ninfe *
In ogni immagine un anticipo e un ricordo
L’osservazione del cielo è la grazia e la maledizione dell’uomo. «La storia dell’umanità è sempre storia di fantasmi e di immagini, perché è nell’immaginazione che ha luogo la frattura fra l’individuale e l’impersonale, il molteplice e l’unico, il sensibile e l’intellegibile...»
di Giorgio Agamben (il manifesto, 06.01.2007)
Nei primi mesi del 2003 si poteva vedere al Getty Museum di Los Angeles una mostra di video di Bill Viola intitolata Passions. Durante un soggiorno di studio al Getty Research Institute, Viola aveva lavorato sul tema dell’espressione delle passioni, che era stato codificato nel XVII secolo da Charles Le Brun e ripreso poi nel XIX secolo, su base scientifico-sperimentale, da Duchenne de Boulogne e da Darwin. Risultato di questo periodo di studio erano i video esposti nella mostra. A prima vista, le immagini sullo schermo sembravano immobili, ma, dopo qualche secondo, esse cominciavano quasi impercettibilmente ad animarsi. Lo spettatore si rendeva allora conto che, in realtà, esse erano sempre state in movimento e che soltanto l’estremo rallentamento, dilatando il momento temporale, le faceva sembrare immobili. Questo spiega l’impressione insieme di familiarità e di estraneazione che le immagini suscitavano: era come se, entrando nelle sale di un museo dove erano esposte le tele di antichi maestri, queste cominciassero per miracolo a muoversi.
A questo punto, se aveva qualche familiarità con la storia dell’arte, lo spettatore riconosceva nelle tre figure estenuate di «Emergence» la Pietà di Masolino, nel quintetto attonito degli «Astonished» il Cristo deriso di Bosch, nella coppia piangente della «Dolorosa» il dittico attribuito a Dieric Bouts nella National Gallery di Londra. Decisiva ogni volta non era, però, tanto la trasposizione in abiti moderni, quanto la messa in movimento del tema iconografico. Sotto gli occhi increduli dello spettatore, il musée imaginaire diventava musée cinématographique.
Il tempo nelle immagini
In quanto l’evento che essi presentano può durare fino a una ventina di minuti, questi video esigono un’attenzione a cui non siamo più abituati. Se, come Benjamin ha mostrato, la riproduzione dell’opera d’arte si accontenta di uno spettatore distratto, i video di Viola costringono invece lo spettatore a un’attesa - e a un’attenzione - insolitamente lunghe. Se è entrato alla fine, egli - come si faceva al cinema da bambini - si sentirà obbligato a rivedere il video dall’inizio. In questo modo l’immobile tema iconografico si trasforma in storia. Ciò appare in modo esemplare in «Greetings», un video esposto alla Biennale di Venezia nel 1995. Qui lo spettatore poteva vedere le figure femminili, che la Visitazione di Pontormo ci presenta intrecciate, mentre si avvicinano lentamente l’una all’altra, fino a comporre alla fine il tema iconografico della tela di Carmignano.
Lo spettatore a questo punto si rende conto con sorpresa che a catturare la sua attenzione non è soltanto l’animazione di immagini che era abituato a considerare immobili. Si tratta, piuttosto, di una trasformazione che concerne la loro stessa natura. Quando, alla fine, il tema iconografico è stato ricomposto e le immagini sembrano arrestarsi, esse si sono in realtà caricate di tempo fin quasi a scoppiare e proprio questa saturazione cairologica imprime loro una sorta di tremito, che costituisce la loro aura particolare. Ogni istante, ogni immagine anticipa virtualmente il suo svolgimento futuro e ricorda i suoi gesti precedenti.
Se si dovesse definire in una formula la prestazione specifica dei video di Viola, si potrebbe dire che essi non inseriscono le immagini nel tempo, ma il tempo nelle immagini. E poiché, nel moderno, non il movimento, ma il tempo è il vero paradigma della vita, ciò significa che vi è una vita delle immagini, che si tratta di comprendere. Come l’autore stesso afferma in un’intervista pubblicata nel catalogo: «l’essenza del medio visivo è il tempo... le immagini vivono dentro di noi... noi siamo databases viventi di immagini - collezionisti di immagini - e una volta che le immagini sono entrate in noi, esse non cessano di trasformarsi e di crescere».
Danzare per «fantasmata»
Come può un’immagine caricarsi di tempo? Che relazione vi è tra il tempo e le immagini? Intorno alla metà del Quattrocento, Domenico da Piacenza compone il suo trattato Dela arte di ballare et danzare. Domenico - o, piuttosto, Domenichino, come lo chiamavano amici e discepoli - era il più celebre coreografo del suo tempo, maestro di danza alla corte degli Sforza a Milano e a quella dei Gonzaga a Ferrara. Benché, all’inizio del suo libro, egli citi Aristotele e insista sulla dignità dell’arte della danza, che è «de tanto intelecto e fatica quanto ritrovare se possa», la trattazione si situa a metà fra il manuale didattico e il compendio esoterico legato alla tradizione orale da maestro ad allievo.
Domenico enumera sei elementi fondamentali dell’arte: misura, memoria, agilità, maniera, misura del terreno e «fantasmata». Quest’ultimo elemento - in verità assolutamente centrale - è definito in questo modo:
Domenico chiama fantasma un arresto improvviso fra due movimenti, tale da contrarre virtualmente nella propria tensione interna la misura e la memoria dell’intera serie coreografica.
Gli storici della danza si sono interrogati sull’origine di questo «danzare per fantasmata», nella «quale similitudine», secondo la testimonianza degli allievi, il maestro intendeva esprimere «molte cose che non si possono dire». È certo che essa deriva dalla teoria aristotelica della memoria, compendiata nel breve trattato Sulla memoria e la reminiscenza, che aveva esercitato un’influenza determinante sulla psicologia medievale e rinascimentale. Qui il filosofo, legando strettamente insieme tempo, memoria e immaginazione, affermava che «solo gli esseri che percepiscono il tempo ricordano, e con la stessa facoltà con cui avvertono il tempo», cioè con l’immaginazione. La memoria non è, infatti, possibile senza un’immagine (phantasma), la quale è un’affezione, un pathos della sensazione o del pensiero.
In questo senso, l’immagine mnemica è sempre carica di un’energia capace di muovere e turbare il corpo: «Che l’affezione (pathos) sia corporea e che la reminiscenza sia una ricerca in questo fantasma, appare da ciò, che taluni sono sconvolti quando non riescono a ricordare nonostante la forte applicazione della mente, e che l’agitazione perdura anche quando non cercano più di ricordare - soprattutto i melancolici, perché sono molto sconvolti dalle immagini. Il motivo per cui rammemorare non è in loro potere è che, come quelli che scagliano un dardo non hanno più la possibilità di trattenerlo, così anche colui che cerca nella memoria imprime un certo movimento alla parte corporea in cui tale passione risiede».
La danza è, dunque, per Domenichino, essenzialmente un’operazione condotta sulla memoria, una composizione dei fantasmi in una serie temporalmente e spazialmente ordinata. Il vero luogo del danzatore non è nel corpo e nel suo movimento, bensì nell’immagine come «capo di medusa», come pausa non immobile, ma carica, insieme, di memoria e di energia dinamica. Ma ciò significa che l’essenza della danza non è più il movimento - è il tempo. (...)
Al vertice dell’anima individuale
L’immaginazione è una scoperta della filosofia medievale. In questa, essa raggiunge la sua soglia critica - e, insieme, la sua formulazione più aporetica - nel pensiero di Averroè. L’aporia centrale dell’averroismo, che non cessa di suscitare le ostinate obiezioni degli scolastici, è, infatti, nel rapporto fra l’intelletto possibile, unico e separato, e i singoli individui. Secondo Averroè, questi si congiungono (copulantur) con l’intelletto unico attraverso i fantasmi che si trovano nel senso interno (in particolare, nella virtù imaginativa e nella memoria). L’immaginazione riceve in questo modo un rango in ogni senso decisivo: al vertice dell’anima individuale, al limite fra il corporeo e l’incorporeo, l’individuale e il comune, la sensazione e il pensiero, essa è l’estrema scoria che la combustione dell’esistenza individuale abbandona sulla soglia del separato e dell’eterno. In questo senso, l’immaginazione - e non l’intelletto - è il principio che definisce la specie umana.
Il progetto di Warburg
Resta che questa definizione è aporetica, perché - come Tommaso insistentemente obietta nella sua critica, affermando che, se si accetta la tesi averroista, il singolo uomo non può conoscere - essa situa l’immaginazione nel vuoto che si spalanca fra la sensazione e il pensiero, fra la molteplicità degli individui e l’unicità dell’intelletto. Di qui - come sempre ogni volta che si tratta di afferrare una soglia o un passaggio - il vertiginoso moltiplicarsi, nella psicologia medievale, delle distinzioni: virtù sensibile, virtù imaginativa, memoriale, intelletto materiale, adepto ecc.
L’immaginazione circoscrive, cioè, uno spazio in cui non pensiamo ancora, in cui il pensiero diventa possibile solo attraverso una impossibilità di pensare. In questa impossibilità i poeti d’amore situano la loro glossa alla psicologia averroista: la copulatio dei fantasmi con l’intelletto possibile è un’esperienza amorosa e l’amore è, innanzitutto, amore di una imago, di un oggetto in qualche modo irreale, esposto, come tale, al rischio dell’angoscia (che gli stilnovisti chiamano «dottanza») e del mancamento. Le immagini, che costituiscono l’ultima consistenza dell’umano e il solo tramite della sua possibile salvezza, sono anche il luogo del suo incessante mancare a se stesso.
È su questo sfondo che si deve collocare il progetto warburghiano di raccogliere in un atlante - il cui nome è Mnemosyne - le immagini - le Pathosformeln - dell’umanità occidentale. La ninfa warburghiana sconta l’ambigua eredità dell’immagine, ma la sposta su un tutt’altro piano, storico e collettivo. Già Dante, nel De monarchia, aveva interpretato l’eredità averroista nel senso che, se l’uomo è definito non dal pensiero, ma da una possibilità di pensare, allora questa non può essere attuata da un singolo uomo, ma soltanto da una multitudo nello spazio e nel tempo, cioè sul piano della collettività e della storia. Lavorare sulle immagini significa in questo senso per Warburg lavorare all’incrocio non soltanto fra il corporeo e l’incorporeo, ma anche, e soprattutto, fra l’individuale e il collettivo.
La ninfa è l’immagine dell’immagine, la cifra delle Pathosformeln che gli uomini si trasmettono di generazione in generazione e a cui legano la loro possibilità di trovarsi o di perdersi, di pensare o di non pensare.
Le immagini sono, pertanto, un elemento decisamente storico; ma, secondo il principio benjaminiano per cui si dà vita di tutto ciò di cui si dà storia (e che qui si potrebbe riformulare nel senso che si dà vita di tutto ciò di cui si dà immagine), esse sono, in qualche modo, vive. Noi siamo abituati ad attribuire vita soltanto al corpo biologico. Ninfale è, invece, una vita puramente storica. Come gli spiriti elementari di Paracelso, le immagini hanno bisogno, per essere veramente vive, che un soggetto, assumendole, si unisca a loro; ma in quest’incontro - come nell’unione con la ninfa-ondina - è insito un rischio mortale. Nel corso della tradizione storica, infatti, le immagini si cristallizzano e trasformano in spettri, di cui gli uomini diventano schiavi e da cui sempre di nuovo occorre liberarli.
L’interesse di Warburg per le immagini astrologiche ha la sua radice nella coscienza che «l’osservazione del cielo è la grazia e la maledizione dell’uomo», che la sfera celeste è il luogo in cui gli uomini proiettano la loro passione delle immagini. Come per il vir niger, l’enigmatico decano astrologico che egli aveva riconosciuto negli affreschi di Schifanoia, essenziale è, nell’incontro col dinamogramma carico di tensioni, la capacità di sospenderne e invertirne la carica, di trasformare il destino in fortuna. Le costellazioni celesti sono, in questo senso, il testo originale in cui l’immaginazione legge ciò che non è mai stato scritto.
