Benigni, il gran ritorno su RaiUno
"Silvio riposati, basta fare partiti"
"La grandezza dell’Italia sono i ragazzi di Locri e il corteo contro la violenza sulle donne, violenza dei vigliacchi"
di ALESSANDRA VITALI *
ROMA - Si comincia con i Savoia ma c’è soprattutto Berlusconi nel suo cuore e chi ha già visto TuttoDante se lo ricorda. Con la serata-evento di RaiUno Il quinto del Paradiso, Roberto Benigni porta in tv lo spettacolo che ha già fatto oltre cento repliche e più di un milione di spettatori. E col quale, in tv, sfida se stesso: il 23 dicembre 2003, con L’ultimo del Paradiso, su RaiUno, toccò il record di 12 milioni 687 mila spettatori con il 45,48% di share. Scenografia essenziale in legno chiaro, non sarà questo l’unico Benigni. Il TuttoDante in 13 puntate per altrettanti Canti della Divina Commedia proseguirà mercoledì 5 dicembre alle 23, con duplice raddoppio il 25 e 26 dicembre e l’1 e 2 gennaio.
Il comico è in gran forma, lo spettacolo è in due parti. La prima, per commentare l’attualità e "maltrattare" i politici, ed è il Benigni mattatore folle e più mediaticamente atteso. La seconda, è per il fascino della Commedia, per "la bellezza", come a lui piace dire, del Canto V dell’Inferno, del quale è prigioniero l’amore disperato di Paolo e Francesca. Prima, però, l’appello "per una famiglia piemontese bisognosa, si chiamano Savoia: mandate un sms, hanno nomi altisonanti ma sono indigenti, organizziamo un Telethon per risollevare il trono, si chiamerà Teletron".
Trenta minuti di viaggio a perdifiato nell’Italia recente, la politica e gli scandali, poi il prediletto Cavaliere. "Un anno e mezzo fa è nato il governo Prodi, Berlusconi per recuperare andava in tv a dire ’chi vota a sinistra è un coglione’, ’i froci son tutti di sinistra...’"". Berlusconi ossessionato dal governo ("cade, cade, non ripete altro, sta impazzendo. Silvio, per la tua salute, ti devi riposare, prenditi una settimana in cui non fai un partito nuovo"), Berlusconi e la legge elettorale ("a Veltroni la proporrà ’alla Vaticana’, si elegge uno e finché campa ci sta solo lui") e Sandro Bondi, "non lo toccherei nemmeno con una canna da pesca, falso come il bilancio di un’azienda di Berlusconi".
Parla del sesso "che governa il mondo", di Buttiglione "che parla sempre di omosessuali ma secondo me non c’ha neanche il pisello", i sondaggi "sulla durata del rapporto sessuale, la media dell’italiano è risultata di tre minuti, mi son detto ’sarà compresa la doccia’", e "l’allungamento del pene, alla fine ce l’attorciglieremo come un distributore di benzina". Ricostruisce, con dovizia di turpiloquio, le intercettazioni di Vallettopoli, "e ho pure tolto le parti volgari", scherza su Silvio Sircana, "pubblicare quelle foto è stato scandaloso, ci credo che si è sentito male, roba da andare in trance", mentre "giustifica" Cosimo Mele beccato in un albergo romano con squillo e cocaina, "e ti credo, dopo quindici giiorni rinchiuso con Giovanardi, Cesa e Buttiglione...".
A quasi un’ora dall’inizio, Benigni si avvicina al clima della lectura con una rassegna del genio e della bellezza del Paese del Rinascimento, della pittura, della musica e dei filosofi, di Dante che "si è occupato di questo strano sogno che è la vita", della Commedia che "dopo averla letta non si guardano più le persone nello stesso modo perché ci insegna che ognuno di noi è protagonista di una storia irripetibile".
L’Italia, "unico Paese al mondo dov’è nata prima la cultura e poi il concetto di nazione, c’è da essere orgogliosi" come del fatto che "grandi pensatori sono nati nel Sud, è il Sud dell’Italia che deve dare un’identità al Paese". La grandezza dell’Italia, dice, "sono i ragazzi di Locri" e "la manifestazione di sabato contro la violenza sulle donne, spaventosa, orribile, violenza dei vigliacchi".
Bisogna avere "orrore dell’indifferenza, capire che dobbiamo scegliere, appartenere - dice - e Dante ce lo fa capire". Per l’attore è tempo di andare nel secondo cerchio, incontrare Minosse, andare avanti perché vuolsi così colà dove si puote e ancora avanti, Semiramide e Didone e le altre anime, assistere al dolore di Paolo e Francesca e soffrire con loro, e poi cadere come corpo morto cade.
* la Repubblica, 29 novembre 2007.
