In quale modo la struttura rituale del Telegiornale “formatta” le nostre menti
di Pierre Mellet
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Voltairenet.org
18 settembre 2007 - Parigi (Francia)
Il telespettatore, se da un lato è sempre più attento alla manipolazione di informazioni particolari da parte dei telegiornali, dall’altro s’interroga raramente sulla struttura propria di questi programmi. Ora, per Pierre Mellet la forma qui è il fondamento, il contenuto: concepito come un rito, lo svolgimento del giornale televisivo è una pedagogia in sé stesso, una propaganda a pieno titolo che ci insegna la sottomissione al mondo che ci viene mostrato e spiegato, ma che si auspica possa impedirci di comprendere e di pensare.
Il telegiornale è il cuore dell’informazione contemporanea. Principale fonte d’informazione per una gran parte dei francesi, ai suoi inizi però, nel 1949 in Francia, non era altro che il sottoprodotto di ciò che nei cinema non avevano voluto diffondere la Gaumont e le Actualités Françaises (le principali Case cinematografiche). Si trattava di una sfilata d’immagini alle quali si sovrapponeva un commento, perché l’ «annunciatore» si è installato nella sua poltrona soltanto nel 1954, quando il TG è stato fissato per le 20.00. d’allora in poi la messa in scena non ha fatto altro che accrescersi e l’informazione ne è stata scartata - se pur fosse stata mai presente agli inizi - per fare di questo teatro non più un giornale, ma uno spettacolo rituale, una cerimonia liturgica. Il «TG delle otto» [da noi delle 20.30 o delle 21] non ha la funzione d’informare, nel senso di aprire la strada a un tentativo di comprensione del mondo, ma quella di divertire i telespettatori, ricordando pur sempre loro quello che essi devono sapere.
L’analisi che segue si basa sui due telegiornali principali delle 20.00, quello di TF1 e quello di France2, ma sotto parecchi aspetti può trovare corrispondenze nei telegiornali di altri paesi, principalmente in «Occidente».
Il contesto
Fissato per le otto di sera, il telegiornale è diventato, come a suo tempo la messa, l’appuntamento dove (ognuno a casa sua) si ritrova tutta la società. È un luogo di socializzazione essenziale, paradossalmente. Ognuno scopre ogni sera il mondo nel quale vive e da quel momento può raccontarne, discutere i temi del momento con la sicurezza della loro importanza, perché sono stati mostrati al«TG».
Tutto è sistemato come in un rituale religioso: l’orario fisso, la durata (una quarantina di minuti), con l’annunciatore-sacerdote inamovibile, o quasi, che così entra ancor meglio nel quotidiano di ciascuno, con tono sicuro, serio distante, quasi obiettivo, ma mai veramente neutrale, con le immagini selezionate. Come ogni altro rituale, si ripete in permanenza e si addensa attorno a una parvenza di evoluzione quotidiana. Le stesse ore annunciano le stesse storie, raccontate con gli stessi resoconti, lanciate e commentate dalla stesse parole, con la messa in scena degli stessi personaggi, illustrate dalle stesse immagini. È un circolo senza fine e senza fondo.
In apertura, il titolo di testa lancia una musica astratta nella quale si ascolta il miscuglio del tempo che passa, la precipitazione degli avvenimenti e una specie di atemporalità necessaria a ogni cerimonia mistica. Sull’onda della musica un globo precede la comparsa dell’annunciatore, o una luce sfumata lo fa passare dall’ombra alla vista. Tutto accade come se il mondo stesse per esserci rivelato.
L’annunciatore vi ha il ruolo di traghettatore e di autenticante. Personaggio principale e trascendente, si trova nel cuore del dispositivo di credibilità delle ore 20. l’informazione arriva suo tramite, da lui è legittimata, resa importante e data come «vera». Sempre da lui il telespettatore può essere rassicurato: se il mondo va male e sembra essere totalmente incomprensibile, c’è ancora qualcuno che «sa» e che può spiegarcelo.
