Le donne, gli uomini e la più grande bugia della storia
di Luciana Castellina (l’Unità, 28.06.2011)
C’è una bugia storica che non può essere svelata declassificando documenti segreti, come è stato per le Carte del Pentagono o per le armi di distruzione di massa di Saddam Hussein. A dirla sono le nostre moderne democrazie. Consiste nel far credere che, adesso, nascono bambini neutri e non più, come una volta, bambine femmine e bambini maschi.
Sulla base di questa menzogna hanno spacciato come universale l’intero edificio istituzionale dei nostri Paesi e la loro organizzazione sociale, che è invece rimasta tutta disegnata sull’essere umano maschio. Da quando la bugia è stata detta, le donne, per non rimanere prigioniere nel ghetto del privato familiare sottratto alle regole pubbliche, hanno dovuto vivere clandestinamente la propria identità, mascherandosi da essere neutro, cioè, nei fatti, da uomo.
Il femminismo recente ha per fortuna cominciato a sollevare dubbi su questa carnevalata. Purtroppo per disvelarla non basta desecretare carte, perché riconoscere l’esistenza di una differenza di genere cui viene nagato valore, significherebbe rimettere in discussione l’intera filosofia che ispira i nostri sistemi democratici, fondati sul principio di uguaglianza di fronte alla legge. Un’idea che ha avuto e ha molte buone ragioni, perché ha aiutato a eliminare i privilegi più vistosi e le esclusioni più inaccettabili, ma che non ha eliminato le disuguaglianze profonde: le ha nascoste come si fa con la polvere sotto i tappeti.
E così le istituzioni, i codici, la rappresentanza, l’organizzazione civile, l’assetto materiale della vita continuano ad assumere l’inesistente essere neutro come referente: un cittadino travestito da astratto, indistinto nel genere così come nella sua collocazione sociale reale.
Dire “ogni cittadino è uguale di fronte alla legge” è una conquista democratica ma anche un inganno. L’astrattezza della norma andrebbe colorata assumendo come metro il bisogno di ognuno, valorizzando la sua diversità e organizzando la vita collettiva in modo da dare uguaglianza concreta alle differenze.
Significherebbe costruire identità relazionali in cui ciascuno, anziché mutilarsi per entrare nella corazza dell’astratto, o rifugiarsi, mortificato, nella sua diversità diventata debolezza, si costruisce un’identità che assume l’altra o l’altro come risorsa critica di se stessa e di se stesso. A partire da qui si potrebbe ridisegnare un mondo migliore.
Detto questo, sono tuttavia d’accordo con Bobbio quando ci metteva tutti in guardia dai rischi di indebolire le garanzie formali di questa nostra democrazia che per ora è la migliore in circolazione. Ma d’accordo con Bobbio anche quando esprimeva la sofferta consapevolezza dei suoi limiti.
Mi basterebbe che almeno si sapesse della bugia storica e non si pensasse di ristabilire la verità concedendo qualche diritto a tutela delle minoranze (e peraltro le donne non sono una minoranza). Mi basterebbe insomma mettere una spina nel fianco della nostra democrazia imperfetta, e avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato. Non siamo alla fine della storia.
NOTA- MATERIALI SUL TEMA:
RIDISEGNARE UN MONDO MIGLIORE. Avere il coraggio di continuare a pensare il non ancora pensato ...
PER LA CRITICA DELLA FACOLTA’ DI GIUDIZIO E DELLA CREATIVITA’ DELL’ "UOMO SUPREMO" (KANT).
CREATIVITA’: KANT E LA CRITICA DELLA SOCIETA’ DELL’UOMO A "UNA" DIMENSIONE. Da Emilio Garroni, una sollecitazione a svegliarsi dal sonno dogmatico.
Federico La Sala
La sovranità che conta di più
di Luciana Castellina (il manifesto, 30 ottobre 2012)
La politica si reinventa. Per fortuna. Trova la strada di tematiche ufficialmente ritenute distanti da quelle delegate a rappresentarla nelle sedi istituzionali, e perciò si rivolge a soggetti estranei a quello che viene chiamato "professionalismo politico"; e, di conseguenza, si colloca anche in sedi diverse.
Per esempio qui a Torino dove si è svolta in questi giorni la politicissima triplice e concomitante scadenza promossa da Slow Food: il nono Salone del gusto (centinaia di migliaia di visitatori); la quinta assemblea di Terra Madre (migliaia di contadini in rappresentanza della rete mondiale nata nel 2004 e cui oggi aderiscono 135 paesi); il sesto Congresso internazionale di Slow Food (delegati provenienti da 96 paesi). Tema: «La centralità del cibo, punto di partenza di una nuova politica, di una nuova economia, di una nuova socialità».
Tanti appassionati dell’agricoltura dentro i tetri spazi del Lingotto, fabbrica dismessa dell’industria per eccellenza, la Fiat, fa un bel vedere: riequilibra il pensiero e rende più facile rendersi conto che il dramma che si prepara è la sparizione della terra, mangiata a bocconi giganti - migliaia di ettari ogni anno (6 milioni di ettari in trent’anni solo in Italia) - dalla cementificazione indotta da industrializzazione e urbanizzazione dissennate. Constatabile a vista d’occhio: fra Lombardia e Piemonte non c’è ormai che un ininterrotto agglomerato di edifici, la campagna ridotta a qualche aiuola. (Di cui le ciminiere spente delle fabbriche chiuse è solo un’altra faccia della crisi).
La nuova rapina dell’Africa
Che la terra sia tornata ad essere oro se ne stanno rendendo conto in tanti che cercano ora di accaparrarsela, investendo come un tempo si faceva col mattone: i cinesi per primi, che pure di spazio a casa loro ne hanno tanto, che stanno comprando l’Africa pezzo per pezzo. Land grabbing, così si chiama la nuova rapina.
Per fortuna è oramai da un po’ di anni che solo pochi dinosauri si azzardano ancora a parlare di Slow Food come del club dei buongustai. La nascita, dal suo grembo, di Terra Madre, la rete di contadini che continuano a produrre senza offendere la natura e facendo barriera conto la forza distruttiva dell’agrobusiness, ha contribuito a dare un colpo decisivo alle interessate accuse rivolte all’associazione fondata nel 1989, per combattere l’invadenza del fast food, da Carlin Petrini, oggi presidente di un’organizzazione diventata internazionale, negli anni ’70-80 consigliere comunale di Bra per il Pdup assieme al suo attuale braccio destro, Silvio Barbero, i più votati fra tutti i consiglieri del partito in Italia. Perché già allora avevano cominciato a gettare nella nostra cultura iperoperaista il seme fertile della Terra che, avevano capito, era un problema centrale. E in una regione come la loro, fra le Langhe e Barolo, il messaggio era stato capito subito.
Oggi che la coscienza ecologica si è fatta più forte ed estesa è più facile capire il guasto di politiche che allora erano state fatte passare come progresso. Innanzitutto la famosa "rivoluzione verde" avviata dalla Banca Mondiale, una modernizzazione dell’agricoltura del terzo mondo che ha sconvolto le campagne, introducendo le sementi prodotte dalle grandi corporations del grano, merce a buon mercato e perciò mortalmente competitiva con quella locale, ma dotata di un piccolo colossale imbroglio: si tratta di semi sterili, privi dei semi necessari alla successiva semina. Di qui l’indebitamento drammatico dei contadini (solo in India se ne suicidano per debiti dai 200 ai 300 mila l’anno, ma nessuno li conta), i più giovani che scappano verso le città, ingrossando le mostruose immense megalopoli dove sopravvivono mangiando rifiuti e rimanendo inproduttivi.
A chi dice che senza l’applicazione delle moderne tecnologie (non solo la meccanica, ma la chimica e la biogenetica) non si può salvare il mondo dalla fame bisognerebbe rispondere con più forza con i dati raccolti e analizzati dai tanti interventi al congresso di slow food, mostrare la contabilità di un modo di produrre e di vivere che avvelena gli esseri umani, inquina l’acqua che bevono, l’aria che respirano, producendo danni che riparare sarà tanto costoso da rendere impossibile. E denunciare lo spreco: oggi si produce cibo per 12 miliardi di persone, ma un miliardo non mangia a sufficienza.
Rispetto agli altri congressi di Slow questo ha mostrato una rete di quadri maturati, documentati, sperimentati, con tanta voglia, hanno detto molti di loro, di rendere sempre più politica la loro azione. Non basta l’azione dal basso, dobbiamo investire di più i centri del potere. Ma politica, e non solo godereccia, era quest’anno anche la folla che si è assiepata al Salone del gusto, accostandosi agli stand dove venivano offerti prodotti inusitati, perché antichi e non in scatola, il contrario delle "merendine", non solo per assaggiarli ma per informarsi, per assaporare un modo diverso di consumare, e anche di vivere. La diffusione a macchia d’olio dei mercatini contadini nelle nostre città, il «cibo a km zero», sottratto alle inutili e costose peregrinazioni attraverso il mondo di prodotti artefatti dalla conservazione, sono la testimonianza che si cominciano a capire i guasti del mercato.
Giusta retribuzione per i contadini
Costa troppo mangiar buono e pulito? Sì, costa di più. Ma lo slogan di Slow aggiunge un altro aggettivo su cui occorre riflettere: «giusto». Vuol dire che i contadini vanno retribuiti in modo giusto altrimenti scompariranno, abbandoneranno le campagne lasciandole al dissesto e al cemento, e la nostra nutrizione in mano a un gruppo di speculatori che lucreranno anche sulle nostre insorgenti malattie da malnutrizione. Di quanto spendiamo per nutrirci, solo pochi centesimi vanno in tasca a chi lavora i campi. E il consumismo sconsiderato ha stravolto la gerarchia dei nostri piaceri, riempiendoci di inutili gadget e privandoci delle cose buone. Slow ha dedicato le manifestazioni di quest’anno alla mela: la mela di Newton, l’ha chiamata per invitare ad usare la testa nelle nostre scelte alimentari.
Remunerazione giusta: perché da decenni i contadini non sono più pagati equamente per il loro lavoro, strozzati dall’agrobusiness e dai supermarket. In Europa i contadini al di sotto dei 35 anni sono oramai solo il 7 per cento. Ma anche questo è stato interessante al Lingotto: una quantità di giovani, e un crescente movimento di ritorno ai campi. Ne fa fede anche lo straordinario successo dell’Università di scienze gastronomiche creata a Pollenzo da Slow food 8 anni fa, ma oggi riconosciuta dallo stato, dove per tre anni si insegna agricoltura, veterinaria, biologia, medicina, storia. Un successo: vi studiano giovani provenienti da 70 paesi diversi, gli stranieri sono oltre il 50 per cento; e pare persino che, una volta laureati, trovino lavoro.
