C. F. SAMUEL HAHNEMANN: “AUDE SÀPERE”. LA RIVOLUZIONE COPERNICANA IN MEDICINA. Alcune indicazioni per una rilettura dell’Organon [senza gli allegati] *
di Federico La Sala
Quando, nel 1810, Christian F. Samuel Hahnemann pubblica l’Organon della medicina razionale (tit. orig.: Organon der Rationellen Heilkunde), aveva fatto un lungo cammino sulla strada maestra della storia dell’umanità e di ogni avanzamento nel campo del sapere, era uscito dallo “stato di minorità”(1), ed era gìà pervenuto consapevolmente e coraggiosamente alla sua decisione più grande: non ingannare il prossimo come se stessi(2). Da sano, aveva osato fare la sua discesa all’inferno ed era riuscito a strappare al veleno il suo pungiglione e alla malattia il suo segreto.
Nel 1796, nel “Saggio su un nuovo principio di individuazione dei poteri curativi dei farmaci”, mostra di aver finalmente capito che il metodo corretto di sperimentazione è la loro verifica sui soggetti sani e che “dovremmo imitare la natura che talvolta cura una malattia cronica con un’altra suplementare e usare nella cura delle malattie (di quelle croniche in particolare) quel rimedio che è in grado di provocare un’altra malattia, artificialmente prodotta, ma molto simile, e la prima sarà guarita: Similia similibus” (3).
In un articolo del 1797, dal titolo “Esistono ostacoli insormontabili a una pratica medica sicura e semplice?”, pubblicato sul giornale medico Journal der pratcticschen Arzneykunde un Wundarzneykunst, fondato da Christian Wilhelm Hufeland (medico e filosofo, autore di L’arte di prolungare la vita umana, Jena, 1797: opera letta e commentata anche da Kant sul Journal nei primi mesi del 1798, con il breve saggio “Del potere dell’animo di dominare col solo proposito le proprie sensazioni morbose”) ( 4) - aveva scritto con chiarezza e determinazione: “Perché lamentarsi della complessità e della scarsa chiarezza della nostra scienza quando siamo noi stessi a produrle? In passato ero anch’io contagiato da questo morbo: le diverse scuole mediche mi avevano corrotto. Il virus si aggrappò a me, prima che con grande fatica riuscissi ad espellerlo, più tenacemente di quello di ogni altra malattia mentale. Pratichiamo seriamente la nostra arte?” ( 5).
Nella “Lettera a un insigne medico sulla riforma della medicina”, cioè al suo vechio e fedele amico Hufeland (che Hahnemann chiama il Nestore della medicina), pubblicata sul Journal il 14 luglio 1808, nel ricapitolare la sua personale esperienza di medico, i motivi che l’hanno condotto a interrompere la pratica medica, gli sforzi compiuti per scoprire un metodo più sicuro ed affidabile di quelli conosciuti ai suoi tempi, così ricorda e scrive: “Era angosciante per me procedere sempre al buio, senz’altra luce se non quella che si poteva ricavare dai libri, quando dovevo guarire i malati [...] Non potevo curare coscienziosamente le nuove e ignote affezioni morbose dei miei fratelli malati con quei farmaci sconosciuti [...] Diventare in tal modo l’assassino o il torturatore dei miei fratelli era per me un’idea tanto terribile e opprimente che, subito dopo il mio matrimonio, rinunciai all’esercizio della professione medica e mi impegnai esclusivamente nella chimica e nelle attività letterarie. [...] Le mie preoccupazioni raddoppiarono quando mi accorsi di non poter offrire loro nessun sollievo" (6). E con onestà, infine, svela e chiarisce anche il ‘segreto’ del suo percorso e del suo lavoro (non solo passato, ma anche presente e futuro): “Che rimanga ai posteri solo l’immagine del mio io profondo, che facilmente può essere compreso dai miei scritti. La mia vanità non va oltre questo” (7)
Con l’avvio della circolazione dell’Organon, infatti, violente furono le ostilità contro di lui: “Egli aveva levato la mano contro antiche tradizioni, aveva dimostrato alla mente di molti che la comune pratica medica si basava solo su incertezza ed emprismo al massimo grado, aveva smascherato le falsità e le incoerenze della classe medica, gli errori e l’ignoranza di molti farmacisti. Contro il dubbio e la confusione aveva dimostrato con esauriente chiarezza che il sistema da lui chiamato legge dei simili o metodo positivo di guarigione, si basava su una legge fissa e immodificabile e che davvero i rimedi omeopatici avrebbero curato più facilemte e rapidamente di ogni altro farmaco fino ad allora scoperto”; “Hahnemann fu attaccato sulle riviste mediche del tempo e molti libri ed opuscoli furono scagliati contro di lui e le sue strane dottrine. Fu chiamato ciarlatano, imbroglione e ignorante. Le sue dosi infinitesimali furono dichiarate inverosimili e le sperimentazioni sui medicamenti semplicemente ridicole” ( 8).
Senza alcun scoraggiamento, con determinazione e lucidità, Hahnemann continua a portare avanti il progetto della sua vita: la nascita di una medicina, degna del suo nome. Circa dieci anni dopo, nel 1819, dà alle stampe un Organon quasi del tutto nuovo, ricalibrato e profondamente rinnovato nello spirito. Non è più l’Organon della medicina razionale, ma l’Organon dell’arte del guarire (titolo originale: Organon der Heilkunst). Non è una svolta vera e propria, ma è un piccolo segno di un grande mutamento e di una più generale e più consapevole messa a punto del lavoro precedente. E’ cambiato il titolo, è cambiata l’epigrafe del frontespizio, e i paragrafi originari dell’opera da 271 sono diventati 318 - ne sono stati aggiunti ben altri 47. Su quanto importante sia stato questo salto di riorganizzazione dell’opera, inoltre, si tenga anche presente che nella terza edizione i paragrafi sono 320, nella quarta sono 292, nella quinta 294, e nella sesta 291.
La grandezza di Hahnemann sta proprio in questo, nell’essere rimasto sempre fedele a stesso e non aver mai abbandonato la strada intrapresa e di sapersi orientare, pur tra le tempeste che dovette affrontare, con la bussola del suo “io profondo”.
Nella prefazione Hahnemann scrive: “Quest’opera espone le conclusioni delle mie ricerche. Il futuro ci dirà se i medici che intendono agire onestamente secondo la loro coscienza e nell’interesse dei loro fratelli, continueranno ad essere ancora legati a un intreccio pernicioso di congetture e idee arbitrarie o se essi saranno capaci di aprire gli occhi davanti alla benefica verità”; “E’ opportuno avvertire il lettore che l’indolenza, l’amore per la comodità e l’ostinazione impediscono di porsi al sacro servizio della verità e che solo l’assenza di pregiudizi e un intrepido entusiasmo ci rendono adatti alla più sacra di tutte le occupazioni dell’uomo: l’esercizio della vera Arte del guarire” (9)
Nel 1819, evidentemente, una più profonda consapevolezza teorica (metodologica ed epistemologica) è intervenuta a rendere urgenti questi interventi e a chiarire definitivamente il quadro filosofico e culturale entro cui collocare il suo lavoro. Il nuovo Organon esprime la coscienza di una rottura radicale con le illusioni metafisiche della “medicina razionale” (der Rationellen Heilkunde), e si precisa definitivamente come Organon “dell’arte del guarire” (der Heilkunst). E su cosa questo significhi e sul come procedere in questa direzione, è chiaramente indicato nella nuova epigrafe: “Aude Sapere” (10).
Come epigrafe, nella edizione dell’Organon del 1810, Hahnemann aveva posto questi versi (di forte sapore lessinghiano) del poeta tedesco Christian F. Gellert (1715-1769: anch’egli aveva frequentato la Scuola di Sant’Afra a Meissen): “La Verità, di cui tutti abbiamo bisogno, / lei che fa la nostra felicità umana, / dalla mano saggia che ci ha riservata / è stata solo leggermente velata / e non profondamente celata”.
Nella seconda edizione del 1819, a epigrafe, ci sono solo queste due parole: “Aude Sapere”. Sono le parole famose di Orazio (Epistole, I, 2, v. 40: "Chi bene incomincia è già a metà dell’opera; risolviti a diventare saggio: incomincia [dimidium facti, qui coepit, habet: sàpere aude, incipe]" ), invertite di posizione. Perché?
Per un Hahnemann, che conosce molte lingue, ha studiato filologia per molti anni, ed è un grande esperto di traduzioni, l’uso di “aude sàpere” in sostituzione dell’originale “sàpere aude”, evidentemente e decisamente, non è (e non è stato) un lapsus (altrimenti nelle edizioni successive l’avrebbe ristabilito nella forma originale) né un furbesco atto di appropriazione di un motto famosissimo nella cultura europea della rivoluzione scientifica e nel secolo dei Lumi!
Per chi ha frequentato a Meissen la Principesca Scuola di Grammatica di Sant’Afra, dove all’entrata spiccava un targa di marmo con su le parole “sapere aude”, e in cui pochi anni prima aveva studiato anche Lessing, e, ancora, per chi è amico di Hufeland, amico a sua volta di Kant, evidentemente è un indicatore fortissimo (epistemologico) per la comprensione della sua proposta e della sua metodologia di lavoro, fondata e da fondarsi non più su un vecchio e superficiale “io” ma sull’”io profondo”, e sulla sua intelligenza per ben esaminare e giudicare quanto si ha il coraggio (aude) di as-saggiare (sàpere, lat.: sàpio).
“Aude Sapere”. Nell’inversione dell’ordine delle parole di Orazio (“sàpere aude”), già assunte a motto della Scuola Principesca di Grammatica di Sant’Afra a Meissen (la città natale di Heinemann) e poi dell’illuminismo da Kant, è da leggersi, innanzitutto, la cifra personale e specifica della vita di Hahnemann e la chiave di accesso al suo lavoro e al suo progetto.
Nella sua apparente semplicità, il primo paragrafo del vecchio e nuovo Organon sembra parlare a tutti, ma rivela il suo senso solo a chi ha “il coraggio di as-saggiarlo”: “Scopo principale ed unico del medico è di rendere sani i malati ossia, come si dice, di guarirli (11). Detto diversamente ed espressamente: il programma di Hahnemann si colloca con tutta consapevolezza, all’interno dell’orizzonte illuministico, dentro il programma critico di Kant e, al contempo, sulla propria strada - uscire da interi millenni di labirinto, segnati da minorità e da malattia.
“Aude Sapere”. Senza la comprensione di questa cifra specifica, un’indicazione all’apparenza sorprendente e straniante, si corre il rischio (come è successo e succede ancora) di guardare il dito e non la luna e di collocare Hahnemann (1755-1843) culturalmente e filosoficamente prima di Kant e della sua rivoluzione copernicana, all’interno della tradizione della “metafisica razionale”, “della medicina razionale”, come fanno Harris L. Coulter e Alfonso Masi-Elizalde, che - in una specie di alleanza atea e devota, rinchiudono l’uno nella Introduzione e l’altro nella Postfazione dell’edizione italiana dello storico e pregevole lavoro di Thomas Lindsey Brandford - riconducono Hahnemann alla “ragione” pragmatista di un empirismo reinterpretato (12) e, al contempo, alla “fede” cattolica della teologia tomista (13)! E non saper più distinguere chi è il saggio e chi l’imbecille!
Il Secolo dei Lumi, al contrario, non è passato invano, e ha gettato luce anche sul passato. Nell’“Aude sàpere” riaffiora un’inaudita radicalità che lega insieme l’esperienza e la saggezza dell’intera umanità e, in particolare, della tradizione critica dell’Occidente: si va alle spalle e alla radice del “prendi e leggi” agostiniano e si restituisce a ogni persona, oltre che al medico e al malato, la sua libertà e la sua piena autonomia di giudizio. Prendi e mangia (con virgolette e senza): “Abbi il coraggio di as-saggiare”, tu - in prima persona! Tu puoi (non - potrai o avresti potuto) liberarti dalla schiavitù e dalla malattia! Che il significato e la portata dell’anomala versione del motto spinga in questa direzione - con tutte le sue ovvie implicazioni relative alle capacità di osservazione, di analisi e discernimento, e di giudizio di ogni soggetto e, in questo caso specifico, del medico prima e del paziente dopo - non è né vuole essere una forzatura (o, peggio, una provocazione): basta rileggersi un “frammento” brillantissimo, scritto da Hahnehman nel 1825, sul tema “L’osservatore medico”(14) e riflettere sulla determinante centralità del “proving” e sul suo strutturale legame con l’“io profondo” del medico.
Hahnemann mostra di essere assolutamente lucido e consapevole, con nessuna ombra di dubbio: senza il coraggio dell’as-saggiare, da parte di un soggetto capace di intendere e volere e di analizzare e valutare alla luce del proprio “io profondo”, non si va da nessuna parte e non si può far altro che ripetere solo e sempre dogmaticamente e autoritariamente il ritornello della “medicina razionale” e di tutte le altre scienze dell’albero della “metafisica razionale”.
Nel § 54 dell’ultima edizione dell’Organon, Hahnemann così scrive:
E a prendere definitivamente le distanze, appunto, dalla “medicina razionale” [rationelle HeiIkunde], in nota, Hahnemann ancora - e così - precisa: “Come se una scienza, che ha le sue fondamenta soltanto sulle osservazioni della natura e unicamente su ricerche pure e sull’esperienza, potesse essere fondata su oziose sofisticherie e su ciance scolastiche!” (15).
Su questa base, è più che chiaro come il cammino di Hahnemann incroci (per vie ancora non conosciute, tutte ancora da esplorare) l’orizzonte critico kantiano e questo, in qualche modo, lo aiuta a perfezionare la propria rivoluzione copernicana in medicina.
A ben vedere, egli ha condiviso con Kant - al di là dell’empirismo e del razionalismo come di ogni scetticismo, la persuasione fortissima che, sì, tutto proviene dall’esperienza, ma che non tutto si risolve nell’esperienza; e, sempre con Kant, che è solo l’Io profondo (non l’io in senso psicologico!), con l’uso pieno e libero della sua facoltà di giudizio, a rendere possibile l’oltrepassamento del fondamentalismo di ogni cieco pragmatismo e di tutte le metafisiche razionali (idealistiche e spiritualistiche o materialistiche) e andare avanti sulla strada della “virtù e conoscenza” (Dante), senza naufragare (né personalmente né - possibilmente - collettivamente) nel grande oceano della complessità! Con Kant, anche Hahnemann ha lavorato al progetto “per la pace perpetua”. (Federico La Sala, 14.07.2011)
NOTE:
1. Immanuel Kant, Risposta alla domanda: Che cosa è l’illuminismo, 1784
2. Hahnemann, come si sa, dopo anni di tribolato esercizio arriverà quasi ad abbandonare la professione di medico per mancanza di strumenti adeguati, appenderà fuori la porta di casa il cartello “Andatevene, giacché io non vi so curare”, scritto di suo pugno (cfr. Riccardo de Torrebruna - Luigi Turinese, Hahnemann. Vita del padre dell’omoepatia, Edizioni e/o, Roma 2007, pp. 56-57).
3. Cfr:Thomas Lindsley Bradford, La nascita dell’omeopatia. Vita e lettere di Samuel Hahnemann, Perla Edizioni, Grosseto-Roma, 1994, p. 85.
4. Il saggio di Kant costituirà poi la terza parte de Il conflitto delle facoltà del 1798 (cfr. I. Kant, Il conflitto delle facoltà, Morcelliana, Brescia 1994). Sul rapporto di Kant con Hufeland, si cfr. anche I. Kant, Lettera a Christoph Wilhelm Hufeland, in I. Kant, Epistolario filosofico. 1761-1800, il melangolo, Genova 1990.
5. Cfr.Thomas Lindsley Bradford, La nascita dell’omeopatia. Vita...cit., , p. 86.
6. Cfr. Thomas Lindsley Bradford, La nascita dell’omeopatia. Vita e ...cit., p. 58.
7. Cfr. Sergio Segantini - Maria A. Marchitiello, La medicina dell’esperienza ed altri scritti minori di Samuel Hahnemann, Editorium, Milano, 1993, p. 32.
8. Cfr. Thomas Lindsley Bradford, La nascita dell’omeopatia. Vita e ...cit., pp. 107-108.
9. Cfr. Thomas Lindsley Bradford, La nascita dell’omeopatia. Vita e ...cit., p. 106.
10. Cfr. C. F. Samuel Hahnemann, Organon dell’arte del guarire, Edizioni di Red./Studio redazionale, Como 1985. p. 8.
11. Cfr. C. F. Samuel Hahnemann, Organon dell’arte del guarire... cit., p. 15.
12. Cfr. Harris L. Coulter, Introduzione, in: Thomas Lindsley Bradford, La nascita dell’omeopatia. Vita e lettere di Samuel Hahnemann, Perla Edizioni, Grosseto-Roma, 1994, pp. 13-30. Egli, pur facendo un accurato lavoro di analisi dell’importanza del “proving” nella lezione di Hahnemann e, pur avendo alle spalle un lavoro sullo sviluppo storico dell’Empirismo e del Razionalismo colloca, con lo stesso “proving”, Hahnemann e il suo “Aude Sapere” sotto l’etichetta di una “reinterpretazione dell’Empirismo”, arrivando così a mettere totalmente in parentesi e fuori contesto storico e teoretico il lavoro di Hehnemann, e a rendere invisibile ogni connessione con l’illuminismo e con la lezione critica di Immanuel Kant. Per la sua analisi relativa al “proving” e alla “reinterpretazione dell’Empirismo”, si cfr. (qui di seguito) allegato A.
13. Alfonso Masi-Elizalde, nella Postfazione, così avvia il suo discorso (altrettanto come Harris L. Coulter, mettendo in parentesi tutto l’orizzonte biografico e culturale di Hahnemann, e i suoi legami con l’illuminismo tedesco, con l’attenzione alla riflessione di Lessing e Reimarus in particolare - documentati anche nelle lettere!): “La lettura de La vita e le lettere di Samuel Hahnemann, che oggi si offre ai lettori di lingua italiana, mi ha fornito nuovi e decisivi argomenti per difendere la mia tesi secondo la quale l’omeopatia non è altro che la visione tomistica della medicina [...]”. E così conclude: “Quindi in base a tutti gli elementi di giudizio che ho appena analizzato [...] Per tutte queste considerazioni, per le sue [di Hahnemann] note a piè di pagina (con cui, senza dubbio, provava a riparare all’ermetismo delle sue affermazioni nel testo delle sue opere, frutto della velocità e sintesi delle sue associazioni mentali) e per il suo [“stato di psora latente”] aggravarsi in primavera io, sfacciatamente, avrei osato prescrivergli [a Hahnemann] per le sofferenze dei suoi ultimi giorni, Lachesis, a un’alta dinamizzazione. Alfonso Masi-Elizalde - Buenos Aires, settembre 1993” (cfr.: Thomas Lindsley Bradford, La nascita dell’omeopatia...cit., pp. 407-412
14. C. F. Samuel Hahnemann, L’osservatore medico (frammento), in: Sergio Segantini - Maria A. Marchitiello, La medicina dell’esperienza ed altri scritti minori di Samuel Hahnemann, Traduzione di Maria A. Marchitiello, Editorium, Milano, 1993, pp. 223-230. Per il testo, si cfr. (qui di seguito) allegato B
15. Cfr. C. F. Samuel Hahnemann, Organon dell’arte del guarire, Edizioni di Red./Studio redazionale, Como 1985. pp. 45-46.