(in altri casi è una coppia che presenta il telegiornale. Il rapporto con il telespettatore è certo molto meno professorale e paternalistico, ma piuttosto del tipo di una conversazione, e può sembrare più frivolo. Molto evidentemente non si troveranno mai due presentatori, o due presentatrici, ma sempre una coppia eterosessuale. Si tratta infatti di non urtare la rappresentazione della famiglia borghese cristiana. Questo genere di messa in scena è raro in Francia e quindi non ne tratteremo oltre).
Credibilità e informazione
«Signore, Signori, buonasera, ecco i titoli dell’attualità di questo lunedì 6 agosto», ci dice l’annunciatore all’inizio di ogni telegiornale. Non si tratta quindi di un sommario, di una selezione delle informazioni attuali da parte della redazione, bensì di «titoli dell’attualità», vale a dire precisamente di ciò che è necessario sapere del mondo oggi. Non vi è nulla da comprendere, il «giornalismo» non si applica ormai più se non a insegnarci il mondo. L’annunciatore non fornisce chiavi, non decifra, dice ciò che è. Non è una «visione» dell’attualità quella che ci viene presentata, bensì l’Attualità.
Da quel momento in poi ciò che importa, per lui, è di «avere l’aria». La sua credibilità non è basata sulla sua qualità di giornalista, ma sul suo carisma, sull’empatia che è in grado di creare, sul suo modo di essere rassicurante e sulla sua apparenza di uomo onesto e intelligente. David Poujadas può ben annunciare il ritiro di Alain Juppé dalla vita politica e Patrick Poivre d’Arvor mostrare una falsa intervista di Fidel Castro [ndt.: celebri gaffe televisive], eppure sono mantenuti al loro posto con l’appoggio della loro direzione e ciononostante non perdono il loro status di «giornalista» (1) e la loro credibilità presso il grande pubblico. Tutto avviene come se l’informazione diffusa alla fin fine non avesse importanza alcuna. Essa c’è per giustificare il rituale, come la lettura dei Vangeli durante la messa, ma in nessun caso è il motivo centrale, il cuore, che si trovano sempre altrove, nel costante richiamo delle parole d’ordine morali, politiche ed economiche dell’epoca. «Ecco il Bene, ecco il Male», ci dice l’annunciatore.
La gerarchia dell’informazione è quindi inesistente. Mentre uno dei primi lavori svolti in ogni «giornale» è quello di cogliere i fatti che sembrano più essenziali per tentare di trarne una rassegna (propria di ogni redazione) delle informazioni in ordine decrescente, dall’importante all’insignificante, qui niente. Si passa dalle esequie del cardinale Lustiger all’incidente della Fête des Loges, poi viene l’epilogo del rapimento del piccolo Alessandro sull’isola della Réunion, seguiti dal suicidio di un agricoltore di fronte alle mene degli anti-OGM, seguono poi i sussidi per la riapertura delle scuole, i bambini che non fanno vacanze, l’aumento dei prezzi dell’elettricità, lo speleologo belga bloccato in una grotta, la campagna elettorale dei democratici americani, l’intervento di Reporter sans frontière per denunciare l’assenza di libertà d’espressione in Cina, la Cina come meta turistica, il licenziamento di Laure Manaudou, un incidente durante una corsa negli USA, il festival Fiesta di Sète, la morte del giornalista Henri Amouroux e infine quella del barone Elie de Rotschild (2). Non vi alcuna coerenza, in nessun momento. I soggetti sembrano essere stati scelti soltanto per la loro irrilevanza quasi generale, o per la loro parvenza d’irrilevanza. Tutto vi è mischiato, l’amore e l’odio, il riso e il pianto, l’empatia si mescola col pathos, le immagini spettacolari o farsesche ai drammi patetici e l’onnipresenza della fatalità ci rammenta sempre il predominio della morte sulla vita.