Il cibo è un diritto recita lo slogan di Slow food, e dunque l’alimentazione, come l’acqua, un bene comune. E invece, per l’Onu, è ancora solo diritto economico e sociale (Convenzione del 1966), non umano, mentre non potrebbe essere più chiaro che senza il cibo non c’è sopravvivenza, e dunque non c’è vita. L’acqua, sorella del cibo, ha conquistato questo status nel 2010, ora dovrebbe toccare al nutrimento.
Nella sala del congresso gremita di tutte le razze ci sono i colori di bandiera difficilmente accostate: quella dei delegati della Palestina e quella dei delegati di Israele, quella cinese e quella giapponese, quella cubana e quella americana. Quel che conta, per noi, dice un delegato, è la sovranità che conta di più: quella alimentare.
Paestum 2012. Passioni durature
di Lea Melandri *
Se mi chiedessero che cosa differenzia il femminismo dagli altri movimenti, direi innanzi tutto che nessuna rivoluzione ha creato rapporti di amicizia e passioni politiche così durature, percorso strade diverse, talora contrastanti e apertamente conflittuali, senza perdere il piacere di rincontrarsi. Paradossalmente, le ragioni che l’hanno portato spesso a dividersi e frammentarsi sono le stesse da cui può nascere all’improvviso inaspettata la spinta all’accomunamento. Ne indico solo alcune: il valore che si è dato alla vita personale, la pretesa di portare la parola in prossimità del corpo e di tutto ciò che di “impresentabile” ancora trattiene, la volontà di sottrarsi ad appartenenze precostituite per far crescere ogni volta la forza collettiva da singolarità autonome in relazione tra loro.
L’incontro che si è tenuto a Paestum -lo stesso luogo che ospitò 36 anni fa l’ultimo convegno del movimento delle donne, nel 1976 - si è presentato coi tratti felici di una “ripresa”: consapevolezza del patrimonio di saperi e pratiche che si sono andate sedimentando nel tempo, riattualizzazione degli assunti più radicali degli anni Settanta: uscita dal dualismo che ha contrapposto, insieme al destino dell’uomo e della donna, privato e pubblico, politico e non politico, soggettività e mondo, cura, amore e lavoro, produzione di beni e riproduzione della società.
Quella che fu vista allora come “la protesta estrema del femminismo” - il movimento che aveva costretto la politica a fare i conti con la “materia segreta” posta ai confini tra natura e storia, sulla linea d’ombra che la separa dalla “inquietante persona” (Rossana Rossanda)- può diventare oggi la “sfida” a un modello di sviluppo e di civiltà che ha subordinato il vivere al produrre, la creatività al consumo, la cura dei bisogni primari dell’umano alle regole dell’accumulazione capitalistica.
La “rivoluzione necessaria” comincia da qui, portando l’interrogativo del cambiamento possibile alle radici di una crisi che era già inscritta nell’atto fondativo del dominio maschile. Si tratta di collocare nel giusto ordine il rapporto tra mezzi e fini, correggere l’universalismo astratto dei diritti umani, proiezione di un “io maschile” che si è pensato libero dai vincoli biologici, partendo dalle vite reali di donne e uomini viste nella loro complessità.
Se è stato il femminismo ad aprire una breccia nella “politica separata”, sottraendo alla naturalizzazione e alla sacralizzazione esperienze umane essenziali, come l’amore, la sessualità, la procreazione, la dipendenza, la malattia, la nascita e la morte, non si può dire che il “primum vivere” sia ancora il grande rimosso della coscienza occidentale. Sia pure con modalità diverse, oggi è presente nei movimenti che si battono per la salvaguardia dell’ambiente, delle risorse naturali, dei beni comuni, della giustizia sociale, ma rimane incomprensibilmente passata sotto silenzio quella “risorsa”, quel “bene comune” che sono state per secoli le donne , assegnate per “destino biologico” alla conservazione della vita, e per questo incluse attraverso un’esclusione dal patto sociale.
La loro nascita come soggetti -e quindi come sguardo, pensiero, sensibilità sempre meno conformi a modelli imposti e incorporati- non sembra avere scalfito la collocazione rassicurante che ne è sempre stata data, da destra come da sinistra, tra i gruppi sociali deboli, tra cui oggi, oltre ai minori, la massa dei giovani colpiti dalla precarietà, dei disoccupati e dei migranti senza lavoro e senza patria.
L’oscillazione tra tutela o, al contrario, valorizzazione degli attributi specifici del femminile, se per un verso permette a politiche di stampo maschile di trincerarsi ancora dietro la maschera della neutralità, dall’altro continua ad esercitare sulle donne stesse il fascino di una complementarietà ambiguamente segnata sia dalle gerarchie di potere sia dal sogno di unità e armonia degli opposti.
Non si capirebbe altrimenti perché in tutti i gruppi nati fuori dai partiti negli ultimi decenni e debitori nei confronti del femminismo di scelte di democrazia partecipata, orizzontalità, attenzione al quotidiano, rifiuto della delega, pratica assembleare, le donne abbiano sostenuto il maggiore impegno organizzativo e contemporaneamente una contropartita sul versante ideativo e decisionale assai debole. Sulla dubbia “opportunità” rappresentata dalla femminilizzazione dello spazio pubblico e sulla seduzione che ha ancora sulle donne la chiamata al ruolo di salvatrici, si dovrà ancora discutere a lungo.
Dall’incontro di Paestum, che viene dopo decenni di percorsi carsici, inabissamenti e improvvise riemersioni, ci si può augurare che le donne, forti dell’autonomia che sono venute conquistando e oggi più presenti che in passato sulla scena pubblica, comincino, senza aspettare ruoli di potere, a“prendere parola” in tutti i luoghi in cui sono presenti e a promuovere senza paura del conflitto azioni efficaci di cambiamento.
* Libera Universita’ delle donne, 9-10-2012
300 preti austriaci scrivono un appello per il sacerdozio alle donne e una riforma della Chiesa
di Cindy Wooden
in “National Catholic Reporter” (“Catholic News Service”) del 12 luglio 2011 (traduzione di Maria Teresa Pontara Pederiva)
I vescovi austriaci hanno criticato l’attività di un gruppo di preti che chiede riforme nella prassi della chiesa - tra cui l’apertura al sacerdozio alle donne e agli uomini sposati - ma non hanno compiuto né minacciato azioni disciplinari.
Michael Pruller, portavoce del cardinale di Vienna, Christoph Schönborn, ha dichiarato che il cardinale ha in programma di incontrare a fine agosto/settembre i preti della diocesi viennese che sono tra i leader dell’"Iniziativa dei parroci", che ha lanciato un "Invito alla disobbedienza" nello scorso mese di giugno .
L’iniziativa, che afferma di raccogliere poco più di 300 membri, prevede di recitare una preghiera pubblica nel corso di ogni Messa per la riforma della Chiesa, di offrire la Comunione a tutti coloro che si avvicinano all’altare in buona fede, compresi i cattolici divorziati risposati, e privi di annullamento matrimoniale, di permettere alle donne di predicare durante la messa, e sostenere in ogni modo l’ordinazione delle donne e di uomini sposati.
In una intervista telefonica da Vienna, lo scorso 11 luglio, Pruller ha detto che per quanto ne sapeva, i vescovi austriaci non hanno discusso l’eventualità di una risposta comune da presentare ai preti. "Nessun vescovo ha minacciato azioni disciplinari, ma se un prete conduce la sua parrocchia lontano da quanto insegna la Chiesa, una sanzione la si dovrebbe prendere”, ha detto Pruller. Nell’ "Invito alla disobbedienza", si afferma che i preti si sono sentiti costretti a seguire la propria coscienza per il bene della Chiesa in Austria, anche perché i vescovi finora si sono rifiutati di agire in merito.
Il Cardinale Schönborn ha rilasciato una dichiarazione il 22 giugno dove diceva che avrebbe aspettato tre giorni prima di rispondere, perché non voleva reagire d’impulso "con la rabbia e il dolore" che l’iniziativa dei preti gli aveva causato.
"L’invito aperto alla disobbedienza mi ha letteralmente shoccato", ha detto. Il cardinale ha affermato che nessuno dei preti firmatari è stato ordinato con la forza e tutti loro hanno giurato obbedienza così come si sforzano di compiere la volontà di Dio. Il Cardinale Schönborn ha detto che è giusto per ogni uomo seguire la propria coscienza, e se i preti veramente credono di vivere un tale conflitto estremo tra la propria coscienza e la Chiesa, probabilmente essi dovrebbero considerare se appartengono ancora alla Chiesa. "Io credo e spero, però, che questo caso estremo non possa verificarsi qui da noi", ha scritto. Ma alla fine, "sta a tutti noi decidere se vogliamo percorrere la strada insieme al Papa, i vescovi e la Chiesa universale, o meno".
Il vescovo di Graz, Egon Kapellari, vice presidente della Conferenza episcopale austriaca, ha rilasciato una dichiarazione il 28 giugno, nella quale afferma che “le proposte dei preti stanno minacciando seriamente l’identità e l’unità della Chiesa cattolica".
“Mentre i pastori hanno ragione a essere preoccupati per fornire una cura pastorale migliore ai cattolici del Paese, la situazione in Austria non è così drammatica da richiedere ai preti di agire al di fuori della comunione con la Chiesa universale”.
“Una cosa è richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica alle necessità della Chiesa - ha detto Kapellari - altro è incoraggiare le persone a disobbedire agli insegnamenti e alla prassi della Chiesa stessa.”
Mons. Kapellari ha aggiunto che mentre la coscienza personale è riconosciuta dalla Chiesa come un "valore di tutto rispetto", è sbagliato insinuare che il papa e i vescovi non agiscono secondo la propria coscienza quando promuovono l’unità e il rispetto della tradizione della Chiesa.
IL MOVIMENTO DELLE DONNE CI RIPROVA
di LEA MELANDRI (Gli altri, 08.07.2011)*
Sembra un destino dei movimenti rendersi "visibili" solo quando scuotono la compagine istituzionale, le sue chiusure, i suoi modelli, la sua cecita’ rispetto a tutto cio’ che si muove intorno e al suo interno. La divisione tradizionale tra politica e societa’ e’ ancora cosi’ salda che e’ bastata l’imprevista partecipazione alle elezioni amministrative e al referendum per qualificare come "nuovi" protagonisti che sono da decenni tutt’altro che assenti dalla scena pubblica e dai suoi conflitti. I cortei degli studenti e dei precari, le occupazioni delle universita’, le singolari forme di lotta adottate negli ultimi tempi dagli operai, le grandi manifestazioni delle donne, dal 2006 al 13 febbraio, appaiono nonostante tutto "carsici" finche’ non producono cambiamenti riconoscibili nei luoghi deputati della politica.