* APPROFONDIMENTI: PER LEGGERE L’ART. COMPLETO CON GLI ALLEGATI, CLICCARE SU QUI
* Sul tema, nel sito, si cfr.:
PARRHESIA EVANGELICA:IL FARISEISMO CATTOLICO-ROMANO E LA NOVITA’ RADICALE DELL’ANTROPOLOGIA CRISTIANA. PARLARE IN PRIMA PERSONA, E IN SPIRITO DI CARITA’.
FLS
LA FILOSOFIA E LA "RISPOSTA" SU "CHE COSA E’ L’ ILLUMINISMO?", OGGI: IL "CORAGGIO DI ASSAGGIARE" ("Sàpere aude!")" DI KANT E L’ANALISI SU "L’UOMO E’ CIO’ CHE MANGIA" ("Der Mensch ist, was er ißt") DI FRIEDRICH GEDIKE, nella «Berlinische Monatsschrift» del 1784.
UN "INVITO A RIFLETTERE" SU UNA QUESTIONE DI SOSTANZA, PROPAGANDA (FEDE), FILOLOGIA, E "FACOLTA’ DI GIUDIZIO" (#KANT2024) E, INSIEME, AD ACCOGLIERE "L’AFFASCINANTE «SFIDA» AL PANETTONE LOMBARDO" (si cfr. Emiliano Antonino Morrone, "Federica Greco, l’orgoglio calabro e l’affascinante «sfida» al panettone lombardo", Corriere della Calabria, 19 gennaio 2024):
Per meglio accogliere la sollecitazione del giornalista Emiliano Antonino Morrone, e, possibilmente, riprendere il filo dall’amore (#charitas) di Gioacchino da Fiore (San Giovanni in Fiore) e dal coraggio di assaggiare ("#Sàpere aude") di Orazio (Venosa), mi sia lecito, ricordare alcuni contributi storiografici sul tema del cibo e della antropologia filosofica:
a) Ludwig Feuerbach, "L’uomo è coà che mangia", a c. di Franco Tomasoni, Morcelliana, Brescia 2015.
b) Ludwig Feuerbach, L’uomo è ciò che mangia, a c. di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017.
c) Gianfranco Ravasi, "L’uomo è ciò che mangia", Famiglia Cristiana,18 maggio 2023.
"Sàpere aude!" (Kant, 1784). L’Illuminismo e il buon uso della propria intelligenza, della propria facoltà di giudizio, per uscire dallo "stato di minorità":
A)
ANDREA TAGLIAPIETRA, "La metafora gustosa. Feuerbach e la gastroteologia": "[...] Il detto italiano «parla come mangi», al di là dell’invettiva del luogo comune, rivela un fondo di verità difficilmente smentibile. La cultura umana si specchia, infatti, vuoi nelle parole del linguaggio che dalla bocca escono, vuoi in quegli alimenti e in quelle pietanze che nella bocca, invece, entrano.
Si inizia a intravedere, quindi, tutto lo spessore e la ricchezza che la frase di Feuerbach racchiude e che sta alla base del suo successo e della capacità di condensare molti motivi del pensiero del filosofo tedesco ben oltre l’immagine scolastica e polverosa dei manuali, che ne hanno fatto una sorta di mero raccordo della storia della filosofia fra Hegel e Marx. Del resto l’efficacia della massima appartiene già alla dimensione del significante e all’ambivalenza fonetica che ne fa oscillare il significato fra l’affermazione ontologica e la descrizione dell’azione di mangiare. Il gioco di parole Mensch ist, was er ißt è di fatto intraducibile nella nostra lingua, come anche nei principali idiomi europei correnti di cui abbiamo dato conto in apertura di questo saggio.
Traducendo «l’uomo è ciò che mangia», infatti, noi rendiamo il significato principale della «formula», ma non quello allusivo, veicolato non dal significato ma dal significante delle parole. Esso nasce dall’assonanza, nella lingua tedesca, fra ist (= «è», terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo sein, «essere») e ißt, ossia isst con la «s» raddoppiata (= «mangia», analoga voce del verbo essen, «mangiare»).
Per dare un’idea di ciò che qui risulta intraducibile ci viene in soccorso la lingua latina che, in virtù di un gioco linguistico affine al tedesco e, anzi, ancora più sofisticato, dal momento che l’ambiguità non è solo fonetica ma anche grafica, ci permette di volgere la formula feuerbachiana in homo est quod est, dove il primo est è la terza persona singolare dell’indicativo presente del verbo essere, mentre il secondo est è la terza persona singolare del verbo edere, cioè «mangiare». In questo caso, l’ambiguità grafica consente di leggere la «formula» in perfetta specularità, per cui possiamo tradurre sia con «l’uomo è ciò che mangia» sia con «l’uomo mangia ciò che è».
Questi parallelismi linguistici avevano già una loro tradizione in cui forse Feuerbach, nelle sue ricerche intorno alla religione e al tema del sacrificio, può essersi imbattuto.
Nel 1784 Friedrich Gedike, un teologo protestante di simpatie illuministe che, proprio per queste ultime, era incorso nella censura prussiana, aveva scritto il breve articolo Su «mangia» ed «è». Un contributo alla spiegazione dell’origine del sacrificio, pubblicandolo nello stesso numero della «Berlinische Monatsschrift» che conteneva il saggio sull’Illuminismo di Moses Mendelssohn a cui rispose, com’è noto, quello celeberrimo di Kant.
Nel saggio Gedike paragonava la prospettiva ontologica dell’uomo civilizzato, condensata nella massima cartesiana per cui cogito ergo sum («penso dunque sono») e per la quale il pensiero fa da fondamento all’essere, alla condizione naturale dei nostri progenitori, per i quali valeva piuttosto il detto edo ergo sum («mangio dunque sono»). La frase, volta alla terza persona singolare, suona, in latino, est, ergo est, con una coincidenza tra l’essere e il mangiare che la lingua tedesca conserva nella somiglianza fonetica fra ißt e ist. È quindi in questa prospettiva naturalistica ed elementare, concludeva Gedike, che mostra lo stretto legame, suggerito anche dal linguaggio, tra l’idea dell’essere e quella del nutrimento, che dobbiamo comprendere illuministicamente l’origine e l’importanza religiosa dei sacrifici e del pasto sacrificale.
Comincia a risaltare, allora, l’assonanza decisiva della massima, il suo senso duplice, ambivalente e intraducibile che, mentre afferma che l’«uomo è ciò che mangia», ribadisce anche che l’«uomo è ciò che è», richiamando la citazione diretta e, quindi, sottilmente dissacrante, del famoso versetto del libro biblico dell’Esodo in cui l’Altissimo, il Dio degli ebrei e dei cristiani, nomina se stesso. Un passo che ha, nell’originale ebraico, ehyeh asher ehyeh, un significato puramente negativo e antidolatrico, suonando più o meno come «io sarò quel che sarò», ossia un rifiuto da parte del Signore di rispondere all’impertinente domanda di Mosè su quale fosse il Suo nome. Eppure, già la Septuaginta, la Bibbia greca, in età alessandrina, trasporta l’enigmatico versetto scritturistico nei termini del linguaggio ontologico dei filosofi ellenici (egó eimí ho on) e la Vulgata traduce in latino ego sum qui sum, espressione che verrà interpretata dalla tradizione della Chiesa prevalentemente come un’affermazione. Anzi, come la dichiarazione stessa del fondamento metafisico dell’esistenza: «io sono colui che è». Si tratta del Qui est che, secondo la Summa Teologiae di Tommaso d’Aquino, è il nome proprio che più si addice a Dio.
L’uomo, come la sua proiezione teologica alienata e fantasmatica, afferma dunque di essere ciò che è. Soltanto che, a differenza di Dio, ossia del desiderio che sublima se stesso nella vertigine dell’immaginazione, per essere ciò che è, l’uomo ha la necessità di mangiare, di nutrire il suo corpo, di misurarsi con la realtà della natura, con il bisogno e le difficoltà di soddisfarlo." (cfr. Ludwig Feuerbach, "L’uomo è ciò che mangia", di Andrea Tagliapietra, Boringhieri, Torino 2017, pp. 20-22. senza le note).
B) FRANCESCO TOMASONI, "Ludwig Feuerbach: l’uomo e la sua alimentazione":
"Nel 2015 si è svolto a Milano l’Expo, una manifestazione fieristica dal titolo “Nutrire il pianeta. Energia per la vita” che in 184 giorni e con 145 nazioni partecipanti, fra cui ovviamente il Brasile, ha avuto 21 milioni di visitatori. Sull’onda di questo evento è tornato di attualità il celebre motto di Feuerbach: «L’uomo è (ist) ciò che mangia (isst)». Nella lingua tedesca l’assonanza fra le terze persone del verbo essere e del verbo mangiare è evidente e suggerisce una stretta relazione fra essere e mangiare. Non a caso i critici dell’epoca vi videro un’espressione di rozzo materialismo, che poteva essere avvicinata alla frase di Karl Vogt: «I pensieri stanno press’a poco nel medesimo rapporto col cervello, come la bile al fegato o l’urina alle reni». Vogt era ben consapevole di usare un’espressione «in un certo senso rozza», ma intendeva dire che «tutte le attività psichiche» erano «solo funzioni della sostanza cerebrale».
Eppure l’assonanza fra essere e mangiare era già stata messa in rilievo più di sessant’anni prima da un teologo protestante di tendenze razionalistiche, Friedrich Gedike, in un articolo della prestigiosa rivista “Berlinische Monatsschrift”, in cui comparvero anche gli interventi di Kant, Mendelssohn e altri sul significato dell’illuminismo.
Già nel titolo [Friedrich Gedike, Über ißt und ist. Ein Beitrag zur Erklärung der Opfer, „Berlinische Monatsschrift“, Hrsg. F. Gedike u. J.E. Biester, Vierter Bd., Julius bis December 1784, pp. 175-180.] egli evidenziava l’assonanza e mostrava che, ancor più che nel tedesco, in latino e in greco i due verbi coincidevano per alcune forme della flessione. Non si trattava dunque di un caso, bensì dell’effetto di un processo naturale. Per i popoli primitivi i concetti astratti erano troppo ardui, perciò al loro posto subentravano riferimenti materiali. Così «per l’uomo rozzo e ancora del tutto sensuale il concetto di essere, nei tempi della prima origine delle lingue, era troppo sottile e remoto [...] al contrario il concetto del mangiare era certamente uno dei primi sviluppatisi in lui».
Poteva dunque argomentare nel modo seguente: mangia, dunque è (in latino: est, ergo est). La terza persona, nella quale la coincidenza era perfetta, rifletteva la mentalità primitiva secondo cui il soggetto osservava le cose fuori di sé, ma non era ancora giunto all’autocoscienza. L’identità fra essere e mangiare aveva anche indotto i primitivi a concludere che se gli dei esistevano, dovevano mangiare.
Da qui i banchetti sacrificali, in cui si invitavano le divinità a condividere la mensa con gli uomini. Quanto più però questi si convincevano della superiorità degli dei, tanto più offrivano loro cibi preziosi, addirittura carne umana. Secondo Gedike i sacrifici umani erano venuti non alle origini, bensì in un periodo «intermedio di civiltà». Solo il raggiungimento pieno dell’illuminazione (Aufklärung) e della civiltà aveva fatto percepire l’abominio di quelle pratiche. In antitesi all’identità fra essere e mangiare, Gedike ricordava l’affermazione di Cartesio: «cogito ergo sum». L’autocoscienza dell’uomo civile si fondava sull’identità fra essere e pensiero. Per il teologo dunque al materialismo del primitivo si contrapponeva il razionalismo o lo spiritualismo dell’uomo moderno.
Benché non esistano prove del fatto che Feuerbach abbia letto questo articolo, esso è utile per comprendere il suo distacco da Hegel e i suoi due interventi sull’alimentazione e sui sacrifici. Anch’egli nel suo periodo giovanile aveva sottoscritto la concezione cartesiana, secondo cui l’essenza umana era data dal pensiero o dall’autocoscienza. Poi però nei Principi della filosofia dell’avvenire aveva negato che il carattere distintivo dell’uomo risiedesse semplicemente in quelli. La sua essenza era una totalità che si rifletteva nel complesso della sua sensibilità. Non si trattava solo della capacità di sentire e percepire, bensì di tutta la relazione corporea con la natura. Anche lo stomaco umano era essenzialmente diverso da quello degli animali: «Dagli animali l’uomo non si distingue solo grazie al pensiero. Tutta la sua essenza costituisce piuttosto tale differenza [...] Anzi, persino lo stomaco dell’uomo, malgrado noi lo guardiamo dall’alto in basso con disprezzo non è un’essenza ferina, ma umana, perché è universale, perché non deve servirsi di un tipo determinato di alimenti. Proprio per questo l’uomo non è affetto da quel furore vorace (Freßbegierde) con cui l’animale si getta sulla preda».
L’universalità, che già nell’Essenza del cristianesimo Feuerbach aveva attribuito al genere umano, faceva sì che questo non si limitasse a un tipo di alimenti e quindi dimostrasse, anche nel mangiare, la sua libertà. In proposito egli si appoggiava alla distinzione, presente nella lingua tedesca, fra “essen”, mangiare proprio degli umani, e “fressen”, divorare tipico degli animali, aggiungendo come nel secondo caso lo stomaco assumesse il predominio su tutto, mentre nel primo caso esso era in armonia con la testa, ossia con la ragione e l’etica.
Un amico di famiglia, Georg Friedrich Daumer, criticò l’esaltazione che in questo passo Feuerbach aveva fatto dell’uomo rispetto agli animali [...] Daumer toccava un punto, al quale Feuerbach era stato sensibile fin dai primi scritti, quello della fame.
Nello stesso brano della Storia della filosofia moderna che prima abbiamo ricordato per l’identificazione dell’essenza umana col pensiero, Feuerbach accennava alla fame come esempio per distinguere vari gradi di essere: «Un essere con uno stomaco riempito in modo da star bene è un essere molto più reale di un essere con stomaco vuoto». Lo stomaco vuoto rappresentava sensibilmente la contraddizione fra la presenza ideale dell’oggetto e la sua assenza reale, ossia la separazione da un ente, al quale per natura si era uniti. Già nella dissertazione De ratione Feuerbach si era soffermato su questa situazione per mettere in luce la tensione dialettica del desiderio.
Nelle Lezioni tenute a Erlangen come Privatdozent era tornato sull’argomento trattando dell’impulso o della pulsione (Trieb), un concetto già elaborato da Fichte, che avrebbe avuto grande fortuna nell’Ottocento fino a Freud e al suo famoso saggio della Metapsicologia: Le pulsioni e i loro destini (Triebe und Triebschicksale). Aveva affermato: «Un altro esempio è l’appagamento dell’impulso (Triebes) stesso; quando calmo la fame, questo calmarla in quanto appagamento è affermazione della mia vita, un godimento, ma questo godimento c’è in me soltanto in quanto c’è la fame, il non godimento [...] al godimento spetta l’essere e il non essere». Nel Leibniz Feuerbach aveva spiegato ulteriormente il rapporto con l’oggetto, presente negli impulsi e, in particolare, nella fame e nella sete: «A dispetto di tutti gli empiristi fame e sete sono due filosofi a priori; esse anticipano e deducono a priori l’esistenza dei loro oggetti». Nella loro struttura ontica era dunque insito l’oggetto, prima che si presentasse nelle cose sensibili.
Questa visione caratterizza nell’Essenza del cristianesimo la relazione del soggetto con l’oggetto: «L’uomo non è nulla senza oggetto [...] Tuttavia l’oggetto al quale un soggetto si riferisca essenzialmente, necessariamente non è altro che l’essenza propria di questo soggetto, ma resa oggettiva».
La conclusione dell’opera consisteva nell’esaltazione dell’eucarestia secondo il suo significato etimologico, ossia come solenne ringraziamento per il pane e il vino grazie all’esperienza della fame: «Per comprendere il significato religioso della consumazione del pane e del vino mettiti nella situazione in cui quell’atto altrimenti quotidiano venga, contro natura, violentemente, interrotto. La fame e la sete non distruggono solo la forza fisica, bensì anche quella spirituale e morale dell’uomo, lo spogliano dell’umanità, dell’intelletto, della coscienza. Oh! Se tu mai provassi tale mancanza, tale infelicità, allora come benediresti e loderesti la qualità naturale del pane e del vino che ti ridonano la tua umanità, il tuo intelletto! Così basta solo interrompere il consueto, comune corso delle cose per restituire a quanto è comune un significato non comune, alla vita in quanto tale un significato assolutamente religioso. Santo sia per noi quindi il pane, santo il vino, ma santa anche l’acqua! Amen» [...]" (cfr. Francesco Tomasoni, Università del Piemonte Orientale, Vercelli - ripresa parziale, senza le note, pp. 109-112).
FLS
Nella mente di un dottore
Medico-paziente.
La relazione virtuosa parte dalla consapevolezza di sé del camice bianco. Ma nessuna facoltà dà formazione psicologica
Meno si è in contatto con le proprie emozioni meno si riesce a condurre a buon fine un rapporto. Anche quello terapeutico
di Giacomo Gatti (la Repubblica, 21.11.17
DURANTE tutta la sua storia la medicina ha oscillato tra una tendenza dell’uomo nella sua totalità (scuola di Cos, Ippocrate) e una tendenza analitica, specifista e meccanicista (scuola di Cnido), di studio parcellare, di organi o apparati ponendosi così in evidenza la perennità di due tipi di medici. Il medico invece non può non considerare il suo paziente nella sua interezza psiche/soma e dunque non può non rendersi conto della complessità psicologica di tale relazione. Perciò ha bisogno di una formazione psicologica che purtroppo nessuna facoltà ha potuto e a tutt’oggi può elargirgli almeno come dovrebbe essere intesa: non solo semplice informazione di nozioni ed elementi, bensì formazione come apprendimento emozionale di sé stesso nella relazione.
In qualunque ambito relazionale meno si è consapevoli delle proprie emozioni, meno si riesce a condurre a buon fine un rapporto. Allo stesso modo l’approccio al paziente potrebbe migliorare se il medico riuscisse a rendersi conto di ciò che avviene, sul piano psicologico, nella relazione e non tentare invece di affidarsi al solito e abusato buon senso, corroborato magari dalla retorica di disposizioni innate a sua disposizione. Più si amplia la consapevolezza per il medico di ciò che si è e di ciò che il paziente rappresenta in funzione della sua condizione psicologica, meno si corre il rischio di assumere atteggiamenti negativi sul piano umano e controproducenti su quello terapeutico.
Vero è che il medico attraverso l’uso di due mezzi potenti a sua disposizione, l’ascolto e la parola, ha il potere di intervenire sul percorso della malattia e sulle vicissitudini psicologiche del suo paziente rispetto alla malattia. Per saperlo fare deve essere avviato a una formazione psicologica che se è fondata su un apprendimento emozionale di sé stesso, nella relazione, dovrà comportare il promuovere una modificazione di quello che Michel Sapir chiamava “il segmento inconscio della personalità professionale”. In funzione di esso, si stabiliscono a volte determinate difese, come quelle relative al racconto della scelta professionale. Si citano una generica volontà di aiutare chi soffre, il desiderio di combattere il male, l’identificazione con il debole, la necessità di continuare una tradizione familiare, il richiamo dovuto al prestigio di una professione liberale.
