondo, la porterà al suicidio con un aspide. Serpente, fatale.
BENI CULTURALI: SIRENE "CON DUE CODE" (AD EBOLI E A CONTURSI). Una lettera-sollecitazione a...
Ch.ma Direzione
viste le preziose foto dell’ Archivio Digitale, relative alla condizione dei portali dei Palazzi nobiliari del Centro storico (specialmente del Palazzo Palladino e del Palazzo Campagna del XVI sec. - si cfr.: http://www.eboliarchiviodigitale.it/immagine.do?codiceimmagine=44693, - http://www.eboliarchiviodigitale.it/immagine.do?codiceimmagine=44690),
nel tentativo di richiamare l’attenzione sull’importanza della salvaguardia di questi "documenti" del patrimonio artistico e culturale del nostro territorio (a Eboli ho frequentato il Liceo classico - "Enrico Perito"), Le allego la foto di una sirena sopravvissuta sul portale di un vecchio Palazzo dello stesso periodo (XVI sec. ca.) del paese dove sono nato, Contursi Terme (si cfr.: http://comune.contursiterme.sa.it/index.php?action=index&p=310).
Ricordando che Giordano Bruno (con Tommaso Campanella è stata figura decisiva del periodo storico e dell’orizzonte culturale del tema oggetto dei "documenti" presenti nei nostri Paesi) era di casa a Campagna, per meglio chiarire il "tono" e il senso della mia sollecitazione, allego un testo con vari materiali sul tema: cfr. :
RITROVAMENTO DI SIRENE (E SIBILLE) NELLA CITTÀ DI CONTURSI TERME (SALERNO). Un’occasione per ripensare tali figure della tradizione culturale europea. - http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5388.
Nella speranza che "Ulisse" questa volta non resti al "palo" e, viste le condizioni delle "sirene", intervenga attivamente e positivamente in loro aiuto, colgo l’occasione per augurarLe un buon lavoro e porgerLe i miei più
cordiali saluti,
Federico La Sala
PORTALI DI PIETRA. Il centro antico di Eboli ha un impianto di matrice cinquecentesca....
CRISTO ED EDIPO: LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Un omaggio al lavoro del prof. Romeo De Maio ...
Recensioni editoriali
Enigma per due: si dice Sfinge, si pensa a Cristo *
È molto presente e non se ne fa accorgere. Sta nelle cattedrali, sui frontespizi degli edifici delle istituzioni, nei dipinti e nelle sculture, nelle illustrazioni dei codici, della Bibbia, nei poemi, nell’inafferrabilità delle migliori musiche. È la Sfinge, questo essere che noi umani chiamiamo mostruoso perché ha artigli al posto delle mani e lo sguardo non sfuggente. Ti guarda, lei, trapassandoti in un attimo, ti consegna al mistero, ai suoi abissi che si fanno domanda, e probabilmente fu proprio quell’attimo che, dieci anni fa, colse lo storico Romeo De Maio nella cattedrale di Bari quando, per la prima volta, si accorse della Sfinge rappresentata sulla finestra absidale del Duomo. C’era stato molte volte, lì, non l’aveva scorta mai. Dietro di lei, raffigurata sopra un carro, i simboli dell’eucarestia. Fu una folgore. Che cosa univa il pagano al sacro? E perché?
Cominciò in quel momento, per lui, “un’esperienza molto simile al poeta Theodor Däubler, che andò in Egitto per la Sfinge e le trovò Cristo accanto”. I risultati di quell’esperienza sono il libro “Cristo e la Sfinge - la storia di un enigma” (Mondadori, 350 pagine), in libreria. Negli ultimi dieci anni De Maio è andato in giro per il mondo (occidentale soprattutto) alla ricerca delle testimonianze che affiancano la Sfinge al Cristianesimo.
Perché? ” Il motivo fu l’impressionante creazione-incisione di Nicolas Poussin, pittore francese dimorato a Roma, per la copia della Bibbia destinata al re di Francia, nel 1642. Il pittore la intitolò “Chiesa e Sinagoga”, e raffigura il Dio Padre che benedice il Vecchio e il Nuovo Testamento. Sulla Bibbia tenuta in mano dal Vecchio c’è, distesa, una Sfinge che guarda da tutt’altro lato, verso est, dove sorge il sole”.
È solo un esempio dei migliaia ritrovati dall’autore. Testimonianze che non si riferiscono all’ufficialità dei documenti nel senso di rogiti, nel senso di carte bollate, nel senso di trattati con le firme apposte in calce. È questo uno dei rari casi in cui si elevano a documento storico, e dunque attendibili come una data con sopra il timbro dell’ufficialità, le espressioni degli artisti. Pittori, scultori, architetti, poeti. Teologi. Musicisti. Dicono la Storia, i suoi limiti, le sue possibilità. Le fanno i connotati.
Donatello, Bernini, Michelangelo, Klimt, De Chirico, Purcell, Giovanbattista Marino, Oscar Wilde, Mantegna, Stravinskij, Kirker, Pico della Mirandola, Cocteau, Mozart, l’abate Kirker, Flaubert. “L’artista - dice De Maio - ha la visione, l’intuizione al pari del Vate. Queste sono indispensabili, fondamentali per la conoscenza. Io ho sottoposto le creazioni artistiche alle regole della filologia e al rispetto dell’esperienza mistica”. In loro la Sfinge non è mai elemento ornamentale. Sia essa alla base di un trono gestatorio, sia riferimento poetico, sia nella scenografia di una rappresentazione teatrale. Così le madonne vegliate dalla Sfinge, da essa protette, i volti spesso uguali: i rimandi poetici, le allusioni cromatiche, la disposizione degli elementi. “Quando gli artisti la dipingono, anche su commissione papale, è per far aprire gli occhi agli ecclesiastici. Per svolgere un mistero, avviare una conoscenza non dogmatica”.
Più di tremila testimonianze ha trovato De Maio, ignorate dalla Chiesa in questi tremila anni. Come dire: volutamente non considerate. Perché è pericoloso ammettere quelle che oggi il linguaggio contemporaneo definirebbe contaminazioni. Perché il Potere Temporale, la sua Legge, non ammette altro Dio. Come avrebbe mai potuto accettare la presenza, accanto al figlio del Padre, accanto alla Madre del Figlio, lo sguardo misterioso e definitivo del simbolo pagano per eccellenza, che ha ispirato il mito tra i più antichi dell’uomo ed esplorati dalla psicanalisi nel secolo appena trascorso, con Freud che ha posto Edipo, e la profezia che a lui fece la Sfinge, tra noi e la vita che conduciamo?
De Maio considera “rivoluzionario” questo lavoro, questo lavoro, il suo “testamento anticipato. Lo avrei potuto anche intitolare “Cristo prima del Cristianesimo”. La Sfinge ci porta verso l’aspetto mistico dell’uomo, di Cristo; aspetto non considerato dal Potere Istituzionale Ecclesiastico nella sua nuda verità”. È un nuovo senso, una nuova possibilità vista da altro punto di vista. Una visione allargata e non ristretta. Senza inquisizioni. Che si apre alla domanda. Basta questa, vuole dirci De Maio, per avere la risposta.
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Fonte: Esonet.org, 14.05.2010
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
IL PROBLEMA MOSE’ E LA BANALITA’ DEL MALE: FREUD NELLA SCIA DI KANT (MA NON DEL TUTTO).
LA CHIESA DEL SILENZIO E DEL "LATINORUM". Il teologo Ratzinger scrive da papa l’enciclica "Deus caritas est" (2006) e, ancora oggi, nessuno - nemmeno papa Francesco - ne sollecita la correzione del titolo. Che lapsus!!! O, meglio, che progetto!!!
RINASCIMENTO ITALIANO, OGGI: LA SCOPERTA DI UNA CAPPELLA SISTINA CON 12 SIBILLE.
Federico La Sala
LA SIRENA: SOLTANTO UN MITO? Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Roma, Sala Venere
LA SIRENA: SOLTANTO UN MITO?
Nuovi spunti per una storia della medicina fra mito, religione e scienza
14 giugno-30 settembre 2018
Museo Nazionale Etrusco di Villa Giulia, Sala Venere (sala 25), primo piano
La mostra.
Fede e sirene: gli Etruschi che non t’aspetti
di Roberto I. Zanini (Avvenire, mercoledì 8 agosto 2018)
Da un singolare ex voto anatomico del III secolo a.C. che rappresenta un uomo affetto da sirenomelia ha origine una mostra a Villa Giulia sul mito dell’antichità
Al principio erano geni della morte come le Keres e le Erinni, esseri temibili come le Arpie, che il mondo antico considerava morti senza pace (un po’ come i nostri zombie) e desiderose di sangue umano. Stiamo parlando delle Sirene di cui racconta Omero: donne con ali di uccello e dal canto ammaliante, che tentano di sedurre Ulisse per poi perderlo, come è dipinto in un famoso vaso attico del V secolo a.C conservato al British Museum.
In epoca più tarda si narra di una di esse, di nome Partenope, che muore suicida in mare per essere stata rifiutata dall’eroe; le onde la rigettano alla foce del Sebeto, dove in seguito nasce una città chiamata, appunto, Partenope e poi Neapolis. Da quelle parti, sulla penisola di Sorrento, sorgeva anche il Tempio delle Sirene.
Tutto questo per dire, e non sembri strano, che le Sirene con corpo di donna e coda di pesce in stile Andersen ( La sirenetta è del 1837), rese romanticamente immortali dalla statua nel porto di Copenaghen (1913), hanno origine solo nel primissimo Medioevo, mentre in epoca antica gli esseri per metà uomo e metà pesce erano maschi e si chiamavano Tritoni. Di essi esistono tante testimonianze artistiche, anche coeve al citato vaso del British, come un’anfora etrusca con ’Tritone fra i pesci’ del VI secolo a.C e un’anfora attica dello stesso periodo, proveniente da Cerveteri, con ’Eracle in lotta col tritone’, entrambe a Villa Giulia a Roma.
Di fatto, il primo riferimento certo alle Sirene così come sono nel nostro immaginario è un manoscritto dell’VIII secolo, il famoso Liber Monstrorum, una sorta di bestiario in cui compare un disegno che le descrive come donne avvenenti e anfibie. Delle Sirene e della loro storia mitologica si è tornati a parlare in queste settimane grazie a una piccola ma efficace mostra allestita nel Museo nazionale etrusco di Villa Giulia a Roma.
La collocazione la si deve a un curioso reperto etrusco del III secolo a.C. conservato in quel museo, che costituisce un singolare tipo di ex voto (trovato a Veio) e che era sempre stato interpretato quale grossolana rappresentazione in terracotta della parte inferiore del corpo di un essere umano di sesso maschile. Quando però quest’anno, in occasione del decennale della Fondazione sanitaria San Camillo-Forlanini di Roma, si è pensato di allestire una mostra a Villa Giulia, insieme al Museo di storia della medicina della Sapienza, per raccontare l’arte medica antica partendo dai ritrovamenti archeologici di ex voto anatomici, ecco che il ’grossolano’ reperto proveniente da Veio è stato rivalutato ed è divenuto il simbolo stesso dell’iniziativa.
Nel vederlo, infatti, Alessandro Aruta, direttore del Museo storico della medicina, ha subito compreso che non si trattava di una riproduzione approssimativa, ma verosimile del corpo di un uomo affetto da ’sirenomelia’. Una malattia genetica rarissima, che di solito colpisce il sesso femminile, per la quale gli arti inferiori restano saldati, assumendo, in alcuni casi, una vera e propria forma a coda di pesce o, meglio, di cetaceo. Di solito i bambini nati con questa deformazione hanno vita brevissima e sono incurabili. Recentemente si è tentata la terapia chirurgica, che come nel caso di una bambina peruviana, Milagros Carron, nata nel 2004, può avere esito risolutivo dopo innumerevoli interventi.
La scoperta di Aruta, dicevamo, ha dato il taglio alla mostra che si intitola La Sirena: soltanto un mito? Nuovi spunti per la storia della medicina fra mito, religione e scienza (fino al 30 settembre), col progetto scientifico, oltre che di Aruta, di Maria Paola Guidobaldi, responsabile dell’Ufficio mostre e del Servizio per la conservazione di Villa Giulia (ad ’Avvenire’ ha detto di avere in programma entro l’anno una retrospettiva in chiave etrusca dell’opera di Mario Schifano per i 20 anni dalla morte), Claudia Carlucci, Maria Anna De Lucia Brolli e Francesca Licordari.