La relazione con Giordano Bruno
Nella lettera a Vossler, inviata pochi mesi prima della morte, Warburg, riformulando il programma del suo atlante come una «teoria della funzione della memoria umana per immagini (Theorie des Funktion des menschlichen Bildgedächtnisses)», lo mette in relazione col pensiero di Giordano Bruno: «Lei vede, che io non devo qui lasciarmi sfuggire ad alcun costo, come ho fatto finora, la possibilità di entrare in rapporto con una figura che mi affascina da quarant’anni e che, per quanto posso vedere, non ha trovato finora la sua giusta collocazione nella storia dello spirito: Giordano Bruno».
Il Bruno a cui Warburg qui si riferisce in relazione all’atlante, non può essere che il Bruno dei trattati magico-mnemotecnici, come il De umbris idearum. È curioso che, nel suo studio sull’Arte della memoria, Frances Yates non si sia accorta che i sigilli che Bruno inserisce in questo libro hanno la forma di geniture astrologiche. Questa somiglianza con uno degli oggetti privilegiati delle sue ricerche non poteva non aver colpito Warburg, che, nel suo studio sulla divinazione nell’età di Lutero, riproduce geniture quasi identiche.
La lezione che Warburg trae da Bruno è che l’arte di padroneggiare la memoria - nel suo caso, il tentativo di comprendere attraverso l’atlante il funzionamento del Bildgedächtnis umano - ha a che fare con le immagini che esprimono la soggezione dell’uomo al destino.
L’atlante è la mappa che deve orientare l’uomo nella sua lotta contro la schizofrenia della propria immaginazione. Il cosmo, che il mitico eroe omonimo sorregge sulle sue spalle (Davide Stimilli ha ricordato l’importanza di questa figura per Warburg) è il mundus imaginalis. La definizione dell’atlante come «storie di fantasmi per adulti» trova qui il suo senso ultimo.
Quel che Mnemosyne nomina
La storia dell’umanità è sempre storia di fantasmi e di immagini, perché è nell’immaginazione che ha luogo la frattura fra l’individuale e l’impersonale, il molteplice e l’unico, il sensibile e l’intellegibile e, insieme, il compito della sua dialettica ricomposizione. Le immagini sono il resto, la traccia di quanto gli uomini che ci hanno preceduto hanno sperato e desiderato, temuto e rimosso. E poiché è nell’immaginazione che qualcosa come una storia è diventata possibile, è attraverso l’immaginazione che essa deve ogni volta nuovamente decidersi.
La storiografia warburghiana (in questo vicinissima alla poesia, secondo l’indiscernibilità tra Clio e Melpomene che Jolles suggeriva in un bel saggio del 1925) è la tradizione e la memoria delle immagini e, insieme, il tentativo dell’umanità di liberarsi da esse, per aprire, al di là dell’«intervallo» fra la pratica mitico-religiosa e il puro segno, lo spazio di una immaginazione senza più immagini. Il titolo Mnemosyne nomina, in questo senso, il senza immagine, che è il congedo - e il rifugio - di tutte le immagini.
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Anticipazioni
Una figura emblematica
In «Ninfe» - che uscirà per la collana Incipit di Bollati Boringhieri il 18 gennaio e di cui anticipiamo il primo, il secondo e il decimo capitolo (i sottotitoli sono redazionali) - Giorgio Agamben indaga la natura di queste figure che Paracelso definiva «in carne e ossa», create «a immagine dell’uomo» e che possono «acquistare un’anima solo unendosi con lui». Come già in altri suoi libri, Agamben riprende la lezione di Warburg, ricordando, tra l’altro, che le ricerche dello studioso tedesco sono contemporanee alla nascita del cinema e che con esso hanno in comune il problema della rappresentazione del corpo in movimento, (bewegstes Leben) di cui la ninfa costituisce l’esemplare canonico.
Quel che a Warburg interessava era, in realtà, la vita delle immagini, e la sua scoperta - scrive Agamben - è che accanto alla loro persistenza retinica esse hanno una sopravvivenza storica, legata al persistere della loro carica mnestica. Warburg si accorse dunque per primo che le immagini trasmesse dalla memoria storica non sono inerti bensì dotate di una vita postuma, e che la loro sopravvivenza richiede una operazione del soggetto storico, che rende possibile rimettere in movimento il passato.
Il fascino delle Ninfe. Bellezze in fuga
di Alessandro Stavru *
«Nove generazioni di uomini nel fiore degli anni vive la gracchiante cornacchia; il cervo quattro volte più della cornacchia, il corvo invecchia dopo tre vite del cervo; ma la fenice dopo nove del corvo. E noi, Ninfe dalle belle chiome, figlie di Zeus e gioco, viviamo dieci volte più della fenice». Queste parole, tramandate da Esiodo e pronunciate da una Ninfa, sollevano uno dei più spinosi problemi della mitologia classica: sono le Ninfe eterne, e dunque divinità in senso pieno, oppure mortali, e pertanto esseri demoniaci?
A questa domanda non è possibile dare una risposta univoca, dato che le Ninfe venivano venerate in innumerevoli culti, disseminati su tutto il suolo greco. Ogni luogo della natura selvatica era abitato da Ninfe: i monti dalle Oreadi, i boschi dalle Alseidi, i prati dalle Leimoniadi, le valli dalle Napee, i laghi e gli stagni dalle Limniadi, le sorgenti dalle Naiadi, le piante dalle Driadi, il mare dalle Nereidi, il cielo dalle Pleiadi.
In virtù di questa loro infinita pluralità, le Ninfe non possedevano un nome proprio, se non quello che mutuavano dalla sorgente, dallo stagno o dall’albero cui davano vita. Sintomatico è il caso delle Amadriadi, letteralmente «coloro che vivono quanto gli alberi»: cessano di vivere nel momento in cui muore la pianta che abitano.
Corteggiate da dei e uomini, le Ninfe sono di una bellezza irresistibile. Al loro fascino soggiacciono Zeus, Apollo, Dioniso, Hermes e Poseidone, ma anche innumerevoli eroi. L’esempio più celebre è quello di Odisseo, tenuto prigioniero per oltre dieci anni da Circe e da Calipso. Significativo è anche il racconto di Dafne, che per sfuggire alle avances di Apollo si trasformò in alloro. Oppure la storia di Clizia, amata dal dio del sole Helios e poi miseramente abbandonata: incapace di rassegnarsi, fissò per nove giorni l’oggetto del suo desiderio, finché, consunta d’inedia e dolore, fu mutata nel girasole.
Come scrive Walter F. Otto, la bellezza fa parte dell’essenza delle Ninfe poiché «è frutto del silenzio in quanto perfezione... all’occhio devoto il silenzio si palesa proprio attraverso la bellezza». Si tratta di un silenzio sublime, di un «tacere primordiale» che paradossalmente si esprime attraverso la musica. Di qui i canti e le danze che accompagnano le Ninfe in ogni momento della loro esistenza. Altre attività che le caratterizzano sono la caccia, la guarigione e l’educazione (accudirono nientemeno che Zeus, Apollo e Dioniso).
Al pari delle celebri Moire, le Ninfe sono inoltre divinità tessitrici. Adornate di magnifici pepli, stendono un velo che congiunge i destini umani a quelli divini. Sorvegliano l’ordito del velo nuziale e proteggono le nozze femminili. Infatti il termine nymphe definisce la fanciulla, la vergine o la donna pronta al matrimonio. È imparentato con il verbo latino nubere, «prendere marito» (da cui la nostra «nubile»).
L’etimologia più significativa della Ninfa rinvia però a un’altra dimensione. Numphe significa infatti anche «fonte» o «acqua sorgiva». L’equivalente sostantivo latino lympha, e soprattutto l’aggettivo lymphaticus («folle») rivelano l’autentica natura del liquido ninfale.
Si tratta, scrive Salustio, di un principio cosmico generativo: «le Ninfe sono preposte alla generazione, giacché tutto ciò che è generato è in flusso». Di qui l’analogia tra le Ninfe e le anime che si ritrova in Plotino e in Porfirio. Ma di qui, soprattutto, la follia delle Ninfe. Coloro che abitavano nei dintorni degli antri delle Ninfe erano detti nympholeptoi, «posseduti dalle Ninfe». Erano «ebbri per ispirazione di un essere divino», dice Aristotele. Nel possederli, la Ninfa, li metteva in rapporto con un sapere di superiore provenienza, in virtù del quale diventavano parte integrante del divino.
Scrive in proposito Roberto Calasso che «per i Greci, la possessione fu una forma primaria della conoscenza, nata molto prima dei filosofi... Tutta la psicologia omerica, degli uomini e degli dei, è attraversata dalla possessione, se possessione è in primo luogo il riconoscimento che la nostra vita mentale è abitata da potenze che la sovrastano e sfuggono a ogni controllo, ma possono avere nomi, forme, profili».
Le Ninfe presiedono a ogni divina possessione, prima fra tutte quella erotica. Racconta a questo proposito Pindaro che Afrodite portò agli uomini l’«uccello delirante» Inyx, dal quale ebbe origine il desiderio sessuale; ma Inyx altri non era che una splendida Ninfa, trasformata in uccello da Hera per aver offerto un filtro d’amore a Zeus.
Anche la possessione filosofica era connessa alle Ninfe: in un celebre passo del Fedro, Socrate confessa di essere «posseduto dalle Ninfe», e ad esse decide di rivolgere una preghiera alla fine del dialogo.
Come nota Calasso, in questo caso «la Ninfa è la materia mentale che fa agire e che subisce l’incantamento»; infatti, «il delirio suscitato dalle Ninfe nasce dall’acqua e da un corpo che ne emerge, così come l’immagine mentale affiora dal continuo della coscienza».
Fonte di sublime ispirazione, l’acqua delle Ninfe è però anche estremamente pericolosa. I suoi effetti nefasti si abbattono sul bellissimo Ila, l’amante di Eracle che, sbarcato a Kios con la spedizione degli Argonauti in una notte di luna piena e allontanatosi per cercare dell’acqua, viene trascinato sott’acqua dalle fatali Ninfe.
Questo aspetto terribile delle Ninfe spiega perché nel Medioevo esse furono relegate ai margini dell’immaginario collettivo, se non addirittura scambiate con le streghe o altre entità demoniache.
Dopo secoli di oblio, nel Rinascimento tornarono alla ribalta soprattutto con Dante, le cui «Ninfe etterne che dipingon lo ciel per tutti i seni» segnano un momento di svolta importante. La leggerezza della Ninfa dantesca esprime infatti quel che Aby Warburg chiamerà il «gesto vivo» dell’antichità pagana. Un gesto che nella Nascita di San Giovanni Battista del Ghirlandaio si esprime nell’elegante movimento del drappeggio e dei capelli della Ninfa, agitati da una «brezza immaginaria» invisibile nel resto dell’affresco. È questo dolce tremito a far rivivere il mondo antico nella Firenze di Lorenzo de’ Medici: «Queste Ninfe ed altre genti sono allegre tuttavia. Chi vuol esser lieto, sia: di doman non c’è certezza».
La dimensione dantesca subisce un brusco capovolgimento in Boccaccio, nel quale le Ninfe si fanno pura carnalità, oggetto di un amore profano e caduco: «le Ninfe Castalide, alle quali queste malvagie femine si vogliono assomigliare, non t’abbandoneranno già mai... è a loro grado il potere stare, andare e usare teco». Nasce qui la ninfa dei giorni nostri, simbolo di misoginia e fatuità erotica. L’abiezione della «femina» dà luogo a un materialismo senza speranza. E a poco vale la preghiera che Boccaccio rivolge alle divinità in fuga: «O Ninfa, non te ne gire, ferma il piè, ninfa, sovra la campagna, ch’io non ti seguo per farti morire!». Come scrive Eliot, «le Ninfe sono ormai dipartite».
* Arianna editrice - 01/03/2007
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MELUSINA: RITROVAMENTO DI SIRENE (E SIBILLE) NELLA CITTA’ DI CONTURSI TERME (SALERNO). Un’occasione per ripensare tali figure della tradizione culturale europea. Materiali sul tema
FANTASIA, ATTENZIONE, IMMAGINAZIONE: L’ANIMA E LA RICERCA INTERIORE (E NON SOLO). Alcune pagine dall’ultimo saggio di James Hillman- con note critiche.