Il reportage
Una volta annunciati i «titoli», l’annunciatore passa al lancio del servizio. Il reportage è la dimostrazione esemplare di ciò che ci dice l’annunciatore. Effettivamente tutto quello che verrà detto e mostrato nel servizio si trova già nel suo lancio. L’annunciatore riassume sempre invece di presentare con precisione. Questo crea ridondanza. Ciò che ci viene detto una prima volta a mo’ d’introduzione è ripetuto sistematicamente in seguito nel servizio. Sono sempre le stesse informazioni che sono esposte, la prima volta riassunte, la seconda volta estese per elaborare la storia che si racconta. Il servizio aggiunge ben poche cose a quello che l’annunciatore ha già detto, sviluppa soltanto i dettagli anodini che controbilanciano l’«obiettività» dell’annunciatore creando «prossimità». Agli elementi di partenza, visti nel lancio, si aggiungono poi alla storia i piccoli dettagli romanzeschi necessari alla sua formazione ludica.
Il reportage è costituito da due cose: l’immagine e il suo commento. Ora, se si taglia il suono, l’immagine non significa più nulla. Proprio quando tutto dovrebbe basarsi su di essa, alla televisione accade precisamente il contrario: il commento racconta ciò che l’immagine non fa che illustrare. Quest’ultima c’è solamente per fare da spalla. Si tratta di una successione di paesaggi che si somigliano, di volti e gesti interscambiabili, incollati gli uni agli altri senza rapporti fra loro. Alla TV l’immagine serve soltanto a giustificare il commento, ad autenticarlo; gli permette di apparire come «vero». E glielo permette proprio perché essa non dice nulla di per sé e il commento può trasformarla allora in ciò che vuole: qui sta il pericolo più grande dei media. Poiché l’immagine possiede una forza di convinzione molto importante, il consenso è molto più facile da ottenere una volta che abbiate spogliato l’immagine di tutto il suo significato e l’avete trasformata in prova che autentica il vostro discorso. Tutto si fonda ormai sul commento e sulla verosimiglianza della storia che sta per esserci raccontata.
«Nel reportage», nota l’antropologo Stéphane Breton, il commento è “soffiato” da dietro le quinte, questo retroterra vietato al telespettatore (...) da cui scaturisce, nel movimento di una rivelazione, un significato imposto all’immagine. Il significato non deve essere trovato nella scena ma fuori di essa, enunciato da qualcuno che sa» (3). Molto raramente il giornalista fa la sua comparsa alla fine del servizio. Noi ascoltiamo quindi una voce senza annunciatore. È una parola divina che s’impone a noi per spiegarci ciò che non potremmo capire limitandoci a guardare le immagini. Non v’è interlocutore, dunque non c’è contraddizione. Il reportage è un filo che si svolge seguendo una logica propria, quella che il giornalista vuole darci da apprendere, nella quale i «testimoni» si succedono solamente per dare credito alla parola che in ogni modo ha già detto ciò che essi ci stanno spiegando. Come nel lancio, anche nel servizio la ridondanza è onnipresente. Ogni «testimonio» è presentato non già secondo la sua funzione né allo scopo di giustificare la sua presenza in questo servizio e adesso, ma secondo quello che avrà da dirci. E la parola del «testimone» dà credito al commento fornendo un punto di vista che è necessariamente «vero». «Poiché lui lo dice è proprio così». E molto sovente il «testimone» non ha assolutamente nulla da dire, ma lo dice lo stesso, perché il giornalista deve dare prova della sua obiettività e dell’autenticità del suo reportage, della sua inchiesta, dimostrando che si è recato sul posto e che quindi può farci vedere come stanno le cose.