Dietro la facciata, tuttavia, possono a volte celarsi altre motivazioni: un sentimento inappagabile di onnipotenza e di predominio su chi ha bisogno, una tendenza non sublimata all’aggressività, un’inclinazione al voyeurismo, la paura della morte. Non sarebbe difficile immaginare le tipologie relazionali con il paziente che potrebbero derivare da tali fondali inquieti: autoritarismo e arroganza, sadismo, interminabili esami corporei, indifferenza e la negazione per esorcizzare il fantasma della morte. Tutto questo, per fortuna, non è costantemente riscontrabile.
È stato assodato, a partire dalla metà del secolo scorso, che lo stesso medico agisce come farmaco, la dose e gli effetti costituiscono un campo di indagine avvincente. Al farmaco-medico si propone però il problema di come rispondere alla domanda del paziente: questione delicata quest’ultima poiché comporta che le risposte possono contribuire spessissimo a determinare la forma ultima della malattia, quella su cui il paziente si stabilizzerà. E che l’evoluzione della malattia non avverrà solo in funzione di una corretta diagnosi e di una corretta terapia, ma anche del rapporto medico-paziente.
Una delle modalità più essenziali che provvede a una formazione psicologica del medico è il “Gruppo Balint” che prende il nome dal suo ideatore. Lo psichiatra inglese Michael Balint, infatti, per anni si dedicò alla formazione psicologica dei camici bianchi. Nel gruppo i medici discutono di casi clinici concreti. Il conduttore è uno psicoanalista. E tutto ciò può valere, poiché ampiamente documentato, allo sprigionamento graduale per il medico di una modalità relazionale realmente terapeutica.
INDIVIDUO, SOCIETA’, E COSTITUZIONE. IERI COME OGGI: USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI!!! C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...
Scienze psicosociali
Democrazie personalizzate
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia.
Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 27.8.2017)
Per Platone, politica e morale sono due facce della stessa medaglia e il governo giusto è solo quello dei filosofi, che sanno cosa è la giustizia. Aristotele, invece, preferisce discutere la politica come dimensione dell’esperienza sociale indipendente dall’etica. Non tanto perché le forme della virtù siano irrilevanti, ma in quanto, se si ha di mira il bene generale, è disfunzionale decidere una forma di governo partendo da doti etiche personali. Meglio chiedersi sotto quale tipo di legge (costituzione) sarebbe preferibile vivere.
Sono dovuti trascorrere quasi due millenni, ed è occorsa la provocazione di Macchiavelli (ma quale etica, è tutto lecito in politica!), per rendersi conto che i valori della convivenza civile si possono stabilire concordemente, per vie democratiche, attraverso leggi nelle quali tutti si riconoscono e che sono uguali per tutti; piuttosto che lasciarli decidere, i valori, dai politici che di volta in volta per le loro personalità/capacità intercettano i favori popolari. La selezione naturale non poteva prevedere che per la convivenza civile nelle innaturali società moderne si dovessero inventare lo stato di diritto, il libero mercato, l’epistemologia scientifica, il rispetto degli estranei, i diritti umani, etc. Le sensibilità per questi valori non sono innate, come provano le scienze cognitive. Scaturiscono da processi storico-sociali che hanno manipolato, provvisoriamente, predisposizioni psicologiche individuali polimorfiche, dando luogo a repertori e combinazioni di profili comportamentali, quindi preferenze valoriali e infine orientamenti politico-ideologici, che si combinano e ricombinano nei gruppi umani per rispondere a continue e diverse sfide o instabilità dettate da dinamiche ecologiche in senso lato.
La psicologia della personalità è un terreno fertile per studiare e ragionare delle basi comportamentali della politica e per capire quali forme di organizzazione della convivenza umana sono più congeniali alle disposizioni individuali e sociali umane.
In un denso e lucido libro, Gian Vittorio Caprara e Michele Vecchione argomentano che la democrazia è un’«impresa morale che si fonda ampiamente sulla moralità pubblica dei suoi cittadini», e che la divaricazione ideologica tra destra e sinistra o tra liberali e conservatori intercetta tratti fondamentali della personalità, che nell’evoluzione della cultura politica occidentale si strutturano preferibilmente attraverso questa tipologia di identificazione politica, in ragione dei valori morali e politici associati a questi piani.
Non è di personalizzazione della politica nel senso tradizionale che parla il libro, cioè delle caratteristiche psicologiche dei leader votati dagli elettori e che sembrano contare sempre più, ma di come i tratti e i valori delle personalità dei cittadini concorrono al funzionamento di un sistema politico. Nondimeno si parla anche del fatto, corroborato da studi empirici, che le somiglianze di personalità tra politici ed elettori giocano un ruolo nelle scelte di voto.
Il libro espone dati, analisi e proposte fondate su due influenti paradigmi della psicologia della personalità e della psicologia sociale umana: il modello dei Big Five e la tassonomia dei valori umani fondamentali di Shalom H. Schwartz.
I cinque “grandi” tratti selezionati nei primi decenni del secondo dopoguerra sulla base di studi lessicali e analisi fattoriali, come noto, sono: apertura mentale (quanto una persona è inventiva e curiosa piuttosto che cauta e conservatrice), amicalità (quanto una persona è fiduciosa, altruista e cordiale, piuttosto che egoista e sospettosa) coscienziosità (quanto è efficiente e scrupolosa, piuttosto che superficiale e disattenta), estroversione (quanto è energica e socievole, piuttosto che solitaria e chiusa) e, infine, stabilità emotiva (quanto è vulnerabile alle emozioni negative come l’ansia o l’angoscia, o tende alla depressione, piuttosto che sicura di sé e fiduciosa).
Numerosi studi dicono che le personalità caratterizzate da apertura e socievolezza tendono a essere progressiste, mentre quelle coscienziose, sono conservatrici. Qualche ricerca trova che le persone che spiccano come amicali tendono a essere di sinistra in economia e di destra nelle politiche sociali, mentre vale il contrario per gli emotivamente instabili. L’estroversione non produce effetti preferenziali. Esiste anche una letteratura che usa i Big Five per mappare geograficamente i tratti di personalità prevalenti in diverse aree degli Stati Uniti, spiegando in questo modo, cioè come concentrazione di persone con tratti simili, gli orientamenti ideologici e i comportamenti di voto costanti, per i repubblicani o per i democratici, in diversi stati.
Non è questa la sede per discutere i limiti del fortunatissimo modello dei Big Five, che non ha una base teorica e trova però alcune conferme a livello neurobiologico, ma non genetico. Ora, i tratti non danno informazioni a livello motivazionale: sono differenze individuali dimensionabili per quanto riguarda delle tendenze a mostrare schemi di azioni, affetti e pensiero coerenti.
L’israeliano Schwartz ha quindi costruito, partendo dalle ricerche dell’olandese Geert Hofstede sulle dimensioni delle differenze culturali e valoriali transnazionali, una tassonomia di dieci valori riscontrabili nelle principali culture, i quali funzionano come credenze, desideri o scopi che hanno effetti motivazionali per la persona: autodirettività, stimolazione, edonismo, realizzazione, potere, sicurezza, conformità, tradizione, benevolenza, universalismo.
Questi valori strutturano in quattro gruppi che definiscono l’apertura al cambiamento (primi due), l’autoaffermazione (successivi tre), la conservazione (successivi tre) e l’auto-trascendenza (ultimi due), e sono tra loro interconnessi e sovrapposti. In che misura le dinamiche relazioni tra i valori correlano con o predicono orientamenti ideologici e scelte elettorali?
Schwartz, Caprara e Vecchioni hanno suggerito otto “nuclei valoriali politici” che definiscono preferenze socio-economiche e culturali che contano per le persone in quanto espressione sul piano ideologico della loro visione morale: equità, libera concorrenza, morale tradizionale, legge e ordine, patriottismo fanatico, libertà civili, accettazione degli immigrati, interventismo militare.
Esaminando prima due elezioni politiche italiane, 2006 e 2008, e quindi testando le preferenze valoriali e politiche in altri paesi europei, anche post-comunisti, gli autori hanno trovato che le ideologie tradizionali sono ancora i migliori predittori di voto, anche se i dati consigliano di guardare oltre la divisione destra-sinistra e progressisti-conservatori, per cogliere complessivamente i determinanti valoriali delle scelte politiche. Infatti, al di là di chiare differenze si notano comunanze tra i votanti. Per esempio, autodirettività e universalismo sono apprezzati più che potere e realizzazione nella maggior parte dei Paesi studiati, non solo come prevedibile da chi è di sinistra/progressista, ma anche per chi è di destra/conservatore.
Per quanto riguarda gli atteggiamenti politici, gli elettori di sinistra/progressisti sono per politiche di equa distribuzione delle risorse e delle opportunità e per le libertà civili (di agire e pensare), mentre quelli di destra/conservatori preferiscono politiche attente ai valori familiari e religiosi tradizionali, all’applicazione della legge e liberiste in economia. Ma questi ultimi danno un’importanza a eguaglianza e libertà civili non molto distante da chi è dell’ideologia opposta.
Per gli autori «i dati suggeriscono che gli atteggiamenti e le scelte politiche degli elettori dipendono meno che in passato dal menu offerto loro dai partiti e dai politici. Oggi i cittadini sono agenti proattivi, le cui priorità largamente dettano il tipo di menu che i partiti politici e i politici dovrebbero servire. Di fatto, più i cittadini sono consapevoli dei loro diritti, specialmente della libertà di esprimere le loro opinioni, più le rappresentazioni mentali di sé e le visioni del mondo personali dettano le loro scelte individuali». Il che dovrebbe suscitare ottimismo per il futuro della democrazia nella misura in cui un buon sviluppo della personalità si trasferisce nel buon funzionamento della democrazia. Ma nonostante le messe di dati e modelli utili che offre alla riflessione, il libro non spiega perché si dovrebbe essere ottimisti.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
CRISI POLITICA E "SACRA FAMIGLIA" [UNITA]!!! NON SOLO LA TEOLOGIA (E LA FILOSOFIA), MA NEMMENO LA SOCIOLOGIA SA DISTINGUERE TRA FAMIGLIA DEMOCRATICA E FAMIGLIA DI "MAMMASANTISSIMA" E DI "MAMMONA"...
"FAMILISMO AMORALE" E SOCIETA’. LA FAMIGLIA CHE UCCIDE: IL LATO OSCURO DELLA FAMIGLIA.
ITALIA: STORIA E POLITICA (1513-2013). MACHIAVELLI CONTRO OGNI TIRANNIA E CONTRO OGNI POPULISMO: C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO"!!!
LA QUESTIONE DELLO STATO: "IL PRINCIPE" O MEGLIO "DE PRINCIPATIBUS" (1513).
INDIVIDUO E SOCIETA’ E COSTITUZIONE, IERI COME OGGI. USCIRE DALLO STATO DI MINORITA’, APRIRE GLI OCCHI: C’E’ DIO E "DIO", PATRIA E "PATRIA", E FAMIGLIA E "FAMIGLIA" ...
C’E’ CAPO E "CAPO" E STATO E "STATO"
SAGGI
Umberto Curi indaga a fondo la vocazione ambigua della medicina
L’identità incerta dell’arte della cura una riflessione del filosofo, pubblicata da Raffaello Cortina, sul concetto di salute dall’antica Grecia ai giorni nostri
di CHIARA LALLI *
Una larga parte delle ricerche in campo medico è sbagliata o falsa, lo statuto della medicina è controverso, in equilibrio tra scienza e arte, e Internet ha cambiato l’accesso alle informazioni specialistiche, modificando profondamente il rapporto tra società e professioni. Basterebbe questo a farci venire mal di testa.
Ma non è finita qui: quando ci sono in ballo grossi finanziamenti e interessi economici, la probabilità che i risultati siano viziati aumenta e i dati - seppure acquisiti in modo esatto - possono essere interpretati in modo diverso perché le variabili sono molto numerose e l’organismo umano è un sistema estremamente complesso.
Se aggiungiamo la fallibilità dell’osservatore, il panorama appare irrimediabilmente nebuloso. Come possiamo dunque fidarci della medicina? E, ancor prima, che cos’è la medicina?
Il libro di Umberto Curi, Le parole della cura (Raffaello Cortina) parte da questa domanda e la risposta non può che rimandare a molte altre domande. Se dovessimo spiegare cos’è un grattacielo, non potremmo fare a meno di chiarire almeno che cosa siano le finestre, le porte, il calcestruzzo e l’acciaio.
Se accettiamo la condivisibile premessa di Curi, la medicina non sarebbe una scienza ma una pratica basata sulla scienza, una tecnica molto particolare perché il suo oggetto è l’uomo. Ma c’è un problema (un altro): cosa significano «pratica», «tecnica» e «scienza»?
Se non definiamo questi termini, rischiamo di parlare in modo ambiguo e ambivalente. E se, come vedremo, l’ambivalenza non potrà essere eliminata, una «ricognizione» etimologica e concettuale di questi termini è utile per orientarci. E poi la storia - degli errori, dei tentativi - e il mito contribuiscono a ridarci una idea della medicina nella sua interezza e nella sua complessità.
Basti pensare al mito di Asclepio, il dio della medicina. «Affidato alle cure di un personaggio doppio (Chirone), metà uomo e metà cavallo, Asclepio apprende i segreti di un’arte - quella medica - intrinsecamente ambivalente, perché capace insieme di salvare la vita e di procurare la morte», scrive Curi.
Questo potere di resuscitare e di uccidere descrive bene la doppiezza irriducibile dell’universo medico. Come qualsiasi altra tecnica, anche quella medica presenta due volti. Come il farmaco, il «veleno che cura», il cui effetto terapeutico è inseparabile da quello tossico.
Ci piacciono le cose senza troppe complicazioni, ma dovremmo imparare a fare i conti con la duplicità e con le ombre, con la fallacia delle promesse rassicuranti. E quando parliamo di salute, non dovremmo mai dimenticare che la sua definizione non è così facile come potrebbe sembrare.
Giudicata come insoddisfacente la positivistica accezione di «assenza di malattia», come potremmo cavarcela?
Il tentativo della Organizzazione mondiale della sanità del 1946, ci ricorda Curi, è apprezzabile per lo sforzo, ma deludente nei risultati: «La salute è uno stato completo di benessere fisico, mentale e sociale». Sembra uno standard davvero utopistico e che rischia di condannarci a una perenne condizione di malattia. Quanti sono infatti quelli che potrebbero affermare di godere di un completo benessere fisico, mentale e sociale?
Ogni tentativo di definizione inciampa in simili difficoltà. Anche la proposta recente di considerare la salute come la capacità di adattarci al nostro ambiente, rinunciando così a delinearne un profilo fisso e universale, non è del tutto soddisfacente. Una spia è la quantità di reazioni che ha suscitato l’editoriale pubblicato su «Lancet» nel 2009 in cui si azzardava questa ipotesi, intitolato appunto What is Health? The Ability to Adapt.
D’altra parte una definizione è necessaria. Si pensi anche ai dibattiti etici sulle biotecnologie, alle pretestuose e semplicistiche assoluzioni di quelle terapeutiche e alla condanna di quelle migliorative. Dove tracciamo la linea? Più l’accezione è vaga e generica, più ovviamente rischia di essere inutile. Più è stringente, più si attira giudizi negativi. Non possiamo che concludere, con Curi, che «la salute resta una nozione sostanzialmente elusiva».
La consapevolezza delle difficoltà e delle incertezze, però, non deve scoraggiarci o convincerci che, se la medicina basata sulla scienza non è priva di errori e ombre, allora tanto vale affidarci a qualsiasi cialtrone o a chi promette rimedi miracolosi. Perché la magia e i miracoli hanno l’apparenza dell’infallibilità, ma sono ingannevoli come un’allucinazione. Lo strumento migliore che abbiamo è quello che ci permette di intercettare gli sbagli e di correggerli.
* Corriere della Sera, 28 luglio 2017 (ripresa parziale - senza immagini).
MEDICINA, ILLUMINISMO KANTIANO, E COSTITUZIONE DEMOCRATICA: CRITICA DELLA CONOSCENZA E DELLA RAGIONE MEDICA....
Obbligo vaccini a scuola, ecco come funziona all’estero *
L’obbligatorietà di alcune vaccinazioni è un strategia diffusa in Europa e non solo. Ma a chiedere il certificato vaccinale per l’ammissione a scuola - come si torna a fare in Italia con il decreto appena varato in Cdm - oggi in Europa c’è solo la Germania e, dall’altra parte dell’oceano, Stati Uniti e Canada. In territorio europeo, da un’indagine comparativa del 2010 sull’attuazione dei programmi vaccinali su 27 Paesi Ue (più Islanda e Norvegia), condotta da Venice (progetto Vaccine European New Integrated Collaboration Effort) e pubblicata sulla rivista Eurosurvellance, risulta che 14 dei 29 Paesi hanno almeno una vaccinazione obbligatoria nel loro programma.
Obbligo vaccini a scuola, come funziona dopo i 6 anni?
I 15 che non ne hanno alcuna obbligatoria sono: Austria, Danimarca, Estonia, Finlandia, Germania, Irlanda, Islanda, Lituania, Lussemburgo, Norvegia, Portogallo, Spagna, Svezia, Regno Unito. Differenze si registrano anche nelle scelte delle vaccinazioni rese d’obbligo. Per l’Italia, fino ad oggi, i vaccini obbligatori erano difterite, tetano, epatite b, polio; in Francia difterite, tetano, polio, tbc; in Grecia difterite, tetano, polio; in Belgio e Olanda obbligatoria solo l’antipolio, anche perché gli ultimi casi europei della malattia si sono verificati proprio nei due Paesi.
Per quanto riguarda l’obbligo della vaccinazione per l’iscrizione a scuola "in realtà - spiega all’Adnkronos Salute Pier Luigi Lopalco, docente di Igiene dell’università di Pisa - non abbiamo evidenze scientifiche. Il dato più recente, in un Paese di cultura occidentale, è quello della California, dove per far fronte al calo della copertura, è stata cancellata la possibilità di appellarsi a motivi religiosi per iscriversi a scuola senza certificato vaccinale".
Questa misura "ha fatto effettivamente risalire i dati di copertura. Personalmente - dice l’esperto - credo che il filtro scolastico, declinato in maniera moderna, possa essere utile, perché consente di intercettare i genitori non vaccinisti, convocarli e avviare un confronto per far comprendere l’importanza di proteggere non solo il proprio figlio ma anche gli altri. Mentre non credo siano utili forme di coercizione".
"E’ invece importante lavorare per cambiare la cultura, anche dei medici - insiste - che spesso non sanno fornire risposte a genitori confusi, e generano ancora più confusione. Ed è necessario adottare misure strutturali, non estemporanee, per garantire la copertura vaccinale necessaria a tutelare la salute dei tutti", conclude Lopalco.
Il padre dell’omeopatia usa gli antibiotici
Intervista del Corriere a Christian Boiron: "Farmaci omeopatici vanno usati in sinergia" *
Gli antibiotici? "Li prendo e anche i miei figli". Così, in un’intervista al Corriere della Sera, il ’padre dell’omeopatia’ Christian Boiron, direttore generale del Gruppo Boiron, leader mondiale dei farmaci omeopatici. L’ultimo antibiotico preso risale "all’anno scorso, dopo l’estrazione di un dente del giudizio". E l’ultimo farmaco a stamattina: "la cardioaspirina, la prendo tutti i giorni".
In merito al decesso di un bimbo di sette anni nel pesarese ad Ancona per un’otite curata con metodi omeopatici, Boiron dice:
Boiron insiste sul concetto di sinergia:
E ancora: "Dobbiamo considerare l’omeopatia come una specializzazione che dà strumenti in più per inquadrare e curare le malattie. In sinergia".