FLS
In memoria dell’aura. La questione del digitale nei musei
Con la diffusione della pandemia, i musei devono sempre più veicolare i propri contenuti attraverso le nuove tecnologie. Ma che fine fa la componente fisica dell’opera d’arte?
di Lorenzo Taiuti *
Nel film di Christopher Nolan Inception, travolgente riflessione sul rapporto fra spazio, memoria e sogno, fra architettura e mente, accade che le immagini inizino a tremare, le pareti crollino, la realtà sfugga alle leggi di gravità e si frantumi. La realtà è ricostruita digitalmente, una Realtà/Falso che vive nel sogno (artificiale, drogato) di uno dei personaggi. Quando qualcosa mette in dubbio la struttura narrativa e visiva creata, l’illusione si autodistrugge. Le forme dell’arte d’oggi sono basate su una serie di codici dove il rapporto fra visione e concetto ispiratore del lavoro crea un’architettura fragile, che si rinnova continuamente con elementi sempre nuovi e imprevedibili. Un effetto di “sfocatura” sulla realtà si accompagna sempre all’esperienza di visione di un lavoro creativo.
LA STRATEGIA DEL VIDEO NEI MUSEI
Cosa succede al rapporto opera-utente quando questa percezione avviene attraverso un medium di riproduzione? Sta succedendo in musei e gallerie nel periodo della pandemia. I musei hanno per anni tenuto al minimo la strategia del video, nella sacra paura dei diritti d’immagine, della desacralizzazione dell’opera, della perdita di richiamo del museo quando i suoi contenuti diventano “pubblici”, della perdita di aura e di mistero. Il che vorrebbe dire, però, che la riproduzione delle opere di Raffaello su segnalibri, scatole di cioccolatini, pubblicità di intimo e quant’altro ha stancato l’attenzione del pubblico. La mostra di Raffaello alle Scuderie del Quirinale a Roma è stato un successo fra i maggiori. L’oggetto reale resta il punto centrale dell’esperienza estetica.
LA MEDIAZIONE TECNOLOGICA
Il problema è, al contrario, arrivare a costruire un’esperienza mediata dalla riproduzione tecnologica. È un problema di sempre. Il regista francese Henri-Georges Clouzot, nel suo famoso documentario su Picasso, arriva a tradurre l’esperienza statica della pittura in un “time based language” filmando l’atto del dipingere attraverso un vetro. Con i continui cambiamenti e modifiche apportati da Picasso al quadro, quest’ultimo diventava cinema, video, animazione.
Il recente spostamento online di Ars Electronica Festival ha tradotto tutto in video-online con un effetto dominante di “televisione digitale”. Le soluzioni per una virtualità online sono all’inizio, e si ricordano le esperienze della videoarte degli Anni Sessanta e Settanta, che proponevano sia la documentazione (happening, performance) sia l’uso parallelo del video in funzione estetica (come il cinema d’artista), che è un percorso cinetico attraverso idee, immagini e percezioni.
VERSO UN LINGUAGGIO DIGITALE DIFFUSO
Questa ricerca sull’immagine “comunicata” dell’arte si trasforma da “nell’epoca della sua riproduzione” (Walter Benjamin) a “nell’epoca della sua comunicazione”. Nuovi linguaggi comunicativi trasformeranno la testimonianza documentaria in prodotto estetico. Un esempio è il video applicato alla danza contemporanea, la “videodanza” degli Anni Ottanta, che ha portato a significative modifiche linguistiche, facendo aderire il video agli spazi e ai movimenti della danza. Per ultimo, ma non ultimo: quando l’olografia, il 3D e tante altre promesse iniziali del digitale diventeranno linguaggi diffusi? Si apriranno nuove strade.
* Fonte: Artribune, 28.10.2020 (ripresa parziale, senza allegati).
LA PRESENZA DELLE SIBILLE NELLA SISTINA -- IL SERPENTE DI BRONZO: MICHELANGELO, WARBURG, E UN ANAGRAMMA:
CRUCIVERBA ed ENIGMISTICA.
"Dal metodo non nasce niente": un omaggio a Edipo, "Il mancino zoppo" (Michel Serres)
Pur sapendo a quali "pericoli" ("So benissimo...") andava incontro, il prof. Polito, ha aggiunto CORAGGIOSAMENTE al "mosaico sempre in fieri" (vale a dire, in cammino!) una "tessera" e, pur sapendo di ERMETE TRISMEGISTO, ha aperto - SENZA VOLERLO - non solo (come ha fatto alla fine dell’articolo) la porta della CATTEDRALE DI SIENA, ma anche la porta della CAPPELLA SISTINA (http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=5195)!!!
CON un semplice ANAGRAMMA ("Serpente? Presente!": http://www.fondazioneterradotranto.it/2016/10/04/serpente-presente/) ha sollecitato a riconsiderare e a riguardare tutte le tessere del MOSAICO. A questo punto, però, non è più solo un "gioco di parole"! Ora, non si sono solo Apollo, Pitone, le Sibille, e le Muse, c’è anche MOSÈ e MICHELANGELO - e FREUD ("L’uomo Mosè e la religione monoteistica": http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=4829).
C’è il richiamo a tutto l’immaginario biblico e, in particolare, alla interpretazione di Michelangelo della vicenda del SERPENTE DI BRONZO, racchiuso nel "pennacchio" della Volta della Cappella Sistina - https://it.wikipedia.org/wiki/Serpente_di_bronzo_(Michelangelo): il richiamo a un ALTRO serpente, "all’amico serpente" - "al sulfureo amico" -"all’amico ritrovato"!!!
ENIGMI: CRUCI-VERBA!!! A MEMORIA, e ad evitare EQUIVOCI, è BENE ricordare che i "verba volant"!!! Se, e solo se, le parole, i "VERBA" sono agganciati alla croce ("CRUCI"), al "palo", al "bastone" - alla "colonna vertebrale" della propria persona, diventano "scripta", parole scritte, parole degne di essere ricordate - scrittura, Scrittura!!! Altrimenti, sono solo parole al vento di serpenti impazziti - in un mare di sabbia!!!
Federico La Sala
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Aby Warburg
Il rituale del serpente
Una relazione di viaggio *
Aby Warburg è stato forse l’uomo che più ha influenzato, in questo secolo, la nostra visione della storia dell’arte. Attraverso i suoi studi egli ha indicato la via che consente di ritrovare nelle arti figurative la concrezione di una intera civiltà, con tutte le sue oscure tensioni psichiche. Ma lo stesso Warburg, mentre sviluppava la sua opera grandiosa, era periodicamente colpito da crisi nervose, che lo obbligavano a prolungati soggiorni in clinica.
Nel 1923, al termine di uno di questi soggiorni, per dimostrare la propria guarigione, egli tenne ai pazienti e ai medici della casa di cura di Kreuzlingen un «discorso d’addio» - la celebre conferenza sul Rituale del serpente, apparsa poi nel 1939 sul «Journal» del Warburg Institute con una pudibonda nota che la diceva pronunciata per la prima volta «davanti a un pubblico non specialistico». Di fatto, quel discorso era insieme una confessione e un testamento.
In poche pagine, prendendo spunto da una sua spedizione presso gli indiani Pueblo, Warburg risale alle origini del paganesimo e della magia. E illumina il potere stesso - innanzitutto psichico - delle immagini, il loro potere di ferire e di guarire, stabilendo così un circuito fulmineo fra il serpente dell’arcaico rito dei Pueblo e quello che Mosè invitava a innalzare nel deserto.
Per comprendere un testo fondamentale come Il rituale del serpente occorre considerarne in ogni dettaglio la genesi e le allusioni: compito che qui assolve il prezioso saggio di Ulrich Raulff.
* SCHEDA EDITORIALE: ADELPHI (Risvolto - copertina).
L’antropologo Warburg e la vendetta degli indiani Hopi
di Maurizio Cecchetti (Avvenire, 16 luglio 2014)
Nel febbraio di quest’anno [16 luglio 2014, fls] era prevista a Boudler, nel Museo d’arte dell’Università del Colorado, una mostra di studio sul viaggio nel Sud-Ovest americano di Aby Warburg tra il 1895 e il 1896. Il titolo suonava così: «Incontrando culture: il viaggio di Aby Warburg nel Sud-Ovest americano».
Ma questa mostra non ha mai visto la luce, e la notizia rimbalza da noi grazie al mensile «Il giornale dell’arte» che nel numero in edicola spiega, con un lungo articolo di Davide Stimilli, docente in Colorado e cocuratore dell’esposizione, le ragioni per cui non si è fatta, sebbene già dall’ottobre scorso fossero arrivati dal Warburg Institute di Londra tutti i materiali della mostra.
Come vedremo, le ragioni si radicano in una oggi più che mai accesa disputa fra colonizzatori e colonizzati (spesso depredati o sterminati), così che i Paesi ex coloniali si vedono ogni tanto presentare il conto dalle vittime, nei modi più vari: dalla restituzione dei beni o le reliquie loro sottratti (vedi il caso dei Maori), alla richiesta di un risarcimento morale per la violazione delle loro tradizioni e delle loro credenze religiose.
Chi era Warburg? Morto nel 1929, rampollo di una famiglia di banchieri tedeschi di origine ebraica, fu uno dei grandi storici delle immagini a cavallo tra Otto e Novecento, che con le sue ricerche aprì la strada a quella che oggi molti conoscono col nome di «iconologia », una disciplina che lui non teorizzò mai (qualcuno, per questo, l’ha anche definita una «disciplina senza nome»), che ha trovato un assetto teorico grazie a un altro storico dell’arte tedesco, Erwin Panofsky, il quale peraltro ha forzato molto la mano a Warburg, attribuendo al suo metodo di studio una sistematicità che non ebbe mai. Warburg fu uno sciamano delle immagini, un rabdomante che si faceva guidare da fluidi mentali che, forse, presero anche una direzione visionaria a causa della instabilità psicologiche dello studioso (come si dice in questi casi: il sintomo del genio saturnino). A Panofsky Warburg avrebbe potuto rispondere: la méthode c’est moi, il metodo sono io, e lo dimostra il suo grande progetto incompiuto, l’atlante delle immagini Mnemosyne.
Che ci faceva Warburg nel Sud-Ovest americano? Quello che facevano molti altri intellettuali come lui dotati di una formazione da antropologi, che spaziavano dalla filosofia all’arte, dall’antropologia alla religione: guardavano le altre culture con una mentalità per così dire eurocentrica. Oggi l’incontro delle culture sembra quasi una trita ovvietà dopo decenni di martellante discussione sui diritti dell’altro.
Il martello batte dove il dente duole? L’Occidente, sia pure in posizione dominante, ha da tempo capito di essere uno dei mondi possibili fra i tanti che si affrontano nella globalizzazione: parlare dell’altro, difenderne le specificità, considerare il dialogo come un ragionare ponendosi dalla parte dell’interlocutore, fino a farsi paladini della sua diversità rispetto alla nostra (diversità), è una sapiente, quanto necessaria, forma retorica per tenere il punto.
E qual è il punto? Il punto è che dietro la filosofia dell’altro, nella propaganda geopolitica si celano spesso nuove forme di colonialismo. Nel momento in cui ci s’impanca difensori dei diritti dell’altro, in qualche modo si dice che noi glieli riconosciamo. È una sottile prevaricazione, che può riservare brutte sorprese.
La mostra dell’Università di Boulder (una ridente cittadina di circa centomila abitanti, posta a 1.700 metri sopra il livello del mare, all’incrocio tra le Montagne Rocciose e le Grandi pianure), è una di queste docce fredde che il mondo occidentale - democratico, pari opportunità, politicamente corretto, e chi ne più ne metta -, subisce quando tenta di spacciare come neutrale operazione di studio qualcosa che è ancora materia di «scuse» quasi mai ricevute dalle vittime di un colonialismo che ha derubato i popoli sottomessi anche della loro cultura e della loro storia.
Wole Soyinka, in un suo saggio breve, ma durissimo sulla questione della riconciliazione in Sudafrica, ricordava che la violenza maggiore sui popoli colonizzati non furono quelle fisiche e morali sui singoli (con orrori imperdonabili), ma quelle che depredarono la memoria di quei popoli e le loro testimonianze culturali. Restituiteci l’identità che ci avete rubato, diceva Soyinka. Intendeva: lasciate che siamo noi a chiedervi giustizia, non siete voi che ce la rendete, ma noi che la pretendiamo. Qualcosa del genere ascoltai qualche anno fa a Mantova anche dalla bocca del grande Edouard Glissant.