«Dopo avere letto la Divina Commedia gli altri li vediamo non come persone ma come scrigni di un enorme mistero»
«Viva chi ha fatto la moratoria sulla pena di morte. Quando vediamo i monaci birmani, i ragazzi di Locri, quelli che non vogliono pagare il pizzo ci ricordiamo che l’avvenire migliore non si subisce, ma lo si costruisce»
«Il senso della vita è dentro di noi. Anche chi non crede che siamo fatti da Dio, non può non negare che siamo fatti di Dio».
«Il più bel dono che abbiamo avuto è il libero arbitrio. Peccato che lo usiamo pochissimo. Essere vivi significa capire che dobbiamo scegliere»
«Quando ci innamoriamo sentiamo dentro di noi la scintilla dell’eternità» «Siccome siamo liberi, Dio dà agli uomini quello che hanno scelto»
«Se sbagliamo il rapporto col sesso e con l’amore, sbagliamo tutta la nostra vita. I lussuriosi sono quelli che hanno scelto il buio degli istinti»
«Cristo ha dato un nome ad ogni povero: il suo. Ogni povero si chiama Cristo. Cristo è l’antenato di ogni povero, di ogni disperato»
* Avvenire, 30.11.2007, p. 35.
PER L’ITALIA, "DUE SOLI". DANTE NON CANTO’ I "MOSAICI" DEL FARAONE!!!
LA COSTITUZIONE E DANTE. LA "DIVINA COMMEDIA", UN MUSICAL DEL VATICANO!? LODEVOLE INIZIATIVA, MA NELLA "CLARITAS" - e con i piedi sulla "roccia" ("rock")!!! SE LA GERARCHIA DELLA CHIESA "CATTOLICA" VUOLE SCIACQUARE I SUOI "PANNI IN ARNO", DEVE APRIRE BENE E PRIMA "GLI OCCHI" ALLA LUCE DEI "DUE SOLI" E DELLA NOSTRA "BIBBIA CIVILE"!!!
FLS
Francesca da Rimini, vittima «sanza tempo»
L’episodio dantesco riletto dallo psichiatra direttore della Scuola Imt Alti Studi Lucca
di Pietro Pietrini (Avvenire, mercoledì 9 giugno 2021)
Nel V canto dell’Inferno il sommo Poeta, superato il Limbo, discende dal cerchio primaio giù nel secondo e lì si imbatte nei peccatori carnali, coloro che in vita sottomisero la ragione alla passione. Nella moltitudine dei dannati e dei loro lamenti, grida e bestemmie, due di loro, che sono trascinati dalla bufera infernale quasi fossero un unico corpo, catturano completamente l’attenzione del Poeta, tanto da indurlo a manifestare a Virgilio il desiderio di parlar loro. Nei versi che seguono, tra i più celebri dell’intero poema, apprendiamo che in vita i due, Paolo Malatesta e Francesca da Rimini, erano amanti. Colti sul fatto, furono uccisi dal di lei marito e fratello di Paolo, Gianciotto Malatesta, che Francesca era stata obbligata a sposare in un matrimonio combinato per ragioni di potere politico. Quando tutto questo accade, non siamo ancora entrati nel quattordicesimo secolo. La storia di Francesca è al contempo tremendamente antica e drammaticamente attuale: l’uccisione della consorte è notizia di ieri, di oggi e lo sarà anche di domani, non sappiamo fino a quando. Non sembra essere cambiato molto nei secoli, persino nelle leggi. Basta leggere il codice di Dracone che, nel 621 prima di Cristo, decreta la nascita del diritto penale.
Accanto all’omicidio volontario (che prevede la pena di morte) e quello colposo (punito con l’esilio), il codice di Dracone contempla anche l’omicidio legittimo, esente da pena. Rientra in questa fattispecie non solo l’omicidio commesso per legittima difesa o causato involontariamente durante una competizione sportiva, ma anche l’uccisione di chi reca disonore alla propria famiglia: nel caso di illegittima relazione carnale della moglie, della figlia, della sorella, della madre o della concubina, al cittadino ateniese (marito, convivente, fratello o padre) è consentito uccidere l’adultero colto in flagranza di reato. Preistoria, verrebbe da dire, oltre due millenni e mezzo fa. Davvero? «Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’onor suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella». Così recitava l’art. 587 del nostro Codice penale (c.d. Delitto d’onore) che peraltro, arrivando a contemplare anche l’uccisione della donna colta in flagranza di adulterio, sembra spingersi addirittura oltre Dracone (che della donna non fa menzione).
Si dovrà attendere la legge 442 del 10 agosto 1981 per la sua abrogazione. Sembra un secolo fa, invece non sono passati che quarant’anni. Il nostro Paese non era infelice eccezione: articoli non dissimili nella sostanza dal codice draconiano si trovavano nel sistema penale di quasi tutti i Paesi occidentali fino a tempi non lontani. Per molti altri Stati, come noto, è d’obbligo usare ancora l’indicativo presente. La soppressione fisica della donna è espressione della volontà di controllo assoluto sul suo agire, persino sui suoi sentimenti, da parte dell’uomo, marito, padre o fratello che sia. Possesso dunque, che nulla ha a che vedere con la passione. Questo è ciò che muove la mano del carnefice, nella storia di allora come nelle cronache di oggi. Non è un caso che Francesca sia il primo dannato con il quale Dante parla nel suo viaggio. Non è un caso neppure che, nell’incontro con i due amanti, sia a Francesca che Dante si rivolge, sia con lei e solo con lei che interloquisce. Paolo è accanto a lei, sullo sfondo, ma non parla, si limita a piangere. Uno stridente contrasto con lo stereotipo del sesso forte e del sesso debole che si radicherà nei secoli a venire.