Il rimedio cinese
L’ Accademia dei Nobel si inchina a Youyou e a una scienza di tradizione millenaria nel suo Paese. Ma il riconoscimento non segna una rivoluzione nella medicina globale. La scopritrice dell’Artemisina non riesce più a sedurre nemmeno i suoi connazionali. Mai come oggi infatti Pechino è in fuga dalle vecchie cure: i prezzi delle 200 sostanze più diffuse sono in caduta libera con pesanti ripercussioni sull’export. E anche i luminari di questo sapere sono ormai privati dell’antico prestigio sociale. Ecco perché
di Giampaolo Visetti (la Repubblica, 07.10.2015)
YOUYOU Tu è il primo Nobel cinese per la medicina, la prima donna della Cina a ottenere il più prestigioso premio mondiale. Lo ha vinto nel terzo millennio, grazie a una scoperta che affonda le radici 1600 anni fa, nella sapienza degli erboristi asiatici che l’industria della salute occidentale ci ha fatto dimenticare. È come se tra poche ore il Nobel per la Letteratura venisse assegnato ad un frate amanuense, scovato per caso in un monastero risparmiato dal web e dalle concentrazioni editoriali.
Anche la malattia a cui Youyou Tu ha dedicato la sua vita di studiosa, la malaria, mantiene l’esoticità coloniale di un sapore antico. La maga delle erbe che per decenni ha battuto i villaggi rurali, trascrivendo a mano le ricette della medicina cinese tramandate oralmente dagli anziani, è così ascesa all’istante ad anti-simbolo globale di una scienza umana consegnata alla speculazione finanziaria, alla corruzione politica e al dominio delle analisi hi-tech.
Nel 2015 Youyou Tu ha vinto il Nobel per la medicina con una scoperta del 1972, alla fine di un secolo fa, studiando i poteri alchemici dell’ Artemisia annua e lottando contro le zanzare, oggi decimate da insetticidi e concimi chimici. La Cina e il resto del mondo, improvvisamente, sono riusciti a riconoscere l’evidenza: un’anonima ricercatrice cinese, osteggiata dalle guardie rosse di Mao Zedong ed emarginata dai successori post-rivoluzionari, ha silenziosamente contribuito a salvare milioni di persone da una malattia non ancora vinta, i poveri dimenticati nell’altro mondo ancora ignorato dall’anelito alla longevità.
La simultaneità del web e la propaganda di Pechino, che mai ha promosso Youyou Tu nell’Accademia delle Scienze, hanno subito stabilito che il Karolinska Institut di Stoccolma ha voluto indicare la medicina tradizionale cinese, con i suoi medici e con i suoi ricercatori, come laboratorio per ridefinire una più sostenibile scienza mondiale del futuro.
L’enfasi retorica ha finto di ignorare che l’erboristeria e gli estratti animali, cardine storico dei rimedi naturali, nulla possono contro le malattie acute e contro la nuova generazione dei farmaci chimici. Rappresentano semmai un modo di vivere in armonia con le altre forme di vita, in cui la prevenzione aiuta a sostenere l’urto ineludibile dell’invecchiamento.
Solo Youyou Tu, prostrata dal diabete e sulla soglia degli 85 anni, ha tentato invano di riportare tutti dentro la misura della realtà. «Il Nobel - ha detto - non mi ha fatto un’impressione particolare e non mi ha sorpreso troppo. È un onore reso a tutti gli scienziati cinesi, un regalo alla medicina tradizionale dell’Oriente e alla popolazione del pianeta: ma non deve frenare la curiosità e la creatività dei ricercatori, fermare le conquiste della tecnologia, rallentare le lancette del progresso ».
Fino a due giorni fa la Cina era comunemente associata alla repressione del dissenso politico, alla crescita trentennale della sua economia e alla prima crisi del suo modello industriale, ai marchi contraffatti, all’inquinamento e alla corsa al riarmo nel Pacifico. Mai Pechino era finita nei radar dell’innovazione, della scienza e della medicina, e la comunità internazionale si è chiesta subito se il Nobel di Youyou Tu sia il segnale che la fame del Dragone voglia ora saziarsi fagocitando anche la modernizzazione clinica.
Si inaugura “il secolo del medico cinese”, votato alla riscoperta dell’erboristeria e al tramonto di chimica e chirurgia robotica? La risposta, per ora, sembra restare no. La vecchia scopritrice dell’Artemisina, capace di sconfiggere il Plasmodium Falciparum resistente al chinino, ha conquistato l’Occidente, ma nonostante il subitaneo orgoglio nazionalista continua a non sedurre la stessa Cina. Il suo successo nasce dentro un piano militare segreto, voluto da Mao non per amore della ricerca, ma per risparmiare i soldati che alla fine degli anni Sessanta combattevano contro gli Usa nel Sudest asiatico. La missione affidata a Youyou Tu non era salvare i poveri dalla malaria, ma contribuire alla vittoria del comunismo sul capitalismo ed è proprio tale vizio politico del passato a spiegare il paradosso scientifico del presente: mai come oggi la Cina è scossa dalla fuga di massa dalla medicina tradizionale e mai come oggi il medico cinese è vittima della violenza collettiva e privato di ogni residuo prestigio sociale.
L’Occidente subisce il fascino dell’erboristeria imperiale, mentre i cinesi consumano l’ultimo strappo dalle proprie tradizioni. A rivelarlo sono le antenne infallibili del mercato: nel 2015 i prezzi dei rimedi naturali sono crollati, trascinando nel baratro anche le esportazioni. La domanda interna segna meno 15%, l’export meno10,2%, dopo il meno 12% del 2014. Un anno fa il ginseng, gloria popolare, valeva 145 dollari al chilo: ora fatica a trovare clienti disposti a pagarlo 20. In picchiata anche le quotazioni di essenze himalayane, funghi, corna di cervo, bile di orso, grasso di tigre, cocomeri di mare, bacche e fiori selvatici.
La maga delle pozioni Youyou Tu vince il Nobel per la medicina, ma la farmacia cinese si svuota: tra i 200 rimedi naturali più diffusi, 11 hanno dimezzato prezzo e vendite, 183 sono calati del 10% e solo 6 sono rimasti stabili. Centinaia di milioni di malati cinesi si convertono ai farmaci chimici dell’industria occidentale, sostenuti dalla pubblicità, e alimentano il turismo della salute che ingrassa i commercianti di Hong Kong, Seul, Tokyo, Taiwan, ma pure le multinazionali di Europa e Usa.
Il mercato delle erbe, che solo in Cina nel 2013 valeva 12 miliardi di euro, entro dicembre minaccia di scendere sotto i 5. È l’effetto di una super-potenza, nei fatti, sempre più occidentalizzata: la gente non vuole convivere con le malattie, ma guarire subito, non si accontenta di invecchiare, ma sogna l’eternità, non accetta la sofferenza, ma pretende di abolire il dolore, non può fermarsi se il fisico lo suggerisce, ma deve continuare a lavorare per continuare a consumare. E alla grande fuga dalla medicina tradizionale corrisponde l’escalation dell’odio collettivo verso i medici.
Nei primi otto mesi dell’anno, denuncia l’Accademia delle scienze di Pechino, in ogni ospedale del Paese ci sono state in media 35 aggressioni armate. Centinaia le vittime, mentre il 40% dei medici ospedalieri cinesi dichiara di voler abbandonare la professione per evitare le vendette dei pazienti insoddisfatti. Il salario mensile di un primario è di 370 euro al mese, inferiore a quello di un operaio, i medici sono ad un passo da uno sciopero generale senza precedenti e invitano i giovani a disertare le facoltà di medicina. È l’altra faccia del primo Nobel cinese per la medicina: migliaia di città e di villaggi senza ospedale, reparti privi di farmaci e di macchine per le diagnosi, medici in rotta costretti a 200 visite al giorno, pazienti in rivolta, reparti presidiati dall’esercito, puerpere in fuga all’estero, rimedi tradizionali considerati truffe da stregoni prigionieri della suggestione.
Solo Youyou Tu, con la modestia e la tenacia della scienziata sola che vive per capire, supera oggi la crisi d’identità dell’Occidente che si rifugia in Oriente e dell’Est che si consegna all’Ovest. «Il nostro compito - ha detto - è semplicemente lottare per la salute di tutti gli esseri umani». Ha fatto più attenzione ad un’erba chiamata Artemisia, conosciuta da tutti. -Anche nella medicina è l’attenzione, non l’erboristeria, non la chimica, a fare la differenza: l’hanno scoperta, nel terzo millennio, ma l’hanno scoperta.
Giorgio Cosmacini, storico della medicina
“I farmaci sintetici sono più efficaci”
intervista di Michele Bocci (la Repubblica, 07.10.2015)
DA Marco Polo fino ai giorni nostri, la storia dei rapporti tra medicina cinese e occidentale è fatta di incontri, scontri, momenti di intensa infatuazione e di freddezze. «Oggi siamo in un momento di convivenza, che però giudico asimmetrica», dice Giorgio Cosmacini, uno dei più importanti storici della medicina e della sanità europei, docente all’università Vita-Salute San Raffaele.
A quando risalgono i primi incontri dell’Europa con la medicina cinese?
«A parlarne per primo fu, tra la fine del 1.200 e l’inizio del 1.300, Marco Polo, che la considerava la più importante dell’Asia. Si tratta di una disciplina di tradizione millenaria. Il Grande libro delle erbe cinesi risale addirittura al 2.737 avanti Cristo. Descriveva 365 medicamenti. E tra questi c’era già l’artemisia».
La pianta studiata dal nuovo Nobel per la medicina, Youyou Tu.
«È interessante ricordare che l’artemisia, amarissima, era usata un tempo pure da noi contro le febbri, anche malariche. Un po’ come la corteccia di china».
Quando si diffonde da noi la medicina cinese?
«L’agopuntura e la moxibustione erano già note in Europa nell’Ottocento. E anche l’uso delle erbe. Ho un dizionario del 1854 dove tra i vari tipi di artemisia , sempre lei, c’è anche quella chinensis , cinese. Un utilizzo più diffuso si inizia a vedere comunque nel secondo dopoguerra».
Quali sono stati i motivi dell’ingresso in occidente?
«Sicuramente ha un pregio nei confronti della nostra tradizione medica: dà massima importanza alla soggettività del paziente, da noi ci si basa di più su dati oggettivi. La forza di queste tecniche era che in un certo senso reagivano all’appannamento del rapporto medico paziente dovuto allo sviluppo unilaterale della tecnomedicina. E se leggiamo la definizione di “salute” fatta dall’Oms nel 1948 sembra ispirata di più alla visione orientale quando la identifica nel “benessere fisico, psichico e sociale”».
Il Nobel potrebbe essere un riconoscimento per questa caratteristica della medicina cinese?
«Ho delle riserve. Spesso nell’assegnazione intervengono fattori geopolitici. Se scorriamo i suoi 115 anni di storia, vediamo come prima della Seconda guerra mondiale i vincitori fossero in gran parte d’area tedesca, poi più spesso è toccato ad angloamericani. Adesso arriva la Cina, uno dei Paesi più importanti del mondo. Se dovessi andare in Africa e prendessi la malaria non mi curerei con l’artemisia. L’assegnazione dei Nobel per la medicina ha avuto vari infortuni. Nel 1927 Julius Wagner-Jauregg venne premiato per aver inoculato la malaria al fine di bloccare la paralisi progressiva. Un’idea poi rivelatasi fallimentare».
Quali sono i punti di incontro tra le pratiche cinesi e la medicina occidentale?
«L’agopuntura si basa sulla stimolazione meccanica di punti individuati grazie a meridiani corporei per rafforzare o smorzare l’energia negli organi. Ha un substrato fisiopatologico affine a nostre cognizioni neuroscientifiche. Riguardo alla fitoterapia, i farmaci prima di essere sintetici erano estrattivi dalle piante. Questo è un terreno di ricerca universale».
Quindi i due mondi possono convivere?
«Sì ma in modo fortemente asimmetrico, le discipline cinesi hanno uno spazio minoritario. I farmaci di sintesi godono di una sperimentazione scientifica, prima laboratoristica poi clinica, che fa premio rispetto all’empirismo e all’eclettismo del passato e li rende più potenti».
Quel premio alla medicina cinese
di Giuseppe Novelli (la Repubblica, 10.10.2015)
CARO direttore,
dopo aver letto l’articolo intitolato “Il rimedio cinese” a firma di Giampaolo Visetti, vorrei condividere con lei ed i suoi lettori alcune riflessioni sul significato del premio Nobel assegnato a Youyou Tu e sui rapporti tra medicina tradizionale cinese e medicina occidentale.
Visetti definisce più volte la scopritrice dell’artemisina “maga”, ma si tratta di una ricercatrice con competenze chimiche, che ha usato un metodo sperimentale per identificare il principio attivo della pianta e, senza i laboratori delle multinazionali occidentali del farmaco, non sarebbe mai arrivato ai malati salvando milioni di vite.
Si dice che mentre il Nobel premierebbe la medicina tradizionale, i cinesi fuggano da questa medicina: certo che l’abbandonano, dato che i farmaci occidentali sono più efficaci e rapidi dei trattamenti ispirati da credenze metafisiche più che da prove scientifiche.
Infine egli scrive che “la maga delle erbe che per decenni ha battuto i villaggi rurali, trascrivendo a mano le ricette della medicina cinese tramandate oralmente dagli anziani, è così ascesa all’istante ad anti-simbolo globale di una scienza umana consegnata alla speculazione finanziaria, alla corruzione politica e al dominio delle analisi hi-tech”.
È una lettura francamente poco condivisibile: non dovremmo dimenticare che l’aspettativa di vita oltre gli ottanta anni, i bambini che non muoiono più di malattie infettive, e non più malati e malnutriti, etc. sono conquiste della medicina occidentale.
La medicina moderna è oggi assai lontana da ciò che gli anziani cinesi tramandavano oralmente. Risponde esclusivamente al rigore scientifico della sperimentazione. I farmaci rappresentano prodotti industriali che devono soddisfare i requisiti posti dalla società per garantirne la salute. Per questa ragione devono essere efficaci su ogni persona e, soprattutto, non devono provocare eventi ostili o esporre a rischi diversi da quelli della patologia in atto. La disponibilità oggi delle conoscenze in grado di riconoscere le caratteristiche genomiche di ciascun paziente rende più efficace il processo di scoperta di nuovi farmaci, di personalizzare la terapia di base e di offrire opzioni terapeutiche prima impensabili. Questo è l’orizzonte della medicina di precisione.
L’artemisina ha dato speranze e salvato dalla malaria milioni di persone, ma il suo potere curativo rischia di dimostrarsi inefficace nella continua lotta per la sopravvivenza tra l’ospite (l’uomo) e il parassita. I parassiti inventano continuamente nuove “armi” per attaccare i propri ospiti che potranno proteggersi soltanto con nuove “strategie difensive” prodotte ad arte dalla medicina di precisione. I parassiti costruiranno sempre nuove “chiavi” e gli ospiti dovranno continuamente cambiare la “serratura”. Già da oggi la scienza si sta impegnando per realizzare l’unica serratura inviolabile: quella del vaccino contro la malaria ottenuto attraverso le tecniche dell’ingegneria genetica.
Rettore Università degli Studi di Roma Tor Vergata
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Riferito a Youyou Tu, l’aggettivo “maga” è chiaramente elogiativo: sottolinea la sua straordinaria abilità, le eccezionali qualità nel dominare gli elementi, accezione etimologica. La sua vita di scienziata, in equilibrio tra passato e futuro, è davvero una magia. Che la medicina si sia spesso piegata alla speculazione finanziaria, alla corruzione politica e al dominio (interessato) delle analisi hi-tech è un fatto, non una lettura ideologica: prima lo hanno dimostrato i processi, ora lo affermano anche i governi. I malati ne subiscono quotidianamente le conseguenze. (Giampaolo Visetti)
Nobel per la medicina
Erba cinese anti-malaria
In Vietnam le zanzare mietevano più vittime del Napalm, per questo nel 1967 Ho Chi Min chiese aiuto a Mao che mobilitò 531 ricercatori
di Marco Corsi e Pino Donghi (Il Sole-24 Ore, Domenica, 11.10.2015)
«Danno collaterale” è un brutto eufemismo. L’orribile realtà a cui si riferisce ha ferito a morte, Domenica scorsa, un ospedale dei Medici senza Frontiere a Kunduz in Afghanistan. Tanto è brutto che anche nella sua versione neutra - “effetto collaterale” - mantiene comunque la connotazione negativa, e con piena ragione. Sicché, una parte non marginale delle ricerche scientifiche si è sempre rivolta a garantire, in caso di conflitto, la supremazia bellica fornendo la migliore assistenza sanitaria ai propri soldati, e può succedere così che le guerre finiscano per produrre “effetti collaterali” positivi, che meglio sarebbe ottenere in tempo di pace, ma tant’è. La scoperta delle proprietà antimalariche dell’artemisinina, per la quale la scienziata cinese Youyou Tu ha ottenuto il Premio Nobel per la Medicina 2015, è uno di queste rare e positive eccezioni.
Un flashback. Siamo nel 1967, in Vietnam. Il comandante Ho Chi Min assiste impotente alla strage dei soldati del nord e dei guerriglieri vietcong falcidiati dalla malaria. Molto più dei terribili bombardamenti e del Napalm, sono le zanzare a mietere vittime sul campo. All’epoca, tra gli anni ’50 e ’60, l’antimalarico più utilizzato è la clorochina ma il plasmodio della malaria, mutando il suo Dna, ne è ormai diventato resistente. E la malaria è diffusissima nelle foreste e negli acquitrini dove si combatte.
Il vantaggio strategico degli Stati Uniti non riguarda solo il potenziale degli armamenti: il Walter Reed Army Institute of Research, infatti, ha sintetizzato un nuovo efficace antimalarico, la meflochina, inviata subito alle truppe americane. La mefoclina, ovviamente, non è disponibile per i nord vietnamiti e Ho Chi Minh pensa quindi di chiedere aiuto al suo potente vicino: la Cina di Mao Zedong.
In un primo momento Mao è quasi riluttante all’idea di soddisfare la richiesta di Ho Chi Min: il grande condottiero ha appena lanciato la campagna, che durerà dieci anni, e che diventerà tristemente nota con il nome di Rivoluzione Culturale Cinese. Quella “rivoluzione” prevede che i professori universitari e i ricercatori vengano trasferiti a lavorare nelle campagne per un cosiddetto “processo rieducativo” mentre, al contrario, i contadini e le giovani Guardie Rosse insegnano nelle accademie. Ma la riluttanza viene rapidamente superata in considerazione della strategica importanza geo-politica del Vietnam.
In un vertice al quale partecipano anche Zhou Enlai e Deng Xiaoping si decide di esentare dal processo di rieducazione solamente 541 ricercatori, tra chimici, biologi, farmacologi e medici i quali si dovranno occupare di trovare un nuovo farmaco antimalarico da destinare alle truppe nord vietnamite. L’eccezione alla prassi rivoluzionaria conquista un nome in codice: “Progetto 523”. Il numero sta ad indicare la data d’inizio del progetto: il 23 Maggio del 1967.
Il resto è storia di ordinaria ricerca scientifica. Moltissime furono le molecole che il gruppo di ricercatori produsse per sintesi chimica. Diverse di queste avevano una discreta attività antimalarica, ma non ancora pienamente soddisfacente. In aggiunta ai prodotti di sintesi, i ricercatori, tornati oramai alla vita professionale, attinsero idee anche dalla Medicina Tradizionale Cinese.