Allestita nella Sala Venere del Museo propone ex voto anatomici, vasi con decorazioni di sirene, strumenti medici e chirurgici d’epoca romana, interessanti supporti storici in schede e immagini con riferimenti ad altre malattie rare che gli Etruschi (popolo particolarmente religioso) consideravano, rispettandole, prodigiose e soprannaturali. Fra le riproduzioni anatomiche trovate in scavi etruschi, oltre alla già citata terracotta proveniente da Veio, sono interessanti alcuni uteri offerti a divinità salutari per ottenere la grazia di avere figli o in ringraziamento per averne avuti. Uno di questi, in particolare, risalente al III secolo a. C. e proveniente da Vulci, testimonia di una positiva ed evoluta concezione della vita: rappresenta un utero aperto con all’interno due minuscoli embrioni.
Ci sono anche alcuni amuleti di origine egizia (attraverso i fenici esistevano intensi scambi commerciali fra le popolazioni tirreniche, l’Egitto e la Grecia) utilizzati a protezione dei nani.
Per identificare queste ’malformazioni’ gli etruschi usavano parole derivate dalla radice ter col significato di ’prodigioso’, la stessa del termine greco teras (mostro), forse successivo. Lo si è scoperto da scavi effettuati nell’area sacra di Tarquinia col ritrovamento del cosiddetto ’bambino encefalopatico’ sepolto nel IX secolo a.C. accanto a una cavità naturale, fulcro dell’area sacra e luogo dell’identità della città stessa.
Da quella cavità, infatti, si narrava fosse nato Tagete, il bimbo divino con sembianze di vecchio (la malattia si chiama ’progeria’ ed è la stessa del film Il curioso caso di Benjamin Button) che aveva insegnato le discipline divinatorie a Tarconte, fondatore di Tarquinia.
Dalle indagini del laboratorio di antropologia forense della Statale di Milano è emerso che quel bimbo del IX secolo a.C., morto a otto anni, era affetto da una encefalopatia che certamente causava epilessia, con manifestazioni considerate sacre per molto tempo a seguire e a tal punto che è stata trovata un’iscrizione etrusca su una coppa attica (gli Etruschi erano amanti degli oggetti in terracotta di manifattura greca), sepolta in quel luogo tre secoli dopo, con la parola terela, cioè ’relativo a colui del prodigio’. L’accettazione e l’interesse degli Etruschi per le malformazioni genetiche è testimoniato, fra l’altro, anche dalle pitture della famosa Tomba François di Vulci dove accanto al titolare del sepolcro, Vel Saties, compare un nano acondroplasico, di nome Arnza, in una scena di divinazione. Ed è l’epoca in cui a Roma, così come in Grecia, simili persone venivano crudelmente soppresse alla nascita.
LE SORELLE GHISINI E MELUSINA: TECNOLOGIA E LEGGENDA
di Anna Preianò *
GHISA A MILANO
La ghisa è una lega di ferro e carbonio. Detta “ferraccio” fino all’Ottocento, perché di peggior qualità rispetto all’acciaio dolce, presenta alcuni notevoli vantaggi: economica nella produzione e resistente all’usura, anche del tempo, permette di realizzare forme complesse mediante un semplice processo di fusione. A Milano, la parola “ghisa” è polisemica: è usata per denominare in modo familiare i vigili urbani, ma il motivo non è chiaro. Secondo alcuni, il colore nero dell’uniforme ricordava i getti di ghisa allo stato liquido, mentre altri pensano allo stemma di ghisa applicato sul caschetto. L’origine più probabile, però, è quella che fa risalire il soprannome al cappello a cilindro grigio indossato dai vigili nel 1860: la forma alta e il colore assomigliavano ai tubi di ghisa delle stufe (canón de stua, “canna da stufa”). Oltre ai “ghisa”, a Milano ci sono le “sorelle ghisini”: quattro sirene incantatrici che oggi si possono vedere al parco Sempione. Prima di raccontare la loro storia, è interessante soffermarsi a considerare che l’Ottocento fu un secolo di sperimentazioni nell’uso di nuovi materiali e tecnologie anche in ambito architettonico, il cui culmine e simbolo universale è la Torre Eiffel, costruita in due anni, in tempo per l’Expo inauguratasi a Parigi nel 1889.
SPERIMENTAZIONI CON IL FERRO: PASSAGGI E PONTI
La Torre Eiffel è in ferro, così come in ferro sono le prime costruzioni in metallo, per esempio la Galleria de Cristoforis a Milano, il primo grande passaggio coperto inaugurato in Italia (nel 1832), con un braccio maggiore su Corso Vittorio Emanuele (allora Corsia dei Servi) e un braccio trasversale (immaginiamo una T) che a destra si affacciava su Via Monte Napoleone e a sinistra su via Galleria de Cristoforis, un vicolo, oggi scomparso, che si trovava dietro la chiesa di San Carlo. L’attuale Galleria de Cristoforis è a circa cento metri da quella originaria e mantiene la forma a T: sempre su Corso Vittorio Emanuele la direttrice principale, mentre in fondo a sinistra sbocca su piazza del Liberty e a destra in via San Pietro all’Orto. Al 1832 data anche l’inaugurazione del ponte “Ferdinandeo”, sospeso sul Garigliano, il fiume che storicamente divide la provincia di Napoli da quella di Roma. Milano detiene invece il primato di un ponte realizzato con parti in ghisa: le sirenette, appunto, o “sorelle ghisini”.
LE “SORELLE GHISINI”
Quando il Naviglio era interamente scoperto, dopo aver accolto a San Marco le acque della Martesana, scendeva lungo la Circonvallazione e, arrivato all’altezza dell’attuale via Pietro Mascagni, in contrada San Damiano, si poteva attraversare con un ponte. Questo ponte era stato inaugurato il 23 giugno 1842, in una Milano ancora dominata dagli austriaci, su progetto dell’ingegnere Francesco Tettamanzi, che, per abbellirlo, aveva voluto collocare sui quattro piloni delle sirene modellate in ghisa e realizzate, insieme al ponte, nella ferriera di Dongo dalla ditta Rubini, Scalini, Falck & C. La ghisa stava diventando di gran moda, e i milanesi soprannominarono le fantastiche creature “sorelle Ghisini” oppure i sorei del pont di ciapp, facendo un po’ di confusione tra i provocanti seni scoperti delle quattro fanciulle e le molto meno attraenti forme posteriori di pesci con una doppia coda.
LA SIRENETTA E MELUSINA
L’antecedente più diretto è la fiaba crudele di Andersen, del 1836, ben lontana dalle versioni edulcorate poi messe in circolazione: basti pensare che la Sirenetta perde per sempre il suo principe e solo dopo trecento anni di buone azioni potrà conquistarsi un’anima e salire in Paradiso. La statua al porto di Copenaghen, invece, fu mostrata per la prima volta al pubblico nel 1913. Gli scultori delle sorelle Ghisini le raffigurarono con una doppia coda, simbolo di fertilità che rimanda alle leggende di Melusina, figura presente anche nell’araldica, dove ha, appunto, una coda doppia. Nel folklore medievale, le melusine sono fate acquatiche destinate a sposare un cavaliere a patto di non essere viste da lui nella loro vera forma, cioè con la coda di pesce o di serpente. -Melusina, personificazione di queste ninfe, è una donna-pesce e un mostro soprannaturale, ma anche una femmina splendida che consola, guida alla giusta scelta e fa innamorare; sa essere crudele, appare e scompare, ma è anche una dea dell’abbondanza che fa sorgere palazzi e colma i campi di frumento. Non a caso le coppie di innamorati milanesi si baciavano sul ponte toccando il didietro delle statue nella speranza di propiziarsi fecondità e prosperità.
La leggenda di Melusina, appartenente alla tradizione medievale dell’incontro tra fate e umani, entra nell’araldica intorno al 1400, per volontà di due nobili famiglie, entrambe lontane discendenti dei Lusignano (casata francese segnalatasi già intorno al X secolo), che vogliono darsi lustro fornendo alla propria stirpe un’antenata mitica. Intorno al 1390, il duca di Berry, erede dei castello dei Lusignano, chiede allo scrittore Jean d’Arras di stendere un romanzo che ricordi l’origine “soprannaturale” della nobile casata: sarà il Roman de Mélusine (1392).
LE GOFF E LE ROY LADURIE
Ma la spiegazione più interessante e degna di nota del mito di Melusina è quella dei medievisti Jacques Le Goff e Emmanuel Le Roy Ladurie, per i quali alla base ci sarebbero racconti mitologici greco-romani, protagoniste dei quali sono spesso le ninfe, creature semidivine (dobbiamo ricordare che le sirene dell’Odissea non sono affatto donne-pesce, bensì donne-uccello). La demonizzazione delle divinità dell’antico Pantheon pagano, conseguente al processo di cristianizzazione dell’impero, non riesce a cancellare tutte le figure mitiche, anzi: molte di esse rimangono vive nell’immaginario e spesso nel culto popolare, anche perché appartengono a substrati cultural-religiosi più antichi della colonizzazione romana. Quando, a partire dal XII secolo, le credenze popolari cominciano a essere riprese e codificate dalla cultura letteraria, si incontrano numerosi rimaneggiamenti di tali leggende.
PARACELSO
Il nome di Melusina è associato anche all’opera di Paracelso, per il quale essa è analoga di ninfe e sirene e vive nell’Aquaster, il principio lunare e acquatico delle divinità femminili. In questa visione, Melusina è una visione psichica, ma anche, tenuto conto della capacità di concretizzazione immaginativa della psiche, una distinta entità oggettiva, come un sogno che per un attimo si realizza.
LA MIGRAZIONE DELLE SIRENE
Ma torniamo alle sirene di ghisa. Il carbonio della lega le mantenne in perfette condizioni e le salvò dalla ruggine per lunghi anni. Intorno al 1930 si decise purtroppo di coprire la cosiddetta “fossa interna” dei Navigli, ovvero il tratto che da Piazza San Marco arrivava a Porta Genova. Nascosto il Naviglio, dopo anni di onorato servizio, il Ponte delle Sirenette fu traslocato: smontato pezzo per pezzo, fu rimontato al Parco Sempione, dove si può andare a riverirle ancora oggi e dove, fino a poco tempo fa, riposavano all’ombra di cipressi della Virginia, che in autunno si trasformavano in colonne di fuoco.
Nel 2011 Giuseppe Pederiali ha pubblicato il romanzo intitolato Il ponte delle sirenette.
PER APPROFONDIRE
Aldo De Gregorio, Le Sirenette mitologiche sfrattate dai Navigli, Corriere della Sera, 19 febbraio 1992.
Francesco Ogliari, Questa nostra Milano. Quando le statue parlano, Mursia, Milano, 1972
Jacques Le Goff, Emmanuel Le Roy Ladurie, Mélusine maternelle et défricheuse, Annales: Economies, Sociétés, Civilisations 26 (1971)
Jacques Le Goff, Mélusine revisitée, in L’Histoire grande ouverte: Hommage a Emmanuel Le Roy Ladurie, Fayard, Paris, 1997
Maria Paola Vannucchi, La Leggenda di Melusina
MilanoPlatinum Storica National Geographic
In collaborazione con STORICA NATIONAL GEOGRAPHIC
* MillenniumPlatinum · 18 NOVEMBRE 2015 (ripresa parziale - senza immagini).
Warburg e la "Sphaera Barbarica"
di Mario Cobuzzi *
Per Monstra Ad Sphaeram è un volume pubblicato da Abscondita e curato da Davide Stimilli e Claudia Wedepohl, che raccoglie un corpus notevole di lettere, appunti, scritti di vario genere di Aby Warburg, risalenti ai suoi ultimi anni di vita. E’ un libro curato in maniera eccelsa, ricco di note esplicative e con una utilissima postfazione di Stimilli; se quella di Warburg è una figura che vi affascina, non potete perderlo: addirittura, basterebbe la sola presenza del saggio di cui voglio parlarvi in questo post per giustificare ampiamente i 20 euro spesi.
Infatti L’effetto della “Sphaera Barbarica” sui tentativi di orientamento cosmici dell’occidente, che lo studioso scrisse nel 1925 come conferenza in onore del suo amico recentemente scomparso, Franz Boll, è un saggio straordinario, affascinante oltremodo; soprattutto, esso si presenta come summa del pensiero warburghiano, di quel problematico e fondamentale metodo di studio che ha segnato la nascita dell’iconologia.