Nella celeberrima anafora del suo travolgente racconto, attraversato da una passione che neppure la morte ha potuto soffocare, Francesca anticipa la terribile pena divina che attende Gianciotto, uxoricida e fratricida, immerso per l’eternità nel lago ghiacciato del nono cerchio dell’Inferno «Caina attende chi a morte ci spense». Pena ben diversa da quella prevista dalla legge degli uomini fino a qualche decennio or sono. Forse proprio perché scritta da uomini, nel senso di maschi. Il Canto si chiude con una figura retorica tra le più belle e famose mai scritte. Il turbamento del Poeta è talmente intenso che Dante è sopraffatto e viene meno, superando anche in questo lo stereotipo di genere già ricordato.
Sul V canto ha detto qualcuno - si è scritto tutto quello che si poteva scrivere, tanta e tale è la sua meraviglia poetica. Nell’anno delle celebrazioni per il settecentesimo anniversario della scomparsa del sommo Poeta, il dar voce e corpo alla condanna della violenza dell’uomo sulla donna è una lezione universale sanza tempo tinta.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LA BIBBIA, IL CORANO, E LA LAPIDAZIONE: "LA" PIETRA SU CUI SI FONDA "LA" CIVILTA’!!!
USCIAMO DAL SILENZIO: UN APPELLO DEGLI UOMINI, CONTRO LA VIOLENZA ALLE DONNE.
Basta - con la connivenza all’ordine simbolico della madre!!!
fls
OLTRE LA TRAGEDIA E OLTRE I LIMITI DEL VIAGGIO DI ULISSE... *
In cammino con Dante/1.
Così Dante porta sé stesso in Commedia
Inizia il cammino dell’italianista Carlo Ossola attraverso i personaggi delle tre cantiche che ci accompagnerà in questo anno del 700° dantesco. Partendo dall’autore, certo non mero scriba
di Carlo Ossola **
«Conosciamo Dante profondamente grazie a un fatto rilevato da Paul Groussac [ Tolosa, 1848 Buenos Aires, 1929]: che la Commedia è scritta in prima persona. [...] Bisogna ricordare che, prima di Dante, sant’Agostino aveva scritto le Confessioni. Ma queste confessioni, appunto in virtù della splendida retorica, non sono così vicine a noi come lo è Dante, poiché la retorica splendida dello scrittore africano si interpone tra quello che egli vuole dire e quello che noi percepiamo’ ( J.L. Borges, Sette Notti, I: La Divina Commedia).
L’osservazione di Borges è acuta: il viaggio di Dante è così possente che lo pensiamo autore soltanto, come se l’io del viator fosse solo l’ombra dello scriba; non occupa dei propri tormenti le pagine come il Rousseau delle Confessioni; anzi, il poema si legge come se Dante avesse fatto passare le Confessioni di sant’Agostino attraverso il vaglio d’eternità della Città di Dio.
Egli visita infatti le città di Dio (Inferno, Purgatorio, Paradiso terrestre, Paradiso) e ad esse si commisura, fragile e smarrito nella selva della tentazione. Egli si rivela poco a poco nel poema: conosciamo dapprima la sua paura di fronte alle fiere; sviene al racconto del dramma d’amore di Paolo e Francesca («E caddi come corpo morto cade», Inf., V, 142); gli salgono le lacrime al vedere la pena che flagella Ciacco (Inf., VI), la «sozza mistura / de l’ombre e de la pioggia»; da quel dialogo apprendiamo che Dante è originario di una città toscana, come conferma l’apostrofe, poco dopo, di Farinata degli Uberti: «“O Tosco che per la città del foco / vivo ten vai così parlando onesto”» (Inf., X, 22-23).
Al canto XV, si dichiara ch’egli è stato allievo di Brunetto Latini il quale gli raccomanda il suo Tesoro (v. 119). Ad ogni conversazione, Dante autore lascia trapelare un tratto dell’identità del personaggio, e specialmente nel Purgatorio negli incontri che più lo rivelano, nella sua quotidianità - di sorriso e di malinconia - come nel dialogo con Belacqua (canto IV), o nella complicità poetica con Casella, che gli intona la prima citazione dall’opera di Dante, Amor che ne la mente mi ragiona, canzone che apre il III libro del Convivio (II, 112 ss.).