Uno degli Istituti più attivi su questo fronte era all’epoca l’Academy of Traditional Chinese Medicine e la prof.ssa Youyou Tu fu messa a capo di un gruppo di farmacologi ed esperti di fitochimica. Nelle prime fasi studiarono oltre 2000 preparazioni di erbe dalle quali produssero circa 380 estratti, la cui efficacia antimalarica fu valutata in modelli di laboratorio.
La svolta arrivò quando analizzarono l’estratto dell’Artemisia annua e nel 1972 purificarono il principio attivo: l’artemisinina. Sembrava l’antimalarico perfetto: estremamente efficace e con nessun segno di resistenza. La battaglia contro la malaria registrava un nuovo successo, quella tra Vietnam e Stati Uniti continuava, anche se l’imprevedibile epilogo era oramai alle porte.
L’esistenza dell’artemisinina è stata annunciata per la prima volta al resto del mondo nel 1979. Ma rimaneva il mistero su chi ne fosse stato lo scopritore. Durante la Rivoluzione Culturale, infatti, era vietato dare risalto ai singoli individui. Le pubblicazioni scientifiche riportavano solamente che gli autori appartenevano al “Quinghaosu Antimalaria Coordinating Group”. Qinghao era il termine cinese con cui veniva chiamata l’Artemisia annua. Il velo è stato tolto solo di recente, e nel 2011 la prof.ssa Youyou Tu ha ricevuto il prestigioso premio della Fondazione Lasker-DeBakey - il Nobel statunitense - per la scoperta dell’artemisinina: del 5 Ottobre scorso l’annuncio del Nobel vero, quello svedese.
Da diversi anni la strategia raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità per il trattamento di prima scelta della malaria si basa sulla cosiddetta Terapia di Combinazione con l’Artemisinina (Artemisinin-based Combination Therapy, o ACT). Nella stessa compressa sono presenti un derivato dell’artemisinina e un altro farmaco antimalarico che contribuisce ad ottimizzare la terapia e a proteggere contro l’emergere di resistenze. Il trattamento è di soli tre giorni e la sicurezza è molto elevata. Negli ultimi 10 anni le quattro ACTs ad oggi disponibili nei Paesi dove la malaria è endemica hanno contribuito a dimezzare gli episodi e i decessi causati dall’infezione. Anche se molto resta da fare. In Europa sono solo due le ACTs approvate, una delle quali frutto del processo di registrazione seguito da un’impresa tutta italiana, Sigma-Tau, ora facente parte del Gruppo Alfasigma, che è riuscita a tradurre in standard farmacologico approvato internazionalmente la lontana intuizione dei 541 ricercatori cinesi salvati dal processo rieducativo, “grazie” alla guerra del Vietnam. Per una volta, un effetto collaterale apprezzabile.
Quell’antica scoperta da Nobel
di Piergiorgio Odifreddi (la Repubblica, 6.12.2015)
Nel 1967, negli anni della massima offensiva statunitense in Vietnam, la malaria falcidiava i soldati del Nord e i guerriglieri del Sud in misura anche maggiore delle bombe e del Napalm, mentre gli statunitensi ne erano immuni. A disposizione degli aggrediti c’era infatti soltanto la vecchia clorochina, alla quale ormai le zanzare erano resistenti, mentre gli aggressori avevano la nuova meflochina, che li poneva al riparo dalla malattia. Ho Chi Min chiese aiuto alla Cina, ma i tempi erano poco propizi. Il paese stava infatti entrando nella Rivoluzione Culturale, e gli scienziati nei campi per rieducarli. Mao fece però un’eccezione per gli alleati vietnamiti, e destinò 541 chimici, biologi, farmacologi e medici alla ricerca di un nuovo antimalarico. Lo studio partì il 23 maggio 1967, e fu chiamato Progetto 523.
Vennero esaminati e classificati migliaia di estratti di erbe della medicina tradizionale cinese, e nel 1972 dall’Artemisia annua fu isolato il principio attivo dell’artemisinina, oggi comunemente usata nei farmaci antimalarici.
Solo quattro anni fa fu rivelato che la sua scoperta era dovuta alla professoressa Youyou Tu, che pur non possedendo un dottorato, non avendo studiato all’estero e non essendo un membro dell’Accademia Cinese, giovedì prossimo riceverà a ottantacinque anni il premio Nobel per la medicina del 2015.
Alberto Malliani (1935-2006) tra medicina e politica
Prima viene il paziente
La grande lezione del clinico milanese: l’etica e il metodo che a scuola (e all’università) non si insegnano
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 19.04.2015)
Alberto Malliani, notissimo e influente medico-intellettuale milanese scomparso nel 2006, coltivava una visione politica della medicina. Che non era l’idea di una medicina piegata alla politica, molto in voga nell’era cosiddetta post-moderna, e che spesso confonde politica ed economia - cioè descrive strumentalmente medici, medicina e sanità tenute al guinzaglio dalle multinazionali per emettere una condanna ideologica inappellabile per un presunto sistema complottistico scientifico-medico-affaristico-etc. Versione aggiornata delle paranoie populiste e fasciste per il complotto demo-giudo-pluto-etc.
Malliani non risparmiò negli ultimi anni dure critiche alle pressioni indebite esercitate dall’industria farmaceutica sul sistema medico di valutazione dell’utilità dei trattamenti, così come criticò l’aggressività e l’aziendalizzazione della ricerca medica. Riconosceva però il ruolo essenziale dell’industria nel processo sociale di produzione della salute. La lezione che ha lasciato, anche attraverso l’esempio, dimostra che per evitare le derive potenzialmente dannose di una domanda di salute fuori controllo, occorre investire in una formazione culturalmente più articolata del medico. Per farne non uno strumento politico-governativo di controllo dei comportamenti individuali o delle strategie di consumo del bene salute, ma un catalizzatore di consapevolezza critica per la sfera in continua espansione di possibili scelte in materia di salute, che le persone e i pazienti possono praticare esercitando l’autodeterminazione.
La Carta della professione medica, che concorse a redigere e che fu pubblicata nel 2002, andava in questa direzione.
L’idea di medicina politica che si coglie negli scritti del grande internista ha una tradizione nobilissima, che merita di essere richiamata brevemente perché non ha esaurito, diversamente dalle ideologie, la sua spinta propulsiva. La si può raccontare in quattro movimenti. Facendola iniziare con l’età moderna, quindi lasciando una volta tanto in pace Ippocrate, quasi esattamente quattro secoli fa.
Nel 1614 il medico ebreo sefardita Rodrigo De Castro pubblicava ad Amburgo il testo Medicus-politicus, che segna le origini della moderna etica medica con una ispirazione specifica nel richiamare l’attenzione pubblica verso la coincidenza tra virtù morali del medico e astensione dall’inganno o da pratiche fraudolente ai danni dei malati.
Circa un secolo dopo, nel 1738, il medico tedesco pietista Friedrich Hoffmann, pubblicava a sua volta testo sempre intitolato Medicus politicus, nel quale sosteneva che la fiducia e l’affidabilità che caratterizzano il rapporto medico paziente si fonda sulla partecipazione emotiva del medico per la condizione del malato e la competenza professionale.
Un terzo passaggio fondamentale ebbe luogo nel 1848, quando Rudoph Virchow, fondatore della patologia cellulare, definiva la medicina una «scienza sociale, e la politica niente altro che medicina su larga scala»: per Virchow la rinnovata forza politica della medicina si fondava sull’epistemologia sperimentale del metodo fisiopatopologico attraverso cui si potevano scoprire le cause immediate della malattie, quindi trovare sistemi di prevenzione e trattamenti per risolvere i problemi sanitari.
All’indomani della Seconda guerra mondiale, sulla spinta dei successi realizzati sul piano scientifico e clinico, i metodi della sperimentazione medica diventavano norme politicamente e legalmente riconosciute nei paesi liberaldemocratici, per garantire la sicurezza e l’efficacia dei trattamenti. Insomma, la medicina ha storicamente portato la razionalità nella politica, consentendo di fondare l’etica sulla scienza. Non è poco.
Negli ultimi cinquant’anni le sfide della medicina si sono giocate su più fronti e hanno richiesto al medico quello che Malliani chiama “pensiero verticale”. Cioè una strategia epistemologica necessaria in quanto il paziente è fatto di molecole, cellule, tessuti, organi, etc. e legami sociali. Si deve essere pronti ad andare in su e in giù nel ragionamento causale a seconda delle indicazioni che vengono da prove, non da bias cognitivi o ideologici, contestualizzate sulla base dell’esperienza. «Il fatto è - scrive Malliani - che il pensare verticalmente è una delle operazioni che più richiedono metodo e consapevolezza: quindi una lunga abitudine. Ed è qui che appaiono ancora più chiare le manchevolezze della scuola che poi altro non sono che il riflesso delle manchevolezze della cultura dominante». C’è poco da aggiungere. Ma ai burocrati o politici italiani che progettano le riforme scolastiche poco interessa sapere quali sono le manchevolezze in chi arriva all’università impreparato.
Malliani era un clinico-ricercatore a trecentosessanta gradi. Sapeva cosa è e come funziona la scienza. Cosa che qualche medico infatuato dal potere o dai soldi, o solo ignorante, talvolta dimentica. «Un vero ricercatore - scrive - può cambiare idea su tutto (come ogni altro essere umano) ma non sul metodo. È questo uno dei pochi campi di totale fedeltà». Senza dimenticare che la ricerca di Malliani era guidata da un’idea teorica forte, quella di “malattia innervata” che lo portò a pubblicate importanti risultati sperimentali sul controllo nervoso della circolazione. Ergo farebbero meglio i medici, se prendono sul serio il loro lavoro, a smetterla di flirtare con le medicine complementari (omeopatia, medicine naturali, etc.) e altre forme di ciarlataneria, prive di metodo e teoria, per inseguire convenienze, ma imbrogliando così i pazienti.
Stante la sua idea della medicina come autentica dimensione politica, Malliani visse intensamente l’impegno civile, per esempio parlando e agendo contro l’uso della guerra per la soluzione delle controversie politiche. Negli ultimi anni insisteva su due fondamentali questioni. Da un lato la «mancanza di veri progetti che solchino il tempo», cioè che «quanto facciamo ha poco a che fare con una sapiente costruzione del futuro». E poi il tema della morte, cioè della gestione della fasi terminali della vita. Due questioni non così lontane tra loro. Aiutò la nascita di VIDAS, che offre assistenza gratuita ai malati terminali, e stigmatizzò il fatto che agli studenti di medicina si parla poco della morte o che le discussioni sull’eutanasia siano stucchevolmente moralistiche e ideologiche. «Morire bene - scriveva - è il più grande messaggio di vita che una persona può lasciare».
Il "coming out" (timido) del Prof. Corbellini
di Antonio Pirisi *
Fino a ieri collocavo G.Corbellini tra i più fieri avversari dell’omeopatia. Ora però nutro il sospetto che non sia (più) così e che anzi ne sia diventato un sostenitore convinto ma non ancora pronto a fare coming out.
Questa impegnativa affermazione risulterà perlomeno bizzarra se teniamo in conto (solo) il tenore delle ingiurie - imbroglioni, ciarlatanerie ecc. - che è uso rivolgere ad omeopati ed omeopatia, ma credibile se prestiamo attenzione anche allo stile retorico delle stesse. Lo dico da praticante: ci sono mille ragioni per criticare e dubitare dell’omeopatia e degli omeopati, prima tra tutte quella che ci vede avere idee molto diverse sul nucleo essenziale di personalità sul quale prescrivere i nostri rimedi.
Mille buone ragioni che però Corbellini trascura per poi andarsi a cercare, per muovere i suoi attacchi (e qui sta la stranezza che insospettisce), quelle che più balorde non si può.
La sua ultima performance è un articolo (‘Prima viene il paziente’, Il Sole 24ore 19/4/15) commemorativo della figura e dell’opera di Alberto Malliani nel quale, Corbellini, dopo aver ricordato come ‘l’idea teorica forte’ della ricerca del prof. Malliani si sostanziasse nel concetto di ‘malattia innervata’ (cioè a dire: le malattie qualunque sia l’organo in cui appaiono non sono avulse dall’organismo nella sua totalità) subito dopo, come se sussistesse una concatenazione causa-effetto, invita i medici: "se prendono sul serio il loro lavoro, a smetterla di flirtare con le medicine complementari (omeopatia ...) ... per inseguire convenienze, ma imbrogliando così i pazienti".
Ora, pur con tutta la cattiveria che c’è in giro, nessuno oserebbe mai pensare che una simile incongruenza argomentativa possa essere inavertitamente sfuggita a un intellettuale avveduto come Corbellini. Rimane dunque da accettare che egli l’abbia lucidamente voluta per smontare la tesi anti-omeopatia che dava ad intendere di volere invece sostenere. E tanto più vale quest’ipotesi, se consideriamo che neanche è concepibile che Corbellini ignori che, ormai qualche secolo fa, fù proprio S. Hanhemann a rappresentare l’organismo come una sorta di ‘sistema critico’. A evidenziare cioè quella proprietà per cui se una parte (... un organo) patisce una perturbazione, questa interessa tutte le parti del sistema.
Ecco, penso che Corbellini anche se in modo un po’ tortuoso, abbia voluto comunque (autorevolmente) dirci che molte tra le idee più interessanti della medicina moderna già erano esplicitate nelle teorie base dell’omeopatia! Prof. Corbellini, grazie del contributo alla causa e ... benvenuto tra noi.
Il "coming out" (timido) del Prof. Corbellini
L’empatia o capacità di entrare in risonanza con le emozioni altrui è solo un miraggio. In realtà non possiamo uscire da noi stessi
di Gilberto Corbellini e Elisabetta Sirgiovanni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 21.06.2015)
Empatia: una parola ormai in bocca a tutti. È inspiegabilmente il fiero marchio di commistione tra scienze umane e scienze sperimentali, soprattutto in ambiti clinici e sociali. La cosiddetta medicina narrativa si regge solo sull’assunto che l’empatia sia qualcosa di reale. Un istrione come Jeremy Rifkin - e non lui solo - anela a una civiltà dell’empatia. Sic!
Ma, secondo i contesti e di chi lo usa, il termine ha i significati più disparati, molti dei quali oscuri. Di cosa si sta allora parlando? Anche volendo limitarci alla ristretta accezione con cui compare nella letteratura specialistica, cioè la capacità di entrare in risonanza con le emozioni di un altro, l’empatia, noi pensiamo, non esiste. Certamente non per come l’hanno immaginata fenomenologi e psicoanalisti dalla sua comparsa, tardiva, nella storia del pensiero, con Robert Vischer e il concetto di Einfühlung nel 1873, ripreso dallo psicologo Theodor Lipps e tradotto con empathy dal britannico Edward Titchener. A seguire l’opera di Husserl e Edith Stein, Heidegger e Merleau-Ponty all’inizio del XX secolo, fino ai loro epigoni recenti.
Che l’empatia è un miraggio, l’ennesimo, ci preme comunicarlo soprattutto ai neuroscienziati, - loro più di altri avrebbero dovuto già capirlo! - e sconsigliarli dall’usare concetti filosofici “ad ombrello” solo perché di uso comune e dal tono erudito, quando sono in realtà ambigui e fuorvianti. Questo non vuol dire che neghiamo che ci si possa sintonizzare emotivamente, provare compassione, pietà, solidarietà, amore, etc. David Hume e Adam Smith a metà del Settecento identificavano in tutto questo la base della moralità e lo chiamavano simpatia, termine che nell’antichità indicava armonia cosmica e oggi ha un significato più vicino a gioia o attrazione per qualcuno, e che serve all’approvazione sociale (E. Lecaldano, Simpatia, Raffaello Cortina, 2013).
Ma ciò che il concetto di empatia vorrebbe descrivere va oltre, significa superare se stessi per indossare i panni degli altri (è un sentire dentro, non un sentire con - si dice). Ma questo è qualcosa di impossibile. Oltre che non proprio desiderabile. Per quanto proviamo a immedesimarci in un pipistrello o in Bill Gates, la verità è che come è il loro mondo interiore per loro non lo sapremo mai. Ognuno di noi può immaginare qualcosa solo sulla base dei suoi ricordi e del suo sentire, che è l’incontro specifico tra geni, strutture neurali e esperienze individuali: non possiamo uscire da noi stessi. Ed è anche meglio non provarci, se si vuole evitare di farci o fare del male.
Sarà sempre il mio dolore, il mio piacere, il mio disgusto, pur evocato da quello che siamo in grado di leggere nell’altro. Perfino Stanislavskij e Strasberg - con buona pace per le chiacchiere a vuoto che oggi si fanno sull’empatia nelle rappresentazioni teatrali - la chiamavano memoria emotiva/sensoriale. Se siamo bravi attori, riusciremo a ingannarci al punto tale da ingannare gli altri, ma questa è un’altra storia. E c’è di più: quello che chiamiamo empatia può essere ben descritto dall’esercizio di una serie di altre capacità; ad esempio, regolazione emotiva e mentalizzazione.
C’è poi chi sostiene come lo psicologo di Yale Paul Bloom (spesso anche su quotidiani di larga diffusione come il New York Times), o il filosofo Jesse Prinz, che neanche serve a farci comportare meglio, o che può addirittura essere moralmente controproducente. Come scriveva anche Hume, il contagio emotivo può portare sia al vizio sia alla virtù. Immaginate un medico che provi la stessa ansia di un paziente che sta per essere operato o la disperazione di uno che ha paura di morire: sarebbe un pessimo medico, perché questo potrebbe impedirgli di curarli. Averne compassione sì, provare simpatia nel senso di dare un segnale di apprezzamento e comprensione per la condizione, ma con una necessaria distanza. Per Bloom certe forme di rabbia, reazione tanto bistrattata, hanno effetti migliori e ci permettono di provare il senso di giustizia. Quindi perché non fare a meno dell’empatia?
L’empatia non si capisce neanche cos’è. Due disturbi lontanissimi tra loro testimonierebbero cosa significa esserne privi. Da un lato gli psicopatici - nelle forme più gravi serial killer, stupratori, cannibali - i quali sono in realtà bravissimi a capire intenzioni ed emozioni degli altri perché abili manipolatori e seduttori. Sanno anche fingerle, ma spesso si tradiscono. Fanno tutto ciò che è in loro potere per ottenere ciò che reputano piacere o guadagno. Se non ci riescono, se ne fregano di vedere soffrire. Tutto qua. Quello che manca loro, ci dicono le neuroscienze, è uno spettro di emozioni, tra cui paura e tristezza, che sono alla base di vergogna e senso di colpa.
Dall’altro abbiamo chi è affetto da autismo, una grave forma di isolamento sociale, che non riesce a comprendere intenzioni e emozioni, non capisce i sottintesi, i giochi di parole e non conosce il «mondo interno» o non sa bene che farne; ha cioè problemi nella mentalizzazione, ma questo non lo spinge ad atti violenti (almeno non di regola). E se fossero questioni diverse? Le neuroscienze distinguono allora tra empatia cognitiva ed emotiva: agli autistici mancherebbe la prima, agli psicopatici la seconda.