"Il clima d’opinione, scrive Ilvo Diamanti ("La Repubblica", 27 giugno 2011), non cambia da solo. Ci vogliono nuovi ’attori’ in grado di riscrivere l’agenda pubblica imponendo all’attenzione dei cittadini nuovi temi (...) Si tratta di una partecipazione nuova, caratterizzata da componenti sociali tradizionalmente periferiche, rispetto all’impegno politico. In primo luogo le donne e i giovani".
Ma come e’ possibile che i "soggetti imprevisti" del ’68, a distanza di quarant’anni, siano ancora tali? Anche ammettendo che non si tratti di un disperante ritorno dell’uguale ma di una "ripresa" nel senso che Elvio Fachinelli dava a questo termine - il gia’ noto che cerca nuove vie di uscita -, non possiamo non chiederci se il primo nemico del cambiamento non sia la politica stessa, la strenua difesa dei confini astratti che si e’ data storicamente, fatti di esclusioni ingiustificate, di strappi violenti, privilegi, poteri e linguaggi sempre piu’ vacillanti. La radicalita’ della dissidenza giovanile e del femminismo degli anni ’70 e’ stata, principalmente, la ridefinizione dell’agire politico: il lavoro, ma anche la quotidianita’, la persona, i corpi, i ruoli sessuali, la formazione dell’individuo, le professioni, il rapporto con la natura, con l’ambiente, con la diversita’ sotto qualsiasi forma si presenti. Sul tracciato che si e’ aperto allora, si puo’ dire che l’onda lunga di alcuni movimenti non ha mai smesso di scavare solchi profondi e sempre piu’ estesi, fino a far balenare l’idea che "un altro mondo e’ possibile".
Eppure, la loro presenza e i cambiamenti di cui sono gli anonimi protagonisti, vengono registrati solo quando i "nuovi barbari" riescono ad abbattere qualche paletto della fatiscente impalcatura istituzionale: la cancellazione o la conquista di una legge, un risultato favorevole alle elezioni, l’accostamento alle regole di una politica ancora sostanzialmente separata dalla vita. A questa visione dicotomica non sfugge neppure l’analisi di un osservatore acuto come Ilvo Diamanti che, pur rilevando la "moltitudine di esperienze diverse, diffuse, articolate" del popolo che oggi esprime il suo desiderio di partecipazione, accosta ancora una volta le donne ai giovani, agli studenti e agli operai. Mi chiedo se il femminismo stesso, la’ dove ha rinunciato a interrogarsi sul rapporto tra il corpo e la polis, la sessualita’ e la politica, non abbia avallato involontariamente una classificazione che vede le donne come un gruppo sociale tra altri, sia che le si consideri alla stregua di una minoranza svantaggiata o, al contrario, una "risorsa viva" da reintegrare, a sostengo di un sistema in declino.
"Il risultato vero che la manifestazione del 13 febbraio ha dato con successo - scrive Franca Chiaromonte (www.donnealtri.it, 17 giugno 2011) - e’ stato quello di mettere in scena una mobilitazione di popolo a egemonia femminile (...) quello che voglio dire e’: cosi’ come innumerevoli manifestazioni - che di solito chiamiamo di carattere generale, per es. quelle dei sindacati o dei partiti -, sono piene anche di donne (...) altrettanto ora si renderanno possibili e ugualmente potenti, se non di piu’, manifestazioni all’inverso, dove cioe’ saranno le donne a segnare i passi decisivi".
Le oltre duecento piazze che hanno accolto l’appello del comitato romano "Se non ora quando" possono far pensare a una forza unitaria delle donne, capace di imporre i suoi temi all’agenda politica, cosi’ come suggerire l’idea che uno spazio pubblico segnato per secoli dall’autorita’ maschile cambi finalmente volto. Ma se si vuole dare una risposta alla domanda di continuita’ che viene oggi dai comitati diffusi su tutto il territorio nazionale, e’ importante - come ha scritto Serena Sapegno ("Gli Altri", primo luglio 2011) tener conto che, se il 13 febbraio ha fato cadere "vecchi steccati e pregiudizi aprendosi a donne molto diverse per eta’ e ceto sociale, cultura e esperienza di vita, posizioni politiche, opzioni religiose, scelte sessuali", non per questo viene meno il carattere problematico, contraddittorio, della "frammentazione" che caratterizza da sempre il movimento delle donne. Connaturata a una pratica che parte da "se’", dall’esperienza particolare di singole, gruppi, associazioni, per estendersi a un orizzonte piu’ generale, la pluralita’ dei soggetti, delle situazioni locali, dei percorsi storici, mal sopportano strette organizzative omologanti, cosi’ come la rassegnazione a vedere trasformarsi l’autonomia in isolamento.
L’assemblea di Snoq che si terra’ a Siena il 9-10 luglio non puo’ non richiamare alla memoria tentativi analoghi che quasi sempre hanno fatto seguito a mobilitazioni riuscite, ma la ripresa, oltre che essere in questo momento nelle aspettative di molte, prende una valenza nuova e la speranza di riuscita dal contesto in cui avviene. La concomitanza tra le piazze segnate dall’autonomia del movimento delle donne con quelle occupate per giorni dai comitati elettorali e referendari, ha creato occasioni di incontro, scambio, condivisioni inaspettate tra donne di formazione culturale e politica diversa, tra associazioni del femminismo e donne provenienti da ambiti sindacali e partitici. Per alcune citta’, come Milano, si tratta di una situazione nuova, che richiede come tale attenzione, impegno, disponibilita’ a interpretare le ragioni che ci hanno tenuto a lungo separate, estranee e diffidenti le une verso le altre. A un livello ancora piu’ esteso, quale e’ un’assemblea nazionale, sara’ possibile fare interagire realta’ cosi’ diverse, darsi una forma minima di organizzazione che non ricalchi modelli noti - lobby o partiti -, trovare "un sentire comune, terreni condivisi, azioni concertate"?
Sara’ questa la sfida maggiore: non scambiare la forza collettiva con l’obbedienza al pensiero unico, la valorizzazione delle differenze con l’assenza di conflitto, la solidarieta’ con l’adeguamento. Molto dipendera’ dall’ascolto reciproco e dall’apertura ai temi molteplici che via via sono venuti allo scoperto nei percorsi della coscienza femminile, oltre che dall’attenzione ai nessi non sempre evidenti che li attraversano. Non solo percio’ la rappresentazione della donna nei media, l’ideologia assorbita oggi dalle leggi del mercato e della pubblicita’ che da sempre l’ha identificata col corpo - erotico e materno -, ma anche la violenza domestica, la subalternita’ inconsapevole alla cultura maschile dominante, la divisione sessuale del lavoro, che ancora vede le donne - direttamente o attraverso la messa al lavoro di donne, per lo più straniere - responsabili "naturali" della conservazione della vita, l’estensione indebita del concetto di maternita’ a tutte le funzioni di cura indifferentemente prodigate a persone non autosufficienti e perfettamente autonome, la tentazione di assolutizzare, assumendole come proprie, le attrattive femminili che l’uomo ha asservito ai propri bisogni e desideri.
Dietro i corpi artificiali e mercificati, "offerti ossessivamente al consumo", come scrive Sapegno, ci sono donne non meno reali di quelle che giustamente criticano l’imposizione di modelli. Si possono trovare di volta in volta "obiettivi strategici" all’azione comune, se si ha, al medesimo tempo, la voglia di costruire una visione di insieme che si avvalga della ricchezza di saperi prodotta, paradossalmente, proprio dalla frammentazione conosciuta finora.
* Fonte: http://www.universitadelledonne.it/
Quando? Ora!
di Cinzia Sasso *
Che meraviglia la manifestazione di Siena. Ti guardi in giro, vedi le facce, i cappelli, le magliette, i sorrisi, e ti chiedi: ma quanto sono belle, le donne? Immaginate la stessa scena riempita da un’altro genere... beh, sarebbe proprio diversa. E però non è solo questione di estetica. Questo è un appuntamento di sostanza: non era facile immaginare che cinque mesi dopo le donne - di tutte le età, professioni, cultura, origine geografica - avessero ancora la forza e la voglia di incontrarsi tutte insieme e di mettere al centro del dibattito politico proprio se stesse.
Era successo il 13 febbraio, ma allora le piazze d’Italia piene di donne potevano sembrare la risposta di istinto a quella gigantesca offesa collettiva che era stata la scoperta - e soprattutto la spiegazione da parte dei protagonisti - delle notti di Arcore. Il guerriero stanco aveva spiegato che era suo diritto rilassarsi così, con ragazze a cachet. Chiarendo due radicati concetti: che il guerriero è il maschio e che le donne quello sono capaci a fare. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso, è chiaro: perché alle spalle avevamo la scelta di una classe dirigente femminile fatta con questi criteri e la mancanza assoluta di una idea del mondo più vicina alle donne e dunque alla vita e alla realtà.
Non so se sia bastato riempire le piazze e gridare collettivamente ”non ne possiamo più”; certo in questi cinque mesi molte cose sono cambiate. Oggi le giunte delle più importanti città che hanno rinnovato la loro amministrazione - da Milano a Cagliari - vedono uomini e donne, assessori e assessore, ugualmente divisi. E se non tutti hanno la lucidità di decidere in autonomia questo mix di genere, oggi c’è pure una legge che ti costringe: legge imperfetta, quella delle quote nei cda, ma comunque per l’Italia un passo avanti radicale come una rivoluzione.
Siena, oggi, è dunque una griglia di partenza avanzata. Forse davvero il momento di svolta. Il luogo dove alla domanda “quando?” è possibile rispondere “ora”. Buon lavoro, ragazze. Il futuro è nelle nostre mani: noi lo sappiamo, ma adesso lo spieghermo anche a tutti gli altri.
* la Repubblica - Blog di Cinzia Sasso: WWWOMEN
http://sasso.blogautore.repubblica.it/2011/07/09/quando-ora/?ref=HREC1-2
Libertà per le donne Se non ora quando
di Michela Marzano (la Repubblica, 10 luglio 2011)
Non ci sarà mai un buon governo finché si calpesteranno o si dimenticheranno i diritti delle donne. La prima ad averlo detto era stata, nel 1791, Olympe de Gouges, due anni prima di essere ghigliottinata. Oggi sono tante le donne che condividono quest’affermazione. Lo dimostra la manifestazione di Siena.
Dove è stato scelto di farne uno degli slogan dell’incontro organizzato per questo fine settimana dall’ormai celebre movimento "se non ora, quando?". Sono tante e diverse le donne che non vogliono più essere ostaggio del potere maschile. Tante e diverse coloro che desiderano battersi perché gli uomini e le donne siano realmente uguali. Uguali in termini di diritti e di libertà. Uguali in termini di opportunità lavorative e intellettuali.