In queste poche pagine si affacciano infatti i problemi principali della biografia intellettuale dello studioso: come da titolo del saggio, l’ Orientamento; l’astrologia e la migrazione delle immagini; la rinascita degli antichi dèi e quindi, di conseguenza, il tema del Nachleben (Sopravvivenza); in ultimo, il non meno fondamentale e affascinante Spazio del pensiero.
L’apertura ricorda quella del saggio su Schifanoia del ’12, perché anche qui Warburg sembra giustificarsi[1]: «A una linea di ricerca che si occupa di arte e di Rinascimento italiano [i corsivi sono di Warburg], nulla sembra più estraneo che la discesa nelle oscure regioni della superstizione tardo-antica. Il bello in sé, e l’antico che emerse per gli italiani nell’epoca della rinascita come guida verso una formazione ideale più elevata, sembrano avere nel fatalismo astrologico addirittura il loro più riottoso avversario.- Ma si tratta di un’osservazione solo superficialmente azzeccata!»
Il Nostro dunque rivaluta l’astrologia come pratica positiva per lo sviluppo del Rinascimento, «poiché se si intende l’illuminismo che la riscoperta dell’antichità classica portò all’Europa [...], allora proprio l’antico che si impose, demonicamente deformato nell’astrologia, come oggetto di culto, offre allo storico della cultura l’opportunità di comprendere chiaramente la restaurazione dell’antichità classica come il risultato di un tentativo di liberazione della personalità moderna dall’incantesimo della pratica magico-ellenistica».
Importante e problematico quest’ultimo passaggio: l’antichità classica si scinde in due fazioni; da un lato l’autentica classicità umanistica e razionale ripresa nel Rinascimento, dall’altra quella ellenistica, irrazionale e mostruosa. Infatti «è la stessa scienza matematica della Grecia, che venne ripristinata nel corso del Rinascimento alle sue forme originarie, a offrire all’uomo europeo l’arma per lottare contro i demoni provenienti dalla Grecia, o meglio dalla Grecia asiatica».
Ecco dunque (e qui veniamo a uno dei motti più affascinanti e famosi di Warburg[2]) che «l’Atene greca vuol sempre di nuovo essere liberata dall’Alessandria arabizzante».
L’astrologia diventa quindi determinante sia perché «nel caso della dottrina del cielo si ha a che fare con il più ampio problema dell’orientamento spirituale di contro all’universo», sia perché, per quanto riguarda gli affreschi di Palazzo Schifanoia a Ferrara, «la curiosità del fatto che un astrologo arabo del IX secolo, 600 anni più tardi, dettasse ancora il programma iconografico a un pittore del Rinascimento, non ci esime dall’obbligo di intendere questo processo come un anello organico nell’evoluzione stilistica complessiva della cultura del Rinascimento»; inoltre «tutto ciò che appare stasera [nella conferenza, cioè] in testimonianze, note e ignote, in parola e immagine, mostra l’uomo che osserva in lotta per lo spazio del pensiero».
Così, come dicevo prima, il tema dell’astrologia permette a Warburg di riprendere i fili principali del suo ampio affresco teorico: l’Orientamento, la cultura rinascimentale, lo Spazio del Pensiero.
E non solo: «oscillando tra posizione di causa figurativa mitologica e numericamente calcolabile, le costellazioni hanno per lui [l’Uomo] [...] un carattere ambivalente, polarizzato, che da un lato esige venerazione cultuale nella pratica magica, e dall’altro ha il valore di una determinazione di estensione distaccata e oggettiva per gli oggetti rilucenti nello spazio dell’universo, nella volta del cielo».
Qui, chiaramente, Warburg mette in campo l’altro suo grande tema, quello della Polarità.
Polarità riscontrabile, come è noto, a Schifanoia: se infatti in «Francesco Cossa si fa avanti una specie di umanità emancipata sotto il segno dell’ antichità autentica, [...] i restanti affreschi, grazie alla troppo erudita ispirazione del consigliere Pellegrino Prisciani, vengono ostacolati nell’ascesa alla divinità olimpica dalla mostruosità demonica».
Ma queste oscillazioni, nella visione del Rinascimento di Warburg, sono destinate a risolversi: «Nella Scuola di Atene di Raffaello non vi è più traccia di un tale valore d’espressione simbolico del complesso agonale mostruoso [riscontrabile, per lo studioso, nella cultura della Firenze medicea]. La profonda calma dell’Accademia greca pervade la sala. La dea Atena si cela nell’ombra della nicchia e tuttavia sporge dallo sfondo. Per monstra ad sphaeram! Dalla terribilità del monstrum alla contemplazione nella sfera ideale della meditazione paganamente dotta. E’ questo il percorso nella evoluzione culturale del Rinascimento».
E non è finita qui: una tale razionalizzazione umanistica riguarda anche le pratiche religiose, nel momento in cui esse passano dal sacrificio umano a pratiche «più semplici»- qui è evidentemente ripreso uno dei temi cardine de Il rituale del serpente [3].
Insomma, spero che questi pochi e riduttivi accenni possano avervi fatto capire quanto questo saggio sia ricco, complesso, affascinante: è una lettura di cui non vi pentirete! Per concludere, vi lascio con un accenno al programma metodologico su cui si basa la ricerca di Warburg, per come lo stesso studioso la espone (forse in termini un po’ semplicistici ed eccessivamente “umili”) al termine della conferenza: -«L’orientamento cosmico per immagini dell’uomo europeo nel XV secolo: un capitolo di storia della cultura nell’epoca della rinascita dell’antichità, così si potrebbe designare lo schizzo che stasera ci è passato davanti in rapida successione. [...] Il procedimento quivi seguito tecnicamente non è nuovo: presupposta molta pazienza, abbiamo bisogno solo nel buon vecchio stile di una fidata esegesi filologica - ermeneutica more majorum -, per guadagnare un orizzonte più ampio».
[1] Per un discorso generale sullo stile di scrittura di Warburg vi segnalo questo bel saggio di Katia Mazzucco pubblicato su Engramma - un sito che vi consiglio caldamente di visitare!
[2] Già presente, in forma diversa, in almeno un altro saggio, Divinazione antica pagana in testi ed immagini dell’età di Lutero, del 1920.
[3] Adelphi 1998
* Appunti di storia dell’arte, 8 ottobre 2012 - ripresa parziale, senza foto.
LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA -- IL SERPENTE DI BRONZO: MICHELANGELO, WARBURG, E UN ANAGRAMMA:
CRUCIVERBA ed ENIGMISTICA.
"Dal metodo non nasce niente": un omaggio a Edipo, "Il mancino zoppo" (Michel Serres)
Pur sapendo a quali "pericoli" ("So benissimo...") andava incontro, il prof. Polito, ha aggiunto CORAGGIOSAMENTE al "mosaico sempre in fieri" (vale a dire, in cammino!) una "tessera" e, pur sapendo di ERMETE TRISMEGISTO, ha aperto - SENZA VOLERLO - non solo (come ha fatto alla fine dell’articolo) la porta della CATTEDRALE DI SIENA, ma anche la porta della CAPPELLA SISTINA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195)!!!
CON un semplice ANAGRAMMA ("Serpente? Presente!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) ha sollecitato a riconsiderare e a riguardare tutte le tessere del MOSAICO. A questo punto, però, non è più solo un "gioco di parole"! Ora, non si sono solo Apollo, Pitone, le Sibille, e le Muse, c’è anche MOSÈ e MICHELANGELO - e FREUD ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
C’è il richiamo a tutto l’immaginario biblico e, in particolare, alla interpretazione di Michelangelo della vicenda del SERPENTE DI BRONZO, racchiuso nel "pennacchio" della Volta della Cappella Sistina - https://it.wikipedia.org/wiki/Serpente_di_bronzo_(Michelangelo): il richiamo a un ALTRO serpente, "all’amico serpente" - "al sulfureo amico" -"all’amico ritrovato"!!!
ENIGMI: CRUCI-VERBA!!! A MEMORIA, e ad evitare EQUIVOCI, è BENE ricordare che i "verba volant"!!! Se, e solo se, le parole, i "VERBA" sono agganciati alla croce ("CRUCI"), al "palo", al "bastone" - alla "colonna vertebrale" della propria persona, diventano "scripta", parole scritte, parole degne di essere ricordate - scrittura, Scrittura!!! Altrimenti, sono solo parole al vento di serpenti impazziti - in un mare di sabbia!!!
Federico La Sala
***
Aby Warburg
Il rituale del serpente
Una relazione di viaggio *
Aby Warburg è stato forse l’uomo che più ha influenzato, in questo secolo, la nostra visione della storia dell’arte. Attraverso i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la concrezione di una intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni psichiche. Ma lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera grandiosa, era periodicamente colpito da crisi nervose, che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica.
Nel 1923, al termine di uno di questi soggiorni, per dimostrare la propria guarigione, egli tenne ai pazienti e ai medici della casa di cura di Kreuzlingen un «discorso d’addio» - la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul «Journal» del Warburg Institute con una pudibonda nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto, quel discorso era insieme una confessione e un testamento.
In poche pagine, prendendo spunto da una sua spedizione presso gli indiani Pueblo, Warburg risale alle origini del paganesimo e della magia. E illumina il potere stesso - innanzitutto psichico - delle immagini, il loro potere di ferire e di guarire, stabilendo così un circuito fulmineo fra il serpente dell’arcaico rito dei Pueblo e quello che Mosè invitava a innalzare nel deserto.
Per comprendere un testo fondamentale come Il rituale del serpente occorre considerarne in ogni dettaglio la genesi e le allusioni: compito che qui assolve il prezioso saggio di Ulrich Raulff.
* SCHEDA EDITORIALE: ADELPHI (Risvolto - copertina).
L’antropologo Warburg e la vendetta degli indiani Hopi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, 16 luglio 2014)
Nel febbraio di quest’anno [16 luglio 2014, fls] era prevista a Boudler, nel Museo d’arte dell’Università del Colorado, una mostra di studio sul viaggio nel Sud-Ovest americano di Aby Warburg tra il 1895 e il 1896. Il titolo suonava così: «Incontrando culture: il viaggio di Aby Warburg nel Sud-Ovest americano».
Ma questa mostra non ha mai visto la luce, e la notizia rimbalza da noi grazie al mensile «Il giornale dell’arte» che nel numero in edicola spiega, con un lungo articolo di Davide Stimilli, docente in Colorado e cocuratore dell’esposizione, le ragioni per cui non si è fatta, sebbene già dall’ottobre scorso fossero arrivati dal Warburg Institute di Londra tutti i materiali della mostra.
Come vedremo, le ragioni si radicano in una oggi più che mai accesa disputa fra colonizzatori e colonizzati (spesso depredati o sterminati), così che i Paesi ex coloniali si vedono ogni tanto presentare il conto dalle vittime, nei modi più vari: dalla restituzione dei beni o le reliquie loro sottratti (vedi il caso dei Maori), alla richiesta di un risarcimento morale per la violazione delle loro tradizioni e delle loro credenze religiose.
Chi era Warburg? Morto nel 1929, rampollo di una famiglia di banchieri tedeschi di origine ebraica, fu uno dei grandi storici delle immagini a cavallo tra Otto e Novecento, che con le sue ricerche aprì la strada a quella che oggi molti conoscono col nome di «iconologia », una disciplina che lui non teorizzò mai (qualcuno, per questo, l’ha anche definita una «disciplina senza nome»), che ha trovato un assetto teorico grazie a un altro storico dell’arte tedesco, Erwin Panofsky, il quale peraltro ha forzato molto la mano a Warburg, attribuendo al suo metodo di studio una sistematicità che non ebbe mai. Warburg fu uno sciamano delle immagini, un rabdomante che si faceva guidare da fluidi mentali che, forse, presero anche una direzione visionaria a causa della instabilità psicologiche dello studioso (come si dice in questi casi: il sintomo del genio saturnino). A Panofsky Warburg avrebbe potuto rispondere: la méthode c’est moi, il metodo sono io, e lo dimostra il suo grande progetto incompiuto, l’atlante delle immagini Mnemosyne.
Che ci faceva Warburg nel Sud-Ovest americano? Quello che facevano molti altri intellettuali come lui dotati di una formazione da antropologi, che spaziavano dalla filosofia all’arte, dall’antropologia alla religione: guardavano le altre culture con una mentalità per così dire eurocentrica. Oggi l’incontro delle culture sembra quasi una trita ovvietà dopo decenni di martellante discussione sui diritti dell’altro.