Circa dieci anni fa Simon Baron-Cohen and Sally Wheelwright concepivano un celebre Test di Quoziente Empatico. L’empatia cognitiva sarebbe la capacità di spiegare e interpretare le emozioni degli altri, praticamente la teoria della mente (ne avremmo un’altra per i pensieri?). L’empatia emotiva permetterebbe invece di condividere le emozioni di un altro. Queste due capacità, una di contagio emotivo l’altra conoscitiva-riflessiva, si ritiene condividano strutture neurali, come l’insula anteriore sinistra, ma che dipendano anche da aree più specifiche: più limbiche quella emotiva, più frontali la cognitiva.
La correlazione con i comportamenti specifici e le risposte ai compiti psicologici che dovrebbero rilevarle non è chiara. Il legame con socialità e altruismo ancora meno. Le persone a volte si comportano perfino in modo più altruistico del previsto, perché sacrificano più denaro per ridurre il dolore provocato da scariche elettriche a sconosciuti, che a se stessi (Crockett et al., PNAS, v. 111, n. 48, 2014). Anche in maniera imperfetta e instabile, però quanto più il contesto è incerto, tanto più tendono a dar peso al dolore degli altri. Se prendiamo un antidepressivo, poi, danneggiare gli altri ci è maggiormente inaccettabile.
Dobbiamo dunque impietosirci per essere più morali? Per Adam Smith, pietà e compassione non servono, né il mero contagio emotivo è sufficiente. La simpatia è il segnale di approvazione dell’altro. E almeno da Galeno fino ai primi classici di etica medica di fine Settecento la simpatia era la principale qualità morale richiesta a medico nei riguardi del paziente. E ancor più, simpatizzare è un patto reciproco, in cui ci si riconosce e si mette in gioco la fiducia. Bastano 100 millisecondi per fare questa scelta con uno sconosciuto. La fiducia, però, è un gioco delle parti, e non è stare sullo stesso piano. Tanto più se con figure a cui affidarsi, come familiari, medici o avvocati. Sull’efficacia e sui risultati, va detto, non ci sono per niente garanzie. E questo perché notoriamente esageriamo nel credere che gli altri pensino e sentano proprio come noi.
Prima viene il paziente - l’ulivo, poi la "xylella fastidiosa"!!! Non è affatto bene fare di tutte le erbe un fascio, dare fuoco alla propria coda di paglia, e gridare in coro "al lupo, al lupo", a destra e a manca!!!
No ai processi al metodo scientifico
di Gilberto Corbellini, Roberto Defez (La Stampa, 24.12.2015)
Se in Italia sopravvive ancora una comunità scientifica degna di tale nome, ovvero delle accademie scientifiche consapevoli del loro ruolo a difesa dei valori di libertà e indipendenza della scienza, dovrebbero battere urgentemente un colpo. Farsi sentire.
E due colpi li dovrebbero battere il Consiglio Superiore della Magistratura, che è organo a garanzia dell’autonomia e indipendenza del governo della giustizia nel nostro Paese, e i politici che negli anni recenti si sono opposti alla politicizzazione, alla manipolazione e agli abusi di potere perpetrati ai danni della scienza. Senza lasciar fuori il Presidente della Repubblica.
Coloro che si sono indignati contro i tentativi di imporre attraverso sentenze di magistrati le pseudo-cure Di Bella o Stamina o contro il rinvio a giudizio e la condanna in primo grado della Commissione Grandi Rischi, per non aver dato l’allarme per il terremoto dell’Aquila o contro la credenza che i vaccini causino l’autismo, dovrebbero tutti insorgere per quanto sta accadendo nel Salento in merito alla vicenda Xylella fastidiosa, il batterio che sta uccidendo o concorre a uccidere gli ulivi (per ora solo) in quella regione.
Perché si tratta di un caso emblematico di scelte autoreferenziali di un pubblico ministero nell’esercizio dei suoi poteri, che seleziona un ristretto manipolo di esperti scientifici.
Ma, come si scelgono i consulenti scientifici in una materia tanto complessa? Si prendono quelli la cui opinione coincide con quella di un magistrato, o si chiede consulenza ai massimi organi scientifici nazionali e casomai internazionali?
La vicenda è nota già a livello internazionale perché qualche mese fa Nature scrisse un articolo denunciando il «vilipendio» a mezzo inchiesta giudiziaria ai danni degli scienziati che stanno studiando il fenomeno di diffusione del batterio, e il ruolo dello stesso nella sindrome patologica che causa il disseccamento degli ulivi salentini.
Gli ulivi del Salento sono attaccati da un batterio che è considerato, per le sue caratteristiche altamente contagiose e per gli effetti patogeni devastanti sulle piante, una gravissima minaccia a livello mondiale.
Questo batterio causa o concorre a causare una malattia che chiude i vasi della pianta (una specie di arterioscleresi per gli umani) portando al disseccamento degli ulivi e uno dei modi per limitare l’epidemia è sradicare gli ulivi già colpiti, ridurre gli insetti che diffondono Xylella e creare un cordone sanitario che isoli le piante infette.
Nulla di nuovo sotto il sole: la microbiologia dispone di metodo standardizzati per studiare come un agente causale è implicato in una malattia. Come tutte le malattie infettive la sindrome che vede Xylella protagonista ha caratteristiche che dipendono dall’ecologia locale e quindi si dove esaminare sperimentalmente la questione, tenendo conto anche delle linee guida europee e internazionali finalizzate al contenimento del patogeno.
Naturalmente, come fu per l’Aids e la sua causa cioè l’Hiv, ci sono i negazionisti, che con argomenti pretestuosi manipolano le incertezze e generano sospetti sulla trasparenza dei ricercatori o su qualche legame con i soliti poteri economici e con le solite multinazionali che farebbe loro sostenere una posizione che non è tanto scientifica quanto dovuta a interessi loschi.
E’ uno scenario già visto, ma un Paese civile non dovrebbe essere così esposto a questo genere di manovre politiche ai danni della scienza e del metodo che essa utilizza. Di fatto gli scienziati sono indagati per una serie di reati, tra cui quello di aver diffuso colposamente la malattia e di aver presentato i fatti in modo da arrivare ad avvallare come soluzione l’eradicazione delle piante malate. Sulla scia di un immaginario collettivo che ricorda i processi per inquisizione o i linciaggi pubblici per accontentare gli umori rabbiosi di una popolazione alla ricerca di capri espiatori, di far parte di qualche complotto sovrannazionale inteso a distruggere la tradizione agricola salentina, iniziando dagli ulivi.
L’inchiesta del procuratore Cataldo Motta è stata criticata duramente dall’ex Presidente del Tribunale di Bari Vito Savino, che l’ha paragonata alle vicende Di Bella e Stamina.
Ora, la questione su cui vorremmo richiamare l’attenzione, al di là della gravità dei contenuti degli avvisi di garanzia inviati agli scienziati che stavano studiando il fenomeno, riguarda il rapporto tra scienza e magistratura, ovvero come i giudici affrontano emergenze che possono essere capite solo tramite gli strumenti scientifici.
La vicenda salentina è l’ennesimo caso nel quale l’intraprendenza di un magistrato si esercita in un vuoto normativo per quel che riguarda le modalità di acquisire prove che abbiano base scientifica. È accaduto diverse volte, a partire dalla vicenda Di Bella e in modo macroscopico con la vicenda Stamina, nella quale i giudici prescrivevano il trattamento Stamina nonostante si trattasse di un imbroglio.
Sarebbe nell’interesse della magistratura, ma soprattutto, del Paese pensare e predisporre uno strumento che renda meno discrezionale il modo di procedere dei giudici quando le questioni sono precisamente definite dalle regole non negoziabili del metodo scientifico.
*Università La Sapienza
**Biologo e genetista Cnr
Xylella, il gip: illegali i piani Silletti *
La Xylella non è l’unico e, certo, nemmeno il principale nemico degli ulivi salentini. Le misure adottate dal Commissario straordinario sono state una «macrospica violazione di legge» e «i cosiddetti ’Piani Silletti’» sono «abusivi», scrive il giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Lecce, Alcide Maritati, nell’ordinanza che convalida il sequestro degli ulivi disposto dalla Procura leccese. Quarantaquattro pagine che non soltanto riconoscono più che fondate le conclusioni degli inquirenti, ma vanno oltre. Annotando strane ’coincidenze’ e strani ’interessi’ e avvisando su quanto potrebbe accadere.
Allontanarli. Servono «più convincenti studi e approfondimenti scientifici» sulla ’Sindrome di disseccamento rapido degli ulivi’ (Codiro) in provincia di Lecce e Brindisi - si legge - e ci si deve affidare a esperti, anche internazionali, soprattutto evitando «il coinvolgimento di persone o soggetti giuridici che possono aver avuto un ruolo nei fatti su cui si indaga». Cioè, meglio che i tecnici del Cnr barese, dell’Università di Bari, dello Iam e dell’’Istituto Basile Caramia’ (cominciando da quelli indagati) si occupino adesso di altro.
Margini netti... Anche il ministero per le Politiche agricole dovrebbe chiarire. Ad esempio perché il 26 settembre 2014 abbia dichiarato, con decreto, «infetta quasi tutta la provincia di Lecce, considerandola come un unico, grande focolaio, pur senza avere nessuna certezza che di focolaio si trattasse», scrive il gip. A proposito, dalle foto aree «emerge chiaramente che le zone interessate dal disseccamento sembrano avere margini netti e corrispondenti ai confini di proprietà e/o di particelle catastali ». Insomma, nessuna «propagazione omogenea» del batterio. Anzi, «le aree interessate coincidono con quelle oggetto di ’sperimentazioni in campo’ di prodotti altamente tossico-nocivi avvenuta negli anni passati ad opera di soggetti privati e istituzionali».
Comitato inaffidabile. Fra l’altro - sottolinea il giudice -, sempre quel decreto ministeriale nominava un comitato tecnico-scientifico per la Xylella, ma «è evidente il coinvolgimento di persone che figurano tra gli indagati» e soprattutto che «in qualche misura sarebbero coinvolte in studi e sperimentazioni, oltre che in accordi commerciali, che risulterebbero connessi al fenomeno oggetto di studio». E questo «rende non pienamente attendibile e affidabile il lavoro del comitato stesso».
Serio rischio. Le indagini stanno mettendo insieme le tessere di un puzzle. È «conclamato» che la presenza di Xylella «non costituisce fonte di rischio per la pubblica incolumità», si legge ancora. Ed è altrettanto «inconfutabile» come invece «proprio le misure imposte dai ’Piani Silletti’, compreso l’uso massiccio di pesticidi, rappresentino un serio rischio» per la stessa «incolumità pubblica».
Danni non valutati. Il quadro, dipinto dagli inquirenti e rafforzato dalle considerazioni del gip, inquieta. Ne è in qualche modo sintesi un passaggio a pagina 39 dell’ordinanza di conferma, dove si annota «come non siano state valutate le conseguenze dannose per l’ambiente e l’incolumità pubblica» nelle scelte dell’Affaire Xylella.
Bugie all’Ue. Il gip Maritati sottolinea poi almeno due «omissioni» e una «falsità » alla Commissione europea: non è stato riferita «l’effettiva essenza e consistenza del fenomeno del disseccamento degli ulivi», né «la doverosa e imprescindibile analisi del rischio delle misure da adottare», ed «è stata fornita una falsa rappresentazione della realtà» sull’«asserito, ma assolutamente incerto, ruolo svolto dalla Xylella nella sindrome da disseccamento degli ulivi».
Monumenti viventi. Nell’ordinanza viene anche ricordato come l’ulivo sia «simbolo identitario per la popolazione salentina e pugliese, non a caso figura nell’emblema della Regione»: circa 60 milioni di piante, la metà secolari e si stima fra 3 e 5 milioni pluricentenari. «Ognuna di queste rappresenta un vero e proprio monumento vivente».
* AVVENIRE, 2 gennaio 2016
Logica e democrazia
Pensieri basati sui fatti
Se non è empirica la filosofia rischia di essere vaga. A scuola bisogna insistere sulla capacità di argomentare
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 24.01.2016)
I filosofi stanno discutendo abbastanza su cosa significhi oggi fare filosofia. È vero che chi scrive si identifica in una posizione scientista, per cui tutto quel che esiste ed è conoscibile è accessibile alla scienza e ai suoi metodi. Penso, in sostanza, che non esista in linea di principio niente di quel che accade che non possa essere compreso usando procedure empiriche controllate, se le nostre strutture cognitive riescono a concettualizzare e a interrogare sperimentalmente i processi che lo producono.
Questa è l’unica posizione filosofica per me ragionevole. Tutto il resto, come diceva Francis Crick, equivale a fischiare nel buio per farsi coraggio. Non penso però che la filosofia non serva a niente. Anzi. Oltre a produrre, insieme alla religione o alla letteratura o all’arte, suoni rassicuranti per chi ha paura del buio, può far capire meglio come funziona la scienza, togliendo di torno illusioni e autoinganni che ostacolano una comprensione critica e una disponibilità psicologica verso le conoscenze più affidabili che produciamo, cioè quelle scientifiche.
Un aiuto prima di tutto per i giovani, che invece di perdere tempo sul pensiero di tanti filosofi che hanno detto cose sbagliate, potrebbero acquisire salutari elementi di storia della scienza e di epistemologia scientifica, senza i quali non si capisce il mondo nel quale viviamo.
Davvero non si capisce, non è retorica! Le false credenze e le diffidenze verso la scienza e il metodo scientifico, così diffuse in Italia, sono la conseguenza anche del fatto che non sono chiari gli obiettivi dell’insegnamento scolastico: se non si aiutano i giovani a correggere l’epistemologia ingenua con cui approcciano la realtà, non distingueranno da adulti la scienza dalla pseudoscienza.
Oggigiorno non si può essere cittadini pienamente in grado di esercitare i diritti costituzionali se, per esempio, non si sa cosa è una probabilità, quali componenti teoriche entrano nella definizione di rischio, come si stabilisce che un dato scientifico è corretto o non falsificato, come funziona una sperimentazione clinica, cosa sono i bias cognitivi ed emotivi, etc. -Il fatto tragico è che questi concetti sono estranei in primo luogo a chi è impegnato a fare leggi, ad applicarle o ad amministrare la giustizia.
L’esperienza più shoccante che si prova consultando le legislazioni anglosassoni è la chiarezza e l’organizzazione logica delle argomentazioni. Raramente sono scritte in modi illogici, per confondere le idee o non far capire cosa c’è scritto, come le leggi pubblicata nella Gazzetta Ufficiale.
Se «siamo un paese che odia la scienza», come denunciava lunedì scorso Paolo Mieli sul Corriere della Sera, è perché a cominciare dalla classe politica e passando per quasi tutti gli intellettuali che fanno tendenza, non si trova qualcuno che non storca il naso o non dica inesattezze quando si usa o si propone di usare un metodo scientifico per stabilire come stanno determinati fatti.
Per esempio quando si utilizzino i risultati della ricerca sperimentale per sostenere che mentono coloro i quali dicono che i vaccini possono causare l’autismo e sono più rischiosi della malattie che devono prevenire, che gli Ogm sono sicuri per l’ambiente e la salute nonché un toccasana per l’agricoltura, che le staminali mesenchimali non hanno curato alcuna malattia, che Xylella è un vero patogeno e i suoi effetti possono essere stabiliti e contrastati solo con metodi scientifici, etc.
Non è pensabile che un paese economicamente sviluppato possa rimanere tale e possa allevare un élite politica e intellettuale in grado di renderlo internazionalmente competitivo se non cambia radicalmente la qualità della cultura scientifica. Un risultato che non si ottiene solo incrementando la divulgazione o comunicazione della scienza, e tantomeno trascinando la scienza in controversie politiche, filosofiche o ideologiche. Va detto che se siamo a questo punto anche la comunità scientifica e il mondo accademico hanno pesanti responsabilità, che non sono soltanto l’attendismo, il servilismo e l’opportunismo che hanno caratterizzato i rapporti con la politica sin dall’ultimo dopoguerra più o meno.
C’è un problema culturale per cui non sono solo i cittadini profani che avrebbero bisogno di imparare un po’ di filosofia. Perché gli scienziati, che con disinvoltura riescono sempre più spesso a scavarsi la fossa con le loro mani, scadono frequentemente nei più triti luoghi comuni e gestiscono o furbescamente o ingenuamente le interazioni con la politica o con la magistratura.
Benché l’apprendimento della scienza dovrebbe averli immunizzati dalle trappole delle idee di senso comune e delle preferenze ideologiche, alla prima occasione per dar spazio a qualche ambizione di potere o bisogno narcisista si prestano a fare confusione e alimentare il pregiudizio che “gli scienziati sono divisi”, quindi tanto vale ignorarli o usarli come ci fa comodo.
Gaston Bachelard diceva che la scienza del suo tempo non aveva filosofi all’altezza del compito. Oggi si possono fare molti esempi che gli scienziati non sono spesso all’altezza della scienza che producono.
È triste leggere articoli di scienziati e accademie scientifiche che s’arrampicano sugli specchi per sostenere che le più recenti tecnologie del genome editing sono naturali o intrinsecamente diverse da quelle con le quali si facevano gli ogm, insultando la logica e l’epistemologia della biologia - è chiaro che non sanno nulla di teoria evoluzionistica, altrimenti non farebbero ragionamenti per i quali i giganti del pensiero genetico-evoluzionistico si rivoltano nella tomba. Tutto per rincorrere l’ignoranza dei politici che chiedono loro di abiurare ai principi etici della scienza - dire come stanno i fatti - se vogliono usare queste nuove tecnologie. Ma solo in laboratorio, dice l’improbabile ministro dell’agricoltura nostrano.
Ecco qualche compito utile per la filosofia. Rendersi conto che il sapere che vale amare è quello scientifico, e quindi lavorare non solo per farlo entrare meglio nella cultura civile, ma anche per proteggerlo dagli stessi scienziati.
Scienza e Filosofia
Falsità omeopatiche
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, 19 agosto 2017)
Una parte del mondo civile ha deciso di prendere atto che i prodotti omeopatici non sono medicinali, anche se si vendono in farmacia come i veri farmaci, perché non sono controllati per sicurezza ed efficacia. Se ne parla in Australia, in Gran Bretagna e persino in Germania, di non consentire la vendita nelle farmacie di questi preparati. Il Comitato Nazionale di Bioetica chiede che ai cittadini si dica che non stanno acquistano medicinali. Negli Usa la potente FDA esige che sui prodotti omeopatici stia scritto che non sono stati controllati con metodi scientificamente validati. Entro la fine del 2018 in Italia questi preparati andranno registrati come qualunque altro farmaco e ci si aspetta una salutare moria di intrugli utili solo ad arricchire chi li fabbrica. Ma non è scontato, perché 8 milioni di italiani si fanno prescrivere prodotti omeopatici da circa 20mila medici, molti dei quali pediatri.
Ognuno è libero di credere a quel che vuole e di curarsi come vuole, ammesso che sia maggiorenne, paghi di tasca propria e non metta a rischio la salute altrui. L’etica e la legge prevedono che lo Stato usi le tasse dei cittadini per garantire (soprattutto ai più deboli) prestazioni medico-sanitarie, pubbliche o private, sicure ed efficaci, e per informare sui rischi e i possibili inganni a cui si va incontro coltivando certe susperstizioni.