Uguali non solo di fronte alla legge, ma anche nella vita di tutti i giorni. Perché, nonostante tutte le conquiste degli anni Sessanta e Settanta, la condizione della donna in Italia si è oggi notevolmente degradata e l’uguaglianza effettiva sembra ormai una mera chimera. Quante donne, pur lavorando come gli uomini (e talvolta più di loro) sono costrette ad occuparsi da sole dei figli e della casa? Quante ragazze hanno gli strumenti critici necessari per decostruire le immagini e i discorsi che arrivano loro attraverso la televisione e la pubblicità?
La strada per l’emancipazione e l’uguaglianza è ancora lunga. Soprattutto quando ci si rende conto che, nonostante tutto, il concetto di uguaglianza viene ancora oggi frainteso. Molti continuano a confonderlo con quello di identità, come se, per godere degli stessi diritti, gli esseri umani dovessero per forza essere identici. Come se le donne, per potersi affermare a livello lavorativo e rompere il famoso "soffitto di cristallo", dovessero necessariamente rinunciare alla propria femminilità e "diventare uomini". L’uguaglianza per cui ci si batte oggi, invece, non ha affatto lo scopo di cancellare ogni differenza tra gli uomini e le donne, di tendere al "neutro", o di considerare che valore e dignità dell’essere umano dipendano solo dalla razionalità priva di sesso.
L’uguaglianza per la quale tante donne si mobilitano oggi è un’uguaglianza che valorizza le differenze, tutte le differenze. Come scriveva negli anni Novanta la femminista americana Audre Lorde: «Stare insieme alle donne non era abbastanza, eravamo diverse. (...) Ognuna di noi aveva i suoi propri bisogni ed i suoi obiettivi e tante e diverse alleanze. C’è voluto un bel po’ di tempo prima che ci rendessimo conto che il nostro posto era proprio la casa della differenza».
Certo, ci sono sempre quelle che pretendono di aver capito tutto e che vorrebbero imporre alle altre la propria concezione della femminilità o la propria visione della sessualità. Ciò che è giusto o sbagliato. Quello che si deve o meno fare. E che finiscono paradossalmente col proporre una nuova forma di "paternalismo al femminile", un mondo in cui poche donne avrebbero il diritto di imporre a tutte le altre il proprio modo di pensare e di agire.
Ma si tratta sempre e solo di una minoranza. Perché la maggior parte delle donne che si battono oggi per la difesa dell’uguaglianza e della libertà hanno ormai capito che la donna, per natura o per essenza, non è proprio nulla. Non è naturalmente gentile, dolce, materna, fedele. Esattamente come non è naturalmente perfida, libidinosa o pericolosa. Come l’uomo, la donna ha tante qualità e tanti difetti. Solo che, a differenza dell’uomo, non ha ancora avuto la possibilità di mostrare al mondo ciò di cui è capace. In quanto donna, non ha ancora accesso alle stesse opportunità degli uomini e viene spesso penalizzata.
L’unica vera battaglia che vale la pena di combattere oggi perché l’uguaglianza tra gli uomini e le donne diventi effettiva è quella per la libertà. È solo quando si è liberi che ci si può assumere la responsabilità delle proprie scelte, dei propri atti e delle loro conseguenze: la libertà è il cardine dell’autonomia personale; ciò che permette ad ogni persona di diventare attore della propria vita. Al tempo stesso, però, perché la libertà non resti un valore astratto, è necessario organizzare le condizioni adatte al suo esercizio.
Alla libertà come "non interferenza", la famosa libertà da della tradizione filosofica liberale, si deve aggiungere la libertà come "non dominazione" della tradizione repubblicana, la libertà di, quella libertà effettiva che permette ad ognuno di partecipare alla "cosa pubblica" senza subire le conseguenze di discriminazioni intollerabili sulla base del sesso, dell’orientamento sessuale, del colore della pelle o della fede religiosa.
L’EVENTO
Donne di tutto il mondo unitevi
le nuove vite del femminismo
Piazze, blog, manifesti, riviste, documentari. Dall’Italia, che si ritrova oggi e domani a Siena, alla Francia fino ai paesi arabi. È il nuovo mondo delle ragazze che, dopo le storiche lotte, si sta riaffacciando sulla scena. Con molte differenze e un tratto comune: la voglia di tornare ad essere visibili e di prendersi il futuro
di BENEDETTA TOBAGI *
BENVENUTI nel nuovo mondo. Delle donne. Oggi e domani quelle italiane si incontrano a Siena, ma tutti i giorni si ritrovano sul web, nelle piazze francesi o sulle riviste inglesi. The F world, dove F sta per femminismo, è il nome di un popolare sito web nato nel 2001 divenuto un saggio di successo, ed è il titolo del numero estivo che Granta, trimestrale cultural-letterario britannico tra i più influenti a livello globale, dedica a "esplorare i modi in cui, dalla Gran Bretagna al Ghana, il femminismo continua a influenzare, affrontare e complicare le cose" in un mondo inesorabilmente dominato dagli uomini.
In Francia, a quarant’anni dal Manifesto delle "salopes" (termine gergale la cui area semantica oscilla tra "puttana" e "stronza"), cioè le 343 donne, tra cui Catherine Deneuve e Simone de Beauvoir, che il 5 aprile 1971 uscirono allo scoperto dichiarando di aver abortito illegalmente, Libération ha pubblicato la versione aggiornata dalle loro "nipoti".
Negli ultimi mesi si sono viste parecchio: dalle proteste "situazioniste" con barbe finte contro il sessismo imperante alle marce in abiti succinti, ripresa delle "slut walk" (marce delle "salopes") nordamericane contro chi ancora sostiene che un abbigliamento sexy "provoca" gli stupratori. Oltremanica, "Million Women Rise" organizza affollate manifestazioni antiviolenza, mentre le italiane rispondono al rinnovarsi del richiamo talmudico "Se non ora quando". Questo sommovimento internazionale è solo un riflesso d’indignazione al proliferare degli scandali sessuali del potere e al problema endemico e trasversale delle violenze, oppure il femminismo sta davvero tornando ad essere un attore protagonista sulla scena globale?
La mobilitazione torna a coinvolgere le giovanissime, rileva il Guardian, ma s’interroga su come verrà canalizzato politicamente questo patrimonio d’entusiasmo e rinnovata consapevolezza. Un confronto tra i due manifesti francesi mette bene in luce potenziale e criticità del nuovo femminismo. Negli anni Settanta, la battaglia per l’aborto libero e gratuito fu un collante formidabile, insieme alle lotte per la parità salariale, il divorzio, le modifiche al diritto di famiglia.
Obiettivi chiari, perseguibili con battaglie mirate e referendum. Oggi, l’agenda richiede azioni politiche, sociali, culturali complesse e mediate. Sradicare il sessismo è un compito educativo transgenerazionale. Non basta un referendum per trasformare l’immagine della donna nei media. Tutelare il lavoro impone di operare nel quadro più ampio dei provvedimenti contro la crisi. Non si tratta più solo di donne: SNOQ ha scelto uno slogan come "rimettiamo al mondo l’Italia", facendo storcere parecchi nasi femministi-ortodossi.
Sull’onda della nuova fioritura, si rinnova il dibattito su cosa il femminismo sia stato e debba essere. L’editorialista del Times Caitlin Moran in How to be a woman cestina la nozione di "sorellanza" ("quando hanno cominciato a confondere femminismo e buddismo?") e sembra tornare a The subjection of woman di John Stuart Mill (1869): il femminismo è uguaglianza tra i sessi, con buona pace del pensiero della differenza. Tante donne preferiscono parlare di "movimento delle donne ", per marcare un’autonomia ideologica rispetto al passato e scansare i sarcasmi e le vecchie fratture interne, che tendono a riproporsi. Sulla nascita di una autentica koiné (neo)femmista grava il mancato superamento di antichi dilemmi. Senza una vera "comunità epistemica" (un insieme di concetti, spiegazioni, ideali e policies condiviso) argomenta l’accademica Sylvia Walby nel saggio The future of feminism, il femminismo non riuscirà a dare la spallata fatale al paradigma patriarcale. Ed è sulla sessualità che persistono le divisioni più profonde: per questo, afferma Walby, ben poco di rilevante è stato scritto dopo il Rapporto Hite, la dirompente inchiesta sulla sessualità femminile del 1976.
Non a caso, è sul moralismo che puntano i detrattori delle proteste rosa: le donne fatalmente si dividono sull’opportunità dei riferimenti alla prostituzione, sul rischio di fossilizzarsi nella condanna delle "olgettine". Affibbiarsi l’etichetta di sluts o salopes e vestirsi come passeggiatrici è un’ironica rivendicazione di controllo del proprio corpo o l’ultima e più subdola forma di autodenigrazione? Hanno ragione le neofemministe che invocano una pornografia di donne per le donne? La Walby individua il fattore culturalmente più disgregante per il movimento nell’affermarsi di una "svolta neoliberista" anche nell’intimità. E’ davvero libera la donna che pratica sesso per ricavarne potere o vantaggi competitivi attraverso la manipolazione del piacere altrui, anziché cercando l’appagamento e l’incontro con l’Altro? La libertà sessuale non si riduce a un nuovo conformismo o, peggio, alla riedizione di una subalternità? Se lo chiedevano già le ragazze alla fine degli anni Settanta le cui voci e volti ci ha restituito Alina Marazzi nel documentario Vogliamo anche le rose: allora, se non la davi a tutti i "compagni" eri una frigida borghese. Oggi, rischi di passare per una frigida moralista, tra sguardi di sospetto e compassione.
La frammentazione nel pensiero femminista, d’altra parte, è specchio del vissuto delle donne: dunque non è un male, ma un sintomo di apertura e di vitalità. L’agenda politica è complessa come la nostra vita. Dentro e fuori, condizioni materiali e aspetti simbolici, personale e politico sono inestricabilmente mescolati. L’ordine simbolico si evolve con lentezza, oggi si incrociano aspettative sociali appartenenti a "ere geologiche" diverse. Le donne devono essere troppe cose insieme e Caitlin Moran legge nell’epidemia di nuovi disturbi alimentari come la "sindrome da abbuffata" un tragico compromesso: le donne sfogano fragilità e frustrazioni in una dipendenza che, diversamente da alcol e droghe, non compromette l’efficienza. Un’inchiesta britannica ha rivelato come l’insicurezza femminile sia parte del soffitto di cristallo che tiene le donne lontane dal top management. Jennifer Egan, vincitrice del Pulitzer 2011, ammette il surplus d’insicurezza che accompagna ogni scrittrice che sperimenti strade nuove.