Il martello batte dove il dente duole? L’Occidente, sia pure in posizione dominante, ha da tempo capito di essere uno dei mondi possibili fra i tanti che si affrontano nella globalizzazione: parlare dell’altro, difenderne le specificità, considerare il dialogo come un ragionare ponendosi dalla parte dell’interlocutore, fino a farsi paladini della sua diversità rispetto alla nostra (diversità), è una sapiente, quanto necessaria, forma retorica per tenere il punto.
E qual è il punto? Il punto è che dietro la filosofia dell’altro, nella propaganda geopolitica si celano spesso nuove forme di colonialismo. Nel momento in cui ci s’impanca difensori dei diritti dell’altro, in qualche modo si dice che noi glieli riconosciamo. È una sottile prevaricazione, che può riservare brutte sorprese.
La mostra dell’Università di Boulder (una ridente cittadina di circa centomila abitanti, posta a 1.700 metri sopra il livello del mare, all’incrocio tra le Montagne Rocciose e le Grandi pianure), è una di queste docce fredde che il mondo occidentale - democratico, pari opportunità, politicamente corretto, e chi ne più ne metta -, subisce quando tenta di spacciare come neutrale operazione di studio qualcosa che è ancora materia di «scuse» quasi mai ricevute dalle vittime di un colonialismo che ha derubato i popoli sottomessi anche della loro cultura e della loro storia.
Wole Soyinka, in un suo saggio breve, ma durissimo sulla questione della riconciliazione in Sudafrica, ricordava che la violenza maggiore sui popoli colonizzati non furono quelle fisiche e morali sui singoli (con orrori imperdonabili), ma quelle che depredarono la memoria di quei popoli e le loro testimonianze culturali. Restituiteci l’identità che ci avete rubato, diceva Soyinka. Intendeva: lasciate che siamo noi a chiedervi giustizia, non siete voi che ce la rendete, ma noi che la pretendiamo. Qualcosa del genere ascoltai qualche anno fa a Mantova anche dalla bocca del grande Edouard Glissant.
Warburg, che era arrivato alla fine del 1895 a New York per partecipare al matrimonio del fratello, disgustato da quella società opulenta aveva deciso di spingersi verso l’Ovest, in quella terra mitica abitata da tribù indiane come quella degli Hopi. Questa esperienza di Warburg si compie - scrive Stimilli - nel «groviglio straordinario di progresso e arcaicità che è la storia degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento». E Warburg? Warburg era guidato dall’interesse per un rituale degli Hopi: quello del serpente, che era per lui l’occasione di comparare il paganesimo originario della Grecia arcaica verificandolo de visu su una «sopravvivenza» attuale (lasciamo stare, qui, l’errore sostanziale di questo comparatismo diacronico).
Come si comporta Warburg con gli Hopi? Come gli antropologi depositari di una mentalità coloniale: preleva, senza troppe remore, i loro oggetti, i loro simboli, persino la loro immagine attraverso la fotografia.
Stimili ricorda che gli Hopi, una tribù indiana dei Pueblos, erano spaventati dalla macchina fotografica, perché credevano che potesse rubare loro l’anima. Così non erano contenti di essere fotografati, mentre Warburg, nota Stimilli analizzando una foto celebre, dà prova di una certa violenza costringendo l’indiano a starsene fermo accanto a lui mentre lo tiene per un braccio perché, evidentemente, era restio a farsi fotografare.
Ed è proprio questa la ragione per cui la mostra è saltata: alcuni docenti all’Università del Colorado, appartenenti alle diverse tribù indiane, si sono opposti all’intenzione degli organizzatori di esporre materiali che ancora oggi creano problemi morali e spirituali agli eredi degli indigeni di un secolo fa.
Il Museo, intimorito dalle promesse di boicottaggio e dalle polemiche sui giornali, ha abbandonato il progetto. Se lo stesso caso si fosse verificato in Europa forse gli organizzatori avrebbero tenuto duro, giustificando tutta l’operazione come un modo per capire e rendere le scuse alle vittime di quella mentalità: è l’obiezione implicita nel discorso di Stimilli; ma, appunto, è in America che si svolge questa storia, dove la violazione delle nuove convenzioni linguistiche ed etiche nel rapporto fra le culture e i popoli, può anche costare a un docente la carriera universitaria.
Stimilli, mettendosi il cuore in pace, conclude: «Sono, a ragion veduta, sinceramente felice che la mostra non sia avvenuta». Possibile, mi chiedo, che tutto il buon senso che oggi apprezza, e che nasce da una consapevolezza etica, non lo avesse nemmeno sfiorato quando preparava quella mostra? Come si dice in questi casi: si deve far buon viso a cattiva sorte.
"PATHOS A ORAIBI: CIO’ CHE WARBURG NON VIDE" di David Freedberg (cfr.: Lo sguardo di Giano - Columbia University)
LA LEZIONE DI MANDELA - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
IL VESUVIO E LA SIRENA di Armando Polito:
Probabilmente finché il mondo avrà vita il vulcano, per motivi facil-
mente comprensibili, non perderà la sua leadership; però mi chiedo
se le posizioni oggi di rincalzo siano le stesse del passato e me lo chie-
do perché la cenerentola attuale, la sirena, a prima vista sembrereb-
be aver goduto di maggior considerazione prima che il fascino del mi-
to cedesse a quello gastro-economico della pizza e a quello artistico
del mandolino...
C’è un settore, insomma, in cui Partenope sarebbe riuscita (alla fine si
scoprirà la ragione di tutti i condizionali usati) a sopravanzare il Vesu-
vio proprio nel periodo del Grand tour. Si tratta di un settore, per
l’epoca, di nicchia (ma in fondo lo era anche il Gran Tour): quello dei
libri e, in particolare, delle marche tipografiche.
Quando i buddisti eravamo noi
La scoperta dell’immagine del Gesù-Siddharta venerato per secoli da una comunità manichea nel sud della Cina apre nuovi studi e riflessioni sul rapporto tra filosofia orientale e occidentale
di Silvia Ronchey (la Repubblica, 16.01.2016)
La figura solitaria dal viso assorto, i capelli neri raccolti sulla nuca, siede su un alto trono esagonale. La testa è circondata da un’aureola di luce inscritta nel contorno di una più ampia mandorla che si intravede sullo sfondo brunito del lungo rotolo di seta dipinta. Uno sfolgorio di rosso e oro accomuna i petali dell’immenso fiore di loto dischiuso sotto le sue gambe incrociate e il simbolo della croce che regge tra le dita sottili della mano sinistra, all’altezza del cuore, mentre le dita della destra compongono un esoterico gesto.
È il Buddha, ed è insieme il Cristo, e in entrambe le vesti è stato venerato per secoli dagli adepti della comunità manichea del sud della Cina per cui la sua immagine, conservata dall’inizio del Seicento nel tempio zen di Seiun-ji in Giappone, fu prodotta fra il XII e il XIII secolo.
«O vasto e gentile Gesù Buddha, ascolta le mie parole di dolore. Modesto e sempre desto Re della Mente, Anticipatore del Pensiero, guidami fuori da questo mare avvelenato, verso l’acqua fragrante dell’Emancipazione», si legge nel Rotolo innologico manicheo della British Library, la più antica attestazione liturgica del culto di Gesù in quanto Buddha tra i seguaci di Mani della Cina medievale.
Quest’immagine e queste parole provengono dalle pagine di un articolo pubblicato su una rivista scientifica svizzera da una studiosa ugroamericana di arte religiosa dell’Asia Centrale, Zsuzsanna Gulacsi, grande esperta di manicheismo. La sua argomentazione e la sua tesi finale - nella raffigurazione del “profeta” Gesù Buddha è in realtà esplicitata la dottrina della religione dualistica e connaturatamente sincretistica di Mani, cui vanno attribuiti sia il simbolo della Croce di Luce, materializzato nella statuetta, sia il principio della separazione tra luce e tenebra, simboleggiato dal gesto della mano destra - danno nuovo senso a dati già acquisiti ma non ancora elaborati dagli eruditi.
Al di là dello specialismo, l’emergere dal passato orientale del Gesù-Buddha - Mani di Seiun-ji, i suoi epiteti, la forza delle invocazioni parlano in modo immediato al presente occidentale, dove sempre di più il buddismo si radica nella prassi di una crescente élite di figli dell’esistenzialismo, nell’utopia di una non-religione dall’etica resistente alla secolarizzazione ma compatibile con gli approdi della filosofia e con le conquiste della psicologia.
A metà del Novecento il Siddharta di Hesse aveva spontaneamente orientato il suo revival nella cultura pop. Anticipata da pionieri del modernismo cattolico come Thomas Merton, l’accoglienza del buddismo in occidente aveva prodotto un’ibridazione confessionale in cui lo yoga e le tecniche ancestrali di meditazione proprie dell’esicasmo cristiano e del sufismo islamico, come già prima delle scuole platoniche e pitagoriche, erano sostanzialmente tollerate se non promosse dai residui esponenti delle religioni ufficiali.
«Perché non possiamo non dirci cristiani», si domandava Benedetto Croce all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, riflettendo sulle radici comuni dell’Europa. Con altrettanta onestà dovremmo oggi riflettere sul perché non possiamo non dirci buddisti. Più di una filosofia, meno di una religione, mai una dogmatica, il buddismo è oggi la dottrina più condivisa del mondo contemporaneo. Ne è pervasa, ben più che dal cristianesimo, la filosofia moderna. In genere si fa risalire il suo influsso nel pensiero, nella cultura e nel modo di sentire occidentali allo slancio degli studi di orientalistica che influenzarono il giovane Schopenhauer.
Ma quella conoscenza era già ben diffusa tra gli illuministi, per il tramite privilegiato delle missioni in Cina e in Giappone, ma anche in Tibet e Sri Lanka, degli avventurosi gesuiti che tra Cinque e Settecento avevano trasmesso accurati resoconti, in particolare, sul buddismo tibetano.
Di recente una studiosa americana, Alison Gopnik, ha cercato di dimostrare l’influenza diretta delle Notizie istoriche del Tibet del padre Desideri sulla composizione del Trattato sulla natura umana di Hume, avvenuta a stretto contatto con l’ambiente gesuita del Collège de La Flèche, nel nord della Francia. Ma già il Seicento spagnolo era impregnato di buddismo. Il suo riflesso più occidentale è ne La vida es sueño di Calderón de la Barca, attraverso cui la trama della vita del Tathagata si trasmetterà alla letteratura otto e novecentesca.
Ancora molto prima il buddismo era penetrato in occidente, ne aveva permeato la psiche collettiva, si era innestato nel suo Dna culturale, predisponendo subliminalmente il terreno alla definitiva svolta che non possiamo non considerare oggi compiuta. La Controriforma aveva dovuto prendere atto che a Bisanzio fin dall’XI secolo il Buddha era venerato dalla chiesa e nonostante lo scetticismo di Bellarmino nel 1583 il cardinal Baronio lo aveva incluso nel Martirologio Romano come santo «apud Indos Persis finitimos. Il buddismo non aveva mai avuto una Scrittura.
Ma la forza plasmatrice di Bisanzio, civiltà del libro, aveva trasformato la vita del Buddha in libro: la cosiddetta Storia di Barlaam e Ioasaf, composta nell’età di sincretismo e cosmopolitismo immediatamente successiva all’espansione militare e culturale araba e al cosiddetto iconoclasmo. È a partire da questo decalcarsi dell’impronta buddista nello stampo greco per il tramite dell’islam che quel Siddharta ante litteram si riprodurrà in progressione geometrica nella letteratura globale e Buddha estenderà la sua predicazione nell’occidente ancora del tutto cristiano.
Detti e fatti dell’interpretazione cristiana del principe Siddharta risuoneranno in ogni lingua europea con una diffusione non raggiunta da nessun’altra leggenda agiografica. Sedurrà l’Italia più mistica, si trasfonderà nel Trecento senese di Caterina, attraverso il Novellino si trasmetterà al Decameron di Boccaccio e di qui al teatro di Shakespeare. Aveva raggiunto, prima, la Provenza dei catari e degli albigesi, attraverso il latino ma con l’influenza del manicheismo orientale. È in effetti la pista manichea, desunta dai frammenti in turco uiguro e in neo-persiano portati alla luce dalle spedizioni archeologiche di inizio Novecento, quella che con più forza è emersa nel rompicapo degli eruditi sull’origine del Buddha cristiano. Ed ecco, il cerchio si chiude, riportandoci al rotolo di Seiun-ji.