Il reportage, nel giornale televisivo, non è la realizzazione di un’inchiesta che esplora piste differenti, ma il racconto di un fatto qualsiasi presentato come fondamentale. Si tratta di una visione del mondo senza alternative, che tenta di apparire puramente obiettiva. Se l’annunciatore dice quello che è successo, il reportage televisivo, da parte sua, lo mostra. E precisamente qui l’immagine pecca per la sua insignificanza e il commento sembra diventare parola divina. «Ecco il mondo», ci dice quello, «ed ecco la prova», continua il servizio. E come contestare la prova quando ci viene presentata lì, sotto i nostri occhi stupiti? La realtà si costruisce sull’aneddoto e non più su un insieme di fatti più o meno contraddittori che permettono di guardare una situazione in un tentativo di visione globale, per poterne in seguito esprimere un’analisi.
Le parole d’ordine
Tutto questo si riferisce alla logica della diffusione della morale. Il telegiornale, come la quasi totalità dei media, è un organo di diffusione delle parole d’ordine dell’epoca. Non mette mai in discussione il sistema, la cui esperienza sembra d’altronde nemmeno conoscere, ma diffonde in tempo reale gli ordini che la classe dominante emana. Il telegiornale fa parte di quel «servizio pubblico» di cui parla Guy Debord nei Commentari sulla società dello spettacolo, la quale «[gestisce] con imparziale “professionismo” la nuova ricchezza della comunicazione di tutti mediante i mass media, comunicazione finalmente giunta alla purezza unilaterale, nella quale si fa tranquillamente ammirare la decisione già presa. Ciò che viene comunicato sono ordini e, molto armoniosamente, coloro che li hanno dati sono gli stessi che diranno quello che ne pensano» (4).
Il TG delle 20.00, uscito da una società nella quale la memoria è stata distrutta, trasmette parole d’ordine, come per un qualsiasi condizionamento, mediante la ripetizione permanente e quotidiana. Le storie raccontate sembrano tutte diverse, mentre al contrario e alla fine sono tutte simili. Tutto vi è ripetuto, sera dopo sera, costantemente e a tutti i livelli. Soltanto i nomi e le facce cambiano, ma il film, in sé, resta sempre identico. Un perpetuo presente è ciò che viene mostrato e che permette di occultare tutti i movimenti del potere. Le evoluzioni non sono ormai più messe in luce, quindi nemmeno avvengono. Il telegiornale quindi diffonde la morale borghese (cristiana e capitalista) in un blocco compatto. Un vomito lungo e lento defluisce, diluito e disseminato lungo tutto il TG delle 20. si conoscono diverse modalità di diffusione:
L’accusa. È costante e generalmente pronunciata dai «testimoni», cosa che permette di far credere al giornalista di aver dato un «parere» e quindi un resoconto obiettivo della situazione. Un incendio devasta una casa e sono i pompieri che sarebbero dovuti arrivare prima. Un violentatore è uscito di prigione perché aveva diritto a una riduzione della pena ed è la giustizia che non funziona. Un governo rifiuta di piegarsi alle ingiunzioni occidentali ed è una dittatura, un Paese sottosviluppato nel quale la stupidità si mescola alla barbarie e, meglio ancora, dove la censura imbavaglia tutti gli oppositori, che sono necessariamente d’accordo col punto di vista degli occidentali ma non lo possono dire. Si tratta sempre di trovare qualcuno da mettere alla gogna per ricordare ciò che è «bene» e ciò che è «male», ritrovando tutta la semantica cristiana del «perdono», del «decadimento», ecc.
L’evidenza. Particolarmente utilizzata per definire senza discussioni le questioni economiche, consiste nel diffondere i dogmi o le decisioni del governo senza mai rimetterle in questione. Per esempio, è il caso della «crescita», che è sempre il mezzo necessario alla sopravvivenza, mai rimesso in causa, del quale l’annunciatore ci comunica le cifre con un’aria catastrofica: «Quest’anno, secondo gli esperti, la crescita non sarà che dell’1,2%...».