L’archetipo materno della cura e del dono di sé e bisogni atavici di sicurezza e protezione mantengono profonde risonanze interiori nell’animo delle donne che hanno conquistato quella "stanza tutta per sé" vagheggiata da Virginia Woolf nel 1928. Spesso, abitarla significa ancora rinunciare a una nursery profondamente desiderata, o trovarsi in una camera matrimoniale vuota, e i tagli al welfare innescano ed esacerbano questi dilemmi interiori. Il nuovo femminismo conosce la fatica di muoversi tra le molte stanze, vuote o assediate, abbandonate o sovraffollate, attraverso cui ogni donna cerca di costruire il senso di sé e trovare il suo posto nel mondo, i rischi e il prezzo dell’agognata libertà. E cerca gli strumenti per attenuarli.
La riscoperta della sorellanza del "noi", con buona pace di Moran, è il primo passo. Non è ancora emerso un canone di testi per la battaglia delle donne del XXI secolo. Interrogandosi su quale sia la nuova bibbia femminista Granta suggella questa situazione sospesa, confusa ma feconda, chiedendo a tre scrittrici di parlare dei libri che hanno condizionato il loro personale romanzo di formazione. Farà sempre bene leggere classici come Memorie di una ragazza per bene, La mistica della femminilità o Tre ghinee. Ma la nuova bibbia dobbiamo scrivercela da noi.
* la Repubblica, 09 luglio 2011
Se non ora quando
Un fine settimana all’insegna del confronto.
«Dare voce a coloro che non hanno voce»
Nuovo protagonismo
Cristina Comencini: «Faremo un bilancio per guardare al futuro»
Una valanga rosa verso Siena «Anche stavolta saremo migliaia»
di Augusto Mattioli (l’Unità, 08.07.2011)
Quelle piazze piene del 13 febbraio le donne non le hanno dimenticate. Quel giorno è stato solo un inizio. Da allora hanno continuato a lavorare insieme, a dibattere sul loro ruolo, sui temi che le avevano indotte ad andare in piazza. Al di là delle appartenenze politiche. Come un fiume carsico, le donne del 13 febbraio tornano a farsi vedere e sentire. E lo fanno a Siena questo fine settimana. Si incontrano nella città del Palio per fare un bilancio di ciò che è stato fatto fino ad oggi, discutere ancora dei temi che maggiormente le interessano (il lavoro, la maternità, la rappresentazione che viene fatta del loro corpo, rapporto uomo-donna) e per capire cosa fare nei prossimi mesi della forza che, con le loro manifestazioni, hanno mostrato di possedere.
«L’appuntamento di Siena non sarà certo la conclusione del nostro lavoro ha ricordato ieri la regista Cristina Comencini ma faremo un bilancio di ciò che abbiamo fatto e rilanceremo andando avanti con iniziative comuni e forti». «In effetti ricorda Albalisa Sampieri, del comitato senese Donne del 13 febbraio abbiamo lavorato molto in questi mesi per l’appuntamento di Siena. Sarà importante che prendano la parola le donne comuni». Con le loro testimonianze. Quella di Sofia Sabatino, per esempio, che è portavoce nazionale della rete degli studenti. O quella di Sohueir Katkhuouda, presidente dell’associazione nazionale delle donne musulmane in Italia. O della teologa Agnese Fortuna.
La due giorni senese sta lievitando di ora in ora. Il numero delle partecipanti dovrebbe superare quota 1200. Una presenza che ha spiazzato le organizzatrici senesi e nazionali che si dichiarano soddisfatte. Per questo motivo è stata addirittura cambiata la sede dell’incontro dal museo Santa Maria della Scala alla vicina Piazza sant’Agostino nei pressi del Liceo Classico Piccolomini che ha messo a disposizione un’aula multimediale per la sala stampa. Un piccolo segnale della disponibilità della città ad accogliere le donne di «Se non ora quando». Del resto anche l’appello ai senesi per ospitare nella propria abitazione alcune di loro è stato accolto per una settantina di persone. Collaborazione piena anche dalle istituzioni, a partire dal Comune. «Siamo orgogliosi ha sottolineato il sindaco Franco Ceccuzzi che Siena sia stata scelta per questo appuntamento. Spero che da questa città continui a soffiare quel vento che ha innescato qualcosa di importante nel nostro Paese come il protagonismo delle donne».
Risorgimento civile. Le donne costruiscono
Il 13 febbraio è nato un movimento vero
di Maria Luisa Busi (l’Unità, 09.07.2011)
Quel giorno è iniziato un nuovo Risorgimento civile. Siamo state noi a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita
Ma parliamoci chiaro. Chi sta reggendo sulle spalle il nostro paese? Ma le avete viste le donne per strada? Le vedete le donne negli uffici, nelle banche, negli ospedali, nei supermercati, nelle case? La vedete o no la fatica delle donne, la vita da funambole, sempre in bilico, sempre incerte se ce la faranno a fare il passo successivo? E poi ce la fanno, ce la fanno sempre. Nonostante tutto. Nonostante la crisi economica morda persino i consumi alimentari, nonostante ci siano più precarie che precari, nonostante la più bassa occupazione femminile, nonostante siano più preparate e meno pagate, nonostante un welfare tra i peggiori d’Europa, nonostante un paese che si riempie la bocca della parola famiglia, mentre accetta che quasi un milione di donne lasci il lavoro perché costrette, alla nascita del primo figlio.
Le donne fanno. Terza persona plurale del verbo fare. Il verbo che piace di più alla propaganda di questi tempi. Solo che le donne fanno davvero. Arriverà cosi tanta gente oggi e domani a Siena che han dovuto spostare la location per la due giorni dello SNOQ, acronimo del movimento senonoraquando, quello delle donne che han portato un milione di persone nelle piazze italiane, il 13 febbraio scorso, tanto per capirci. Per chi se ne fosse dimenticato, l’inizio di un nuovo Risorgimento civile.
Diciamoci la verità. Pochi credevano che sarebbero andate avanti. Molte invece sì. Ne erano certe. Perché le donne fanno. E le donne sanno quando si può, quando si deve. Hanno detto: si sa, le donne non sanno fare squadra....Si sa le donne sono nemiche delle donne, hanno sibilato. Ma cosa volete che dica un paese maschile e maschilista, ripiegato in se stesso, conservatore, rattrappito, asfittico, vecchio e un po’ triste, che per anni e da anni gira come un criceto su una ruota che un ditino muove, e a ogni giro c’è un attacco alla magistratura, e poi alla Costituzione, e poi a una qualche Istituzione dello Stato, e poi alla scuola pubblica, e poi ai precari. Un paese dove un Ministro della Repubblica si permette di definirli «l’Italia peggiore...» E guarda caso, se lo consente con una donna.
E hai appena finito di inorridire per le feste eleganti a base di lap dance che spuntano le strutture Delta. Ma non riesci a prendere ossigeno che si ricomincia, un altro giro, e sempre la stessa ruota e il dito, sempre quello, che fa girare noi tutti criceti e facendoti girare infilano di striscio, come giocolieri maldestri, un’altra bella norma ad personam che quando li scoprono la ritirano, come bambini colti col dito nella marmellata. Scusate, si scherzava. E mentre cerchi di risollevarti e non sai più se dal pianto o dal riso, stiam pur certi che ripartono, e le loro televisioni dietro e quelle che controllano pure, nel paese con il più sfrontato conflitto di interessi del mondo occidentale, ripartono con l’attacco alla magistratura e alla Corte Costituzionale e ce ne sarà forse ancora un po’ di nuovo anche per il Capo dello Stato e poi per la scuola pubblica e poi per gli omosessuali e, ci mancherebbe, anche per le donne.
Come dopo quella domenica 13 febbraio, che si poteva fare come al solito e prolungare il pranzo domenicale e magari vedere le trasmissioni demenziali in televisione, quelle giovani donne in sottoveste a febbraio negli studi televisivi dove a febbraio fa freddo e loro lì a darsi sulla voce nell’arena di turno di conduttori piacioni che le invitano per fare tappezzeria, e loro lì perchè non c’e’ altra immagine che passi, altre storie che si impongano, mica si puo’ invitare un’attrice che recita Plauto in teatro! Lì, facendosi strumento di una subcultura che le vuole ospiti sottomesse e semimute, le gambe attorcigliate come equilibriste a discutere di argomenti su cui cercano di mimare una qualche competenza. Mai vista una rettrice di Università alle quattro del pomeriggio. Eppure basterebbe fare tre telefonate.
Perché sono solo tre, in tutta Italia. Si poteva dunque stare lì, davanti a quello specchio deformante che dai, sì, un po’ ci ha deformati, fin dai tempi in cui ci aspettava a casa silente e quando lo accendevi ti diceva gaio: corri a casa in tutta fretta c’è un biscione che ti aspetta. Ci ha trasformati un po’, e lo abbiamo lasciato fare, riuscendo talvolta a tirar fuori il peggio da noi : l’indifferenza per il bene comune, l’irresponsabilità, la pigrizia, la maleducazione, la mancanza di rispetto per le donne, quindi per tutti. Ci hanno provato con forza a cambiarci la testa, prima piano piano, poi con determinazione crescente, fino a fabbricare una macchina perfetta in ogni suo meccanismo: la macchina del populismo mediatico,
La macchina del consenso. La notizia è che non ci sono riusciti. Molte e molti hanno posto distanze, letto libri, giornali liberi, sono andati al cinema, a teatro, si son collegati con internet al mondo reale, o semplicemente han parlato con gli altri, con quelli che come loro non ce la fanno, con chi non ha il posto all’asilo nido, o con chi ha la vita scritta a matita per un contratto ogni tre mesi, mal pagate, mal pagati, senza orizzonte, che non possono pagare l’affitto, figuriamoci fare un figlio. Ognuno si è difeso come ha potuto, in questi anni un po’ infelici, da quella macchina ancora attiva che vuole “inculcare”quella sìche l’immagine è tutto, tanto che quel che appare diventa reale, la finzione si sovrappone alla realtà e diventa il vero.
E quel che più conta per costruire il consenso, di donne e uomini: farli diventare consumatori, un imperativo di questa nostra società liquida. Molti l’hanno oscurato, come si copre un defunto, con un sudario, quello specchio deformante e deformato, che trasmette una realtà che ha dell’osceno, nella nudità del re. L’hanno fatto con il velo dell’indignazione prima, della ribellione pacifica poi, persino con un’arma micidiale: la risata. E la voglia di partecipare è divenuta bisogno di diffondere l’antivirus: senso e civiltà, regole e diritto. Lo hanno fatto coi referendum, attraverso la rete, scavalcando la tv ostile o complice, che nicchia o non informa. E le figlie e i figli hanno così spiegato ai padri e alle madri, e loro ai nonni, ai conoscenti e agli amici qual era la posta in gioco: che siamo opinione pubblica, e non un pubblico. Così la brezza è diventata vento. Così non ce l’han fatta. E il così fan tutti, il chissenefrega, non ci ha mangiato come un alien.