Quest’immagine di perfetto sincretismo a sua volta permette un ulteriore passo indietro. Dal bacino del manicheismo emergeva, tra il IV e il V secolo, il massimo cervello cristiano di tutti i tempi, Agostino. Quella che aveva conosciuto in Mani era una dottrina gnostica già impregnata di un’idea di salvezza propriamente religiosa.
Ma in realtà, nel seno della filosofia ellenistica in cui il flusso oriente-occidente era continuo, lungo la rotta della conquista di Alessandro, nello splendore dei regni indogreci, nelle predicazioni dei monaci greci buddisti che re Ashoka inviò ai monarchi affacciati sul Mediterraneo, o degli asceti erranti che giunsero fino alla corte di Augusto, lo stesso germoglio di ciò che chiamiamo buddhismo dovette essere rinvigorito dallo scambio, prima che con lagnosi, con il pensiero delle scuole elleniche.
Anche se la prima menzione del Buddha nella storia della letteratura europea si trova solo alla fine del II secolo, negli Stromata, i “Tappeti” letterari di Clemente di Alessandria, è congetturabile una coabitazione e contaminazione tra le dottrine del Gautama Sakyamuni e quelle, ancora recentemente evocate da Christopher Beckwith, dei filosofi scettici, o dello stoicismo antico.
Se non possiamo non dirci buddisti, cos’è allora che veramente noi occidentali chiamiamo buddismo? Non una dottrina, non una religione, non una filosofia, piuttosto la prensile erba di una conoscenza capace di allacciarsi e adattarsi e dare linfa a diverse religioni, dottrine, filosofie.
Il germe radicato nel nostro passato, ciclicamente reinterrato e rifiorito, di una verità universalmente diffusa perché straordinariamente persuasiva, indiscutibile e intuibile, in certi folgoranti attimi, anche a livello prerazionale: la percezione, continuamente rimossa, delle “cose come sono”, per usare l’espressione di Hervé Clerc; la stupefazione che sta all’origine di ogni visione filosofica; dove il riconoscimento dell’illusorietà dell’esistenza e dell’impermanenza dell’essere è in realtà il nucleo stesso di ciò che gli antichi greci, poco dopo la morte del Gautama storico, chiamarono per la prima volta filosofia.
Hermes, come sei cristiano
Un ampio excursus ricostruisce la vicenda dell’ermetismo e la sua influenza sulla teologia, da Agostino a Ficino
Il tentativo di svelare con la gnosi l’enigma di Dio e dell’uomo
di GIANFRANCO RAVASI *
A livello popolare, "ermetico" è sinonimo di "oscuro, chiuso, incomprensibile, enigmatico", nonostante il sotteso rimando a Hermes, il dio greco dell’interpretazione, dell’ermeneutica appunto. A livello più colto "ermetismo" è la corrente poetica sbocciata negli anni Trenta a Firenze sulle riviste Frontespizio e Campo di Marte, che annoverò tra i suoi cultori figure come Ungaretti, Quasimodo, Gatto, Sinisgalli, Luzi, Bigongiari e tra i suoi teorici Carlo Bo e Oreste Macrì.
In realtà l’ermetismo in senso storico-filologico risale a un orizzonte ben più remoto e sorprendente: per dirla con qualche semplificazione, fu un’affascinante e complessa operazione di ermeneutica. I grandi miti teogonici e cosmologici dell’antico Egitto faraonico furono "ellenizzati" e ricollocati in un nuovo linguaggio e in nuove coordinate storico-culturali. Così, il dio egizio Thoth, il rivelatore per eccellenza della sapienza divina, si trasformò nell’Ermete (Hermes) "tre volte grandissimo" (Trismegisto) e i suoi oracoli subirono riletture e ricreazioni sempre più complesse ed esoteriche.
Ma all’avventura ermeneutica del trapasso Egitto-Grecia si aggiunse un altro anello, quello cristiano e latino: la rivelazione pagana si rivestiva di un nuovo manto e diventava un’anticipazione profetica della Rivelazione per eccellenza e della sua inconcussa verità.
Questa vicenda di reinterpretazione delle antiche carte ermetiche non ebbe posa per secoli: passò attraverso Lattanzio, penetrò anche in Agostino, varcò la frontiera del MedioEvo con Abelardo e il platonismo di quell’epoca, approdò fino a Marsilio Ficino e alla filosofia del Rinascimento, attraversando perfino il giudaismo.
A ricostruire questa genealogia ermetica cristiana nelle sue tappe fondamentali è Claudio Moreschini, uno studioso di alto profilo della letteratura greca e latina cristiana. Egli lo fa in un volume suggestivamente ornato da un’immagine del Museo Capitolino che illustra in modo simbolico l’ermeneutica dell’ermetismo: in un rilievo dell’altare di Iside di Campo Marzio a Roma un Hermes chiaramente abbigliato in veste greco-romana e con le sue tipiche insegne ci mostra il volto canino del dio egiziano Anubi.
Naturalmente il trapasso ulteriore che possiamo solo immaginare sarebbe quello di staccare questa testa e sostituirla con un viso profetico cristiano per chiudere il cerchio delle reinterpretazioni. Come in ogni genealogia, il percorso è diacronico. Si parte dalla sorgente, da quel Corpus Hermeticum che fu acutamente studiato dal grande A. J. Festugière e si procede nella serie degli anelli cristiani, oggetto specifico dell’analisi di Moreschini. È un itinerario letterario e teologico di forte suggestione che conosce alcune soste in "slarghi" più ampi. È il caso dell’Asclepius, il più importante testo ermetico cristiano, traduzione latina di un originale greco perduto ma noto e citato da Lattanzio. È un trattato vistosamente destrutturato, affidato com’è alle connessioni per associazioni di parole, forse intenzionalmente impostato sull’impressionismo oracolare e teosofico, destinato a rivelare un mysterium iniziatico. Siamo, quindi, in un contesto di gnosi che ha come scopo quello di svelare la realtà profonda dell’uomo e la sua capacità di penetrare nel mistero divino.
Attraverso questa conoscenza superiore si infrangeranno le catene del carcere del corpo e si volerà verso la parte più pura dell’universo in una salvezza che è intimità perfetta con la divinità spirituale. Giustamente Moreschini - che, per altro, esamina di questo trattato il groviglio dei temi posti sul tappeto (il mondo, il fato, il male, la divinità) - osserva che "la preghiera finale riassume tutto il dialogo: il Trismegisto e i suoi giovani discepoli, possedendo il dono della conoscenza, se ne rallegrano e invocano Dio perché si degni di donare loro l’amore perpetuo per questa conoscenza, che li ha salvati" (p.119). Sono tante le finestre a cui affacciarsi in questo palazzo piuttosto "ermetico" dell’ermetismo cristiano.
Particolarmente interessanti sono quelle che ci permettono di gettare uno sguardo sulla stanza di Marsilio Ficino, il traduttore in latino del Corpus Hermeticum su commissione di Cosimo de’ Medici, oppure di scoprire le carte di quel Ludovico Lazzarelli di San Severino Marche al quale già il famoso P.O. Kristeller aveva dedicato un saggio appassionato. Egli fu l’autore rinascimentale del Crater Hermetis (il "cratere" è un simbolo tipico dell’ermetismo per indicare la formazione di una dottrina segreta) e di altri testi ove dottrina cristiana ed ermetici si miscelano tra loro. O ancora si potrebbe sbirciare negli scritti di Agostino Steuco, vescovo di Gubbio e grande erudito e in quelli di Francesco Patrizi, convinto che l’ermetismo sia alle origini di tutta la filosofia greca e sia per di più del tutto consono coi dogmi della dottrina cristiana.
Una nota finale importante. Il volume di Moreschini offre una vasta appendice sia l’Asclepius di cui sopra si è detto, sia il Crater Hermetis di Ludovico Lazzarelli, sia il poema Prometeus dello stesso autore, entrambi tradotti in italiano da un’allieva di Moreschini, Sara Petri.
STUDI
Un saggio di Claudio Moreschini getta nuova luce sul percorso e sugli intrecci dell’ ermetismo cristiano e su come fu interpretato dal tardo mondo antico a Marsilio Ficino
Ermete, dio del discorso e del silenzio, araldo di una segreta salvezza
Una visione del mondo che affonda le sue radici nell’ antico Egitto, condannata da Agostino, custodita dai sapienti medievali
di Giovanni Filoramo *
STUDI Un saggio di Claudio Moreschini getta nuova luce sul percorso e sugli intrecci dell’ ermetismo cristiano e su come fu interpretato dal tardo mondo antico a Marsilio Ficino Ermete, dio del discorso e del silenzio, araldo di una segreta salvezza
Tra i simboli che hanno contribuito a fissare in immagini pregnanti il destino dell’ ermetismo, accanto al famoso pavimento a mosaico della cattedrale di Siena (XV sec.), in cui si condensa la millenaria tradizione cristiana (fu inaugurata agli inizi del IV sec. d.C. da Lattanzio) di un Ermete, contemporaneo di Mosè, profeta pagano del cristianesimo, merita di essere evocato un emblema di Achille Bocchi (1555).
Ermete, il dio del discorso, è rappresentato con in mano un candeliere a sette braccia, mentre con l’ indice dell’ altra mano fa segno di tacere. Segreto e divulgazione: ecco il paradosso, ricco di potenzialità, di una tradizione come l’ ermetismo, in cui fin dai primordi, legati al sorgere stesso della cultura ellenistica, si mescolano, in modo quasi indistricabile, le scienze occulte tipiche dell’ antichità (alchimia magia astrologia) e un sapere filosofico-religioso che aspira a portare all’ umanità l’ annuncio salvifico di una nuova pietà, una gnosi nutrita di devozione, una pia philosophia, come dirà poi Ficino.
Le straordinarie fortune di questa tradizione, capace di conservarsi nei secoli attraverso mille metamorfosi, dalle riletture cristiane tardo-antiche alle recentissime forme di neo-ermetismo che circolano negli ambienti della New Age, si muovono continuamente tra esoterismo e propaganda.
Una dialettica creativa cui fa da contraltare, sul piano dottrinale, una cosmo-teo-sofia: una tensione a conoscere il mistero del cosmo come unità in cui si manifesta, attraverso la molteplicità delle sue forme, la stessa unità del divino cui l’ uomo è invitato a partecipare.
Oggi si è sempre più d’ accordo nel riconoscere le radici egizie di questa visione del mondo. Si tratta di una struttura di pensiero capace di mediare tra spinta centrifuga di tipo politeistico e panteistico ed intima tensione centripeta verso un monoteismo inclusivista.
È stato, però, l’ ellenismo e la simbiosi da esso promossa tra varie tradizioni culturali a costituire il terreno più favorevole perché questa visione, di per sé esoterica, assumesse valenze soteriche e, sotto il patrocinio di un dio, il tre volte grandissimo Ermete-Thoth, si diffondesse attraverso una miriade di scritti, tra cui i trattati dell’ ermetismo filosofico (per una recente messa a punto si può vedere Scritti ermetici in copto, a cura di A. Camplani, Paideia).
In realtà, la linea di divisione, che un tempo appariva chiara e invalicabile, tra ermetismo filosofico ed ermetismo popolare non ha resistito a una serie di critiche. L’ intreccio tra scienza e magia, tra procedimento scientifico e visione religiosa, è un tratto tipico del pensiero antico.
Nel tardo-antico, così come poi, con le variazioni del caso, nell’ umanesimo, alchimia e magia si mescolano coi saperi filosofici, usando un nuovo linguaggio e attingendo parte del loro materiale dalle tradizioni filosofiche, ma nel contempo imprestando tecniche e immagini alchemiche e magiche per descrivere processi cosmogonici e psicogonici: un intreccio fecondo, che costituisce una ragione profonda della fortuna di questa tradizione.
La sua storia attende ancora l’ autore in grado di disegnarne il profilo complessivo, ricostruendone i tanti rivoli, senza però perdere di vista la corrente principale. Un significativo contributo in questa direzione viene oggi dal lavoro di Claudio Moreschini (Storia dell’ ermetismo cristiano, Morcelliana, Brescia).