L’agiografia come a messa, il TG ha i suoi santi da mettere in primo piano. È il ritratto di qualcuno che è «riuscito», sia appena morto, sia che abbia«vinto tutto», sia «fattosi da solo», ecc. è il prisma dell’eccezione che decreta quale modello seguire per suscitare ammirazione e rispetto. «Ecco ciò che non siete, che dovreste essere ma non potrete mai diventare e che quindi dovete adorare», ci ripete in permanenza il TG.
-Il vicinato. Particolarmente efficace: si tratta di dire che «la Francia è l’ultimo Paese in Europa che abborda questo problema». Questo meccanismo regola la socialità di base, l’appartenenza al gruppo attraverso l’imitazione, la riproduzione di quello che sebra fare o essere. L’annunciatore ci dice allora «essi fanno così, perché noi facciamo diversamente?», presupponendo che il nostro modo di fare è necessariamente meno buono. «Lavorare dopo i 65 anni negli USA non è un problema». Non viene data mai alcuna analisi dei punti positivi e negativi del sistema vicino, soltanto uno sguardo «obiettivo», che dica: «Ecco quello che avviene lì e perché è meglio che da noi».
Il folclore. Qui sono presentate, con il sorriso sulle labbra e l’indulgenza per l’artista un po’ folle ma che alla fine non fa nulla di male, persone che vivono in maniera un poco diversa. Allora, e soltanto per questo genere di soggetti, l’annunciatore sottolinea il carattere «eccezionale» delle persone appena presentate, per dissuadere chiunque dal seguire il loro esempio.
E questi sono solamente alcuni esempi.
Aneddoto e fatalità
Principalmente due modi di rappresentare il mondo cullano il telegiornale e sono i due preminenti movimenti di diffusione delle parole d’ordine: l’aneddoto e la fatalità.
L’aneddoto si trova al principio di ogni soggetto. Tutto parte dal fatto particolare, dal fatto diverso del giorno, e si estende verso il problema più ampio che sembra contenere in sé stesso o che i giornalisti fanno finta di credere che contenga. Si tratta di una retorica particolare che si trova oggi alla base di tutti i discorsi politici o giornalistici, un rovesciamento della logica, dello svolgimento effettivo della dimostrazione e dell’analisi del mondo: ormai è l’eccezione che spiega la regola, che la costruisce. Tutto parte dal caso particolare per prolungarsi poi, come se questo contenesse in sé tutte le cause e tutte le conseguenze che sono il fondamento della situazione più generale che si presume esso dimostri. Il TG non si preoccupa mai di descrivere fenomeni endemici oppure li estrae sempre dalla catena di eventi che li ha portati alla presente situazione. È una necessità dialettica logica per chi vuole trasmettere gli ordini senza farsi un dovere di spiegarli, in mancanza di che si troverebbe obbligato a complicare la sua dimostrazione e si renderebbe conto che le cose sono meno semplici di come avrebbe voluto farle apparire. Perché le parole d’ordine siano diffuse efficacemente non bisogna dare la possibilità di venir contraddetti, quindi è meglio non spiegare. In ogni modo, l’abbiamo detto, non si tratta mai di fare comprendere ma sempre di insegnare.
La fatalità, da parte sua, culla l’insieme del telegiornale. Gli avvenimenti arrivano attraverso una disgrazia contingente, un imprevisto distratto che malauguratamente colpisce sempre gli stessi (persone, Paesi...). È un lamento costante: «Se i pompieri fossero arrivati prima», «Se lo stupratore non fosse uscito dalla prigione», «Se l’Africa non fosse un continente povero e corrotto», ecc. essa è la base di qualsiasi religione, perché permette di non dover giustificare mai nulla e richiama il dovere di sottomettersi alla trascendenza, perché noi siamo tutti «sopraffatti». La fatalità ritorna a risuonare in permanenza come una condanna e aggiunge con dispetto (ma non sempre): «Le cose stanno così». Il sistema si regola da solo ed è «il migliore dei sistemi possibili», l’uomo è un essere«cattivo» e passa il suo tempo a «cadere» e a «ricadere» malgrado tutti i tentativi di «perdonargli», il poveretto è responsabile della sua situazione perché è troppo fannullone per cercare soluzioni e applicarle persino se gliele si dà, ecc. è un sospiro costante, un richiamo permanente all’impotenza e alla sottomissione di fronte alla sofferenza. Il mondo va avanti e noi non ci possiamo fare niente...