Si dice che i prodotti omeopatici, pur non efficaci, sarebbero innocui perché si tratta di soluzioni senza principio attivo. Non è così. Un rapporto statunitense del 2013 riportava 10.311 casi di esposizioni a veleni contenuti in essi, di cui 8.788 riguardarono bambini sotto i cinque anni, e 697 richiesero trattamenti in un centro medico. I bambini sono più a rischio, perché genitori irresposabili e medici criminali possono non usare antibiotici o non vaccinarli. È probabile che pratiche come l’omeopatia qualche volta si associno a benefici, o attraverso effetti placebo mediati dalla comunicazione tra paziente e pseudoguaritore, o per l’effetto disintossicante che si ottiene interrompendo qualche terapia farmacologica per infiammazioni croniche. Effetti che nulla hanno a che vedere con la dottrina omeopatica. Perché l’omeopatia è solo una credenza insensata.
L’evoluzione dell’omeopatia induce a fare anche ipotesi sulle effettive ragioni del suo successo. Il libro di Paola Panciroli ne racconta la storia in Italia, inquadrandola anche politicamente. Tale pratica arrivò con l’esercito austriaco, dove la credenza medica si era diffusa perché il Principe di Schwarzenber ne era sostenitore, anche se morì per un ictus che il buon Hanhemann a Lipsia non riuscì a guarire. Il medico del principe e la truppe austriache giunsero a Napoli nel 1821, e dà lì l’omeopatia si diffondeva nello Stivale. I medici tradizionali la avversarono con articoli e libri che già allora ne ridicolizzavano i fondamenti dottrinali. Ma con l’arrivo delle epidemie di colera si creò una situazione tale per cui cominciarono a circolare statistiche inattendibili, secondo le quali chi si curava con l’omeopatia moriva di meno.
L’iniziale vantaggio selettivo dell’omeopatia fu che prima che fosse confutata la presunta efficacia del salasso, che si usasse l’anestesia e che si trovassero i microbi nelle infezioni, i trattamenti medici tradizionali erano rischiosi e dolorosi. La dottrina omeopatica si fonda su un principio magico (il simile cura il simile) e sull’uso di soluzioni altamente diluite del principio attivo (fino a niente) che agirebbe “dinamizzando” il solvente attraverso una serie di rituali piuttosto ridicoli. In quell’ecosistema medico-sanitario di inizi Ottocento, si capisce che i pazienti, soprattutto ricchi, preferissero una favola e assumere niente, che farsi salassare, purgare, operare senza anestesia, stimolare il pus delle ferite o strofinare a sangue con “revulsivi”.
Nessun argomento riuscì a rallentare la diffusione dell’omeopatia nell’Ottocento, che però declinò rapidamente nel corso della prima metà del Novecento, cioè quando la medicina scientifica mantenne le sue promesse di salute attraverso vaccini, sieri, antibiotici, insulina e una cornucopia di farmaci per i più diversi disturbi clinici. La ripresa dell’omeopatia in occidente si osservava negli anni Settanta e qualcuno l’ha spiegata con il diffondersi dei movimenti new age e delle filosofie orientaleggianti e olistiche. Può darsi. Ma il problema non è se le credenze omeopatiche sono state incorporate dalle pseudofilosofie antimoderne. La domanda vera è perché medici che si laureano nei corsi universitari, e quindi studiano fisica, chimica, biologia molecolare, immunologia, farmacologia, etc. prescrivono farmaci omeopatici. Dove o cosa avevano studiato i medici che nel 2002, per conto della FNOMCeO, sdoganarono l’omeopatia come “atto medico”? Non è forse un’insulto all’etica che l’ordine dei medici ritenga utilizzabili l’omeopatia e le pratiche non convenzionali anche nel suo Codice Deontologico (art. 15)?
Difficilmente si ridurrà l’impatto sociale delle falsità “omeopatiche”, se non si prova a capire perché queste credenze sono tornate in auge negli anni Settanta in Occidente. Oltre ai fattori esterni alla medicina, un aiuto potrebbe averlo dato il successo dell’evidence based medicine (EBM), che ha impoverito la qualità della formazione scientifica dei medici. Infatti, la metodologia statistica che ha dominato e domina i trial clinici, per cui i medici si aspettano ad esempio di poter confutare (stabilire) l’efficacia dell’omeopatia per via di inferenza statistica, ha poco di scientifico. Come si può pensare di dimostrare empiricamente che un trattamento è efficace o meno, prescindendo dalle conoscenze scientifiche di riferimento? È ridicolo. Eppure è quello che si insegna ai medici, i quali non imparano che un’ipotesi confutata o corroborata è migliore di un’altra anche sulla base di una conoscenza di sfondo, ma solo per quanto si discosta l’osservazione che fanno dal caso (p value), ovvero quanto è invalidata l’ipotesi nulla. Dimenticando cioè che il valore arbitrario scelto per p, in base al quale si confuta l’ipotesi nulla, non dice che l’ipotesi alternativa preferita sia quella giusta, ma solo che è una delle tante possibilità migliori dell’ipotesi nulla.
L’alternativa esiste, ed è l’inferenza bayesiana. Usando il fattore di Bayes, invece del p value, è facilitata l’integrazione di dati statistici e di conoscenze biologiche o di altro tipo disponibili, e si comprende meglio il ruolo del dato statistico nel giudizio medico. Il fattore di Bayes è un rapporto tra probabilità e richiede due ipotesi, nel senso che per essere contro l’ipotesi nulla deve essere a favore di un’ipotesi alternativa. Il fattore di Bayes è un confronto tra quanto bene due ipotesi predicono i dati. L’ipotesi che li predice meglio si dice che ha più sostegno empirico, e non si ragiona quindi in termini di probabilità di errore, come si fa oggi comunemente.
Le meta-analisi che trovano significatività statistiche in relazione all’omeopatia e non tengono conto che per la scienza che conosciamo c’è una minima probabilità che i prodotti omeopatici abbiano un’attività biologica, lasciano il tempo che trovano. Gli epidemiologi Maurizio Pandofi e Giulia Carreras hanno giustamente osservato, in un articolo intitolato The faulty statistics of complementary alternative medicine (European Journal of Internal Medicine 2014; 7: pp. 607-9) che «quando la giustificazione per un intervento clinico si sgancia dai principi di base della scienza, come nelle medicine complementari alternative, qualsiasi risultato positivo ottenuto negli studi clinici è più ragionevolmente ascrivibile a ipotesi (generalmente all’effetto placebo) diverse dall’ipotesi sotto controllo, che comunemente è l’efficacia specifica dell’intervento». Questo perché, come si diceva, un basso valore di p ci dice solo che l’ipotesi nulla è peggiore di quella sotto esame. Non che quest’ultima sia vera.
Se non si riforma la statistica utilizzata e insegnata agli studenti di medicina, chiarendone i limiti epistemologici, si continueranno a sfornare medici che non hanno capito o fanno confusione sulla natura del metodo scientifico, che cercheranno prove per l’efficacia di trattamenti fondati su ipotesi ridicole e che, purtroppo, in una significativa percentuale diventeranno... omeopati.
Rivoluzioni
Un patto con il malato
contro la malattia
La Statale di Milano celebra i 90 anni, l’Istituto europeo di oncologia 20. Insieme organizzano un evento per trasformare il rapporto col paziente: «Va messo al centro, davvero»
di Paolo Foschini *
Mettere il paziente al centro: si fa presto a dirlo. Perché il paziente non è una macchina da aggiustare ma una persona da curare: appunto, quante volte l’abbiamo sentita? Perché il malato è un essere umano: ecchediàmine.
Calma, prima di continuare con l’ironia prendetevi un secondo e ricominciate daccapo. Perché questa volta, forse, potrebbe veramente cambiare qualcosa. Magari non da un giorno all’altro, d’accordo. Ma con una rivoluzione culturale seria: a partire dall’università. Per insegnare a chi studia medicina - tra le altre cose - che il dottore di domani sarà bravo non solo se sarà capace di scoprirmi addosso un tumore, ma anche se saprà spiegarlo ai miei e a me nel modo migliore, se mi aiuterà a capire le cure che dovrò affrontare, insomma s e mi coinvolgerà nelle terapie che mi prescriverà. Il tutto sancito da un Patto vero.
Un Patto per il Paziente, così lo chiameranno. Con l’aiuto in un prossimo futuro (anche) di app specifiche per tablet e smartphone. E magari di un «Tripadvisor del medico» esteso pure in Italia, sul modello dell’ormai mitico Heal thgrades. com americano, che consenta al paziente di lasciare scritto a beneficio altrui il suo commento sul medico che l’ha curato. Il tutto, insomma, affinché il dottore la smetta di trattare il «paziente» solo come colui che sopporta «con pazienza ». Le cure funzioneranno di più, le persone guariranno di più. Che poi è la «missione» del medico: o no?
Ed è questo il nocciolo del grande convegno con cui domani, 24 novembre, in un colpo solo si festeggeranno a Milano i 90 anni dell’Università Statale e i 20 dell’Istituto europeo di oncologia. Uniti per i Pazienti è il titolo che gli hanno dato. E a spiegarlo, nell’aula magna della Statale stessa, sarà proprio una signora ammalata: invitata a testimoniare in prima persona non solo l’utilità di un coinvolgimento consapevole nella gestione della malattia ma anche «quanta strada ancora ci sia da «fare».
Il Patto servirà a questo, a darsi degli obiettivi concreti e a sentirsi vincolati per realizzarli: approccio terapeutico basato sul rispetto della persona nella sua interezza, maggiore accesso delle persone a informazioni su prevenzione, cura, salute, collaborazione tra professionisti sanitari. Come spiega la professoressa Gabriella Pravettoni, anima sostanziale dell’intero progetto, che alla Statale è ordinario di Psicologia delle decisioni oltre a guidare il Centro interdipartimentale di Ricerca e Intervento sui Processi decisionali, dirigendo allo stesso tempo l’Unità di Psiconcologia allo Ieo: «Una scelta condivisa tra medico e paziente ha un influsso decisivo sull’efficacia della cura».
Per sancire questo impegno solenne il Patto in questione sarà non solo, durante il convegno, formalmente annunciato ma anche formalmente firmato: e a sottoscriverlo saranno da una parte un paziente, scelto simbolicamente a rappresentarli tutti, dall’altra il rettore della Statale, Gianluca Vago: «È un patto fondativo - rivendica quest’ultimo - che impegna la nostra università a porre le persone malate al centro dei processi educativi di tutti gli operatori. Deve essere il malato, non la malattia, non il medico o l’infermiere, a guidare l’agire medico. Vogliamo che i nostri medici siano prima di tutto degli ottimi professionisti; e che per questo siano anche capaci di ascoltare, informare, utilizzare con la massima efficacia le risorse di cura, di non promettere l’immortalità ma il rispetto della dignità degli individui. Per un nuovo umanesimo, in un tempo di meraviglia tecnica».
Su questo punto il gruppo di ricercatori guidati dalla professoressa ha già vinto tre progetti europei: quello per lo sviluppo di un software che aiuti a costruire in tempo reale un profilo psicologico del malato; quello chiamato Mind the Risk («occhio al rischio») per assistere i pazienti cui un test genetico ha fatto sapere di avere una probabilità di tumore superiore alla media; infine il progetto IManageCancer per inventare app specifiche al servizio dei malati. E non è ancora tutto se si pensa all’ulteriore idea - appena accennata sopra - con cui la ricercatrice Alessandra Gorini, collaboratrice della professoressa Pravettoni e psicologa a sua volta, ha iniziato a studiare il modo per lanciare al più presto anche in Italia la prima piattaforma attraverso cui i pazienti potranno mettere in Rete il loro giudizio sui medici che li hanno curati.
«Dobbiamo entrare - dice il fondatore dello Ieo, Umberto Veronesi - in una fase nuova: la medicina della persona. Conoscere quindi non solo le connotazioni della sua malattia ma la percezione, l’elaborazione mentale e la memorizzazione della malattia stessa».
A discuterne domani con tutti loro saranno anche Massimo Cacciari, professore emerito di Filosofia all’Università San Raffaele, e il gesuita Carlo Casalone, medico e presidente della Fondazione Carlo Maria Martini. A chiudere con un sorriso saranno comunque Aldo, Giovanni e Giacomo.
Paolo Foschini
La risposta di chi pratica medicina non convenzionale
di Prof. Paolo Roberti di Sarsina, medico psichiatra, docente al master in Sistemi sanitari dell’Università Bicocca di Milano... *
Ho letto con stupore l’ennesimo attacco della redazione di Wired alle Medicine Non Convenzionali, che non fa che dimostrare superficialità nell’analisi di un fenomeno non certo ipersemplificabile, come in Italia spesso la stampa tenta di fare.
Innanzitutto, nella letteratura scientifica internazionale indicizzata - contrariamente a quanto si sostiene nell’articolo - vi sono certamente prove di efficacia in ambito clinico umano che mostrano nessi funzionali tra le medicine tradizionali, complementari e alternative, la diagnostica preventiva, la prevenzione mirata e i trattamenti personalizzati, sia nella formazione alla salute sia nella pratica clinica.
Vi sono già molte ricerche inerenti l’efficacia di trattamenti non convenzionali della persona, nella sua natura di unicum fisico e psichico che vive in relazione dinamica con la natura e la società. Nelle Mnc si realizza per ciascuna persona un processo terapeutico tailored-made, grazie alla rinnovata relazione tra la persona e il terapeuta con fiducia, compassione e rispetto delle scelte individuali.
Vi sono metodi di ricerca clinica innovativi per valutare le medicine tradizionali, complementari e alternative e altri interventi di tipo salutogenetico, che, attraverso la promozione dei comportamenti favorevoli allo star bene - proprio e dei propri cari - forniscono alla persona gli strumenti per scegliere compiutamente con consapevolezza e responsabilità i propri percorsi di salute, riducendo così, tra l’altro, le disuguaglianze culturali, sociali, razziali e religiose.
La parola “medicina” è diversa per ogni cultura e popolo che ne ha tratto beneficio, per cui esistono de facto tanti sistemi di guarigione e cura quante culture esistono nel mondo. Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità circa l’80% della popolazione mondiale che vive nei paesi del Terzo Mondo dipende dai loro sistemi autoctoni tradizionali quali fonti primarie di cura, ed esse sono certamente efficaci, ovviamente in misura diversa le une dalle altre. Non meno di 100 milioni di europei fanno abituale ricorso a prestazioni sanitarie di medicine non convenzionali.
In Italia ricorre alle medicine non convenzionali il 14,5% della popolazione (Eurispes 2012). Tutte vittime dell’effetto placebo? Tutti irresponsabili o ignoranti i medici iscritti all’Albo che le prescrivono? Il problema è che le istituzioni sanitarie nazionali non hanno finora voluto né sono state capaci di mettersi al passo di questa realtà sociale ampiamente diffusa, disattendendo anche le risoluzione sia del Parlamento europeo sia del Consiglio d’Europa, e non adottando il piano strategico sulle Mnc dell’Organizzazione mondiale della sanità. L’Oms è un’altra pericolosa organizzazione new-age lontana dalla scienza...?
Pubblicare articoli come il vostro, sottendendo questo, dimostra una provincialità tutta italiana e che non vi fa onore. È patrimonio comune, ampiamente consolidato a livello nazionale e internazionale, che le medicine tradizionali e non convenzionali hanno definitivamente acquisito un ruolo stabile d’innovazione nel campo della salute, circostanza questa che è confermata anche dall’enorme interesse teorico e pratico che si manifesta sempre più in ambito universitario, ospedaliero e di assistenza sanitaria territoriale.
Peccato che per produrre una grande mole di prove di efficacia, come certamente - in questo sono d’accordo con voi - sarebbe opportuno fare, sono ovviamente necessarie risorse per la ricerca di qualità. È paradossale che l’establishment accademico e istituzionale chieda alle medicine tradizionali e non convenzionali prove di efficacia quando non esistono, salvo rari casi, fondi erogati a tale scopo.
Ostracismo miope confermato dalle Istituzioni italiane: basti pensare che il ministero della Salute non ha mai diffuso la notizia che la Commissione europea, nell’ambito del Settimo piano europeo pluriennale di finanziamenti per la ricerca attualmente in vigore, ha finanziato il Consorzio CAMbrella per la ricerca in ambito delle medicine tradizionali e non convenzionali. Una rivista attenta come la Vostra non si è preoccupata di indagare i dati di quella importantissima e imponente ricerca.
Vi è necessità di nuovi paradigmi nel pluralismo della scienza, e questa è la sfida per il futuro non solo della biomedicina quale sistema dominante - come giustamente dice l’Organizzazione mondiale della sanità - ma dell’intera scienza del XXI secolo.
Prof. Paolo Roberti di Sarsina, medico psichiatra, docente al master in Sistemi sanitari dell’Università Bicocca di Milano, esperto in medicine non convenzionali del Consiglio superiore di sanità, membro del comitato scientifico dell’Aiot - Associazione medica italiana di omotossicologia e fondatore dell’Ente morale associazione medicina centrata sulla persona onlus
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Fonte: Wired, 27 maggio 2014
L’ILLUMINISMO. Adottò il motto oraziano «Sapere aude». Kant: «Abbi il coraggio di servirti della tua intelligenza»
IL PARLAMENTO. Luogo di una vera e propria rappresentazione che in quanto tale ha bisogno del pubblico
Il segreto della democrazia: non avere segreti
Una forma di governo che si fonda sulla piena visibilità del potere, incompatibile con l’esistenza degli arcana imperii cari agli assolutisti
Un intervento del 1988. Si intitola Democrazia e segreto il volume, in uscita da Einaudi (pp. XIX-53, 9), che raccoglie alcuni interventi di Norberto Bobbio (1909-2004), tra i quali una relazione tenuta nel marzo del 1988 a Sassari, nell’ambito di un convegno di studi gius-internazionalistici sul tema «Il trattato segreto». Di questo testo proponiamo qui uno stralcio. Pubblicato la prima volta in edizione fuori commercio come plaquette einaudiana alla fine del 2009, il libro è ora disponibile per tutti, con la prefazione ampliata di Marco Revelli.
di Norberto Bobbio (La Stampa, 16.10.2011)
In un articolo del 1981, intitolato L’alto e il basso. Il tema della conoscenza proibita nel ’500 e ’600 , Carlo Ginzburg prese lo spunto dal passo paolino ( Lettera ai Romani , 11, 20), che nella vulgata suona «Noli autem sapere, sed time», interpretato via via sempre più nel senso di un invito alla rinunzia alla superbia intellettuale e quindi come un ammonimento contro la eccessiva curiosità del sapiente, per fare qualche riflessione sui limiti assegnati alla nostra conoscenza dalla presenza di tre sfere invalicabili: gli arcana Dei , gli arcana naturae e gli arcana imperii , strettamente connessi tra di loro. Chi aveva trasgredito quei limiti era stato punito: esempi classici, Prometeo e Icaro. Ma potremmo aggiungere, forse il più familiare, almeno alla tradizione culturale italiana, l’Ulisse dantesco.
Le grandi scoperte astronomiche del Cinquecento rappresentarono una prima trasgressione del divieto di penetrare gli arcana naturae. Quali ripercussioni avrebbe avuto questa prima trasgressione della prescrizione di arrestarsi di fronte a una delle tre terre proibite, rispetto alla analoga prescrizione nelle altre due? Alla metà del Seicento, racconta Ginzburg, il cardinale Sforza Pallavicino acconsentì a riconoscere che era lecito penetrare i segreti della natura perché le leggi naturali sono poche, semplici e inviolabili. Ma non ammise che ciò che valeva per i segreti della natura valesse anche per i segreti di Dio e per quelli del potere, ritenendo che fosse un atto di temerità violare l’imperscrutabilità della volontà del sovrano non altrimenti che quella di Dio. Negli stessi anni Virgilio Malvezzi ripeté analogo concetto dicendo che «chi per isciogliere i fisici avvenimenti adduce Iddio per ragione è poco filosofo, e chi non lo adduce per iscioglimento di politici, è poco cristiano».