Ma tutto è cominciato lì, non dimenticatelo. Tutto è cominciato dalle donne, quel 13 febbraio. Perché le donne fanno. E quando fanno non fanno solo per loro, fanno per tutti. E questo deve rimanere storia. Sono state le donne a dire basta a un’Italia che non c’e’, che non è maggioranza. Sono state le donne a non voler più farsi dire non solo chi sono, ma chi siamo tutti, uomini e donne in questo paese, chi siamo, cosa dobbiamo provare, cosa ci deve emozionare, cosa dobbiamo ignorare. Sono state le donne a fare uscire tutti dalla solitudine che ci stava divorando, quella che ti prende quando ti accorgi che vivi la vita di un altro, che ti vogliono consumatore e non cittadino della tua stessa vita.
Per questo quel 13 febbraio le donne sapevano già, con quel senso che sanno dare le donne alle cose, che da lì cambiava tutto. E tutte e tutti quelli che c’erano stritolati allegramente in Piazza del Popolo a Roma come in centinaia di piazze italiane, hanno risposto che non siamo né bambini né cavalli che hanno bisogno della caramella o dello zuccherino per digerire le notizie più pesanti, quelle della politica e della cronaca, come ha detto il direttore del più importante telegiornale della televisione pubblica, per giustificare notizie di primario interesse come quella della medusa cubo nei mari australiani, mentre se ne nascondono altre. E davanti a quella moltitudine sembra vederlo lo stupore che diventa rabbia e balletto di cifre e denigrazione sloganistica: «le solite snob della sinistra, poche radical chic». Ma cosa vuoi che dicano, col paese che sfugge, che non crede più al pifferaio magico e al suo specchio deformante!
Nessuno ci credeva alla vigilia che potessero arrivare a tanto, a quei numeri, a quella massa, a radunare un popolo, le donne, quando si muovono. Quando decidono di dire basta. Finirà lì, qualcuno ha detto, dopo quel 13 febbraio. Tanto poi si dividono, si dissolvono, pluff, come bolle di sapone. Si sa, le donne non sanno far squadra. Come se quelle piazze che non bastavano a contenere tutte e tutti struccate e allegre sessantenni, fichissime arrabbiate ventenni, tacchi alti, scarpe da ginnastica, piumini e cappotti, collane di perle e piercing sulla lingua, capelli rasta e taglio alla Carfagna, volti di rughe serene e labbra e zigomi gonfi come pane e passeggini con neonato e cani al guinzaglio e la suora sul palco e la sindacalista, la regista e l’insegnante, la precaria e la ricercatrice, la disoccupata e la professionista e madri e nonne e single e mariti con la panzetta e compagni e fidanzati e amici... come se quella ritrovata agorà non fosse che una cosa soltanto: L’Italia che chiede rispetto e uguaglianza. Se fosse la loro direbbero la migliore. Noi diciamo semplicemente quella vera. Perché le donne fanno. Oggi, domani. Sempre.
«Se non ora quando un Paese per donne?
Ecco perché è tempo di tornare a parlarci»
Il 9 e il 10 luglio ci ritroveremo a Siena: una piattaforma aperta per dare voce a chi si è riconosciuto nel movimento del 13 febbraio. Quello che ha detto «basta» e che ora vuole scrivere l’agenda per l’Italia di domani
di Valeria Fedeli (l’Unità. 03.07.2011)
Tornano le donne del 13 febbraio. Non siamo più solo noi, donne di snoq, le promotrici di quella straordinaria e inedita giornata di mobilitazione nazionale, a considerare questa data uno spartiacque fondamentale dell’avvio del cambiamento nel nostro Paese. La centralità politica delle donne nel determinare il cambiamento che stiamo vedendo nei risultati delle elezioni amministrative, nei referendum, dice molto di quanto quela giornata, con la partecipazione di donne e uomini di ogni età e condizione, cultura, appartenenza, ha segnato l’avvio del risorgimento civile, etico e democratico di questa fase storica dell’Italia. Una partecipazione popolare guidata da donne! Attorno alle parole e ai contenuti di quella giornata, si sono riconosciute quel milione di persone che hanno riempito le piazze e che hanno rappresentato il Paese che vorremmo.
È apparso chiaro che la forza e la determinazione espressa dalle donne il 13 febbraio, ha rappresentato il più profondo sommovimento culturale, civile ed etico per cambiare questo Paese. Ha creato fiducia, speranza. Reso credibile e possibile cambiare lo stato di cose in questo Paese. Ha sbloccato il Paese. Ha dato energia e voglia di riprovare a partecipare per cambiare a tanti che si erano assuefatti allo stato di cose esistenti. Quel «basta» collettivo , urlato nelle piazze, allo stato di cose esistente, nel Governo del Paese, nella cultura dominante, nell’arretratezza della convivenza civile, nelle drammatiche condizioni di lavoro e di vita di tante donne , ha riacceso il futuro con luce differente. Una straordinaria voglia di cambiare il Governo complessivo del Paese, della rappresentazione e uso del corpo delle donne nell’immagine pubblica e nella comunicazione. Una rinascita del valore della differenza di genere, della libertà e dell’autonomia delle donne.
Un risveglio che chiama in modo nuovo alla responsabilità la politica, le imprese, le organizzazioni sociali e ogni decisore pubblico. Una responsabilità che deve proporre il cambiamento della precarietà del lavoro che è prevalentemente femminile e del sud d’Italia. Siamo il Paese che ha la più bassa occupazione femminile. Siamo al penultimo posto rispetto ai Paesi europei.Siamo il Paese che considera la maternità un ‘rischio’ anziché un valore sociale per l’insieme della società. Che vede, come certifica per la prima volta l’Istat quest’anno, 800.000 donne che lasciano il lavoro alla nascita del primo figlio. Un Paese che ha scaricato sulle donne e sulla famiglia, la crisi economica e quindi ha fatto regredire tutta la società. Un paese, che ha assistito pochi giorni fa, alla notizia di una azienda che ‘mette fuori le donne’ perché tanto loro hanno altro da fare a casa e tiene gli uomini al lavoro retribuito. E gli uomini , accolgono come normale questa scelta dell’azienda, e quindi non sostengono la lotta delle donne che difendono il loro diritto al lavoro.
È a questo Paese che le donne di SENONORAQUANDO, hanno detto basta! E, ora, dopo il 13 febbraio, quelle donne e quegli uomini, quelle ragazze e quei ragazzi, vorrebbero andare avanti per costruire una società diversa, un Paese diverso, un Paese per donne. Consapevoli che un Paese per donne è un paese in cui anche gli uomini possono vivere meglio. È necessario, per cambiare davvero questo Paese, per avere un futuro credibile e positivo per tutti, per superare la pesante crisi economica e sociale, rimettere al centro il valore del lavoro e la priorità del lavoro delle donne. L’occupazione femminile deve diventare la priorità dell’Italia. La sfida dell’innovazione, della modernità, della valorizzazione delle competenze per qualificare il cambiamento passa da qui! Questa è l’opzione per lo sviluppo sostenibile, per la crescita e l’equità e la giustizia sociale. Per una società e una democrazia duale, di donne e uomini, in ogni ambito della vita politica, culturale e nel lavoro. Che riscopra e attui i contenuti della Costituzione Italiana anche a questo fine, come ci ha ricordato il Presidente della Repubblica in occasione dell’8 marzo.
Quella partecipazione ha consegnato alle promotrici una responsabilità enorme, importante. Si sono avviate nuove connessioni tra le donne nelle diverse realtà del Paese, tra associazioni che da anni elaborano e agiscono per questo cambiamento. Tra nuove associazioni, tra le giovani generazioni che hanno scoperto l’importanza dell’impegno e della partecipazione diretta. C’è il desiderio e la ricerca di una nuova dimensione collettiva dell’impegno, dello stare insieme. Il “noi” che sostituisce, con grande gioia, l’io solitario. E le donne di senonoraquando hanno reso visibile e possibile questo “noi”‘. Ogni realtà si è ritrovata dopo il 13 febbraio. Ha creato rete, dialogo, connessione. Ogni luogo ha avuto nuova linfa, forza, energia. Le parole delle donne hanno riacquistato un senso profondo, qualificato. Con il 13 febbraio si è rotta la solitudine delle “appartenenze” di molte realtà e di molte donne.
Nessuna appartenenza in cui ciascuna vive e opera è più sufficiente a contenere il desiderio di partecipare a cambiare questo Paese; per costruire un Paese per donne. Una nuova stagione del movimento delle donne italiane non solo è ora possibile, ma è la condizione e la speranza per un futuro migliore per tutti gli italiani. Per contribuire a questa speranza, abbiamo organizzato l’appuntamento di Siena del 9 e 10 luglio. Questa la nostra lettera: «Il 13 febbraio abbiamo riempito le piazze per difendere la nostra dignità di donne e riscattare l’immagine del Paese. La mobilitazione ha contribuito a portare tante donne al governo delle città e a risvegliare uno straordinario spirito civico.
Ma sono solo i primi segnali. La fotografia dell’ultimo rapporto Istat ci conferma che l’immagine deformata delle donne, così presente nei media e nella pubblicità, è solo l’altra faccia della diffusa resistenza a fare spazio alla libertà femminile. I dati ci dicono che le donne italiane studiano, si professionalizzano, raggiungono livelli di eccellenza in molti campi. Ma sono donne, vogliono esserlo, e questo basta, nel nostro Paese, perché non entrino nel mercato del lavoro (il 50% è senza occupazione) o perdano il lavoro, spesso precario, se scelgono di diventare madri.
Sembrava fino a ieri che dovessimo aver solo un po’ di pazienza, che la società italiana, forse più lentamente di altre, avrebbe accolto la libertà femminile. Ma così non è. Occorre prenderne atto. Vogliamo difendere noi stesse, il nostro presente e il nostro futuro perché una cosa è chiara: un Paese che deprime le donne è vecchio, senza vita, senza speranza. Mettiamo a punto le nostre idee. Rilanciamo, forti delle nostre diversità, un grande movimento», Vi aspettiamo a Siena. Un incontro per confrontarci, ascoltarci. Per scegliere insieme le nostre parole, i contenuti, le azioni. Per riconoscerci e costruire insieme la nostra forza. Per avere un Paese per donne e quindi per vincere.
Com’erano belli gli anni Cinquanta
di Ida Dominijanni (il manifesto, 01.07.2011)
Un caso così non si trova nemmeno nel manuale del perfetto maschio-padrone dell’800. Ma i manuali non servono, quando il senso comune del terzo millennio rotola all’indietro e detta comportamenti senza vergogna. Del resto, perché vergognarsi? Dev’essere stato per buon cuore che i dirigenti della Ma Vib hanno scelto fra i loro 30 dipendenti 13 donne, tutte donne e solo donne, da mandare prima in cassa integrazione e poi a casa, «così possono stare a curare i bambini», tanto «in famiglia il loro è comunque un secondo stipendio». In altre parole, un optional. Di lusso. Come è un optional, di lusso, che le donne, che i bambini li curano comunque, pretendano pure di lavorare. Ma in tempi di crisi, i lussi non ce li possiamo più permettere. Un capitombolo e oplà, si torna all’antico: uomo-capofamiglia-lavoratore, donna-madre-moglie (cureranno meglio anche i mariti se stanno a casa, no?), e un solo stipendio che basta e avanza. Com’erano belli e ordinati gli anni 50.