Una volta trasmesse le parole d’ordine, il messaggio divino può congedarci, concludendo il sermone del giorno senza dimenticare mai di darci appuntamento domani alla stessa ora, poi scompare, raccattando le carte che fanno fede della sua serietà, mentre la videocamera si allontana, l’ombra s’ingrandisce e si fonde progressivamente in quella specie di musica che già apriva la cerimonia.
Pierre Mellet
[1] Patrick Poivre d’Arvor, riconosciuto come la star del giornalismo francese, non ha il tesserino di giornalista, perché i suoi guadagni principali non provengono dal giornalismo ma dalle sue attività di consulente e di scrittore.
[2] TG delle 20.00 di France 2, lunedì 6 agosto 2007.
[3] Stéphane Breton, Télévision, Hachette Littérature, 2005.
[4] Guy Debord, Commentaires sur la société du spectacle, Gallimard, Folio, 1996.
La realtà manipolata a colpi di emozioni
«Chi l’ha vista?» di Norma Rangeri. Una spietata analisi della televisione, l’elettrodomestico che ha il potere di attrarre l’attenzione dello spettatore, unita alla denuncia della messa in scena del corpo delle donne per solleticare propensioni adolescenziali e voyeur. Infine, la critica alla colonizzazione della tv da parte del sistema politico per piegarla ai propri fini
di Rossana Rossanda (il manifesto, 07.12.2007)
Perché le pagine di Norma Rangeri sull’italica Tv, Rai e Mediaset (Chi l’ha vista?, Rizzoli 2007, pp. 315, euro 17) - documentazione ma scrittura piena di humour - lascia pensierosi e a disagio? Perché anche a chi non si faceva illusioni, il disastro si rivela peggiore di quanto si sospettava: quel che affiora sul piccolo schermo è solo la parte emergente di un iceberg di traffici e vigliaccate che costituiscono il basamento del duo-monopolio audiotelevisivo italiano. Tale che la recente scoperta degli scambi di cortesie fra Rai e Mediaset non ne è più che un modesto scampolo.
È il sistema che è guasto. Ne abbiamo colpa anche noi che la sera lavoriamo di telecomando in cerca di qualcosa di «altro» e prima o poi lo troveremo nella folla di canali satellitari, non fosse che un documentario sugli scavi in Egitto, sul pinguinotto che si getta per la prima volta in mare, e lo scontro fra generali nella seconda guerra mondiale. Quanto basta per andar a dormire. Che Rai e Mediaset siano quelle che sono, sembra ineluttabile come l’effetto serra. Siamo abituati. Quelli come noi accendono la tv non per avere la notizia, ma per vedere «come» la danno. Un film si cerca al cinema. È tanto se cadiamo sulla buona serata di Santoro, Lerner, Fazio, diamo un occhiata a «Otto e mezzo», e ci rallegriamo se ogni tanto capitano Arbore o Fiorello. E così si va avanti, fin annoiati dal gioco dei cambi dei presidenti e direttori che non cambiano assolutamente nulla.