Warburg, che era arrivato alla fine del 1895 a New York per partecipare al matrimonio del fratello, disgustato da quella società opulenta aveva deciso di spingersi verso l’Ovest, in quella terra mitica abitata da tribù indiane come quella degli Hopi. Questa esperienza di Warburg si compie - scrive Stimilli - nel «groviglio straordinario di progresso e arcaicità che è la storia degli Stati Uniti alla fine dell’Ottocento». E Warburg? Warburg era guidato dall’interesse per un rituale degli Hopi: quello del serpente, che era per lui l’occasione di comparare il paganesimo originario della Grecia arcaica verificandolo de visu su una «sopravvivenza» attuale (lasciamo stare, qui, l’errore sostanziale di questo comparatismo diacronico).
Come si comporta Warburg con gli Hopi? Come gli antropologi depositari di una mentalità coloniale: preleva, senza troppe remore, i loro oggetti, i loro simboli, persino la loro immagine attraverso la fotografia.
Stimili ricorda che gli Hopi, una tribù indiana dei Pueblos, erano spaventati dalla macchina fotografica, perché credevano che potesse rubare loro l’anima. Così non erano contenti di essere fotografati, mentre Warburg, nota Stimilli analizzando una foto celebre, dà prova di una certa violenza costringendo l’indiano a starsene fermo accanto a lui mentre lo tiene per un braccio perché, evidentemente, era restio a farsi fotografare.
Ed è proprio questa la ragione per cui la mostra è saltata: alcuni docenti all’Università del Colorado, appartenenti alle diverse tribù indiane, si sono opposti all’intenzione degli organizzatori di esporre materiali che ancora oggi creano problemi morali e spirituali agli eredi degli indigeni di un secolo fa.
Il Museo, intimorito dalle promesse di boicottaggio e dalle polemiche sui giornali, ha abbandonato il progetto. Se lo stesso caso si fosse verificato in Europa forse gli organizzatori avrebbero tenuto duro, giustificando tutta l’operazione come un modo per capire e rendere le scuse alle vittime di quella mentalità: è l’obiezione implicita nel discorso di Stimilli; ma, appunto, è in America che si svolge questa storia, dove la violazione delle nuove convenzioni linguistiche ed etiche nel rapporto fra le culture e i popoli, può anche costare a un docente la carriera universitaria.
Stimilli, mettendosi il cuore in pace, conclude: «Sono, a ragion veduta, sinceramente felice che la mostra non sia avvenuta». Possibile, mi chiedo, che tutto il buon senso che oggi apprezza, e che nasce da una consapevolezza etica, non lo avesse nemmeno sfiorato quando preparava quella mostra? Come si dice in questi casi: si deve far buon viso a cattiva sorte.
"PATHOS A ORAIBI: CIO’ CHE WARBURG NON VIDE" di David Freedberg (cfr.: Lo sguardo di Giano - Columbia University)
LA LEZIONE DI MANDELA - GUARIRE LA NOSTRA TERRA: VERITÀ E RICONCILIAZIONE.
Per un pensiero della distanza
Warburg l’indiano
di Emiliano De Vito (Doppiozero, 12.05.2019)
Una breve intervista sul San Francisco Call del 24 febbraio 1896 ci presenta “A Noted Florentine Investigator” in procinto di salpare per il Giappone (viaggio che non avrà luogo), vivamente sorpreso dall’arte degli indiani Pueblo per l’intimo legame che essa istituisce con la loro mitologia e per la elevata qualità degli artefatti, che - arriva a dichiarare l’intervistato - risultano persino più interessanti dell’arte rinascimentale italiana. Questo apparente ridimensionamento dell’assoluto primato artistico del Rinascimento italiano sembra provenire da un intelletto estravagante. In realtà l’affermazione, per nulla dissimulata, del superiore interesse di vasi e utensili di uso quotidiano prodotti da una cultura extraeuropea, pone la questione della natura e della dignità scientifica di questo «interesse». Che genere di ricerca poteva avere determinato simili convinzioni in uno studioso come Aby Warburg - poiché, lo si è già capito, di questi si tratta -, uno studioso fino a quel momento attivo come storico dell’arte, che aveva pubblicato, nel 1893, una dissertazione dottorale su Botticelli? A questo interrogativo si può trovare una risposta tanto persuasiva quanto suggestiva nella nuova monografia di Horst Bredekamp - Aby Warburg, der Indianer. Berliner Erkundungen einer liberalen Ethnologie (Aby Warburg, l’indiano. Ricognizioni berlinesi di una etnologia liberale, Wagenbach, Berlino 2019, pp. 171).
Per Warburg occorre mutuare - prima voce di un possibile decalogo ad uso dell’interprete - la precauzione che Roberto Bazlen formulò per Proust: non nominarne il nome invano. Non l’ha nominato invano Bredekamp con questo suo Baedeker corredato da un importante apparato iconografico, pensato per chi voglia ripercorrere il viaggio - o dovremmo dire “spedizione etnologica”? - che Warburg intraprese tra il dicembre del 1895 e il maggio del 1896 nell’estremo sud-ovest degli Stati Uniti. Il lettore potrà seguirne l’itinerario tra Colorado, New Mexico e Arizona, affidandosi a una ricostruzione puntuale fondata sulla corrispondenza, gli appunti di lavoro, il materiale fotografico (in non piccola parte realizzato dallo stesso Warburg con una allora modernissima fotocamera, la Buck’s Eye della Kodak, acquistata a Santa Fé nel gennaio 1896).
Si noti che tale documentazione è anch’essa di recente o recentissima pubblicazione (alludiamo ai volumi III.2, IV, V delle Gesammelte Schriften, apparsi tra il 2015 e l’anno corrente). E fa bene Bredekamp a precisare nelle pagine di apertura che, prima di questa importante serie di edizioni, la ricerca era ferma nella convinzione che Warburg, dopo l’esperienza americana, fosse tornato rapidamente a studiare il suo Rinascimento, non preoccupandosi di «sviluppare in un libro le corsive osservazioni sugli Indiani» (Gombrich): quel viaggio avrebbe rappresentato solo «un episodio che non sembrò trovare alcuna immediata espressione nel lavoro scientifico di Warburg» (Forster). Anche in questa circostanza, dunque, la “biografia intellettuale” redatta da Gombrich nel 1970 - ancora oggi improntamente difesa da qualche attardato interprete e editore - rivela (ma l’aveva già dimostrato in modo inconfutabile la tempestiva denuncia di Wind datata 1971) una natura toto coelo difforme rispetto al proprio oggetto, continuando a perdere progressivamente ogni utilità, anche quell’unica che pure sembrava conservare - cioè offrire assaggi dal cospicuo lascito di inediti warburghiani -, man mano che questo materiale viene messo alla luce delle stampe. Quanto a Forster, si deve aggiungere che la sua ultima monografia sul tema avrebbe, a quanto si dice, corretto quella grossolana osservazione risalente al 1991.
La fisionomia di Warburg si arricchisce considerevolmente grazie allo studio di Bredekamp, che segue il grande amburghese anche al ritorno dagli Stati Uniti, ed è anzi proprio la messa a fuoco sul periodo immediatamente successivo al viaggio americano a costituire una delle novità più rilevanti dell’indagine in esame. Tale periodo berlinese, che va dall’agosto 1896 all’aprile 1897, viene qui accuratamente ricostruito per la prima volta. Warburg, che prolunga il soggiorno a Berlino per dedicarsi agli studi etnologici presso il Königliches Museum für Völkerkunde, finisce per occupare un posto di rilievo accanto a personalità come von den Steinen e Ehrenreich, cioè tra coloro che contribuirono maggiormente alla costruzione delle collezioni del museo etnologico berlinese. Warburg si rivela addirittura «il catalizzatore» di una «fitta rete di relazioni» tra americanisti e etnologi (come Bandelier, Cushing, Keam, Voth, Seler) che consentì a Berlino di ospitare una delle più importanti raccolte delle testimonianze della cultura dei Pueblo.
Il Königliches Museum è il frutto di una concezione della ricerca etnologica che Warburg evidentemente avvertì come affine alla propria scienza della cultura, una scienza che grazie allo studio di Bredekamp appare anche (ma sarebbe riduttivo costringerla in questa formula) quale «fusione tra storia dell’arte e etnologia». Bredekamp mette in luce i tratti metodologici di quella etnologia attraverso l’analisi della forma espositiva espressa dalle Kunstkammern berlinesi. (Di questi spazi espositivi, delle Kunstkammern in genere, Bredekamp è forse il più sensibile osservatore contemporaneo, ed è d’obbligo a questo proposito menzionare il suo Antikensehnsucht und Maschinenglauben, Nostalgia dell’antico e fede nella macchina, del 1993.) Gli artefatti e gli altri materiali etnologici non vi appaiono disposti gerarchicamente, secondo i livelli di sviluppo delle diverse culture. Anche per tale organizzazione degli oggetti nello spazio, apparentemente anodina, questo collezionare non sarebbe un «atto di dominio». Con la messa in luce della orizzontalità delle collezioni museali, con il rilevamento di quello che viene definito di volta in volta come un «gesto cosmopolitico», «egualitario», «non centralizzante», Bredekamp individua una vera e propria tradizione «liberale» e «berlinese» cui contribuirono l’universalismo dei fratelli von Humboldt, la concezione espositiva museale di Adolf Bastian (a tale concezione, opposta a quella colonialista delle collezioni londinesi, è dedicato uno dei capitoli più riusciti del libro) e la scienza della cultura di Warburg.
Al termine del viaggio nel sud-ovest statunitense, all’inizio del periodo berlinese, Warburg - ipotizza fondatamente Bredekamp - aveva in mente «una dottrina etnografica del simbolo» basata sulla comparazione di culture e epoche differenti. Bredekamp contribuisce all’opera, tutt’altro che ultimata, di comprensione del simbolo warburghiano, e lo fa in particolare nel capitolo dal carattere più genuinamente gnoseologico, un capitolo che per questa sua natura, evidentemente impervia, rischia di passare inosservato, mentre - teniamo a sottolinearlo - è proprio nelle pagine in cui si esplica con maggiore intensità la prestazione teoretica dell’autore, più che in quelle dove si svolge, per così dire, lo spoglio documentario, che va ravvisato ciò che conferisce una dignità superiore di “guida” a tale studio. In quelle pagine Bredekamp si sofferma su un gruppo di annotazioni, di vertiginosa intensità, redatte da Warburg il 21 agosto 1896, e cioè all’inizio del soggiorno berlinese. Le trascriviamo: «Espansione o perdita del senso dell’io attraverso | incremento, assemblaggio, aggiunta | inserimento | appropriazione | dell’inorganico»; «Per mezzo di cosa l’uomo perde il senso di unità con il suo io vivente? i.e. con la sua estensione concreta?»; «Per mezzo di cosa l’uomo primitivo perde il senso di unità (identità) tra il suo io vivente e la sua estensione corporea spaziale concreta: attraverso l’attrezzo | la decorazione | la veste (componenti somatici liberi da dolore)». Bredekamp commenta come segue: «Proprio gli indigeni che [Warburg] aveva potuto osservare nel New Mexico e in Arizona rappresentavano con l’uso di ornamenti, indumenti e strumenti decorati quella frattura della identità corporea che offriva una nuova dimensione dell’estensione attraverso il simbolo dell’ambiente inorganico, artificiale e artistico modellato in forme, una identità che quindi era tutt’altro che “primitiva” nel senso di una unità originaria e non evoluta tra sé e il mondo circostante».
La frattura dell’identità non evoluta, la distruzione della unità primitiva tra l’uomo e il proprio ambiente vengono realizzate attraverso operazioni di aggiunta e annessione dell’inorganico all’organico, per cui l’estensione concreta del corpo risulta da un lato dilatata, dall’altro separata dall’ambiente; si acquisisce per tale via una nuova estensione non più concreta, fattuale, ma simbolica, di pensiero: è la prestazione specifica del simbolo (attrezzo decorato, veste, ornamento), nonché il carattere distintivo della civiltà, di cui gli indiani Pueblo dovevano rappresentare agli occhi di Warburg l’esemplare tanto prezioso quanto prossimo a scomparire, minacciato com’era dall’avanzata inarrestabile del modello culturale statunitense.