Senza pretese di esaustività in un campo in cui ancora molto vi è da dissodare e sulla base di una serie di lavori precedenti dedicati in particolare a Marsilio Ficino e a Ludovico Lazzarelli (di cui in appendice sono riportati alcuni testi fondamentali), l’ autore ha il merito, dopo aver ricostruito i tratti essenziali dell’ ermetismo tardo-antico e riassunto i temi fondamentali dell’ Asclepio, di abbozzare un profilo del modo in cui nell’ Occidente cristiano, sulla base soprattutto della traduzione latina dell’ Asclepio, nonostante le condanne di un Agostino, la figura di Ermete e i testi a lui attribuiti siano stati riletti, anche durante il Basso Medioevo, come una prefigurazione di aspetti fondamentali della rivelazione cristiana.
Come ricordano le Sibille del mosaico di Siena che accompagnano Ermete, la storia dell’ ermetismo medievale è anche storia dell’ intreccio con le innumerevoli tensioni profetiche che caratterizzano il Basso Medioevo. È così che lo vedrà un Ficino: non come un filosofo, ma come un profeta che preannuncia la futura rovina della religione egizia (e cioè del paganesimo) sulle cui ceneri nascerà una nuova fede. Aver contribuito a mettere in luce il fatto che questa fede ficiniana, così profondamente intrisa di succhi ermetici, fosse erede in realtà di una lunga tradizione medievale non è uno degli ultimi meriti del libro di Moreschini. Giovanni Filoramo
Storia delle sirene
l’incanto sottile dai greci a Kafka
di Giorgio Vasta (la Repubblica, 13.01.2013)
Il circo elettrico delle sirene (Codice Edizioni) dello storico della scienza Emanuele Coco comincia con una frase attribuita a Sant’Agostino - «Non chiedetevi se queste cose sono vere. Chiedetevi cosa significano» - , ovvero ponendo da subito la marginalità se non l’irrilevanza dell’esistenzarealedelle sirene. Se sono state immaginate, le sirene sono reali.
Per comprenderne il significato è dunque legittimo interrogarne la storia - la storia del mito - ricorrendo a una forma diretta e colloquiale. Perché le sirene, dalla Grecia antica a Kafka, ci riguardano. Volteggianti nel cielo o appostate su una roccia marina, le sirene non semplicemente parlano con noi: le sirene parlano di noi. Ci inducono a immaginare ciò che accadrà; ci irretiscono facendo leva su qualcosa che potrebbe sembrarci illogico e disumano essendo invece uno dei modi più straordinari in cui l’umano si manifesta: ci costringono a confrontarci con il nostro costante bisogno di naufragio.
Dunque, in quanto intrinseche alle nostre esistenze, discutere delle sirene in una forma saggistica tradizionale non basta. L’autore ne è consapevole tanto da costruire un saggio sui generis che vira di continuo verso la storia d’amore, verso il racconto di come il desiderio sia il continuo deflagrare di un’immaginazione in cerca di una forma in cui incarnarsi.
Leggendo diventa presto evidente che il processo di identificazione delle sirene è coinciso nel tempo con un processo di invenzione e reinvenzione delle sirene medesime. Il tentativo di mettere a fuoco questi esseri misteriosi ha generato percezioni tanto avventurose quanto affascinanti.
Le sirene sono state uccelli (così in due ceramiche corinzie: donne pennute dalle zampe di gallina, personificazione della leggerezza e della volatilitàdi ogni proposito sentimentale), pesci (femmineo dalla testa alla vita, secondo l’iconografia più diffusa il loro corpo continua in un tronco affusolato e squamoso che culmina in una coda biforcuta o a ventaglio), sono state lamantini o dugonghi dentuti. Sono state la sfrenatezza sessuale più sconvolgente, ma anche madri che allattano, come in una miniatura fiamminga della fine del XIII secolo.
Sono state caste (secondo Omero), ma nella loro declinazione ferina - come risulta dal Sacramentario di Gellone - è necessario che la Madonna le esorcizzi brandendo una croce. Annidata nei salmi e nei pontificali del Medioevo, la loro immagine tutt’altro che servire da monito era per i monaci turbamento, l’infragilirsi di ogni pensiero rigoroso, l’insediarsi nella mente e nel corpo dello scompiglio. Non restava loro altro che conficcare la testa nella neve, ricomporre una geometria nel cervello - raggelare, rinsavire.
Onniscienti, in grado di vaticinare ciò che accadrà, le sirene sono polimorfe perché caleidoscopica, tremante, ambigua è sempre stata la raffigurazione maschile del femminile. Il libro di Coco vale anche da esplorazione del modo in cui nei secoli gli uomini hanno rappresentato a se stessi le donne. Da questa prospettiva le sirene sono figure sintomatiche di un immaginario aggressivo e colpevolizzante rispetto al quale il femminile è sensualità acrobatica che conduce alla perdizione oppure un materno tradizionalmente affettuoso.
Resta il fatto che le sirene sono, per nostra fortuna, irriducibili a una lettura ultima. Strette d’assedio dalla furia tassonomica del XVIII secolo, così come dai tentativi di spettacolarizzazione da circo Barnum - nel 1822, a Londra, l’ingresso per ammirarne un esemplare essiccato era di uno scellino - ugualmente le sirene si oppongono a ogni tentativo di imbrigliamento.
Nessuno può catturare una sirena, presumere di averla identificata è soltanto un’illusione. La sirena permane sfuggente: la sua sostanza è lacunosa, la sua natura è quella del fantasma. Perché il desiderio, al limite, si segue: pretendere di imprigionarlo è inverosimile. Diversamente dai monaci medievali ci serve scrutare il mare nell’attesa di scorgere un’increspatura e poi un guizzo, il balenare di una coda; soprattutto continua a esserci necessario cogliere uno stridio, un balbettio, una lallazione: una tra le forme in cui si genera il canto che incanta
Platone
La musica delle sfere
di Claudia Poli *
La musica delle sfere o musica universale è un concetto filosofico dell’antichità che considerava l’universo come un enorme sistema dettato da proporzioni numeriche, i cui pianeti (Sole, Luna, Stelle) muovendosi, provocherebbero dei suoni, una specie di musica, non udibile dall’uomo, consistente in un’armonia perfetta, dettata da principi matematici.
Pitagora e i pitagorici Pitagora è il primo a cui questa teoria viene fatta risalire, anche se non è possibile distinguere chiaramente quali fossero, nell’insieme di dottrine e frammenti a noi pervenuti, appartenenti al pensiero di Pitagora e quali ai suoi discepoli: quasi sicuramente Pitagora non lasciò nulla di scritto, e la scuola che lui fondò era caratterizzata da una forte vita collettiva, le dottrine erano segrete e continuarono ad essere attribuite a Pitagora anche dopo la sua morte. Anche Aristotele descrive i pitagorici collettivamente. Inoltre, l’affermazione di Giamblico, che gli scritti dei primi pitagorici fino a Filolao sarebbero stati conservati come segreto della scuola, non vale se non come una prova del fatto che anche più tardi non si possedevano scritti autentici di pitagorici anteriori a Filolao.
L’immagine di Pitagora non è di un matematico, che ha offerto prove rigorose, o di uno scienziato, che ha condotto esperimenti per scoprire la natura del mondo naturale, ma piuttosto di qualcuno che vede un significato speciale e assegna uno speciale rilievo alle relazioni matematiche.
La dottrina fondamentale dei pitagorici è che la sostanza delle cose è il numero. Per numero si intende l’ordine misurabile del mondo, quindi il significato aritmetico e geometrico risultano fusi, ed espressi nella figura sacra, la tetraktys, per la quale i pitagorici avevano l’abitudine di giurare, e che rappresenta la successione aritmetica dei primi 4 numeri naturali, che geometricamente si poteva disporre nella forma di un triangolo equilatero di lato quattro. Questa piramide sintetizza il rapporto fondamentale tra le prime quattro cifre e la decade: 1+2+3+4=10.
Se il numero è sostanza delle cose, tutte le opposizioni delle cose vanno ricondotte a opposizioni di numeri. Ora l’opposizione delle cose rispetto all’ordine misurabile è quella di limite e illimitato: il limite, che rende possibile la misura e l’illimitato che la esclude. A questa opposizione corrisponde l’opposizione fondamentale dei numeri, pari e impari: l’impari corrisponde al limite, il pari all’illimitato. I pitagorici ritengono tuttavia che la lotta tra gli opposti sia conciliata da un principio d’armonia: e l’armonia, come fondamento e vincolo degli stessi opposti, costituisce per essi il significato ultimo delle cose. Come dappertutto c’è l’opposizione degli elementi, dappertutto c’è armonia, e allo stesso modo si può dire che tutto è numero o che tutto è armonia perché ogni numero è un’armonia dell’impari e del pari. La natura dell’armonia è poi rivelata dalla musica: i rapporti musicali esprimono nel modo più evidente la natura dell’armonia universale, e sono quindi assunti dai pitagorici come modello di tutte le armonie dell’universo.
Inoltre, Pitagora svolse delle ricerche per determinare i rapporti di intervalli nella musica, sulla lira e sul monocordo, e scoprì ad esempio, che fermando una corda a metà produceva un’ottava, ovvero un rapporto ½, e così dividendo la corda in varie lunghezze, gli intervalli di quarta, quinta, ecc. L’ottava, rapporto musicale di base, non tardò a divenire per i pitagorici un sinonimo del termine di armonia. La spiegazione di questo concetto, trasposto in ambito metafisico, consiste nel rapporto numerico che la esprime: l’unità rappresenta il limite, e il numero due l’illimitato, l’indeterminato, il quale si trova determinato perché contiene due volte la misura dell’unità. Il limite viene dunque raggiunto con la misura del numero due per mezzo dell’unità, ovvero stabilendo il rapporto ½ che costituisce il rapporto matematico dell’ottava.
L’acusmata riportato da Aristotele, e che può essere ricondotto a Pitagora, riferisce la seguente domanda e risposta: “Cos’è l’Oracolo di Delfi? E’ il tetraktys, che è l’armonia in cui le Sirene cantano.” (Giamblico, Sulla vita di Pitagora). In questa affermazione i quattro numeri sono identificati con una delle fonti primarie di saggezza del mondo greco: l’Oracolo di Delfi. Il tetraktys può essere collegato alla musica che le sirene cantano, in cui tutti i coefficienti corrispondenti agli accordi fondamentali nella musica (ottava, quinta e quarta) possono essere espressi come numero di coefficienti interi dei primi quattro numeri.
Pitagora vedeva quindi il cosmo come strutturato secondo dei numeri, con il tetraktys alla base di tutto, come forma di ogni sapienza. Il suo cosmo è stato anche permeato di significato morale, in conformità con le sue dottrine sulla sopravvivenza dell’anima dopo la morte e della sua trasmigrazione in altri corpi. Secondo questa teoria, che ritroviamo poi nei dialoghi platonici, il corpo è una prigione per l’anima, che vi è stata rinchiusa dalla divinità per punizione, e tornerà alla vita superiore del mondo incorporeo a cui appartiene, solo se si è purificata durante la vita corporea, altrimenti riprenderà dopo la morte la catena di trasmigrazioni.
Certamente, l’associazione tra il tetraktys e le sirene che cantano in armonia, suggerisce che ci potrebbe essere una musica cosmica.
Ecco così che nella teoria cosmologica dei pitagorici, il mondo, concepito come una sfera, al centro della quale c’è il fuoco originario, e intorno al quale si muovono dieci corpi celesti (il cielo delle stelle fisse, i cinque pianeti, il sole, la luna, la terra e l’antiterra), il movimento degli stessi, così come ogni corpo mosso velocemente, produce un suono musicale. Il movimento delle sfere produce una serie di toni musicali che formano nel loro complesso un’ottava. Gli uomini non percepiscono questi suoni, perché li hanno sentiti ininterrottamente dalla nascita o perché i loro orecchi non sono adatti a percepirli, o perché dovrebbe esserci il più assoluto silenzio su tutta la terra.
Platone Sembra in questo modo possibile una teoria platonica della musica. Così come la figura del geometra è l’immagine nella quale si riflette la forma intelligibile che la mente percepisce al suo interno, così la frase musicale è un’equazione matematica che si sviluppa nelle onde sonore.