Non ci si crede. E si stenta a credere pure che intervistata da un tg, una delle operaie licenziate parli di spalle per paura di ritorsioni. Più di tutto, si stenta a credere il fatto che chiude il cerchio: gli operai, maschi, che decidono un presidio di solidarietà con le colleghe, ma al dunque si sottraggono e tornano zelanti e obbedienti al lavoro. E’ solo il ricatto della crisi? O il miraggio di poter tornare a essere dei veri uomini con le mogli al seguito e la pastasciutta in tavola?
Licenziare le donne quando sono incinta è ridiventata un’abitudine. Licenziarle con la giustificazione che così i figli staranno meglio può diventare una bestemmia. E un oltraggio a quell’erogazione gratuita del lavoro di cura che le donne svolgono regolarmente insieme al lavoro retribuito, senza che l’uno risenta dell’altro e spesso con migliori risultati degli uomini. L’assurdo è che mentre tutto questo accade nel civile e profondo Nord, a Roma si decida di alzare l’età pensionabile femminile. Sarà perché a 60 anni non ci sono più bambini da accudire. E per i genitori anziani basta una badante. Da pagare, va da sé, col secondo stipendio.
Quello che la legge non potrà mai dare e dire
di Laura Colombo *
Comunicare il senso di una politica che mira alla creazione di libertà e non alla conquista dei diritti è spesso un’impresa difficile. Riconoscimento dei diritti e divenire della libertà sono due modi incommensurabili dell’azione politica, vale a dire non possiamo metterli direttamente in relazione tra loro, anche se hanno il medesimo intento: rendere più vivibile lo stesso mondo. Tuttavia c’è un primato della libertà sui diritti che non è temporale, bensì ontologico.
Pensiamo per esempio ai neri d’America: il Proclama di Emancipazione di Lincoln, che abolisce la schiavitù, è del 1863, ma la politica e la cultura restano ancora per molto tempo segregazioniste. Un secolo dopo sarà Rosa Parks ad accendere la rivolta dei neri, rifiutandosi di cedere il posto a un bianco sull’autobus. Stanca di arrendersi alle ingiustizie, indicherà la via senza ritorno della ribellione e della libertà.
Voglio dire che il problema sociale esiste, ma riguarda in grande misura la sfera interiore: se hai sempre avuto sotto gli occhi il modello della superiorità dei bianchi, non riesci a immaginare qualcosa di diverso. La sfida dell’azione politica che fa leva sulla libertà è proprio di immaginare qualcosa che non c’ è, creare ciò di cui hai bisogno (come diceva Carla Lonzi).
Altro esempio: fino a pochi decenni fa, le donne hanno avuto forti modelli di sottomissione all’uomo. Il femminismo degli Anni ’70 ha criticato l’ordine simbolico patriarcale e ha scelto di separarsi dai luoghi misti, per disegnare un ambito di autonomia femminile. Sappiamo che non si è trattato solo di una critica alla realtà data, è stato soprattutto la ricerca di nuove possibilità perché l’esperienza femminile autentica potesse trovare parole.
Leggendo il Diario di Carla Lonzi avvertiamo i dubbi, gli smarrimenti e le invenzioni che una donna deve affrontare quando nega l’identità femminile precostituita, il posto che gli uomini hanno previsto per le donne. Da questo rifiuto è nata la libertà che oggi si riflette in conquiste sociali stabili: puoi studiare, uscire di casa senza sposarti, viaggiare con le amiche, avere o no un figlio, amare chi vuoi, stare da sola, cose impensabili fino a pochi decenni fa. A livello legislativo, questa libertà è registrata, per esempio, nel nuovo diritto di famiglia del 1975, dove sparisce la figura del capofamiglia e si stabilisce che ogni decisione sulla coppia e i figli debba essere presa di comune accordo.
Si potrebbe pensare che una buona legge faccia il lavoro per me, che il legislatore, con lungimiranza, predisponga quello spazio in cui potrò agire la mia sconosciuta libertà. Ma la vera prima mossa è lo scatto interiore di consapevolezza, la messa a fuoco, insieme ad altre, dei miei bisogni.
Prendiamo la legge sui congedi parentali del 2000, che prevede permessi per la cura dei figli anche per il padre. Gli uomini, per lo più, non colgono questa occasione. Non c’è da stupirsene: solo quando riusciranno a fare una mossa interiore di libertà, capiranno di sé ciò che la legge non potrà mai dare e dire.
Le nostre schiavitù non finiranno a colpi di legge, sono vincoli che abitano la nostra mente. È da lì che devono cominciare a sparire.
Il 24 ottobre 2005 moriva Rosa Parks, che aveva aperto le lotte per i diritti rifiutando di lasciare il posto a un bianco sull’autobus
La sarta che sconfisse il razzismo
di Paola Capriolo (Corriere/La Lettura, 14.10.2012)
Esiste, io credo, una semplicità del bene, che è l’esatto opposto di quella «banalità del male» della quale Hannah Arendt si è servita come di una chiave di lettura per comprendere la possibilità degli orrori nazisti; e forse nessuno ha incarnato questa semplicità in modo così esemplare come Rosa Parks. Semplice, Rosa lo era di origini e di condizione: una donna «di colore», cresciuta poveramente tra i campi di cotone dell’Alabama, che si guadagnava da vivere cucendo vestiti per un grande magazzino e, dopo il lavoro, militava nelle file della Naacp, l’associazione sorta per rivendicare i diritti dei neri americani, svolgendovi con modestia la «femminile» funzione di segretaria. Una modestia connaturata, che faceva tutt’uno con la sua fierezza indomabile e che l’avrebbe portata a subire quasi controvoglia la celebrità e il ruolo di eroina nazionale. Ma semplice soprattutto, di quell’ardua eppure disarmante semplicità che è il sigillo delle vere rivoluzioni, è il gesto con cui quella signora fragile e minuta arrivò a cambiare la storia del suo Paese.
Siamo negli Stati Uniti d’America, negli anni Cinquanta del Novecento. La schiavitù è stata abolita da quasi un secolo, eppure nel Sud della nazione domina ancora la discriminazione razziale. I neri sono cittadini come tutti gli altri e hanno il diritto di voto, ma per esercitarlo devono sottoporsi a un umiliante esame o trovare un bianco disposto a «garantire» per loro; la Costituzione li proclama uguali agli altri di fronte alla legge, ma in una terra dove il linciaggio è all’ordine del giorno nessun tribunale si è mai sognato di condannare un bianco per l’assassinio di un nero; da soldati, hanno combattuto come gli altri nella Seconda guerra mondiale, ma ai caduti di colore toccavano funerali, sepolture, persino colonne dei necrologi sui giornali, rigorosamente separati da quelli dei loro commilitoni bianchi, mentre quanti riuscivano a tornare a casa venivano aggrediti e malmenati dai fanatici razzisti se osavano mostrarsi in pubblico con la divisa dell’esercito americano.
Nella vita di tutti i giorni, poi, la discriminazione si traduce in un minuzioso sistema di segregazione razziale, molto simile all’apartheid sudafricano: scuole, fontane pubbliche, ospedali sono rigidamente divisi tra quelli per i bianchi e quelli per i coloured; un nero non può entrare liberamente in qualsiasi bar e farsi servire una tazza di caffè, e la legge, per evitare ogni «contaminazione», gli proibisce addirittura di provarsi un vestito in un negozio. Ma la forma di segregazione più invisa agli afroamericani è quella in vigore sui mezzi pubblici, dove le prime file sono a uso esclusivo dei bianchi, mentre i neri possono occupare le ultime file, a loro riservate, oppure quelle intermedie, ma con l’obbligo di alzarsi su ordine del conducente per cedere il posto a un membro della «razza superiore» che non trovi da sedersi altrove.
Così andavano le cose negli Stati del Sud, questo era il trattamento al quale la gente di colore doveva assoggettarsi, finché, nel pomeriggio del 1° dicembre 1955, accadde qualcosa di inaspettato. Accadde che a Montgomery, capitale dell’Alabama, una sarta quarantaduenne di nome Rosa Parks, che come ogni giorno aveva preso l’autobus per rincasare dal lavoro, alla richiesta dell’autista di lasciare a un bianco il suo posto rispondesse: «No». Una parola semplice, addirittura un monosillabo; ma fu come se dietro quel «no» si radunassero a battaglia tutte le schiere degli angeli.
L’autista, sbalordito, ripete il suo ordine, ma lei rimane seduta. «Guarda», minaccia l’uomo, «che se non ti alzi ti faccio arrestare»; e Rosa risponde tranquillamente: «Sì, lei può farlo». Molti tra coloro che la conobbero affermano che quell’umile sarta aveva qualcosa di «regale», e proprio così, con la dignità di una regina, la immagino attendere l’arrivo della polizia e compiere il penoso tragitto verso il carcere. Non poteva aspettarsi niente di diverso, dato che il suo rifiuto di alzarsi equivale a un reato per la legge dell’Alabama. Rosa però è stanca: non, come dichiarerà in seguito, per la giornata faticosa, non per i piedi gonfi e la schiena indolenzita. È stanca di arrendersi, di chinare il capo di fronte all’ingiustizia, e nei giorni successivi, proprio grazie al suo caso, tutta la popolazione nera di Montgomery scopre di essere altrettanto stanca.
Per iniziativa di un gruppo di persone coraggiose, tra le quali un pastore battista ventiseienne di nome Martin Luther King, i neri decidono dunque di organizzare un boicottaggio: sugli autobus li si tratta in quel modo? Bene, allora andranno tutti a piedi. Ha inizio così una lotta che presto richiamerà l’attenzione dell’America, anzi, del mondo, suscitando intorno alla cittadina di Montgomery una straordinaria ondata di solidarietà: una lotta alla quale Rosa, rilasciata su cauzione, partecipa in prima fila, sia nei giorni che precedono il processo, sia dopo la sentenza di condanna che, «macchiandole» la fedina, la consacra per sempre al ruolo di «madre dei diritti civili».