La frattura e l’espansione operate dal simbolo sono quella «produzione della distanza», su cui, come è noto, Warburg tornerà in più occasioni, anche nella testamentaria introduzione all’Atlante Mnemosyne. La distruzione e l’espansione dell’identità primitiva tra l’uomo e il proprio intorno concreto è l’apertura di un intorno simbolico, la conquista della distanza. «Distanza», come si sarà intuito, costituisce un vero e proprio termine tecnico warburghiano. Esso non coincide con la categoria della lontananza, contraltare della vicinanza; denota piuttosto la giusta distanza, il medio neutrale (simbolico e teoretico) dell’equilibrio tra lontano e vicino (dimensioni dell’estensione spaziale concreta). Pertanto ci permettiamo di dissentire da Bredekamp su questo punto: i poli qui in questione (poli dialettici più che vagamente «dinamici») non sono «vicinanza e distanza» (una polarità peraltro letta da Bredekamp attraverso la «Resonanz», un concetto di recente conio, un complemento di cui non ha nessun bisogno il lessico di Warburg), bensì vicinanza e lontananza. La distanza da conquistare per mezzo di strumenti rituali (ornamenti, vesti, decorazioni) è la giusta distanza, il medio dove lontano e vicino sono in equilibrio dialettico e le categorie di vicinanza e lontananza neutralizzate. In questo senso l’operazione di distanziamento simbolico porge una delle più plausibili chiavi di interpretazione del motto warbughiano «Symbol tut wohl»: «il simbolo fa bene» in virtù del suo potere distanziante. Si ricorderà che vesti, ornamenti e strumenti decorati - elementi di una strategia di messa a distanza del mondo da parte dell’uomo - sono definiti da Warburg «componenti somatici liberi da dolore».
Se nei nativi americani Warburg scorse le vestigia, o forse la promessa, di una civiltà della distanza, nell’Occidente della tecnica non esitò a indicare un’umanità primitiva che con la distruzione del senso della distanza - distruzione perpetrata in primo luogo dalle applicazioni pratiche della scienza (telefono, telegrafo) - avrebbe minacciato di gettare il pianeta nella tempesta se non avesse saputo al più presto (così recita una delle bozze per la conferenza sul Rituale del serpente) farsi «umanità disciplinata» in grado di «riattivare il freno della coscienza». Ora che siamo nel vivo della tempesta, memori di questa lezione, alle primitive “metafisiche della mescolanza”, da cui molti oggi si lasciano volentieri sedurre, contrapponiamo rigorosamente il pensiero della distanza.
Giorgio Agamben
“Credo nel legame tra filosofia e poesia
Ho sempre amato la verità e la parola”
Gli anni parigini con Italo Calvino, le lezioni di Heidegger e la Roma dei Sessanta. Parla lo studioso che ha saputo spaziare tra estetica e biopolitica
colloquio con Antonio Gnoli (la Repubblica, 15.05.2016)
Giorgio Agamben ha scritto un bellissimo libro. I suoi libri sono sempre densi e tersi (e imprevedibili come quello dedicato recentemente a Pulcinella, edizioni Nottetempo). Hanno lo sguardo rivolto al passato remoto. È il solo modo per intensificare il presente. Prendete il suo ultimo lavoro Che cos’è la filosofia? (edito da Quodlibet), cosa nasconde una domanda apparentemente ovvia? «È mia convinzione» - dice Agamben - «che la filosofia non sia una disciplina, di cui sia possibile definire l’oggetto e i confini (come provò a fare Deleuze) o, come avviene nelle università, pretendere di tracciare la storia lineare e magari progressiva. La filosofia non è una sostanza, ma un’intensità che può di colpo animare qualunque ambito: l’arte, la religione, l’economia, la poesia, il desiderio, l’amore, persino la noia. Assomiglia più a qualcosa come il vento o le nuvole o una tempesta: come queste, si produce all’improvviso, scuote, trasforma e perfino distrugge il luogo in cui si è prodotta, ma altrettanto imprevedibilmente passa e scompare».
Offri un’immagine volatile della filosofia.
«Ho l’abitudine di dividere l’ambito dell’esperienza in due grandi categorie: le sostanze da una parte e, dall’altra, l’intensità. Di una sostanza si possono disegnare i confini, definire i temi e l’oggetto, tracciare la cartografia; l’intensità invece non ha un luogo proprio».
Può verificarsi ovunque?
«La filosofia, il pensiero è, in questo senso, un’intensità che può tendere, animare e percorrere ogni ambito. Essa condivide questo carattere tensivo con la politica. Anche la politica è un’intensità, anche la politica, contrariamente a quello che ritengono i politologi, non ha un luogo proprio: com’è evidente non soltanto nella storia recente, di colpo la religione, l’economia, perfino l’estetica possono acquisire una decisiva intensità politica, diventare occasione di inimicizia e di guerra. Va da sé che le intensità sono più interessanti delle sostanze. Se le sostanze e le discipline - come la vita, del resto - rimangono inerti, se non raggiungono una certa intensità, esse decadono a pratiche burocratiche».
Un antidoto allo scadere nella pratica burocratica può essere la poesia. Tu hai spesso ribadito il legame tra filosofia e poesia. Che lo stesso Heidegger pose al centro della sua riflessione. In cosa consiste questo legame?
«Ho sempre pensato che filosofia e poesia non siano due sostanze separate, ma due intensità che tendono l’unico campo del linguaggio in due direzioni opposte: il puro senso e il puro suono. Non c’è poesia senza pensiero, così come non c’è pensiero senza un momento poetico. In questo senso, Hölderlin e Caproni sono filosofi, così come certe prose di Platone o di Benjamin sono pura poesia. Se si dividono drasticamente i due campi, io stesso non saprei da che parte mettermi». Nella tua biografia intellettuale c’è una laurea in giurisprudenza, ma con una tesi piuttosto insolita dedicata a Simone Weil.
Come è nata questa scelta?
«Scoprii Simone Weil a Parigi nel 1963 o ’64, comprando per caso la prima edizione dei Cahiers nella libreria Tschann a Montparnasse. Ne rimasi così abbagliato che appena tornato a Roma li feci leggere a Elsa Morante che ne fu conquistata. E immediatamente decisi che avrei dedicato al pensiero politico della Weil la mia tesi di laurea in filosofia del diritto. Allora in Italia il suo pensiero era quasi sconosciuto e io ne sapevo molto più dei relatori con cui dovevo laurearmi».
Cosa ti colpì del suo pensiero?
«In modo particolare la critica delle nozioni di persona e di diritto che la Weil svolge in La personne et le sacré. Fu a partire da questa critica che lessi il saggio di Marcel Mauss sulla nozione di persona e mi apparve chiaro il nesso che congiunge intimamente la persona giuridica e la maschera teatrale e poi teologica dell’individuo moderno. Forse la critica del diritto che non ho mai abbandonato a partire dal primo volume di Homo sacer, ha nel saggio della Weil la sua prima radice».
Un’altra radice nella costruzione del tuo pensiero è stata Walter Benjamin.
«Ci sono nella vita degli eventi e degli incontri che sono troppo grandi per poter avvenire una volta per tutte. Essi, per così dire, non cessano di accompagnarci. L’incontro con Benjamin - come quello con Heidegger a Le Thor - sono di questo tipo. Come i teologi dicono che Dio continua a creare il mondo in ogni istante, così questi incontri sono sempre in corso. Il debito che ho con Benjamin è incalcolabile».
Debito è una parola intensiva.
«Basti qui accennare solo a un problema di metodo. È lui che mi ha insegnato a estrarre a forza dal suo contesto storico apparentemente remoto un determinato fenomeno per restituirgli vita e farlo agire nel presente. Senza di questo, le mie incursioni in campi così diversi come la teologia e il diritto, la politica e la letteratura, non sarebbero state possibili. Quando si frequenta così intensamente un autore, si producono dei fenomeni che sembrano quasi magici, ma che sono solo il frutto di quell’intimità. Così mi è capitato per il ritrovamento di manoscritti di Benjamin, prima a Roma in casa di un suo amico di gioventù e poi nella Biblioteca Nazionale di Parigi (i manoscritti del libro su Baudelaire a cui Benjamin lavorava negli ultimi anni della sua vita)».
Negli ultimi anni si è accentuato il tuo richiamo alla “biopolitica”. È un concetto che deve molto a Michel Foucault?
«Certamente. Ma altrettanto importante per me è stato il problema del metodo in Foucault, cioè l’archeologia. Sono convinto che la sola via di accesso al presente sia oggi l’indagine del passato, l’archeologia. A condizione di precisare, come fa Foucault, che le ricerche archeologiche non sono che l’ombra che l’interrogazione del presente proietta sul passato. Nel mio caso quest’ombra è spesso più lunga di quella che inseguiva Foucault e investe dei campi, come la teologia e il diritto, che Foucault ha poco frequentato. I risultati delle mie ricerche potranno certamente essere contestati, ma spero almeno che le indagini puramente archeologiche che ho svolto in Stato di eccezione, Il regno e la gloria o nel libro sul giuramento aiutino a capire il tempo in cui viviamo».
Un altro pensatore che ha aiutato a capire il tempo in cui viviamo fu Guy Debord con il suo libro “La società dello spettacolo”, un testo che ancora oggi ci aiuta a comprendere il nostro presente.
«Lo lessi l’anno stesso della sua pubblicazione, il 1967. Con Guy diventammo amici molti anni dopo, alla fine degli anni Ottanta. Ma ricordo, sia al momento della prima lettura come nelle nostre conversazioni, il respiro di sollievo vedendo come la sua mente fosse assolutamente libera dai pregiudizi ideologici che avevano compromesso le sorti dei movimenti. Nel Sessantotto e negli anni successivi gli amici dei movimenti che frequentavo si proclamavano senza dubbi né vergogna e con un’assoluta abdicazione della facoltà di pensare, “maoisti” “trotskisti” e via dicendo. Io e Guy eravamo arrivati alla stessa lucidità, lui a partire dalla tradizione delle avanguardie artistiche da cui proveniva, io dalla poesia e dalla filosofia».
Di sé Debord disse: «Non sono un filosofo, sono uno stratega», secondo te cosa intendeva?
«Malgrado quell’affermazione che citi, non penso che ci fosse in lui alcun conflitto fra il filosofo e lo stratega. La filosofia implica sempre un problema di strategia perché, anche se cerca l’eterno, può farlo solo attraverso un confronto con il suo tempo».
Negli anni in cui hai vissuto a Parigi vedevi spesso Italo Calvino. Come fu il rapporto con lui, con le sue geometrie illuminanti?
«Accanto al nome di Calvino, vorrei mettere quello di Claudio Rugafiori che, con Italo, vedevo spesso in quegli anni, perché lavoravamo insieme a un progetto di una rivista che non andò mai in porto. Il tentativo era di definire quelle che chiamavamo tra noi le “categorie italiane”, delle coppie di concetti attraverso le quali cercavamo di definire le strutture portanti della cultura italiana: “architettura/vaghezza”, “tragedia/ commedia”, “rapidità/leggerezza”, quest’ultima la si può ritrovare testualmente nelle Lezioni americane di Italo. Ero affascinato dal modo in cui lavoravano la mente di Italo e quella di Claudio».
Cosa ti seduceva?
«Il fatto che fossero due forme di pensiero puramente analogico, che percepiva somiglianze e corrispondenze là dove nessun altro avrebbe saputo trovarle. L’analogia è una forma di conoscenza che la nostra cultura ha respinto sempre più ai margini. Quanto all’idea di un Calvino geometrico e scientista credo vada corretta. La sua era piuttosto una straordinaria forma di immaginazione analogica, una sorta di istinto fisiognomico che gli permetteva di ridisegnare ogni volta la geografia del sapere letterario».
Accennavi all’inizio alla tua amicizia con Elsa Morante. Come fu il rapporto con una donna dal carattere così complesso?
«L’incontro e l’amicizia con Elsa sono stati per me in ogni senso decisivi. Una volta Calvino mi ha detto che era possibile frequentare Elsa solo all’interno di un culto. Era forse vero, ma a condizione di precisare che l’oggetto del culto non era Elsa, ma quegli dèi - da Rimbaud a Simone Weil, da Mozart a Spinoza - che essa riconosceva e amava condividere con gli amici. In questo Elsa era seria, selvaggiamente seria, e credo che abbia trasmesso al ragazzo che ero, un po’ di quella sua intransigente passione per la poesia e per la verità. E da allora che penso che non si possano tracciare confini chiari fra la letteratura e la filosofia».
So che attraverso la Morante hai conosciuto Pasolini. Tra l’altro partecipasti in un ruolo piccolo ma bello al suo “Vangelo”. Che ricordo hai di quell’esperienza sul set?