La musica, dalla teoria pitagorica, diviene un suono aritmetico. Sembra, di tutte le arti, la più matematicamente rigorosa, più ancora che la bellezza di un bel corpo (che risveglia in noi, come la lezione di Diotima, il desiderio di immortalità), il che è forse meno riducibile ad una combinazione di forme geometriche. Concludendo l’analisi di fascino musicale che si sviluppa nel libro III della Repubblica , Socrate dice “Noi non sapremo riconoscere le immagini (eikones) delle lettere quando le vediamo riflesse nell’acqua o in specchi, se non avremo imparato a riconoscere le lettere stesse” Allo stesso modo, ciò implica che non sappiamo ascoltare la musica se non conosciamo le proporzioni ideali che si riflettono in essa. Così la musica del filosofo non è per se stessa, ma per l’ordine intelligibile, che si riflette in essa.
Ecco che ancora torniamo sul piano etico, passando per la musica. Infatti la frase pronunciata da Socrate, sul saper riconoscere le immagini, è inserita in un discorso sul mousikos. E ora, dopo questo concetto, ci aspettiamo che Socrate ci dica che il mousikos deve essere preparato a conoscere tutte le note che deve suonare, cioè il corrispettivo musicale delle lettere di un testo scritto, ma qui Platone ci fa una sorpresa: “Non saremmo mousikoi - dice Socrate - né noi, né quelli che abbiamo detto di voler educare perché diventino i difensori, finché non riconosceremo le forme della temperanza, del coraggio, della generosità, della magnanimità e di tutte le virtù sorelle, e dei loro opposti, in tutte le combinazioni che si presentano, e finché non percepiremo la presenza loro e delle loro immagini là dove si trovano, senza trascurarle, nelle piccole cose come nelle grandi, convinti che rientrino sempre nei domini della medesima competenza e disciplina”. Il mousikos non si distingue, dunque, per la sua abilità di riconoscere note e intervalli, ma Socrate con la parola mousikos intende un termine più ampio, metaforico per riferirsi a persone dotate di spiccate capacità di discernere nel campo dell’etica, tra virtù e vizi. In questo senso la musica presenta le immagini o imitazioni dei caratteri etici ai quali Socrate si riferisce.
Studiare la struttura dell’universo, per i pitagorici e Platone, partendo dalla concezione matematica dell’armonia, vi attribuisce sicuramente una base scientifica. E i pitagorici hanno identificato il concetto di “armonia” con la nozione di numero, e allo stesso modo, nel Filebo, si riconosce un fondamento metafisico al rapporto numerico.
La precisazione che va fatta, è che Platone analizza due diverse teorie musicali, l’una fondata sulla realtà tecnica dei musicisti e l’altra speculativa. Entrambe necessitano dei rapporti numerici per esistere, ma, se la prima è un’interpretazione empirica propria dei musicisti, la seconda è un’interpretazione matematica a priori (scienza di cui E. Franck vede in Archita il fondatore). Ed è a questa che Platone fa riferimento per la sua speculazione sui numeri ideali. Il fatto che i quattro numeri della tetraktys fossero contenuti nei rapporti che esprimono i tre accordi fondamentali dell’ottava, della quinta e della quarta induceva a credere che nella tetraktys fosse contenuta l’essenza dell’armonia musicale e che l’armonia universale consistesse nella grande tetraktys. I numeri ideali assoluti non sarebbero che i rapporti destinati ad esprimere gli accordi musicali assoluti e che si riconducono tutti all’armonia assoluta dei numeri.
Platone
La musica delle sfere
di Claudia Poli *
[...]
Legami tra i pitagorici e Platone Nell’illustrare la teoria dell’Anima del Mondo nel Timeo c’è uno sforzo di precisione da parte di Platone, quasi si preoccupasse di conferirgli un carattere di verosimiglianza. Nel Timeo, Platone riconduce i movimenti circolari dell’universo all’armonia. La teoria dell’armonia delle sfere, come abbiamo visto, si riscontra in numerose fonti prearistoteliche, e, tenendo conto dell’assenza di testimonianze dirette anteriori a Platone, si fa risalire questa teoria ai pitagorici. Ma i pitagorici, come accennato prima, danno alla nozione di armonia non una valenza musicale, ma piuttosto la usavano per indicare il legame, l’accordo, l’ordine, la regolarità.
Nel libro X della Repubblica, Platone narra il mito di Er, i suoi contenuti sono ispirati in maniera rilevante dal mito orfico e pitagorico della metempsicosi.
Il mito narra di Er, un eroe guerriero della Panfilia morto in battaglia. Il suo corpo raccolto e portato sul rogo come da usanza, mentre stava per essere arso, si ridestò dal sonno eterno e raccontò quello che aveva visto nell’aldilà. Vide delle voragini attraverso le quali le anime passavano nel mondo ultraterreno, due delle quali si aprivano sulla terra e le rimanenti, in perfetta corrispondenza, su nel cielo. Le anime pie andavano in “Paradiso” (in cielo), quelle cattive non all’inferno bensì in una specie di “Purgatorio” (la terra) nel quale potevano ancora aspirare al perdono. Nel mezzo delle voragini vi erano dei giudici, che ad ogni loro sentenza ordinavano ai giusti di dirigersi in alto a destra (in cielo) e agli ingiusti di andare verso la parte sinistra in basso (sulla terra). La loro condizione di “Non-Vivi” durava 1000 anni al termine dei quali esse senza un ordine logico e prestabilito si dovevano reincarnare. Vengono distribuiti dall’araldo dei numeri a caso che vengono raccolti dalle anime. Costituiscono l’ordine in cui potranno scegliere il corpo in cui reincarnarsi. A questo punto gli si mostrano i possibili corpi e rispettive vite in cui potranno reincarnarsi. Non è però detto che l’ordine, e quindi il caso, sia determinante in maniera definitiva: il numero di Destini possibili è più grande infatti di quello delle anime. Sono invece determinanti i trascorsi dell’ultima reincarnazione: i saggi sceglieranno il miglior corpo, quello del filosofo; gli stolti che saranno magari stati poveri sceglieranno il corpo di un ricco, non capendo l’unico vero piacere che è la filosofia. Platone dichiara che l’unico principio che deve guidare questa scelta è la giustizia. La giustizia però non è sufficiente: qualunque sia stata la vita prescelta, la felicità e l’infelicità, il bene e il male, la ricchezza e la povertà si trovano tutti confusi e interconnessi tra loro cosicché è impossibile districarli con l’aiuto della sola giustizia; serve pertanto anche una profonda educazione nella dialettica, che ci permetta di rendere la nostra anima in grado di affrontare la difficile scelta.
Tutti, a parte l’eroe Er, bevono nel fiume Lete, la cui acqua cancella la memoria e ciò motiva la nostra ignoranza sulla vita precedente, anche se possiamo ricordare alcuni concetti appresi nella vita precedente o nel momento in cui la nostra anima, alla sua creazione, ha contemplato per qualche istante l’Iperuranio, attraverso il meccanismo della reminiscenza e grazie all’innatismo. In quest’ultima parte vengono introdotti molti dei contenuti degli insegnamenti orfici e misterici sulla metempsicosi. Le anime possono dunque reincarnarsi in corpi di animali o uomini, già questa scelta viene influenzata dalla propria personalità: i malvagi sceglieranno i corpi di bestie pericolose e aggressive mentre i buoni opteranno per quelli di animali mansueti. Platone narra di alcuni esempi di scelte di anime famose, anche se questo viene considerato solo un espediente narrativo per concedersi ad una metafora sulla condizione umana, la storia ci insegna centinaia di casi di miseria o grandezza umana. Molte delle anime scelgono dunque il nuovo corpo secondo le abitudini contratte nella vita precedente, dato che molti sbagliano e ricadono nei propri vizi. Due casi particolari raccontati da Platone riguardano la scelta fatta da Aiace Telamonio e da Odisseo: il primo, ricordandosi dei suoi travagli a causa della disputa per le armi di Achille persa proprio con Odisseo, rifuggiva il ridiventare un uomo e quindi scelse un leone (che comunque rispecchia il suo carattere); mentre Odisseo, ridotto senza ambizioni dal ricordo dei precedenti dolori che dovette sopportare in vita, se ne andava in giro cercando il corpo di un individuo privato e schivo da ogni seccatura, scelse un corpo proprio come cercava. Dopo ogni scelta ciascuna anima se ne andava e tornava nel mondo terreno.
Esiste un rapporto tra la nozione di armonia delle sfere e il mito di Er? Il momento in cui le anime devono scegliere, esse giungono in vista di una luce simile all’arcobaleno, che teneva insieme tutta la circonferenza del cielo, alle cui estremità è sospeso il fuso di Ananke la divinità che rappresenta la necessità o il destino ineluttabile, per il quale girano tutte le sfere. Il fusaiolo, che è il contrappeso che mantiene a piombo il fuso, è formato da otto vasi concentrici, messi uno dentro l’altro, e ruotanti in direzioni opposte sull’asse del fuso. Su ogni cerchio sta una Sirena, che emette un’unica nota, e le diverse Sirene tutte insieme producono, ruotando, un’armonia. Gli otto fusaioli rappresentano gli otto cieli concentrici della cosmologia antica, nell’ordine pitagorico: stelle fisse, Saturno, Giove, Marte, Venere, Mercurio, Sole e Luna. A ogni anello corrisponde una sirena che emette un particolare suono acuto. Gli otto suoni emessi formano un’armonia. Attorno al fuso, a uguale distanza si trovano le Parche, che accompagnano con il loro canto l’armonia delle sirene.
La duplice presenza, nel mito di Er, dell’armonia e delle sfere, ci rimanda direttamente ai pitagorici. Come dicevamo prima, secondo un’antica tradizione l’oracolo di Delfi sarebbe stato legato a queste due nozioni nella formula del catechismo degli acusmatici così spesso citati. Le sirene costituirebbero i rapporti armonici che risiedono negli accordi, inoltre, la loro trasformazione da esseri marini a celesti potrebbe spiegarsi col fatto che nell’aldilà pitagorico la dimensione in cui si aggirano le anime dopo la morte è associata all’Oceano.
Era naturale che le divinità musicali marine, nel momento in cui l’esegesi teologica dei miti afferma che il mare dell’Odissea e delle peregrinazioni di Ulisse sono in realtà lo spazio, divengono a loro volta le divinità musicali dello spazio e presiedano alle rivoluzioni delle sfere. Alla base della formula degli acusmatici e del mito della Repubblica si troverebbe un cospicuo studio dei miti, come lo conosciamo a opera dei pitagorici e che si riferisce specialmente a Omero e a Esiodo. In seguito le sirene furono rimpiazzate nella loro funzione dalle muse, figlie di Zeus, il che dimostra come, in definitiva, si possa risalire al pitagorismo.
Secondo Aristotele i pitagorici vedevano nell’universo un’armonia, questa dottrina avrebbe fatto leva sulle analogie relative ai sette pianeti, presto identificati come le sette corde dello strumento celeste, il cui numero sarebbe aumentato parallelamente a quello della lira. Secondo la tradizione, Pitagora avrebbe dato a ciascuna delle nove corde della lira celeste il nome di una delle nove Muse, il che potrebbe aiutarci a spiegare la transizione dall’idea della sirene a quella delle Muse.
Keplero La dottrina della musica delle sfere venne trasmessa all’Europa del Medio Evo, dove essa trovò la sua espressione più gloriosa nell’architettura delle maestose abbazie e cattedrali, deliberatamente disegnate per adattarsi alle proporzioni dell’armonia musicale e geometrica. L’ ermetico inglese Robert Fludd (1574-1637 ) immaginò grandi scale celesti che misuravano 3 ottave e livelli di esistenza collegati fra i mondi primitivi sub-planetari ai cori esultanti di intelligenze angeliche oltre le stelle. Le stupende incisioni che illustrano i lavori enciclopedici di Fludd sono annoverate tra le descrizioni più complete della cosmologia pre-Copernicana mai concepite.