Per contrasto, il pensiero illuministico adottò come suo motto l’oraziano «Sapere aude». Alcuni anni or sono si svolse sulla Rivista storica italiana un dotto dibattito sull’origine del motto (di cui io avevo trovato un altro esempio nel saggio in difesa della codificazione scritto da Thibaut nel 1814) tra Luigi Firpo e Franco Venturi. Firpo risalì a Gassendi, citato dal Sorbière nel suo Diario.
Com’è noto, il motto campeggia nello scritto sull’illuminismo di Kant, che Kant traduce così «Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza». È in questo saggio che Kant afferma che l’illuminismo consiste nell’uscita dell’uomo dallo stato di minorità che egli deve imputare a se stesso e che alla base dell’illuminismo sta la più semplice di tutte le libertà, la libertà di far uso pubblico della propria ragione. «Il pubblico uso della propria ragione deve essere libero, ed esso solo può attuare l’illuminismo fra gli uomini». Conducendo alle logiche conseguenze questa affermazione, si scopre che vengono a cadere i divieti tradizionali posti a guardia degli arcana imperii . Per l’uomo uscito di minorità, il potere non ha, non deve più avere, segreti. Perché l’uomo diventato maggiorenne possa fare pubblico uso della propria ragione è necessario che egli abbia una conoscenza piena degli affari di Stato. Perché egli possa avere una piena conoscenza degli affari di Stato, è necessario che il potere agisca in pubblico. Cade una delle ragioni del segreto di Stato: l’ignoranza del volgo che faceva dire dal Tasso a Torrismondo: «I segreti di Stato al folle volgo ben commessi non sono».
Spetta a Kant il merito di aver posto con la massima chiarezza il problema della pubblicità del potere e di averne dato una giustificazione etica. [...] Affinché questo principio della pubblicità possa essere non solo dichiarato dal filosofo ma attuato dal politico, in modo che, per esprimerci ancora una volta con Kant, non si dia ragione al detto comune «Questo può essere giusto in teoria, ma non vale per la pratica», occorre che il potere pubblico sia controllabile. Ma in quale forma di governo questo controllo può avvenire se non in quella in cui il popolo ha il diritto di prendere parte attiva alla vita politica?
Kant certamente non è uno scrittore democratico nel senso che per «popolo» intende non tutti i cittadini ma solo i cittadini indipendenti, ma quale sia il valore che egli attribuisce al controllo popolare sugli atti del governo risulta ancora una volta in tema di diritto internazionale là dove, affermando che la pace perpetua può essere assicurata soltanto da una confederazione di Stati che abbiano la stessa forma di governo repubblicana, ne dà la ragione col celebre argomento che solo con il controllo popolare la guerra cesserà di essere un capriccio dei principi, o, con l’espressione kantiana, una «partita di piacere».
Sino a che il potere del re era considerato come derivante dal potere di Dio, gli arcana imperii erano una diretta conseguenza degli arcana Dei . In uno dei suoi discorsi Giacomo I, principe assoluto e teorico dell’assolutismo, definì la prerogativa, cioè il potere regio non sottoposto al potere del parlamento, come un «mistero di Stato» comprensibile solo ai principi, ai re-sacerdoti che, come dèi in terra, amministrano il mistero del governo. Un linguaggio come questo in cui l’appello al mistero svolge un ruolo essenziale, e si sottrae ad ogni richiesta di spiegazione razionale sul fondamento del potere e del conseguente obbligo di obbedienza, è destinato a scomparire via via che il discorso del governo si sposta dall’alto al basso, e, per restare in Inghilterra, dalla prerogativa del re ai diritti del parlamento.
Il linguaggio esoterico e misterico non si addice all’assemblea di rappresentanti eletti periodicamente dal popolo, e quindi responsabili di fronte agli elettori, pochi o molti che siano, ma non si addiceva del resto neppure alla democrazia degli antichi, quando il popolo si riuniva in piazza ad ascoltare gli oratori e quindi a deliberare. Il parlamento è il luogo dove il potere viene rappresentato nel duplice senso che esso è il luogo dove si riuniscono i rappresentanti e dove, nello stesso tempo, avviene una vera e propria rappresentazione, che in quanto rappresentazione ha bisogno del pubblico e deve quindi svolgersi in pubblico. Coglie bene questo nesso tra rappresentanza e rappresentazione Carl Schmitt quando scrive: «La rappresentanza può aver luogo soltanto nella sfera della pubblicità. Non c’è alcuna rappresentanza se si svolga in segreto e a quattr’occhi [...]. Un parlamento ha carattere rappresentativo solo in quanto crede che la sua attività sia pubblica. Sedute segrete, accordi e decisioni segrete di qualsivoglia comitato possono essere molto significative ed importanti, ma non possono avere mai un carattere rappresentativo».
Con ciò non si vuol dire che ogni forma di segretezza debba essere esclusa: il voto segreto può essere in certi casi opportuno; la pubblicità delle Commissioni parlamentari non è riconosciuta. C’è anche chi, come Giovanni Sartori, nella nuova edizione, aggiornata ed arricchita, della sua teoria della democrazia, condanna la richiesta di una politica sempre più visibile, come poco consapevole delle conseguenze che la maggiore visibilità comporta. Ma non si può non riconoscere con Schmitt che «rappresentare» significa anche «rendere visibile e rendere presente un essere invisibile mediante un essere pubblicamente presente».
Possiamo concludere questa riflessione con Richard Sennett che nel suo aureo libretto sull’autorità, pubblicato nel 1980 (tradotto in italiano nel 1981) afferma: «Tutte le idee di democrazia che abbiamo ereditato dal XVIII secolo sono basate sulla nozione di un’autorità visibile». E cita il detto di Jefferson: «Il dirigente deve agire con discrezione ma non gli deve essere concesso di tenere per sé le sue intenzioni».
Lettere
L’accesso all’arte medica e i criteri di selezione
Quando smetteremo di usare i quiz per misurare la preparazione e l’intelligenza?
Risponde Umberto Galimberti *
Quest’anno ho fatto il test di ammissione a medicina. Premettendo che diventare un medico è sempre stato il mio sogno, purtroppo oggi questo desiderio si è scontrato con 3.400 ragazzi e 100 domande da risolvere in circa due ore. La professione medica mi ha sempre affascinato, e, pur essendo conscia dei pro e dei contro che comporta, l’ho sempre vista come qualcosa di altamente nobile e non disgiungibile dall’arte, dalla letteratura, dalla musica e soprattutto dall’empatia, dal "sentire insieme".
A mio avviso il sistema di reclutamento adottato è inutile e inefficace, in grado solo di decelerare e rendere più macchinoso e stressante l’accesso alle facoltà. Chi non entra al primo anno decide di riprovare l’anno dopo, sperando che un anno di biologia, farmacia, chimica o biotecnologia riesca a dare gli strumenti adatti per affrontare la prova.
Perché invece di un test a crocette che non valuta oggettivamente le competenze del candidato, fare un colloquio orale o fare un test che indaghi le motivazioni, le cause e gli ideali profondi che muovono e sostengono il ragazzo (cose che, a mio modesto parere, valgono di più del sapere rispondere a seguito di quale avvenimento morì Anita Garibaldi).
Vedo coetanei demotivati, demoralizzati, che perdono la fiducia nel sistema italiano ancora prima di avere messo piede all’università. Il costo per sostenere ogni test alle università pubbliche si aggira sui 50 euro. Per non parlare delle università private (150 euro a Milano) e i corsi preparatori ai test di ammissione (4mila euro). Ogni anno che passa il numero dei candidati aumenta. La corsa al posto fisso in anni di crisi si fa sempre più accanita: la scelta di medicina è dunque dettata da una necessità interiore o dal mero business?
Lettera firmata
Proprio in questi giorni leggo che, a causa del pensionamento di un numero significativo di medici, avremo nel prossimo futuro una carenza di operatori sanitari come già sta avvenendo in Inghilterra. Ciò nonostante la professione medica è ambita da un numero eccessivo di aspiranti mossi dalle più disparate motivazioni (non tutte nobili), per cui un criterio selettivo si rende necessario. Abbiamo scelto il peggiore, costruito su test a domande singole o multiple sui più svariati argomenti, pochi dei quali attinenti alla verifica di una propensione per le discipline scientifiche e sperimentali.
La procedura potrebbe essere corretta con delle prove scritte attinenti le materie studiate nelle scuole secondarie superiori come fisica e chimica, superate le quali si accede a un colloquio in cui si verificano le motivazioni e la personalità del candidato, perché l’arte medica richiede, oltre a una seria preparazione scientifica, anche una disposizione umana alla cura, di cui spesso i pazienti lamentano la mancanza. L’inconveniente di questo metodo, comunque più serio degli attuali test di accesso, consiste nel fatto che esaminare 3.400 ragazzi richiede tempo, spazio e un gran numero di esaminatori di cui la nostra organizzazione sanitaria non dispone. Un’altra procedura potrebbe essere quella di consentire a tutti i candidati l’accesso, salvo poi una verifica dopo due anni, con selezione di coloro che hanno riportato le migliori valutazioni in termini di esami sostenuti e di risultati raggiunti. Questo metodo, che in assoluto sarebbe il migliore, ha come suo inconveniente il fatto che le nostre strutture universitarie e ospedaliere non sono in grado di ospitare per due anni un numero così elevato di studenti.
Detto questo, il metodo selettivo a quiz resta comunque il peggiore perché verifica solo (quando ci riesce) l’intelligenza binaria dei candidati chiamati a dire solo "vero" o "falso", quando invece la medicina di oggi, che nella cura impiega opportunamente i protocolli collaudati, sta sempre più spostando l’attenzione sulle condizioni particolari relative all’insorgenza e al decorso della malattia che sono diversi da individuo a individuo. Qui l’intelligenza binaria testata dai quiz non serve proprio a niente.
Occorre un’intelligenza complessa che sappia valutare molti fattori che diversamente si presentano e si combinano nei singoli individui. In ogni caso la difficoltà di adottare criteri di selezione più idonei, sul tipo di quelli sopraindicati, non autorizza a proseguire con la scorciatoia dei quiz, il cui valore selettivo non differisce molto da un’estrazione a sorte.
* la Repubblica/D, 22.10.2011
Galeno, medico modernissimo e uomo «rinascimentale»
di Armando Torno (Corriere della Sera/Salute, 21.10.2012)
Véronique Boudon-Millot ha appena pubblicato presso le Belles Lettres di Parigi l’atteso saggio su Galeno. È un’opera che esamina dettagliatamente la vita e l’opera di uno dei più grandi medici dell’antichità, infanzia compresa, avvalendosi delle ultime scoperte e dei recenti dibattiti critici; ne ricostruisce le frequentazioni filosofiche, gli insegnamenti, i viaggi - da Cipro alla Licia, da Siria e Palestina alla permanenza a Roma - e il suo esilio volontario.
Non soltanto: la Boudon-Millot dedica pagine dense alle «cose viste e intese» da Galeno in Asia; ripercorre le mille esperienze, da medico dei gladiatori a curatore dell’alta società dell’Urbe e di imperatori, né tralascia la ricostruzione delle sue malattie e della morte. Insomma, un ritratto che è anche un importante capitolo di storia della scienza oltre che della filosofia.
Véronique Boudon-Millot ci confida: «Curioso di tutto, parla molto di se stesso, contrariamente a quanto facevano gli antichi (si pensi a Ippocrate), e prima di Agostino e delle Confessioni è un caso da porre tra le eccezioni». Anni di lavoro, di ricerche della studiosa francese. Considera Galeno quasi nostro contemporaneo e ci ricorda che «ha frequentato i maestri della sua generazione, ma non aveva una scuola di riferimento e ha preso il meglio in un mondo dalle forti presenze culturali».
Del resto, anche se il suo nome resta immortale - l’aggettivo galenico rimanda direttamente al medicinale preparato dal farmacista in base ad una prescrizione medica, destinato a un particolare bisogno - non ha dato vita a insegnamenti istituzionali. «Sarà un riferimento per la medicina, non il padre di una scuola», osserva la Boudon-Millot.
Di più: la studiosa ci ricorda lo straordinario e attuale metodo di Galeno. «Egli cercava - precisa - di comprendere i problemi causati dalla malattia, parlando a lungo con il paziente; in altri termini possiamo dire che desiderava capire anche i riferimenti culturali della persona che si era rivolta a lui».
È inevitabile aggiungere che in codesta prospettiva era compreso anche quell’accompagnamento alla fine della vita su cui ci stiamo interrogando, senza accorgersi che i problemi che tanto oggi suscitano discussione si sono affrontati due millenni fa, e forse con uno spirito migliore.
Certo, c’è anche un Galeno polemista: la Boudon-Millot ricorda che una parte della sua bibliografia è dedicata alle confutazioni rivolte alle dottrine di Erasistrato di Ceo, anatomista greco del III secolo prima di Cristo e attivo alla corte di Seleuco I Nicatore, tra i fondatori della scuola medica di Alessandria d’Egitto: egli considerava gli atomi costituenti essenziali del corpo e li riteneva vitali grazie all’aria esterna (pneuma), la quale sarebbe stata in grado di circolare nelle arterie. Galeno non amava né Epicuro né Democrito e, di conseguenza, non poteva approvare una simile concezione.
Del resto prese le distanze e confutò anche le opinioni di Asclepiade di Prusa (morto nel 40 a. C.), seguace di quelle teorie fisiche che intendevano il corpo composto da atomi separati da spazi vuoti (pori), sostenitore dell’ipotesi che la malattia nascesse dallo squilibrio tra gli stessi atomi e i pori. Pensò che quando questi ultimi si presentano molto larghi causano pallore e pochezza di forze, se troppo stretti rossore e calori.
I suoi rimedi terapeutici, proprio per questa sua visione fisica dei problemi, si basavano su massaggi, bagni termali, passeggiate e musica. Non ebbe particolare fiducia nei salassi, e a tale giudizio negativo aggiunse anche i farmaci.
Galeno era lettore di filosofi, come Ippocrate, e pensatore egli stesso. Più vicino a grandi maestri quali Platone e Aristotele, conosceva bene gli stoici, non ignorava i lavori degli epicurei e dei pirroniani, ma - come nota la Boudon-Millot - questi ultimi «ne font pas partie de ses maîtres à penser».
Il saggio ci restituisce uno scienziato poco noto, nato nel 129 d. C., vissuto sette secoli dopo Ippocrate, che non entrò in contraddizione con il suo illustre predecessore e scrisse moltissimo. La sua opera, d’altra parte, corrisponde a circa un ottavo di tutta la letteratura greca che conosciamo. Con essa arricchì e trasmise l’eredità ippocratica, al punto che la sua gloria soppiantò la precedente per tutto il Medioevo e il Rinascimento; oggi, invece, sembra accadere il contrario.
Insomma, colui che ebbe l’onore di curare Marco Aurelio fu, oltre che testimone privilegiato della società romana del suo tempo, l’uomo di scienza che desidera «introdurci nell’intimità dei suoi malati, ricchi e poveri, e nel segreto delle loro case».
Scorrendo le pagine della Boudon-Millot, ci accorgiamo che Galeno di Pergamo padroneggiava innumerevoli materie oltre quelle mediche, tra le quali sono da considerare anche terapeutica e igiene; la sua mente spaziava nella filosofia (era un eccellente conoscitore di etica), nelle matematiche, non era secondo nel teatro e nella poesia, poteva discutere di architettura e di quella disciplina che oggi chiamiamo linguistica. Insomma, una mente universale che si dedicava a diagnosticare la malattia e a curarla con una metodologia che mai dimenticava l’umanità necessaria per essere vicino al paziente.
Ci sarebbero infinite notizie da aggiungere. I suoi interessi religiosi (riguardavano anche ebrei e cristiani), gli esperimenti con gli animali, l’uso che fece dell’oppio unito all’alcol per creare analgesici.
Una prefazione di Véronique Boudon-Millot, docente alla Sorbona, apre anche un libro di Giorgio Cosmacini e Martino Menghi Galeno e il galenismo. Scienza e idee della salute (Franco Angeli, pp. 176, 20). L’opera, appena uscita, mette a fuoco in due saggi l’antico scienziato e la sua fortuna attraverso i secoli. Se Menghi pone in evidenza il «medico filosofo», soffermandosi sulla formazione di Galeno, sulle sue opere e soprattutto sulle terapie del corpo e dell’anima da lui proposte o testimoniate, Cosmacini approfondisce il concetto di «galenismo», ovvero di quell’«ideologia di lunga durata» che giunge ai nostri giorni passando attraverso la scuola salernitana o la medicina ebraica e araba, Descartes, Harvey, l’illuminismo.
Insomma, non è autore da dimenticare nemmeno oggi, giacché - scrive Cosmacini - «la virtù galenica della temperanza... è un pilastro che sostiene una concezione di vita dove questa è vista scorrere senza scompensi e senza affanni, in buona salute e in sicura salvezza, se incardinata su una medicina intesa come arte spirituale e razionale e come medianità (dal nome medietas deriverebbe il nome "medicina")».
Menghi, da parte sua, mette in evidenza la profonda trasformazione che avviene con Galeno: dal medicus amicus delineato da Celso si passa alla «condizione psicologica di sottomissione che si traduce nella puntuale osservanza delle indicazioni, nell’obbedienza alle sue direttive e prescrizioni». Descrizione da intendersi senza mai dimenticare il concetto di medicus gratiosus, «che preferisce convincere i suoi pazienti piuttosto che impartire loro degli ordini». E anche se tradiva Seneca e la sua concezione circolare dei «benefici», portava qualcosa di nuovo e diventava il garante della salute fisica e morale dell’umanità.
Inoltre, quei suoi consigli in materia di temperanza alimentare ed erotica inducono inevitabilmente il medico ad essere un punto di riferimento anche per la morale. Ma non tutto finisce qui. Si incontrano in queste pagine anche le problematiche legate alla dissezione, che Galeno praticò e insegnò, alla quale il medico renano Günther von Andernach - grecista e traduttore di opere del maestro - proclamò la sua avversione ricordando a tutti di volere «servirsi del coltello solo a tavola».
Il progetto di pubblicazione delle opere di Galeno nella serie greca de Les Belles Lettres è di una sessantina di volumi, l’ultimo dei quali - inedito sino alla recentissima scoperta - è il De indolentia (titolo francese: Ne pas se chagriner). Un elenco completo delle opere conservate e perdute di Galeno si legge nel saggio di Véronique Boudon-Millot alle pagine 351-374.
In italiano la raccolta più ampia di scritti tradotti si deve a Mario Vegetti (il nostro maggior specialista del medico filosofo) e Ivan Garofalo: Opere scelte, volume di 1144 pagine edito nel 1978 nei «Classici della scienza» Utet, collana diretta da Ludovico Geymonat.
Il De indolentia e il De propriis placitis, invece, sono usciti quest’anno in un volume Bur con il titolo L’anima e il dolore, con traduzione e testo a fronte. Nel 2011 presso Fabrizio Serra è stato pubblicato il De differentiis febrium libri duo arabice conversi. Ma il nome dell’antico scienziato si ritrova anche in molte discussioni contemporanee, come mostra il saggio di David Sedley Creazionismo. Il dibattito antico da Anassagora a Galeno (editore Carocci). O nelle questioni alimentari, come insegna Mark Grant con La dieta di Galeno. L’alimentazione degli antichi romani (edizioni Mediterranee).