«Del Vangelo ricordo la velocità: Pasolini non faceva quasi mai ripetere una scena e ciascuno parlava e si muoveva come gli pareva. Credo che questo dia al suo cinema quella naturalezza che non pretende mai di essere realistica. La sola lunga pausa durante le riprese fu colpa mia: nell’Ultima Cena mi trovai davanti sul tavolo delle enormi pagnotte lievitate e dovetti ricordare a Pier Paolo che per la pasqua ebraica il pane doveva essere azzimo».
Hai anche accennato ai tuoi rapporti con Heidegger e ai seminari che seguisti con lui a Le Thor nel 1966 e poi nel 1968. Cosa ti è restato di quegli incontri?
«L’incontro con Heidegger, come quello con Benjamin, non è mai finito. Nella mia memoria è inseparabile dal paesaggio della Provenza, allora ancora non toccato dal turismo. Il seminario aveva luogo la mattina, nel giardino del piccolo albergo che ci ospitava, ma a volte in una capanna durante una delle numerose escursioni nella campagna circostante. Il primo anno eravamo cinque in tutto, oltre al seminario c’erano i pasti in comune e io ne approfittavo per porre a Heidegger le domande che più mi interessavano, se aveva letto Kafka, se conosceva Benjamin. Ma questi sono solo aneddoti».
Uno degli aspetti principali della tua ricerca è stata la filologia. In che modo l’hai praticata?
«La filologia è stata sempre parte essenziale della mia ricerca. E non solo perché mi è capitato di fare lavori filologici in senso tecnico - penso alla ricostruzione del libro di Benjamin su Baudelaire e all’edizione delle poesie postume di Caproni - ma perché filologia e filosofia, amore per la parola e amore per la verità non possono in alcun modo essere separati. La verità dimora nella lingua e un filosofo che non avesse cura di questa dimora sarebbe un cattivo filosofo. I filosofi, come i poeti, sono innanzitutto i custodi della lingua e questo è un compito genuinamente politico, soprattutto in un’epoca, com’è la nostra, che cerca con ogni mezzo di confondere e falsificare il significato delle parole».
«Ho salvato gli studi sul Rinascimento»
Peter Mack dirige l’Istituto Warburg di Londra
«Volevano trasferire la biblioteca per fare soldi»
di Nuccio Ordine (Corriere della Sera, 03.01.2013)
«Dopo anni di tensioni e di battaglie, posso dire, per il momento, che la biblioteca del Warburg è salva e non sarà separata dall’Istituto. Le trattative con l’Università di Londra sono in corso. Ma continueremo a vigilare per difendere la nostra identità e la nostra autonomia». Peter Mack - direttore del Warburg Institute di Londra, uno dei più importanti centri di ricerca del mondo sul Rinascimento - parla di tregua, senza però deporre le «armi» con cui ha tenacemente protetto la celebre biblioteca del suo Istituto.
Esperto della fortuna della retorica e della dialettica tra Quattrocento e Seicento, Mack si è trovato immediatamente alla testa di un esercito, composto da autorevoli studiosi di vari Paesi, che ha resistito a un progetto di ristrutturazione delle scuole di specializzazione per ridurre i costi di gestione. I vertici dell’Università di Londra avrebbero voluto recuperare lo storico edificio di Woburn Square, che ospita gli oltre trecentocinquantamila volumi della biblioteca, per destinarlo ad attività più redditizie. Cioè, in buona sostanza, per farlo rendere economicamente.
Aby Warburg (Amburgo, 1866 - 1929) è stato uno storico d’arte tedesco (al centro nella foto). Erede di una famiglia di banchieri, fu il fondatore della critica iconologica.Aby Warburg (Amburgo, 1866 - 1929) è stato uno storico d’arte tedesco (al centro nella foto). Erede di una famiglia di banchieri, fu il fondatore della critica iconologica. Creata da Aby Warburg (1866-1929), il geniale fondatore, la biblioteca è stata nel corso del Novecento un punto di riferimento per gli studi rinascimentali. Tra gli scaffali e la fototeca (circa quattrocentomila immagini raccolte per temi) sono passati maestri che hanno condizionato, con i loro lavori, le ricerche sui rapporti tra varie civiltà (cultura classica e umanesimo, saperi occidentali e orientali) e tra varie discipline (storia dell’arte, filosofia, letteratura, scienza): da Ernst Cassirer a Rudolph Wittkower, da Ernst Gombrich a Erwin Panofsky, da Frances Yates a Edgard Wind, da Paul Oskar Kristeller a Carlo Dionisotti, da Fritz Saxl a Michael Baxandall, da Giovanni Aquilecchia a Antonhy Grafton.
Incontriamo Peter Mack a Parigi, in un’aula dell’Ecole normale supérieure. Nonostante le acque siano un po’ meno agitate, il direttore non nasconde le sue preoccupazioni: «Non è certo un buon momento - dice - per le università e per le biblioteche non solo in Inghilterra, ma in tutta Europa. La gestione manageriale degli atenei e la crisi economica determinano una serie di tagli che mettono veramente in pericolo l’esistenza e l’autonomia della ricerca. La biblioteca e l’Istituto sono una cosa sola, come è detto con chiarezza nell’accordo che la famiglia Warburg firmò con l’Università di Londra quando nel 1944 decise di cedere il suo straordinario patrimonio librario. E noi ci batteremo per mantenere questo principio a qualsiasi costo».
Mack sa bene che la vita della biblioteca del Warburg non riguarda solo i professori e i ricercatori dell’Istituto. «Ogni anno - aggiunge con soddisfazione - vengono a lavorare da noi tantissimi studiosi da diversi Paesi. Offriamo non solo la possibilità di consultare liberamente i volumi ma garantiamo, soprattutto, un criterio di collocazione dei libri secondo un progetto tematico ideato da Warburg stesso e dai suoi collaboratori. Chi cerca un saggio troverà accanto una serie di altri saggi che parlano di temi analoghi. Così il lettore sarà stimolato a confrontarsi con altri percorsi, secondo un disegno unitario e interdisciplinare dei saperi. Navigare tra gli scaffali, significa intraprendere un viaggio nella cultura e nella mente dell’uomo. È questa singolarità della nostra biblioteca che allarga la comunità dei lettori anche a studiosi esterni, che negli anni, frequentandola, hanno finito per far parte della nostra famiglia. I numerosi articoli su riviste e giornali testimoniano l’interesse e la solidarietà internazionale...».
Il direttore ci tiene a sottolineare i solidi legami con l’Italia. «Nel nostro sistema di insegnamento - prosegue Mack - il latino è la lingua più importante e subito dopo viene l’italiano. Tutti i nostri studenti devono conoscere bene l’uno e l’altro. Non è possibile studiare il Rinascimento senza mettere la cultura italiana in una posizione centrale. Questo spiega perché la maggior parte dei direttori del nostro istituto sono, per tradizione, amanti dell’Italia. Penso a Gombrich o a Trapp. Ma anche ai miei più vicini predecessori, Nicholas Mann e Charles Hope, che trascorrevano diversi periodi dell’anno nel vostro Paese. Io stesso, del resto, trascorro da sette anni le vacanze a Maiolati Spontini, vicino Jesi...».
Ma l’amore per l’Italia ha radici più profonde. «Basti pensare - specifica Mack - al fondatore Warburg: ai suoi viaggi in Toscana o a Ferrara, dove ha studiato i celebri affreschi presenti nel Salone dei Mesi di Palazzo Schifanoia. L’Istituto ha sempre avuto un rapporto particolare con gli studiosi italiani: Mario Praz, Eugenio Garin, Vittore Branca, Giuseppe Billanovich, Carlo Ginzburg, Salvatore Settis. Con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici, presieduto da Gerardo Marotta, abbiamo avviato tantissime iniziative, legate soprattutto a Giordano Bruno, figura centrale nella storia del Warburg: dai seminari bruniani (che si svolgono da quattordici anni nel nostro Istituto e che hanno ospitato oltre centoquaranta borsisti e una trentina di professori) a una biblioteca elettronica su Internet dove gli studiosi possono consultare non solo l’opera omnia di Bruno ma anche tutti i materiali (libri, traduzione, estratti rari) conservati nella nostra biblioteca».
Ma c’è di più. «Tra i nostri professori - continua Mack - due sono italiani (Guido Giglioni e Alessandro Scafi), mentre nel corso degli anni abbiamo avuto numerosi giovani ricercatori provenienti da università italiane che hanno usufruito delle borse messe a disposizione dall’Istituto. Sarà importante per noi trovare ancora più fondi per invitare i giovani: sono una risorsa fondamentale e il Warburg è sempre stato un centro di incontro tra vari ricercatori che provengono da diversi Paesi...».
Il direttore insiste sulla forza di attrazione della biblioteca e sulla sua unicità. «Non c’è dubbio che la fama del Warburg - aggiunge - è legata alla sua particolare biblioteca. E non c’è dubbio che la storia della biblioteca è stata condizionata dai professori che l’hanno creata e che l’hanno frequentata. Non è un caso che i bibliotecari del Warburg siano tutti degli studiosi: dirigere questa biblioteca, come fa oggi la nostra collega Jill Kraye, presuppone una conoscenza dei campi di ricerca per continuare a collocare i libri secondo il disegno originario. Ma, nello stesso tempo, l’avvicendarsi dei colleghi ha anche segnato lo spostamento della centralità di alcuni temi: se la Yates ha puntato su Giordano Bruno, la memoria, la cultura ermetica e le corti francesi, Schmitt ha favorito lo studio dell’aristotelismo e della storia della scienza, mentre Walker la magia e la musica e Saxl l’astrologia...».
Nonostante l’entusiasmo e il naturale ottimismo, Mack sa che i prossimi anni richiederanno sforzi straordinari. «Per permettere all’Istituto di continuare a crescere - conclude - dovremo risolvere difficoltà finanziarie e programmare nuove forme di ricerca interdisciplinare nel campo iconologico. Il contributo dei nostri amici europei sarà fondamentale...».
Nuccio Ordine
L’alfabeto delle immagini
Dalle rette ai satelliti se Il calcolo usa le figure
La geometria si serve di punti e cerchi per svelare il mondo.
Una sorta di altro lessico che oggi aiuta la tecnologia
Leibniz ricordava come certe sue scoperte fossero dipese dal triangolo di Pascal
Senza disegni nella matematica ci manca una percezione "gestaltica"
di Paolo Zellini (la Repubblica, 13.07.2011)
Chi sa leggere e scrivere conosce l’alfabeto, l’insieme delle lettere della nostra lingua; il complesso dei segni che, disposti in fila, formano le parole con cui siamo in grado di esprimerci, come pure le espressioni simboliche di cui si avvalgono le scienze, comprese le più astruse formule della matematica. Platone chiamava questi segni "elementi", in greco stoicheia. Lo stesso termine poteva denotare le parti costitutive fondamentali della materia e dei corpi, come anche le proposizioni essenziali su cui si basa una disciplina, per esempio gli Elementi di Euclide. Ma gli elementi, in origine, erano cose allineate nello spazio secondo un certo ordine. Per Omero poteva anche trattarsi di file di armi o di schiere di soldati, e in certe iscrizioni risalenti al IV secolo a.C. il verbo stoicheo si riferisce allo "stare in fila" nel gergo militare.
Per il fatto di essere allineate nello spazio, le lettere dell’alfabeto si paragonavano quindi a tutto ciò che può disporsi in linee e sequenze, come i numeri di una serie, le stelle del firmamento, un corso di pietre o mattoni, i soldati di un esercito, le strutture di atomi o le configurazioni di punti con cui i Pitagorici definivano i numeri. Le lettere potevano pure disporsi in cerchi, secondo i canoni della mnemotecnica, oppure in linee tortuose che si avvolgono e si snodano ritmicamente intorno a un centro, come nei meandri di una spirale. Tra le innumerevoli immagini ispirate alla mitica architettura di Dedalo, tra il XV e il XVIII secolo, è frequente imbattersi in sequenze di lettere disposte lungo le spire di un labirinto.