I materialisti scientifici sono stati inclini ad accantonare la dimensione spirituale del lavoro di Keplero, considerandola o come un residuo di un medioevalismo profondamente radicato che Keplero non fu capace di abbandonare, oppure, ancor meno benevolmente, come le fantasticherie di una mente troppo sfruttata. La sua visione della musica delle sfere, comunque, è basata su fatti concreti come le misurazioni astronomiche. Keplero passa da una concezione statica ad una dinamica del cosmo, da orbite circolari ad orbite ellittiche. Sin dalla sua prima opera Keplero aderisce al copernicanesimo: fondendo la lettura del Timeo e delle Sacre Scritture con l’interpretazione data da Proclo ai poliedri euclidei , egli propone una struttura geometrica del cosmo. L’ Astronomo Fred Hoyle concorda con il fatto che la corrispondenza tra rapporti musicali e velocità dei pianeti come descritta da Keplero sia “spaventosamente buona”. L’allievo di Keplero Francis Warrain ha avuto il merito di ampliare le ricerche del proprio maestro e scoprire che la velocità angolare di Nettuno, Urano e Plutone, che non erano stati ancora scoperti durante la vita di Keplero, corrispondevano anch’essi a delle proporzioni armoniche. La musica delle sfere è molto di più di una stupenda intuizione poetica. Le dinamiche del sistema solare, enunciate per la prima volta dal genio matematico di Keplero, sono direttamente analoghe alle leggi dell’ armonia musicale.
Sebbene raramente articolato, il concetto di armonia universale fluisce come una corrente sotterranea attraverso la filosofia dell’Astrologia negli anni. In questo senso, Johannes Keplero, il primo astrologo moderno, appartiene ad una tradizione più ampia che collega pensatori apparentemente molto diversi fra loro come Pitagora e Tolomeo, Robert Fludd e John Addey, Gurdjieff e Rudolph Steiner. Nessuno può vantare un monopolio sulla verità. Ogni singolo astrologo, a dispetto di stile e tecnica, è sintonizzato con la sua propria straordinaria variazione della “canzone degli angeli”, la musica delle sfere celesti che tutto permea.
Keplero, Astronomia Nova. Keplero individuò un intervallo musicale nel moto di un pianeta mettendo in rapporto le velocità angolari all’afelio e perielio (per esempio in marte è 2/3 cioè un rapporto di quinta come fa-do). In particolare Keplero constatò che il rapporto numerico tra la velocità massima e minima (afelio e perielio) dei pianeti vicini generava una consonanza armonica sorprendente spiegabile solo con una volontà divina per l’ armonia nell’universo. Unica eccezione, per congiunture astrali, la dissonanza (distanza di semitono) tra il perielio di Marte e l’afelio di Giove. Keplero mise su un pentagramma questa sua constatazione indicando le note che venivano generate dal moto dei pianeti. In realtà i Pianeti nel loro moto variano la velocità in modo costante e il suono generato sarebbe un “glissato”. K. invece voleva dare una prova della musicalità di questi pianeti e allora converte questo suono in una scala molto più piacevole da ascoltare. Si può notare che a un moto lento (come Saturno) corrispondono note gravi, a un moto quasi costante a causa di un’orbita quasi circolare (come per Venere) corrisponde una sola nota fissa. Viceversa si vede che mercurio ha un’orbita molto schiacciata con una grande variazione di velocità angolare a cui corrisponde una scala musicale molto estesa.
Nonostante il superamento del dogma della circolarità sia compiuto, Keplero continua a celebrare la priorità ontologica della sfera. Il suo cosmo finito è una rappresentazione di generazione e spirazione interni alla Trinità divina: egli identifica Dio con il Sole e il centro della sfera, il Figlio con il cielo delle stelle fisse e la superficie esterna, lo Spirito Santo con l’aura intermedia nella quale si muovono i pianeti.
Fonti:
Etica, Baruch Spinoza
Psicomusicologia nella Grecia antica, Andrew Barker
La musica nell’opera di Platone, E. Moutsopoulos
* Filosofia - Blog di Claudia Poli (ripresa parziale).
Recensione
Loredana Mancini, Il rovinoso incanto. Storie di Sirene antiche
di Roberta Mazza ("Storicamente", 1, 2005)
Il volume di L. Mancini fa parte della collana "Antropologia del mondo antico", curata da Maurizio Bettini, ed è il risultato della ricerca che l’autrice ha svolto durante i suoi studi di dottorato. Il ricchissimo materiale raccolto e analizzato è organizzato in tre sezioni che si collegano ad altrettanti elementi tipici delle rappresentazioni letterarie ed iconografiche delle Sirene antiche: la voce, la seduzione e l’acqua. Un’utile Appendice riporta il repertorio delle immagini di Sirene utilizzate dall’autrice e ventotto tavole offrono una campionatura delle raffigurazioni analizzate nel saggio.
La prima parte del libro (La Voce delle Sirene) sviluppa, dunque, il tema del canto. Sebbene nell’immaginario moderno alle Sirene venga attribuita una voce melodiosa attraverso la quale incantano, appunto, chi si imbatta in loro, la Mancini, attraverso l’esame di testimonianze per lo più relative a una fase molto arcaica e di area greca, dimostra che la voce e la musica delle Sirene è ben diversa: il loro, infatti, è il «canto spontaneo, irrazionale, portatore di un’efficacia magica.potremmo dire che la Sirena è espressione di una forza dionisiaca.» (p. 49). In questo senso le Sirene sono in rapporto contrastante con le Muse, il cui canto invece è razionale, apollineo.
In realtà gli intrecci della mitologia greca sono assai complessi, come mostra l’autrice nel capitolo dedicato ai rapporti tra le Sirene e Delfi. Secondo il mito di fondazione del famoso santuario, sopra il frontone di uno dei tre templi arcaici che costituirono il primo nucleo dell’area sacra, stavano sei Keledones (Incantatrici) d’oro che con la loro voce dolce soggiogavano i visitatori i quali, dimentichi di mogli e figli, rimanevano stregati in quel luogo. Per questo motivo gli dei fecero sprofondare il tempio in una voragine. Il legame con le Sirene omeriche è evidente e la Mancini riporta e discute le opinioni di coloro che hanno identificato o avvicinato Keledones e Sirene fin dall’antichità.
L’autrice percorre una pista tutta sua, proponendo di collegare le Keledones a una fase arcaica dello sviluppo dell’oracolo delfico della Pizia e passa poi a una lettura comparata di altre figure singolari legate a Delfi, quella delle tre vergini sorelle dell’Inno omerico ad Ermes (sorta di dee-api, che insegnano ad Apollo bambino l’arte della profezia) e quella delle iynges, oggetti magici, probabilmente ruote sonore variamente sospese nei templi e utilizzate nei riti di oracolo. La conclusione di questa prima parte è ben riassunta dall’affermazione dell’autrice secondo cui «le Sirene mentono, dunque: esse, la voce che rende immemori, fingono di essere l’esatto opposto di se stesse, ovvero le Muse custodi della memoria» (p. 75).
A questo punto lo sguardo si sposta verso Occidente, in Magna Grecia, le cui coste, a partire dalla baia di Napoli e dal Sorrentino, sono costellate da luoghi di culto dedicati alle Sirene. L’iconografia si discosta da quella greca e le tre Sirene assumono anche nomi diversi (Partenope, Ligeia e Leucosia). Sebbene, secondo la Mancini, sia meno facile per quest’area circoscrivere le caratteristiche di queste figure mitologiche, tra le loro caratteristiche costanti vi fu il legame con la sfera ctonia e il culto dei morti, per altro elemento tipico fin dal loro apparire e già anticipato dall’autrice nella prima parte. Così come si è visto a proposito della voce, anche la fisionomia delle Sirene dell’immaginario moderno va rivisitata. Infatti le fonti antiche le descrivono non come metà donne e metà pesci, bensì come donne uccello, ampiamente ritratte in Occidente su oggetti funebri, quali stele e vasi, all’interno di cicli iconografici di tema nuziale ed erotico. La Mancini spiega la ricorrenza di tale iconografia in contesti funebri con lo sviluppo dal IV secolo a. C. in poi di una "escatologia nuziale", ossia dello sviluppo del tema dell’unione erotica con il dio (nella maggior parte dei casi Dioniso) come allegoria della salvezza post mortem. La narrazione mitologica, comprensibile forse solo da parte di ’lettori’ colti, poteva essere percepita a un livello più basso come semplice collegamento tra "felicità eterna e perpetua vitalità erotica" (p. 97).
Si passa così al tema della seduzione, argomento della seconda parte del libro (La Sirena e la seduzione), che analizza i rapporti tra le Sirene ed Afrodite e Artemide, due divinità strettamente legate all’eros femminile. La Mancini individua nella iconografia occidentale delle Sirene una tendenza all’abbellimento, all’intensificazione dell’aspetto erotico-perturbante di questi esseri (la sirena-coquette, cfr. spec. pp. 105-108). A Locri le Sirene fanno parte dell’inventario iconografico attestato nell’area sacra dedicata ad Afrodite, all’interno della quale era praticata la prostituzione sacra da parte delle vergini del luogo, secondo uno schema religioso legato ai riti di passaggio dalla fanciullezza alla condizione di sposa. Nelle tavolette votive rinvenute in questa zona, la Sirena diviene, nell’interpretazione offerta dall’autrice, personificazione della futura sposa nella fase liminale in cui si trova subito prima delle nozze: è uscita da casa, ma non è ancora sposa e madre. Similmente a Sparta le Sirene sono riprodotte su oggetti legati al santuario di Orthia (divinità arcaica che più tardi sarà identificata con Artemide), in cui i ragazzi e le ragazze spartani erano sottoposti a un complesso sistema educativo e rituale che li faceva entrare nell’età adulta. Anche in questo caso la Mancini interpreta la figura quale simbolo, in particolare, della vergine e della forza vitale arcana che la connota. Le Sirene sono dunque esseri ambigui, come ambigua è la condizione della parthenos, percepita dalla società circostante come «forza destabilizzante», a causa della sua carica erotica non ancora sottoposta al vincolo matrimoniale.
La terza parte del libro, come si diceva, è dedicata all’acqua (La Sirena e l’acqua): a questo elemento sono legate le Ninfe, altre figure mitologiche che, come già le Muse e le Incantatrici, presentano tratti analoghi alle Sirene. Nel ripercorrere miti e temi attestati nelle raffigurazioni ceramiche, l’autrice approfondisce il tema della nascita delle Sirene dall’unione della terra con il fiume Acheloo: le Sirene - contrariamente a quanto viene rappresentato dal repertorio iconografico moderno, che ha le sue radici nella tarda antichità e nel medioevo durante i quali questi daimones acquistano la coda di pesce delle mermaid nordiche - non amano l’acqua del mare, bensì quella di sorgenti e fiumi, acque il cui suono per gli antichi era collegato, di nuovo, all’idromanzia e all’oracolo. Il gorgogliare dei torrenti ci riporta così al ronzio delle api delfiche e al suono delle ruote magiche, mentre il collegamento con le Ninfe richiama, ancora, il tema delle fanciulle vergini.
Dopo un capitolo di carattere comparatistico (Racconti di acque, fantasmi e streghe) - in cui l’autrice considera caratteristiche comuni a Sirene e altre figure mitologiche quali streghe o fantasmi presenti in diversi ambiti geografici e storico-culturali, sempre comunque "apparentati" con l’antichità greca - la Mancini sottolinea come la vicinanza con l’acqua, accanto all’ibridismo e all’incertezza del loro statuto sessuale (simile a quello delle fanciulle vergini), sia collegato alla natura liminare di tali creature.
Le Sirene analizzate in chiave storico-antropologica dalla Mancini dicono molto a proposito della condizione femminile nell’età antica: prostituzione sacra, riti matrimoniali, riti di passaggio dalla condizione di fanciulla a quella di sposa, sacerdozio femminile, vengono ben delineati attraverso la discussione puntuale delle fonti antiche sulle figure mitologiche al centro del saggio.
L’ambiguità della natura femminile, vista naturalmente attraverso la lente di una società maschilista, si traduce nell’ambiguità e nel polimorfismo delle Sirene che attraverso i secoli si trasformano da donne uccello a donne pesce, incarnando sempre gli aspetti della natura femminile più problematici e perturbanti.
Ma c’è un altro ambito, meno ovvio, che questa ricerca illumina attraverso l’analisi della figura delle Sirene, ed è quello del rapporto tra gli antichi e la natura che li circondava. Ogni fenomeno naturale, oltre ad essere un segno cui dare un significato, aveva un profondo impatto sull’emotività degli uomini, come ben riassunto nella definizione di Sirena fornita dall’autrice in conclusione del saggio (p. 234): «la Sirena può essere definita un demone ornitomorfo», specializzato nelle manifestazioni psichiche irrazionali legate ai suoni che la natura spontaneamente produce. Questa Sirena al grado zero è alla base delle varie Sirene che, nel corso dei secoli, assumeranno i panni di musicanti, lamentatrici, iniziatrici di giovani spose, o quelli mistico-filosofici di custodi del Paradiso».