Chi si ribella più? Fa parte del paesaggio. Anzi, ci si accontenta del meno peggio. In fondo Santoro è tornato, Fazio va bene, il Tg 1 di Riotta è sempe meglio di quello di Mimun. Ma se la smettessimo di dirci che la tv non conta, non cambia né una testa né un voto né il senso comune di un paese su cui rovescia ore e chilometri di sederi femminili, revolverate, sangue, preti, poliziotti e le poderose scemenze del reality? Senza mollarci dalla culla alla tomba, dall’infante che la mamma, stanca, parcheggia davanti al video, a noi vecchi che arriviamo la sera stonati? Di scrivere che, piaccia o no, questa è la realtà e non resta che subirla in onda? Che i genitori non hanno che da sedere davanti al video con la prole per comunicarle una distanza critica - come se non ne fossero istupiditi anche loro? E dico loro per dire noi. Chi non si è imbambolato ogni tanto su Dallas o Beautiful o i pacchi di Bonolis? Non mi è capitato un pomeriggio di scoprirmi attaccata a una storiaccia di Alda d’Eusanio? Taroccata o no, la tv sa manipolare il nostro lato voyeur, i residui adolescenziali, le autoassoluzioni che ci portiamo dentro.
Ma non potrebbe farlo con un poco più di intelligenza? Norma ci spiega perché in Italia non si può.
Per mille motivi più uno, tutto nostro e nazionale. Dei mille il primo è che - ha ragione Mac Luhan - il mezzo è il messaggio. Il mezzo è seduttivo e ti passivizza, l’interattivita è una frottola, puoi scegliere il menu ma sono la Rai o Mediaset (e dietro Endemol & C) che cucinano, sono loro qualità e tempi di somministrazione, loro il dominio della subliminalità. Un telespettatore non sarà mai simile a un lettore davanti alla sua biblioteca. Quanto a noi, che ci siamo a ragione ribellati alla critica edificante, non ci è lasciato che il trash, cui ogni tanto attribuiamo virtù popolari e sovversive. Intanto la sagra delle immagini ha raggiunto l’interessante obiettivo di farci funzionare più a emozione che a riflessione. Siamo fra i pochi che amano Debord ma sguazziamo nella società dello spettacolo. Se almeno si ammettesse che la tv è un incantatore di serpenti. Ben che vada, un incantatore colto di serpenti riflessivi.
Perché, secondo, nel primato del privato sul pubblico e della merce come relazione-tipo, la tv non è più (se lo è mai stata) un servizio pubblico e essenzialmente seduce all’acquisto. Sulla perdita di senso della parola pubblico nella nostra cultura (o statale, anzi governativo, o privato) altri e più sapienti di me hanno scritto. Sulla mercificazione come regola della tv Carlo Freccero l’ha spiegato da anni: non è essa a dare spazio alla pubblicità, è la pubblicità a darne alla tv. La merce materiale e immateriale, che dal punto di vista del meccanismo fa lo stesso, regge l’intero sistema. E qui Norma Rangeri aggiunge - e finora nessuno l’aveva fatto con altrettanto freddo furore - che la merce più usata è in tv il corpo femminile: sederi e seni, culi e tette per dirla come si usa adesso, sono l’ingrediente principale. Non le donne, che sarebbe tutt’altro discorso, ma alcune parti della nostra anatomia, la faccia arrivando buona terza. Con più o meno forzosa complicità delle nostre sorelle di sesso - non solo le vallette e le veline roteano con giubilo il sedere davanti alla camera che lo inquadra dal basso, ma le meglio conduttrici esibiscono intimo e cordelle, mentre ministre e professioniste sfoderano volentieri a Porta a Porta (press office del parlamento) gambe e scollature. L’Italia si inchina davanti al Vaticano e appena volta le spalle si precipita non nell’erotico (troppo complicato) ma nel pecoreccio. Del resto saperlo e scriverlo non ha comportato neppure per Freccero o Guglielmi produrre granché d’altro. Anzi, già l’averlo pensato - e va ad ammettere che sia facile riuscirvi - ha fatto sì che finissero al confino o addirittura fuori.
Perché, terzo, e specifico del paese è che a tutti i nostri governi, di centro, centrodestra, centrosinistra o sinistra che fossero, il sistema è andato sempre bene. Neppure fanno finta di non essere lo sfacciato proprietario della baracca. Lo era stato Bernabei per la Dc (perché ci si è scandalizzati quando il Vespa ha riconosciuto che essa era il suo editore di riferimento?), si è vantato di esserlo Silvio Berlusconi, lo rimane il centrosinistra prima e seconda edizione.