Questa geometria della parola perfeziona e arricchisce il senso del nostro discorso. Ma di che arricchimento si tratta, e si può azzardare l’ipotesi che accanto all’alfabeto delle lettere esista pure un alfabeto delle immagini? Si può cioè ipotizzare un catalogo di figure, assieme ai criteri per assemblarle, per cogliere idee che le parole non riuscirebbero da sole a esprimere in modo altrettanto efficace? Triangoli, cerchi, spirali e quadrati, onnipresenti anche in natura, procurano suggestioni e rimandi simbolici difficilmente riassumibili in un giro di frasi, e sono spesso serviti a comporre i più articolati e astrusi geroglifici della mente, immagini di un percorso iniziatico, di qualche complessa teoria metafisica o scientifica. Nella tarda antichità Boezio sosteneva che allontanarsi dal bene è come deviare da qualche "figura eccellente".
In età rinascimentale Giordano Bruno si serviva di un vasto repertorio di immagini geometriche per illustrare i cardini della sua prodigiosa metafisica. Molte di quelle immagini, a cui Bruno conferiva la dignità di "figure celesti", parlano spesso da sole; e una volta che si sappia analizzarne il senso si contemplano senza altre parole. Tra il 1714 e il 1716, poco prima di morire, Leibniz ricordava come alla sua scoperta del calcolo infinitesimale avesse contribuito lo studio dei numeri disposti in una speciale figura triangolare, il celebre triangolo di Pascal.
Il potere di spiegazione e di sintesi dell’immagine è bene evidente nella matematica. Le proposizioni della geometria euclidea - è l’esempio più ovvio - non si capirebbero senza un adeguato corredo di figure. Spesso, senza un’immagine, mancherebbe una percepibilità "gestaltica", una visione intuitiva di insieme dei diversi passaggi di un ragionamento o di una dimostrazione.
E l’intuizione sintetica della verità matematica, avvertiva Wittgenstein, è un necessario complemento del rigore logico di quei singoli passaggi, un presupposto per coglierli con un unico sguardo, per poterli eseguire e ripetere ogni volta che occorre. Un’analoga potenza di sintesi hanno oggi tutti i generi di mappe, di grafi, di ideogrammi e le innumerevoli immagini astratte della così detta infografica o della infosfera, per usare il gergo dei media, utili a orientarci rapidamente in un mondo scompigliato e multiforme (vedi l’articolo di Maurizio Ferraris apparso su Repubblica il 14 maggio).
Ma c’è anche un rischio di smarrimento, perché le immagini non solo riproducono, ma pure esaltano e moltiplicano la natura irregolare e proteiforme del nostro universo. Redigerne un lessico attenuerebbe l’impressione di vacuità procurata dall’indiscriminata mutevolezza di forme, dall’incessante passare da una cosa all’altra: uno sperpero di fantasticheria che il pensiero greco, sembrano suggerire le fonti, paragonava all’errare nell’indefinito e nel nulla. Per contrastare quel nulla ci si chiedeva se qualcosa resta immutato nella varietà cangiante delle immagini e nella geometria antica, non soltanto greca, si cercava in particolare di stabilire quando l’area di una figura può uguagliare quella di un’altra. Ma l’uguaglianza non è sempre realizzabile, perché è impossibile, ad esempio, quadrare un cerchio di dato raggio usando solo riga e compasso.
Le tecniche del calcolo derivano anche dallo studio di come varia una figura al variare di un’altra; ad esempio come si dilata un quadrato, se si aumenta di poco il lato, in modo da ottenere un quadrato più grande; una questione che porta a interrogarsi sui movimenti virtuali di crescita e diminuzione di una figura qualsiasi. In questa prospettiva l’immagine è vista come in un processo dinamico, una dilatazione o una contrazione continua oppure per singoli passi staccati.
Non a caso, nel commentare il concetto kantiano di immaginazione, Heidegger metteva in evidenza la struttura tripartita dell’intuizione, in quanto non si intuisce mai solo un "adesso", e il presente si prolunga essenzialmente in un prima e un dopo immediati. Per questo, forse, si studiavano l’ingrandimento e la riduzione in scala di figure geometriche nell’antica matematica greca, indiana e cinese. Un lungo esercizio della nostra ragione, senza il quale non disporremmo oggi della scienza che permette di far volare gli aerei, di elaborare immagini satellitari e di costruire modelli per il funzionamento dei motori di ricerca su rete. Ma all’origine di questa scienza troviamo semplici allineamenti di punti, e un alfabeto di immagini che sembrano essersi configurate da tempo immemorabile, e per ragioni ancora ignote, nel nostro pensiero.
(L’autore ha scritto Numero e logos, uscito da Adelphi)
IL GRANDE STORICO DELL’ARTE spiega come l’esperienza psichica dell’immaginare non solo consenta di mobilitare uno sguardo nuovo sul mondo ma soprattutto offra un enorme potere politico
L’immaginazione è soprattutto rivoluzione
di Georges Didi-Huberman (l’Unità, 19.09.2008)
Walter Benjamin ha parlato del surrealismo, questo straordinario dispiegamento dei poteri dell’immaginazione, come dell’«ultima istantanea sugli intellettuali europei». Con ciò, egli intendeva collocare l’immaginazione in un contesto immediatamente filosofico, se non addirittura politico. La questione, infatti, è anzitutto quella del rapporto «tra fronda anarchica e disciplina rivoluzionaria», tra libertà poetica ereditata da Rimbaud (di cui cita un passaggio tratto dalle Illuminazioni) e vincoli inerenti ad ogni azione politica collettiva. La vulnerabilità del rapporto tra illuminazione e azione è dovuta alla differenza, che può essere del tutto trascurabile o invece radicale, tra prendere posizione e prendere partito. Per esempio, non è sicuro che Aragon prenda già partito in Une vague de rêves, pubblicato nel 1924. Ma il «nucleo dialettico» del suo lavoro, come ebbe a dire Benjamin, è ben leggibile nella sua propensione a sperimentare, «là dove la soglia tra veglia e sonno (è)in ciascuno attraversata dal flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini».
Descrivendo questa situazione poetica sperimentale e scoprendola agitata dal «flusso e riflusso di un’enorme massa di immagini», Benjamin utilizza una terminologia inaspettata per chi è solito associare questa «massa di immagini» alla «fantasia» personale del creatore ispirato. In effetti, non si tratta di fantasia, ma di una «esattezza automatica», qualità oggettiva di cui ogni flusso o riflusso di immagini risulta investito. In questo caso, dunque, l’illuminazione è automatica. Semplificando un po’ - giacché in ogni opera, in ogni esperienza concreta, tutto ovviamente si mescola e si complica - si potrebbe dire che, secondo Benjamin, il fondamento del surrealismo consiste proprio nell’associare, nel combinare, nel montare assieme due automatismi simmetrici: da una parte, il reflusso automatico delle immagini «interiori»; dall’altra, il flusso automatico delle immagini «esteriori».
Il primo automatismo è di natura psichica: è quello che va, nel libero impiego che ne fanno i surrealisti, dall’«automatismo mentale» di cui parla Pierre Janet alla «coazione a ripetere» di cui parla Freud. Automatismo di ripetizione e di ebbrezza che comporta, dice Benjamin, un «vero e proprio superamento creatore dell’illuminazione religiosa». La propedeutica a questo tipo di illuminazione non è dunque più il credo o l’esercizio spirituale alla maniera gesuitica, cose che Georges Bataille respingeva anche nella propria tecnica di «esperienza interiore», ma, eventualmente, il ricorso agli stupefacenti: una propedeutica «materialistica», dice Benjamin, «ma pericolosa». In Nadja di André Breton - che, su questo piano, rinnova la «dialettica dell’ebrezza» già presente in Dante, il Dante poeta del mondo terreno analizzato da Erich Auerbach e citato in questo saggio da Benjamin - è l’amore, e non la droga, a condurre all’illuminazione. Analogamente, nella Storia dell’occhio di Bataille, questa funzione sarà svolta dall’esperienza erotica.
Ebbene, in queste esperienze surrealistiche Benjamin scorge un’autentica unione di «energie rivoluzionarie»: uno «sguardo politico» finalmente rivolto al mondo in generale. L’esperienza psichica dell’immaginazione ha, qui, la vocazione di trasformarsi in presa di posizione: vi è «passaggio da un atteggiamento estremamente contemplativo all’opposizione rivoluzionaria». E ciò avviene grazie a una doppia conversione, a una doppia deviazione: l’ebbrezza interiore si trasforma in pensiero reminiscente (deviazione attraverso la durata), e quest’ultima mobilita uno sguardo nuovo sul mondo esteriore (deviazione attraverso le cose).
È a questo punto, ricorda Benjamin, che interviene «la fotografia (...)in maniera assai singolare». Grazie alle sue possibilità tecniche, quali l’inquadratura (ovvero i difetti di inquadratura), la messa in serie e la frammentazione (ovvero lo smontaggio e il rimontaggio), la fotografia rende visibile o, piuttosto, illumina un mondo «dove ogni giorno affiorano inimmaginabili analogie e intrecci di eventi». Benjamin la chiama capacità di lirismo - a condizione di sapere che il lirismo e l’illuminazione di cui si parla dipendono dalle possibilità dischiuse dal medium fotografico, ossia da un automatismo di riproduzione e di oggettività. Da ciò deriva il carattere a un tempo fantasmatico e documentario, testimoniale e rivoluzionario della produzione di immagini fotografiche, divenuta il principio paradigmatico del surrealismo letterario e artistico in generale.
Benjamin, com’è noto, chiama questo potere della fotografia «illuminazione profana» (profane Erleuchtung), espressione divenuta famosa, benché sia ancora tutta da charire. La sua «ispirazione», precisa Benjamin, è «materialista» e «antropologica». In quanto esperienza di illuminazione, essa scaturisce ormai direttamente dagli oggetti più umili e, soprattutto, dai corpi, che il surrealismo aveva riconosciuto come il primo luogo delle energie rivoluzionarie. Fare della poetica una politica equivale dunque a deviare, a trasformare - senza per questo negarla - la sorpresa da cui probabilmente traggono origine i gesti artistici: (...)
Il legame stabilito da Benjamin tra l’«illuminazione profana» e la tecnica fotografica rivela che il «flusso» dell’ebbrezza non sarebbe nulla - nulla che valga, che duri, che abbia valore critico - senza la costruzione delle sue immagini nel tempo. Costruzione della durata che non potrebbe effettuarsi, in effetti, senza una mediazione tecnica. Ciò che l’ebbrezza fa sorgere come illuminazione o «istante utopico» dell’immagine, tocca all’immaginazione - concepibile come «durata utopica» dell’immagine - trasformare in una esperienza di pensiero, in una «immagine di pensiero». Proprio perché è un gioco, proprio perché smonta continuamente ogni cosa, l’immaginazione è costruzione imprevedibile e infinita, ripresa perpetua di movimenti iniziati, contraddetti, sorpresi nelle loro inedite possibilità di cambiamento.
Ora, questa costruzione si svolge, dialetticamente, su due piani nello stesso tempo: essa dispone le cose per meglio esporne le relazioni. Crea rapporti insieme a differenze, lancia dei ponti sopra gli abissi che essa stessa ha dischiuso. È dunque montaggio, attività in cui l’immaginazione diviene una tecnica - un artigianato, un’attività manuale e strumentale - che produce pensiero alternando incessantemente differenze e relazioni. (...)
Diviso tra la posizione di Martin Buber e quella di Bertolt Brecht, Benjamin non fu compreso da nessuno dei due. La sua dialettica era troppo arrischiata, troppo esigente, così come il suo rapporto con la tradizione, da una parte, e la rivoluzione, dall’altra, era troppo anacronistico, apparentemente votato all’impossibile. Ma così facendo Benjamin toccava il cuore stesso della questione che qui ci interessa, e cioè il rapporto tra immaginazione e storia.
L’immaginazione del veggente - che si tratti di Rimbaud, di Kafka o dello stesso Benjamin - si appoggia necessariamente sui documenti dell’osservatore, ma si sente anche autorizzata a prendere il materiale storico in contropelo, disorganizzando, allegramente o dolorosamente, ciò che viene suggerito dalle evidenze causali di superficie. Occorrono delle immagini per fare la storia, soprattutto nell’epoca della fotografia e del cinema. Ma ci vuole l’immaginazione per rivedere le immagini e, dunque, per ripensare la storia.