Solo al culmine della montagna, purificato dai peccati, ma non ancora deterso da essi, nel Paradiso terrestre è rivelato da Beatrice il suo nome; l’incontro tanto agognato diviene, nell’apostrofe di Beatrice, severo discorso di dura condanna: «Dante, perché Virgilio se ne vada, / non pianger anco, non piangere ancora; / ché pianger ti conven per altra spada» (Purg., XXX, 55-57).
Dal punto di vista dell’autore (e anche del lettore) è facile allegorizzare: il viator è appena stato assolto dalla ragione, promosso nella sua pienezza umana, come gli assicura Virgilio: «libero, dritto e sano è tuo arbitrio / [...] per ch’io te sovra te corono e mitrio» (Purg., XXVII, 140142); ed ora è messo a prova dalla teologia, alla quale deve ascendere.
Ma Dante personaggio patisce: coronato e, subito dopo, condannato; ha forse ragione Borges quando osserva: «Infinitamente ebbe vita Beatrice per Dante. E Dante assai poco, o nulla, per Beatrice. Noi tutti tendiamo, per pietà, per venerazione, a dimenticare questa disdicevole discordanza, inobliabile per Dante» (Nove saggi danteschi)?
In effetti, in più luoghi del poema Dante autore giudica del viaggio di Dante personaggio, non meno di quante il personaggio confessi, di fronte all’ardua prova, il proprio limite: «Ma io, perché venirvi? O chi ’l concede? / Io non Enëa, io non Paulo sono; / ma degno a ciò né io né altri ’l crede. / Per che, se del venire io m’abbandono, / temo che la venuta non sia folle» ( Inf., II, 3135). Varcate le «gelate croste» di Lucifero e dell’Inferno, giunti i viatores di fronte alla montagna del Purgatorio, la voce dell’autore a sua volta esclama: «Matto è chi spera che nostra ragione / possa trascorrer la infinita via / che tiene una sustanza in tre persone» (Purg., III, 34-36).
Tra la «venuta ... folle» e il «Matto è chi spera» c’è stato il «folle volo» di Ulisse, definizione di una frontiera invarcabile del conoscere; per questo Dante conclude: «State contenti, umana gente, al quia» (Purg., III, 37); giudizio che Dante, personaggio ancora e non meno autore, ribadirà al sommo del Paradiso: «sì ch’io vedea di là da Gade il varco / folle d’Ulisse» (Par., XXVII, 82-83).
Dante pur tuttavia cresce - ascendendo di cielo in cielo - nella consapevolezza dell’infinità dei mondi e del mistero che lo attende e lo assorbe: la sua consacrazione più alta avrà luogo nell’incontro con Adamo ove, se seguiamo parte dei codici più antichi, quelli esemplati dal Boccaccio (in particolare il Chigiano L VI 213) nonché le stesse Esposizioni del Boccaccio alla Commedia, e infine la maggior parte degli incunaboli, il nome di Dante viene nuovamente pronunciato, dal primo padre dell’umanità, che autorizza il nuovo testimone della discendenza redenta: «L’altra persona, alla quale nominar si fa, è Adamo, nostro primo padre, al quale fu conceduto da Dio di nominare tutte le cose create; e perché si crede lui averle degnamente nominate, volle Dante, essendo da lui nominato, mostrare che degnamente quel nome imposto gli fosse, con la testimonianza di Adamo; la qual cosa fa nel canto XXVI del Paradiso, là dove Adamo gli dice: “Dante, la voglia tua discerno meglio”» (Boccaccio, Esposizioni, Accessus).
Questo crescere è un modellarsi all’umiltà: intanto quella del discipulus che, per tutto il viaggio, si affida a una guida: prima Virgilio (sino al Paradiso terrestre), poi Beatrice (sino al XXXI del Paradiso), poi san Bernardo, per gli ultimi tre canti; ma è altresì un ridivenire “fantolin”, “fantin” (Par., XXX, 82-87), perché soltanto chi si fa piccolo può - come conclude il paragone dantesco - “immegliarsi”, secondo il detto evangelico: «nisi [...] efficiamini sicut parvuli non intrabitis in regnum cælorum» (Matth., 18, 3).
Il crescere di Dante personaggio, ben oltre i limiti del viaggio di Ulisse, non è un affrancarsi che potenzia, un esercizio superoministico; ma un accogliere più luce e più mistero, un rimpicciolire perché la Gloria meglio “penetri e risplenda” (Par., I,2); è il divino splendore che deve crescere in noi, del quale il poema non sarà che favilla: «e fa la lingua mia tanto possente, / ch’una favilla sol de la tua gloria / possa lasciare a la futura gente» (Par., XXXIII, 70-72). Qui finalmente Dante personaggio e Dante autore vengono a coincidere: «povertà [di vita] e sapere e poesia, quale alleanza assicuratrice di giustizia!» (G. Ungaretti, Tra feltro e feltro, 1965).