L’idea che un servizio pubblico non significa servizio «di» e «al» governo non sfiora la nostra classe dirigente, o la sfiora nei convegni e subito sparisce nella pratica. Se non è del governo la tv ha da essere del tale o talatro imprenditore e viva la concorrenza - il pubblico, inteso come autonomia di chi produce e elaborazione da parte dell’utente, non ha posto. L’elenco che Norma Rangeri ci presenta o ci ricorda è sterminato: soffietti e/o censura, terremoto e neppur sotteraneo a ogni cambio di squadra a palazzo Chigi, impossibilità per quella colossale editrice che è la Rai di costruirsi uno stile, una squadra, di darsi delle regole che non siano all’ascolto diretto o introiettato dei poteri in carica.
Eppure c’è stato un periodo, fra il 1968 e i primi anni Settanta, nel quale anche a viale Mazzini sono stati scossi da una ventata, il corpaccio ha reagito, ha avuto guizzi di libertà e fantasia - ma quando è stato capace di imporsi come autonomo? La sinistra, che allora non era al governo ma pensava perché pesava sul paese, non aveva in mente che spazzar via la Dc, per cui senza incidenti subentrarono il cavaliere («non faremo prigionieri») o il «negoziamo» prediletto dagli ex comunsiti. Negoziamo, si intende, fra noi. E la politica stessa non essendo più un progetto ma un ceto che amministra, occupare i media non ha neanche significato darvi un’impronta ma essere stabilmente piazzati nel video, le proprie facce e quelle dei vassalli, degli amici e fin dalle transitorie compagne di letto - avanti tutti. Ogni tanto c’è una rivelazione, segue lo scandalo dei benpensanti, interviene la magistratura e lo spettacolo continua.
Non credo che al tempo di una democrazia meno incorporea si stesse granché meglio, la scena era meno vasta, i conflitti più visibili, una sinistra non ancora decotta, ma la minestra servita dal video era sempre quella delle classi dirigenti. Ma nel tempo dei media che sembrano un allargamento della ricezione e della partecipazione, il terreno della comunicazione è diventato più esteso, le sue centrali di comando più accentrate e invasive, l’interlocuzione è sempre e solo delegata, il massimo denominatore comune culturalmente parlando è sempre più basso, nel frastuono che con la fine della storia ha esentato dal dovere di pensare.
Non poteva essere che così? Non credo. In quel che chiamiamo la sfera politica, il gigantismo molle e canceroso dei poteri, è sicuro che il terreno e i mezzi del confronto sono mutati. Non ne è venuto un crescere del confronto ma del baccano, tale e quale nel web, dove pochi sono gli scambi di idee nel baccano di milioni di voci singole che gridano per esistere. Ma il web è libero, tutti sono uguali e quindi, perlopiù, nulla, mentre la tv è un gran produttore di merce di consumo. Monopolio o duopolio a questo punto non fa differenza. Se non le si garantisce un’autonomia aperta e severa non c’è scampo allo spettacolo miserevole delle infinite spartizioni del microfono e degli infiniti sgambetti perché l’avversario non ci arrivi. E l’avversario che resta fuori è illimitato.
Questo ci grida, con calma e spietatezza, Norma. Non credo siano molti i critici che hanno «tv amiche», qualche occhio di riguardo per qualcuno. Norma Rangeri non lo ha per nessuno, e non deve esserle facile. Dalla sua eroica postazione di sei ore al giorno - e poi si dice lavori usuranti - davanti al malefico piccolo schermo vi dice tutto quel che vede e il molto che non si vede. Cosa di cui i diversi direttori, presidenti, consiglieri perlopiù non hanno fatto. Se ci fosse un partito serio, che non concepisse viale Mazzini come riserva di caccia, la prenderebbe in parola. Domani, subito.