Studiosi inglesi hanno analizzato gli impulsi cerebrali di credenti e atei
Fissare un soggetto religioso permette a chi ha fede di combattere la sofferenza
Immagini sacre come analgesico
guardare la Madonna placa il dolore
di SARA FICOCELLI *
LO chiamano "analgesico della fede" ma più che alla medicina deve la propria efficacia alla bellezza. Affreschi di madonne estatiche e santi in martirio, capolavori che descrivono Genesi e Vangelo: secondo uno studio della neuroscienziata inglese Katja Wiech, della Oxford University, l’arte sacra stimola il nostro cervello al punto da rendere più sopportabile il dolore.
La ricerca è stata pubblicata sulla rivista Pain ed è nata proprio nel tentativo di dare una risposta alla sofferenza: può il cervello difendersi da solo? E perché chi si rifugia nella religione sembra essere più sereno? "I dati che abbiamo raccolto - spiega la coautrice dello studio, Irene Tracey, direttrice dell’Oxford Centre for Functional Magnetic Resonance Imaging of the Brain - dimostrano che le credenze religiose hanno il potere di alterare l’equilibrio mentale in modo diverso da persona a persona. Ci sono individui che, attraverso le immagini sacre, rispondono meglio al dolore, anche a quello fisico".
La ricerca è stata condotta prendendo in esame 12 cattolici dichiarati e 12 atei o agnostici, di età compresa fra i 19 e i 34 anni. I volontari sono stati sottoposti a un imaging a risonanza magnetica, una tecnica di generazione di immagini usata prevalentemente a scopi diagnostici in campo medico. La macchina ha misurato le variazioni della pressione sanguigna nel cervello a seguito della visione di due immagini molto simili: da una parte una Vergine Maria e dall’altra la Dama dell’ermellino, uno dei capolavori di Leonardo.
A tutti sono stati mostrati i dipinti per una trentina di secondi e, contemporaneamente, somministrate 20 microscosse elettriche, lievemente dolorose, su una mano e sull’altra. Nei cattolici la macchina ha registrato sensazioni di pace e serenità; i 12 atei hanno invece sopportato in silenzio e con sofferenza tutte le microscosse. Ma non è tutto: tra i credenti, la sensazione di sollievo provocata dalla visione della Madonna è stata accompagnata da una vivace attività cerebrale, cosa non riscontrata negli altri partecipanti.
"Ogni immagine che per noi è fonte di rassicurazione, nella quale possiamo identificarci, è in grado di alleviare il nostro dolore - spiega la psicologa Sara Ruiba, specializzata in problematiche dell’identità personale - non si tratta di un effetto placebo: vengono stimolati degli specifici canali sensoriali. Bisogna tenere presente che i binari sono due, quello della sofferenza fisica e quello del disagio mentale. Un’immagine sacra può stimolare questi percorsi neuronali - continua la psicologa - e sottrarci all’intensità del dolore. Un po’ come fanno i fachiri che, meditando, riescono a dormire sui chiodi".
Secondo lo psicologo Tor Wager della Columbia University, quella delle immagini sacre è però solo una delle strade percorribili. "Ognuno di noi può creare un nuovo, positivo universo di microeventi cui fare riferimento. Qualcosa in cui credere: è questa la chiave. Che si tratti di una divinità o di uno scopo nella vita, è sempre questo il miglior analgesico".
* la Repubblica, 19 settembre 2008
Corriere della sera 11.10.2008
E Don Chisciotte incontrò Paul Klee
I grandi artisti usano il potere della fantasia per capire le cose vere
di Carlo Sini *
L’arte, diceva Paul Klee, non ripete le cose visibili, ma rende visibili le cose, la realtà. Se aggiungiamo a questo motto famoso un celebre aneddoto, avremo perfettamente circoscritto il tema affascinante della «serietà giocosa» dell’arte.
Narra l’aneddoto che una signora, dopo aver visitato una mostra di Klee, si rivolse all’artista così apostrofandolo: «Queste cose le sa fare anche il mio bambino, che ha cinque anni!». «Certo signora - rispose Klee -. Bisognerà vedere se le farà ancora a cinquanta».
Maturità e infanzia si trovano così immediatamente accostate e contrapposte: c’è qualcosa che si rende visibile al bambino che l’adulto non vede o non vede più, a meno che non sia appunto un artista. Ovviamente questo «qualcosa» ha a che fare con la fantasia e col gioco ed è ben noto che il gioco per i bambini è una cosa molto seria e anzi indispensabile. Anche l’artista vi ha a che fare, almeno nella misura in cui la sua attività è connessa all’immaginazione e alla creazione di cose che il giudizio comune tende talora a ritenere futili, gratuite e insomma poco serie. Ma come sta la cosa in realtà?
Sigmund Freud se lo chiese. «Il contrario del gioco, osservò, non è ciò che è serio, bensì ciò che è reale ». Cosa fa infatti il bambino giocando? Egli crea un mondo di fantasia che prende molto sul serio, perché lo carica di profondi significati affettivi, senza per questo dimenticare che quel mondo non è quello della comune realtà. Ancora l’adolescente fa qualcosa del genere; mostra infatti una forte tendenza a fantasticare (ed è appunto nell’adolescenza che per lo più si manifestano le vocazioni artistiche). L’attività ludica e quella fantastica serbano così un tratto comune, che il linguaggio esprime efficacemente quando le definisce «sogni a occhi aperti». In altri termini, modi di gratificazione simbolica dei desideri più profondi. Il bambino, giocando, sogna di essere adulto, di essere «grande». A sua volta l’adolescente esaudisce fantasticando i suoi desideri, per lo più erotici.
Su questa stessa linea si pone infine l’artista, poiché la sua indole non riesce ad adattarsi alla dura prosaicità della vita corrente. Il suo bisogno di soddisfacimento pulsionale trova nell’arte la possibilità meravigliosa di trasfigurare le sue fantasie in un una nuova specie di «cose vere» e «reali» che il mondo accoglie per lo più con favore. Questo favore mostra chiaramente che anche gli altri uomini provano la stessa insoddisfazione dell’artista nei confronti della vita e delle rinunce che essa impone. In ogni essere umano, si dice, c’è potenzialmente un poeta. Tra l’artista e il suo pubblico si stabilisce pertanto una sorta di patto segreto, una tacita connivenza: dietro lo schermo del «lavoro» artistico e delle «regole severe» del-l’arte vien dato spazio al bisogno di continuare a giocare con le proprie fantasie.
L’idea che l’arte sia «disinteressata » sembrerebbe allora quanto mai ingannevole; Aristotele con la sua teoria della catarsi l’aveva compreso: c’è nell’arte un bisogno nascosto di trasgressione e di trasfigurazione delle passioni più profonde, e cioè un bisogno di purificazione e insieme di soddisfacimento simbolico dei nostri sentimenti e desideri, che la vita e la società respingono o censurano. Solo i bambini, infatti, non si vergognano di mostrarsi mentre giocano, grazie appunto alla loro «innocenza». Gli adolescenti e gli adulti, invece, nascondono le loro private fantasie, spesso inconfessabili, ma l’arte e il lavoro serissimo dell’artista giungono a risarcirli per via indiretta e traversa. In parole povere: essi possono continuare a giocare, sottraendosi, senza vergogna o sensi di colpa, agli ostacoli che la vita reale oppone ai loro se in un altro senso è forse possibile intendere la serietà del gioco dell’arte: un senso che percorre una via contraria e insieme parallela alla precedente.
Qui non si tratta di frequentare la fantasia per sfuggire alla durezza del reale, ma di utilizzarla invece per ritornarvi, in parte risanati dalla comune follia dei mortali. Il gioco dell’arte appare allora come una metafora della sapienza e un’introduzione alla saggezza. Il suo mondo immaginario diviene uno specchio nel quale ravvisarsi, vedersi vivere e riconoscersi in ciò che non si sapeva, non si credeva o non si voleva ammettere di essere.
Esemplare ed emblematica appare allora la figura del Chisciotte, il protagonista del romanzo di Cervantes: forse la più alta espressione della nostra modernità critica e disincantata. Tutto il cammino del libro, dalla prima alla seconda parte, è infatti un percorso attraverso il quale il cavaliere e il suo scudiero in un certo senso si scambiano insensibilmente le parti e a tratti quasi si confondono: l’uno nel mostrare quanta savia consapevolezza sta al fondo delle nostre idealizzate fantasie; l’altro quanta folle e ignorante presunzione abita le opinioni e i costumi del cosiddetto vivere civile. E così l’arte, anche per questa via, rende visibile l’oscura trama e la nascosta realtà delle nostre vite.
* Carlo Sini è docente di filosofia teoretica alla Statale di Milano
Filosofia e fotografia. Il mondo in un’immagine
Per Cartesio il dispositivo ottico consentiva di sottrarre il mondo al caos della percezione, mentre per l’uomo del ’900 l’obiettivo moltiplica lo sguardo soggettivo
di Anna Li Vigni (Il Sole 24 ore - Domenica’, 26 gennaio 2014)
«Per sapere occorre immaginare. Dobbiamo provare a immaginare l’inferno di Auschwitz nell’estate del 1944. Non parliamo di inimmaginabile. Non difendiamoci dicendo che immaginare una cosa del genere è un compito che non possiamo assumerci». Così George Didi-Huberman ci introduce a quattro fotogrammi scattati furtivamente, nell’agosto del 1944, da alcuni prigionieri del campo di sterminio destinati alle camere a gas.
Quei «quattro pezzi di pellicola strappati all’inferno» ci permettono oggi di rileggere la storia - secondo l’indicazione di Benjamin - «in contropelo», ovvero di assumere uno sguardo critico sul passato, andando con l’immaginazione al di là dei luoghi comuni forniti dalla tradizione. Se anche il ruolo della fotografia si limitasse a questo, sarebbe già abbastanza.
Ma c’è tanto di più. La fotografia non è soltanto la rappresentazione del reale indissolubilmente legata al suo apparato tecnico. E non è solo un’arte, da sempre ingiustamente considerata in rapporto o alla pittura o al cinema. La sua scoperta è coincisa con la più grande rivoluzione della percezione e della cognizione, una frattura culturale che ha profondamente modificato lo sguardo dell’uomo contemporaneo.
Il volume Filosofia della fotografia, curato da Maurizio Guerri e da Francesco Parisi, è un’utile antologia ragionata di alcuni tra i principali testi di teoria della fotografia, dagli esordi fino all’odierno dibattito d’ambito analitico: da Ernst Mach a Vilélm Flusser; da Walter Benjamin a George Didi-Huberman; da Roger Scruton a Marshall McLuhan; da Gregory Currie a Kendall Walton.
La prima grande questione filosofica riguarda il portato cognitivo della rappresentazione fotografica: «In che modo la macchina fotografica e i media che hanno sviluppato le potenzialità di riproducibilità tecnica delle immagini hanno mutato il nostro modo di guardare le cose?». L’inizio della storia della fotografia coincide con il momento in cui l’uomo contemporaneo ha conformato il proprio sguardo alle condizioni socioculturali e tecnologiche del suo tempo. Non esiste una rappresentazione visiva separata dalla tecnica ottica che l’ha prodotta.
Già Cartesio, facendo esperimenti con la camera oscura, riteneva che attraverso il dispositivo ottico si potesse oggettivare il mondo, offrendone una visione assoluta e sottratta al caos della percezione; ma l’uomo del ’900 ha imparato che l’obiettivo fotografico persegue un fine opposto, quello di trasferire e di moltiplicare lo sguardo soggettivo.
In un certo senso, come sottolinea Susan Sontag, la fotografia ha anche contribuito a "deplatonizzare" la visione occidentale di realtà: ha evidenziato l’importanza dell’immagine in quanto cosa tra le cose e non più, tradizionalmente, come copia di un originale.
L’altra grande questione filosofica riguarda il dibattito estetico sulla fotografia come arte; un’indagine che non può prescindere dal rapporto con la pittura, considerato che la valutazione delle immagini fotografiche si è molto spesso basata su criteri pensati per i dipinti.
Tuttavia, ciò che bisogna chiedersi è, al contrario, quanto la fotografia ha influito sulla pittura a partire dall’età dell’impressionismo, trasformando il modo di guardare e di trasporre la visione sulla tela. Una posizione come quella di Roger Scruton, che non considera le immagini fotografiche vera arte in quanto secondo lui verrebbero create senza alcun sostrato intenzionale, non è altro che l’eco di un assurdo atteggiamento critico che accompagna da sempre la storia della fotografia. Non solo è un’arte, ma un’arte unica nel suo genere, capace di dare scacco al tempo e alla storia.