** Fonte: Avvenire, domenica 21 marzo 2021 (ripresa parziale).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
DANTE ALIGHIERI (1265-1321)!!! LA LINGUA D’AMORE: UNA NUOVA FENOMENOLOGIA DELLO SPIRITO. CON MARX E FREUD. Una "ipotesi di rilettura della DIVINA COMMEDIA" di Federico La Sala (in un "quaderno" della Rivista "Il dialogo"), con prefazione di Riccardo Pozzo [2007].
#Dantedi
#26marzo
CON IL #QUINTODELLINFERNO (http://lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=2758)
#Dante
si porta oltre l’orizzonte
della #caduta,
della #tragedia,
di #Edipo,
e
di #Costantino!
La lettera
Caro Benigni, sei grande ma ho nostalgia di Roberto
nel corso della serata ti rivelavi sempre più fedele alla figura di un Dio tradizionale, accertandone inesorabilmente l’esistenza
di Silvano Agosti (il Fatto, 23.12.2014)
Caro Benigni, spinto a mia volta da un sentimento di gratitudine, di affetto e di ammirazione, decido di scriverti questo breve messaggio, anche a nome di tutti coloro cui sono state sottratte le energie necessarie per infrangere la corazza potente del tuo prestigio, della tua soavità, della tua certezza di essere Benigni e quindi di saper trasformare con innocenza qualsiasi pensiero, qualsiasi moto dell’anima in un evento di spettacolare semplicità.
Ho avuto il privilegio di incontrare Roberto, agli albori del viaggio verso la conquista di Roma, dell’Italia e infine del mondo, quando recitava la sublime disperazione di Cioni Mario, un operaio ormai scomparso con la quasi definitiva sparizione dell’intera classe operaia. Ogni volta che osservo e ammiro Benigni sento crescere in me una profonda nostalgia per Roberto.
Roberto, cui io, pur essendo quella sera il solo spettatore della tua recita insieme alla ragazza che avevo invitato, ho offerto da subito tutta la mia stima: “Vuoi sapere cosa penso di te? Tu sei immenso come Eduardo, perché come lui non reciti ma sei”. Così ti dissi allora circa 40 anni fa quando mi hai raggiunto all’uscita chiedendo il mio parere sulla tua recita.
Nelle due serate di lunedì e martedì questa volta non avevi come ai tuoi inizi solo due spettatori, ma dieci milioni e dal primo all’ultimo istante Benigni ha trionfato ma Roberto, messo in disparte, non è apparso. Lui che trent’anni fa, quando era ancora tuo socio in arte, ti seguiva ovunque. Roberto e Benigni negli Anni 70 erano praticamente la stessa persona, e nel 1983 lo spettacolo di allora sui dieci comandamenti osava esordire attribuendo a Dio i dieci vizi capitali, affidando in modo magistrale la faccenda dell’esistenza di dio al buon senso di ognuno. Allora Dio lo chiamavi Guido e sostenevi che se moriva sarebbe andato certamente all’inferno.
GLI SPETTATORI allora non riuscivano a domare l’onda delle risate e anche tu dovevi fermarti ogni poco per non essere sommerso dagli applausi. Invito chiunque a conoscere il magnifico duo Roberto e Benigni, cercando oggi su Google I Dieci Comandamenti 30 anni fa. Ebbene, durante queste due attuali serate del 15 e del 16 dicembre è avvenuto un fatto che mi ha colpito e che ora desidero riferirti.
Mentre tu parlavi e nel fluire inesorabile dei tuoi pensieri riconoscevo comunque la tua irraggiungibile abilità di intrattenitore, la tua immagine si andava via via trasfigurando e, se io avessi avuto in me l’aiuto della liturgia ufficiale, avrei detto che tu andavi sempre più assumendo la forma di un angelo, tanto che non era difficile immaginare che dietro a te stessero lentamente apparendo due candide ali.
Ma poco dopo quando nei tuoi movimenti di danza, alla musica solo del tuo umorismo, ti sei messo di fianco ho avuto l’impressione che invece di due ali tu ne avessi soltanto una. E ho pensato, ma come potrà mai volare questo strano angelo con una sola ala? O forse nel tuo immaginario un angelo stava apparendo accanto a te e nel corso della serata ti rivelavi sempre più fedele alla figura di un Dio tradizionale, accertandone inesorabilmente l’esistenza.
Insomma invece di Roberto, ormai al tuo fianco stava apparendo l’angelo protettore, garante di un dio a sua volta Protettore “che tutto vede e provvede” e anche perfino lo scempio di una società ostile a qualsiasi valore umano. Roberto era dunque la tua ala mancante. Tu e Roberto potevate parlare di qualsiasi cosa senza mai offendere nessuno, neppure se definivate criminali coloro che altri chiamavano Onorevoli.
Ti chiedo solo di riflettere: perché Eduardo, il grande Eduardo è entrato nella sua eternità non come “De Filippo”, ma come Eduardo? Forse per la sua fedeltà nella difesa dei diritti di coloro cui viene negato qualsiasi diritto? Quindi il senso di questo mio messaggio si riassume nell’invito affettuoso a ritrovare in te Roberto e perfezionare la tua unicità non solo come Benigni, ma appunto, anche come Roberto. Sono certo che Eduardo si unirebbe a questo mio abbraccio.
Benigni, lampi di satira in un inno ad amore e felicità
Non rubare norma ad hoc per italiani’. In 9 milioni per prima serata
Riesce a Roberto Benigni il "miracolo" di battere se stesso. La seconda puntata dei Dieci Comandamenti è stata seguita su Rai1 da 10 milioni 266 mila telespettatori, con il 38.32% di share (la prima puntata aveva raccolto 9,1 milioni di telespettatori pari al 33% di share).
di Angela Majoli *
Un inno appassionato all’amore, allo spettacolo della vita, alla ricerca della felicità. Dopo il pieno di ascolti del primo show evento sui Dieci Comandamenti, seguito su Rai1 da 9,1 milioni di spettatori pari al 33.23% di share, Roberto Benigni scommette in modo forse ancora più coraggioso sul testo biblico: con poche concessioni alla satira e all’attualità, nella seconda puntata va dritto al cuore dei precetti e prova a sviscerarne il senso profondo, l’eternità del messaggio.
Forte del tributo di affetto del pubblico - rimasto ’fedele’ nel corso di tutta la prima serata - e della promozione a pieni voti della chiesa. "Non rubare" è un comandamento "scritto ad hoc per gli italiani". La castità "può essere una grande virtù se praticata con moderazione". La chiesa meriterebbe "una class action per aver confuso sesso e peccato".
Poche battute lampo punteggiano l’analisi delle tavole della legge. "Onora il padre e la madre", esordisce Benigni, che propone di allargare il quarto comandamento ai nonni, "fondamento della famiglia", e rispolvera il senso vero dell’onore, "una parola così bella ma oggi un po’ rovinata". "Non uccidere" è la prima formulazione della proibizione dell’assassinio nella storia dell’umanità, un monito quanto mai attuale "visto che una terza guerra mondiale può ancora accadere".
’Non commettere adulterio’, dice la Bibbia, "ma la chiesa lo ha trasformato in ’non commettere atti impuri’: hanno rovinato generazioni intere di ragazzi, compresa la mia", scherza il premio Oscar, alludendo alle prime turbe da adolescenti. "Hanno fatto diventare sesso e peccato sinonimi, "roba da fare causa alla chiesa. E invece nella Bibbia è l’opposto, il sesso è il luogo della creazione".
Poi l’affondo sul settimo comandamento, non rubare: "Dio ci ha fatto un trattamento di favore - ironizza Benigni - perché ha scritto questo comandamento proprio per noi italiani, è una norma ad personam, anzi pare lo abbia scritto direttamente in italiano. E’ quello al quale si obbedisce di meno, in Italia lo capiscono solo i bambini". Oggi, insiste, "essere ladri non fa più nessun effetto", eppure "vendere la propria anima è il punto più basso della storia dell’umanità".
Il governo, sottolinea, "ha annunciato che con la nuova legge il ladro che viene preso deve restituire i soldi. Un’idea straordinaria, ma prima non era venuta a nessuno? L’ultima invenzione è arricchirsi impoverendo in maniera subdola gli altri, con operazioni di finanza e di borsa. E poi ci sono i falsi invalidi, gli evasori fiscali, la tassazione esagerata, l’usura, le aggressioni alla natura, i veleni sversati nella terra, l’abusivismo: sono tutti furti. Ma il più grande è non dare la possibilità di lavoro a una persona: significa rubargli l’esistenza".
Il precetto che tiene in sé tutti gli altri è "Ama il prossimo tuo come te stesso. Amarsi - sottolinea l’attore e regista - è il problema fondamentale dell’umanità. Non ci rimane molto tempo, affrettiamoci ad amare, amiamo sempre troppo poco e troppo tardi, perché al tramonto della vita saremo giudicati sull’amore". Il monito finale di Benigni, che appare quasi trasfigurato, è sulla ricerca della felicità: "Ce l’hanno data quando eravamo piccoli, ma l’abbiamo nascosta, come fa il cane con l’osso e non ci ricordiamo più dov’è. Cercatela, guardate nei ripostigli, nei cassetti. E non abbiate paura di morire, ma di non cominciare mai a vivere davvero. E’ qui l’eternità. Dobbiamo dire sì alla vita, inginocchiarci davanti all’esistenza", dice commosso, prima di chiudere con una citazione di Walt Whitman.
Portare la Bibbia in prima serata era un’impresa e Benigni lo sa: "Forse ieri sera ho esagerato un po’, la gente stamattina mi ha fermato: chi si voleva confessare, qualcuno voleva destinarmi l’otto per mille", scherza in apertura di serata. Ma il pubblico lo ha premiato: pur non raggiungendo le vette dello show sulla Costituzione, La più bella del mondo (12,6 milioni e 44% a dicembre 2012), la prima puntata ha sfiorato i 10 milioni di spettatori più volte, ma l’ascolto si è mantenuto sempre costante. La scommessa sarà replicare questi risultati.
Intanto però il premio Oscar incassa il plauso della Chiesa, da Famiglia Cristiana che parla di "miracolo in tv" al Sir, ad Avvenire che scrive: "Solo Benigni poteva riuscire nell’ambizione temeraria di misurarsi in prima serata su Rai1 su un tema alto, altissimo, incommensurabile come i Dieci Comandamenti".
Dante e Benigni. Ovvero: il gigante e il bambino.
di Rosario Amico Roxas
Benigni si spoglia della marsina del comico per leggere Dante e fornirne una interpretazione lontanissima dalle ricerche semantiche, teologiche, filosofiche, allegoriche, analogiche o anagogiche, per proporre un approccio capace di entrare dentro l’architettura della “Commedia”, per smontarla, pezzo dopo pezzo, dalle sovrastrutture e restituirla alla chiarezza della semplicità, come se fosse stata scritta per essere “raccontata” a tutti e non analizzata, studiata e interpretata da pochi.
Si è scomodato anche il Vaticano, per bocca del cardinale Segretario di Stato Tarcisio Bertone, per sottolineare l’interpretazione di Benigni come quella di un grande teologo.
Con queste parole Bertone non ha premiato lo sforzo di chiarezza operato da Benigni, ma lo ha castigato proiettandolo dentro la pletora dei critici, dei supercritici, degli analisti, dei filologi, dei filosofi e dei teologi, che hanno avuto, ormai da 750 anni, la pretesa di far dire a Dante ciò che loro avrebbero voluto che dicesse.
Alle parole dette dal Segretario dello Stato vaticano si sono associati i nuovi critici e i nuovi interpreti, pronti, come sempre, a “soccorrere” il vincitore. Perché Benigni è stato ed è un vincitore, capace di affascinare la platea porgendo il cuore e mostrando l’anima, istruendo senza dottrina, con la sensibilità dei semplici.
Non viene tenuta in nessun conto la frase con la quale ha esordito prima di dedicarsi a quel 33° canto del Paradiso, ove viene composta la più bella e sentita invocazione alla Vergine dopo l’Ave Maria dell’Arcangelo Gabriele, la sola preghiera che accomuna cristiani e musulmani, che assimila Vangelo e Corano.
Con la semplicità di chi si appresta a narrare un affascinante racconto, Benigni ha esordito affermando: “Da grande non ci ho capito granché, ma da bambino avevo capito tutto”.
E’ tutto qui il mistero di un successo che travalica i limiti della critica, per entrare nell’alveo della cultura popolare, ingenua, semplice, comprensibile e accettata.
E’ vero, Benigni entra nel mondo dantesco servendosi di una “porta di servizio” ma solo perché l’ingresso principale è ancora intasato dalla fanfara dei “dotti e degli intelligenti”; infatti, come dice Cristo: “Ti ringrazio Dio Padre Onnipotente di avere nascosto ciò ai dotti e agli intelligenti e averlo rivelato ai semplici”.
Le dotte parole di Dante, l’architettura dei versi e l’articolazione del contenuto trovano la loro migliore identificazione in una trasposizione dalla dotta versione medievale del sommo poeta, (quando il letterato doveva essere competente in tutte le discipline conosciute), ad una esemplificazione apprezzabile e apprezzata perché liberata dalle sovrastrutture di una erudizione senza anima.
Il metodo di Benigni può essere sovrapposto alla letteratura dei Vangeli, alle esemplificazioni delle parabole, alle loro interpretazioni; le parole di Cristo che ci sono state tramandate perdono la loro efficacia diretta solo quando vengono manipolate in disquisizioni dogmatiche, altrimenti la loro presa è diretta, senza equivoci, penetrante.
“Lasciate che i fanciulli vengano a me”, come invito ai cuori semplici di avvicinarsi alla fonte viva della verità.
“Chi è senza peccato scagli la prima pietra”, come sfida alla coscienza, attribuendo, solo ad essa, la capacità di giudicare.
E’ la forza grandissima della semplicità, della comunicazione diretta, capace di invadere e penetrare nelle coscienze, anche quando sono intorpidite nel sonno della ragione.
Ne sono certo: Benigni da bambino aveva capito tutto, adesso ci ripropone la sua esperienza e cerca di contagiare gli ascoltatori inoculando il gene del fanciullino, proponendo la sola chiave di lettura che illumina e non confonde, quella della purezza che alberga nell’animo incontaminato dei bambini.
Ho appena visto lo spettacolo su Rai 1, di una bellezza sconvolgente. Sono rimasto senza parole, tutt’ora. Un grande momento. Un grande uomo. Che riconcilia l’Italia e il popolo italiano, la sua lingua e la sua cultura, e più in generale la vita e l’uomo, con i suoi sentimenti eterni, fatti d’amore, di dignità, di libertà, riuscendo a ridare senso proprio a quelle parole derise, disattese, fuorviate e rese fuorvianti dalla politica e dallo spirito mercantile che invadono le nostre giornate, purtroppo. Grazie di cuore, Roberto Benigni. Sei un artista pieno di talento e di sincerità, che riesce ancora a commuoverti come un bambino, e a farci commuovere, a tutti noi che non sappiamo più cosa sia lo stupore meravigliato del bambino o dell’innamorato. Oggi stesso il mio bambino, il nostro bambino, che si chiama Paolo Bernard, ha compiuto sei anni, ed un giorno, quando sarà più grande e che potrà capire, gli racconterò del grande regalo che gli è stato fatto stasera da un uomo che non conosce, che si chiamo Roberto Benigni. E gli ridirò questa frase, pronunciata da te : noi non abbiamo ereditato la terra dai nostri padri, ma l’abbiamo ricevuta in prestito dai nostri figli. La vita è bella. Così come l’Eternità...
Jean-Marie Le Ray
IL DANTE DI BENIGNI NEI LUOGHI ( E NEI NON LUOGHI) DELL’OGGI
Dateci di questa poesia
di GABRIELLA SARTORI (Avvenire, 02.12.2007)
Benigni e Dante: non lasciamo cadere l’argomento. È vero che, nella serata del televisiva del 29 novembre, la parte dedicata alla satira politica si è protratta troppo a lungo, che certe battutacce erano scontate (e qualche volta volgarotte). Ma sarebbe fuorviante fermarsi qui. Limiti come questi, nulla tolgono al fatto che la serata sia stata infine memorabile. Per vari motivi.
Primo, perché la grandezza umana, poetica e cristiana di Dante è stata fatta arrivare direttamente al cuore e alla mente di dieci milioni di italiani: Roberto Benigni - uno che ha cominciato come comico, e perfino comico di partito - da quando ha incontrato di nuovo sulla sua strada il nostro massimo poeta, ne è uscito irrimediabilmente arricchito, trasformato nel profondo. Come accade a tutti coloro che sono capaci di incontri veri. Definire chi sia oggi il Benigni che - più che leggere, spiegare, recitare - vive Dante nella sua carne di uomo e di personaggio da palcoscenico, è difficile; e forse non è neppure importante.
Quello che si può constatare, è che per la rinascita della nostra poesia nazionale, e ancor prima, per la sua conoscenza a livello di massa, il Benigni della Divina Commedia, assistito in questa sua veste, dai migliori dantisti italiani, sta facendo molto di più e meglio di quanto non riescano a fare, da anni, la nostra scuola e la nostra università. E magari anche molti convegni o happening, più o meno ’letterari’, siano essi di accademia o di strada. Per parlare al grande pubblico di poesia, ci vuole già un bel coraggio e ce ne vuole ancora di più per farlo in un clima culturale post-moderno, umanamente inaridito (e tanti casi di cronaca, da Perugia a Garlasco, continuano tragicamente a ricordacerlo). Riuscire a farlo, poi, attraverso il mezzo televisivo, sempre più spesso usato in modo da costituire la negazione stessa di tutto quello che è pensiero fondante, arte di qualità, emozione alta, diventa quasi un miracolo. E c’è di più. Incontrando dal vivo un credente della statura di Dante, Benigni non può far a meno di imbattersi nel profondo delle ’radici cristiane’ e umane della nostra fede.
C’era, la sera di giovedì, nella sua ’performance’, il riferimento alto a Tommaso d’Aquino e ad Agostino, due autori che i manuali scolastici «aggiornati » hanno praticamente cancellato.C’era, intero e vivo, il nome nuovo che Cristo ha dato a parole fondanti come vita, libertà, amore, bellezza ,verità.
C’era la «pietas» che, non per niente, è «cristiana». C’era l’invito a non «perdere » quell’ «attimo» capace di rivelarti il senso profondo dell’esistenza... Qualcuno, spenta la tv, ha detto: «Mai vista e sentita una catechesi così bella». Esagerato? Forse. Eppure si potrebbe davvero provare a tornare all’antico, a quando Dante si leggeva in chiesa (e in certe chiese, già lo si fa, ma pochi lo sanno, pochi ne parlano: anche se la cosa affascina, e il pubblico è sempre folto e molto attento). Avendo un Dvd a disposizione - e qualche amante del genere: un professore in pensione, un giovane di belle speranze, un prete di buoni studi... -, potrebbero riuscirci tante parrocchie. Trovando l’angolo e la ’guida’ adatti, si potrebbe provare a proiettarlo, un Benigni come questo, pure in quei non luoghi di cui parla Marc Augé: stazioni ferroviarie e della metro, sale d’aspetto degli aeroporti, ipermercati, discoteche. Là dove si accalcano, per riti collettivi senza nome, masse di giovani e non giovani, ai quali nessuno, oggi, dice mai quelle ’parole di vita’ che la poesia di Dante sa dire scaldando il cuore. Parole di cui tutti hanno bisogno, magari senza saperlo.