Nonostante gli espedienti più o meno legali escogitati dalle autorità per farlo cessare, nonostante intimidazioni e violenze di ogni specie, il boicottaggio si prolunga per tredici mesi, mandando quasi in fallimento la compagnia dei trasporti, e si conclude con una vittoria clamorosa: il 13 novembre 1956, dopo un lungo e travagliato iter legale, la Corte suprema degli Stati Uniti dichiara incostituzionale la segregazione sugli autobus, primo passo di un cammino che condurrà, sia pure a prezzo di molto sangue e di molte sofferenze, alla piena integrazione razziale e che forse non sarebbe stato possibile senza il coraggio e la fermezza di una donna.
Come scrisse in seguito Martin Luther King, il gesto di Rosa è «un’espressione individuale di un anelito eterno alla dignità e alle libertà umane»; a inchiodarla a quel sedile furono «il cumulo di iniquità dei giorni passati e le sconfinate aspirazioni di generazioni non ancora nate»: aspirazioni tra le quali (perché no?) poteva esserci anche quella di vedere un nero insediarsi alla Casa Bianca come presidente degli Stati Uniti d’America.
Rosa Parks non fece in tempo ad assistere a questo trionfale «lieto fine»: morì il 24 ottobre del 2005, tre anni prima dell’elezione di Obama, che da parlamentare tenne per lei un discorso commemorativo al Senato. Nel frattempo le toccò pagare caro il suo gesto, in conseguenza del quale perse il lavoro e fu bersagliata a tal punto da telefonate anonime e minacce di morte da essere costretta con il marito a cambiare città. Una vita difficile, quella dei giusti: una vita semplice in un mondo che, della semplicità, spesso non ne vuole sapere. Non credo che Rosa abbia mai pensato di aver compiuto un atto di eroismo; solo di aver fatto ciò che, in quelle circostanze, avrebbe dovuto fare chiunque. O per dirla con le sue parole: «Doveva esserci un punto d’arresto, e sembra che quello sia stato per me il punto in cui smettere di lasciarmi bistrattare e scoprire quali fossero, se mai ne avevo, i miei diritti di essere umano».
A MILANO, TUTTI A "SCOLA" DI "LATINORUM": "DEUS CARITAS EST"! ORDINE DI BENEDETTO XVI. Cancellare ogni traccia della "charitas" di Ambrogio......
Severino: «È stato mio allievo. Da laico gli ho dato 30 e lode»
intervista a Emanuele Severino,
a cura di Gian Guido Vecchi (Corriere della Sera, 28 giugno 2011)
«Eh sì, è stato mio studente. Lucido. E bravo, molto bravo. Allora, in Cattolica, avevo la cattedra di Filosofia morale. Lui stesso mi ha fatto venire in mente che all’esame gli diedi trenta e lode, ha scritto anche delle nottate passate assieme ai suoi compagni a studiare un mio libro, La struttura originaria...» .
Il filosofo Emanuele Severino tradisce un pizzico d’orgoglio da professore, è bello vedere i propri ragazzi fare strada. Il giovane Angelo Scola si laureò verso la fine degli anni Sessanta con Gustavo Bontadini, il pensatore che fu maestro dello stesso Severino («vale tre Maritain» ), poco prima che il grande filosofo bresciano fosse allontanato dalla Cattolica, nel ’ 70, dopo aver subito un «processo» dall’ex Sant’Uffizio. Acqua passata. Con il patriarca di Venezia si rividero nel 2003, a Ca’ Foscari, per un convegno su Bontadini organizzato dall’università.
E come fu l’incontro, professore, dopo più di trent’anni?
«Ci fu il ritorno di un rapporto che non esito a dire affettuoso, di simpatia reciproca. Non so cos’avessero i vaporetti, ma quel giorno arrivai in ritardo e il cardinale Scola era già lì da tempo, puntuale, circondato da gente con l’aria ossequiosa e compunta. Il patriarca invece non aveva affatto quell’aria e mi aspettava tranquillo, all’ingresso dell’aula magna Ca’ Dolfin, seduto su un termosifone. Simpatico, semplice, affettuoso. Ci siamo incontrati di nuovo due anni fa, all’università di Padova, per un convegno sulla morte voluto da un’altra mia bravissima allieva e docente, Ines Testoni».
Che arcivescovo si devono aspettare i milanesi?
«Di altissima qualità. Un uomo che sarà capace anche di entusiasmare, e lo dico con convinzione: oltre a essere un intellettuale di grosso calibro, ha tratti di semplicità e naturalezza che non è facile trovare negli uomini di Chiesa».
Certo avete idee diverse, lei sul «Corriere» replicò al cardinale che aveva proposto di uscire dalla «immagine vecchia dell’idea e della pratica della laicità...
«È una considerazione diffusa, nel mondo cattolico. Scola diceva di non condividere la persuasione di Habermas, secondo il quale "una democrazia costituzionale, per giustificarsi, non ha bisogno di un presupposto etico o religioso". Per Scola invece ne ha bisogno. Né lui né Habermas, però, approfondivano la radice di quella persuasione. Ma proprio questo è il punto da discutere. Così io obiettavo che, impostando il problema del laicismo in quel modo, prendendosela al solito con il "relativismo", la Chiesa corre il rischio - ma è più di un rischio - di trascurare il nemico autentico della religiosità e della tradizione: la forza con cui la filosofia degli ultimi due secoli elimina la tradizione e, da Leopardi a Nietzsche a Gentile, dimostra l’impossibilità di ogni verità assoluta e quindi di ogni "presupposto".
Scola e la Chiesa non vedono l’autentico pensiero contemporaneo?
«Se è per questo non lo vede neanche il mondo laico, che continua a presentarsi in modo debole, erede com’è di una fortuna che ignora di possedere. Bisogna saper guardare il sottosuolo del pensiero contemporaneo, oltre la superficie. È come quando, nel Simposio di Platone, si dice che Socrate è un sileno: fuori è bruttissimo, è vero, però dentro è Socrate! Il sottosuolo del pensiero contemporaneo - che peraltro non dice affatto l’ultima parola, bisogna andare ben oltre - è una potenza che non viene non dico riconosciuta, ma nemmeno intravista».
L’arcivescovo saprà confrontarsi, in una città come Milano, con il mondo laico?
«Ah, questo sì, ne ha tutte le capacità ed è un uomo aperto: per quanto lo conosco, credo proprio di poterlo dire. E penso che l’incrocio con Milano sia estremamente positivo, anche perché torna un po’ dalle sue parti. Conoscendo la sua intelligenza filosofica, lo ritengo incapace di prepotenze politiche o ideologiche. È invece un uomo capace di innovazioni senza vantarsene, senza marcare troppo le differenze».
C’è chi si è mostrato preoccupato per la sua estrazione ciellina...
«Anche questa faccenda, andiamo... Francamente non me lo vedo, rinchiuso nel ruolo di animatore di un movimento, con tutto il rispetto di quel movimento: la sua statura intellettuale è superiore e va oltre».
A "SCOLA" DI AUTORITARISMO: VESCOVI E CARDINALI CHE SI TOLGONO LA TESTA. Don Primo Mazzolari diceva ai suoi parrocchiani: «Quando entrate in chiesa vi togliete il cappello, non vi togliete la testa»
Operazione sant’Ambrogio
di Aldo Maria Valli (Europa, 29 giugno 2011)
Nel 1972, durante la sua visita a Venezia, Paolo VI, nel bel mezzo di piazza San Marco e davanti alla folla, si tolse la stola e la mise sulle spalle di un imbarazzatissimo Albino Luciani, allora patriarca della Serenissima. Gesto eloquente, una vera e propria investitura. Che ebbe conferma e pratica realizzazione sei anni più tardi, alla morte di papa Montini, quando dal conclave uscì eletto proprio il timido patriarca.
All’inizio dello scorso maggio, nel corso della visita in laguna, Benedetto XVI non si è tolto la stola e non l’ha deposta sulle spalle del patriarca Angelo Scola. Non è nello stile di Joseph Ratzinger compiere gesti plateali. Ma, se non l’ha fatto, c’è anche una ragione sostanziale. Ratzinger, a differenza di molti altri dentro la Chiesa, crede nelle regole e nella collegialità.
In queste settimane che hanno preceduto la nomina di Scola a Milano si è detto e ripetuto che il patriarca di Venezia è approdato sotto la Madonnina perché fortemente voluto da Benedetto XVI. Adesso, a nomina avvenuta, sappiamo che è una verità parziale. Che Benedetto stimi Scola da molti anni è fuori discussione. Che ne ammiri le capacità di animatore culturale e di organizzatore è altrettanto certo. Ma non è vero che il papa si sia battuto per la nomina di Scola nonostante le opinioni divergenti degli altri vescovi chiamati a sottoporre al pontefice le candidature.
Anzi, è vero il contrario. Da fonti vaticane risulta infatti che per ben tre volte, davanti a una maggioranza di vescovi che, riuniti nella plenaria della congregazione, indicava una terna di nomi con Scola come candidato più forte per Milano, il papa ha rimandato indietro la proposta chiedendo un ulteriore approfondimento (o, come si dice in ecclesialese, un discernimento).
Lo ha fatto, sicuramente, non per scarsa fiducia in Scola, ma per grande considerazione della collegialità episcopale e del ruolo delicatissimo che la plenaria della congregazione per i vescovi è chiamata a ricoprire, specie quando in ballo c’è una nomina importante come quella che riguarda Milano. Solo che, dai vescovi, è arrivato sempre lo stesso responso: tre nomi, con due candidature oggettivamente deboli e una sola, quella di Scola, in grado di poter essere presa davvero in considerazione.
Al che il papa, proprio in ossequio al rispetto della collegialità, ha dato il via libera. Ora, perché la maggioranza dei vescovi (circa due terzi, a quanto risulta) ha puntato così decisamente su Scola? Paradossalmente l’ha fatto pensando di compiacere il papa. Poiché una campagna di stampa e di persuasione, sapientemente condotta e orchestrata, ha tambureggiato a lungo indicando il patriarca come candidato più gradito a Benedetto XVI, la maggioranza dei vescovi riuniti nella plenaria si è prontamente adeguata e, non volendo risultare in dissonanza con il pontefice, è diventata più realista del re (o meglio, più papista del papa).
Più che dalla strenua volontà di Benedetto XVI, il trasloco di Scola da Venezia a Milano nasce quindi da un’abile strategia di comunicazione e di persuasione messa al servizio di un candidato. Cosa che si ripeterà, c’è da scommetterlo, in caso di conclave, visto il successo di questa che, parafrasando il celebre film Operazione san Gennaro, possiamo ribattezzare Operazione sant’Ambrogio.
Sicuramente il papa non è scontento della scelta di Scola: la sua ammirazione per l’uomo e per il teologo è certa e si è consolidata nel tempo. Quanto al nuovo arcivescovo di Milano, difficile che in lui non emerga, in queste ore, un certo senso di rivincita, visto che diventa il capo di quella diocesi, che è poi la sua diocesi di nascita, nella quale quarant’anni fa non riuscì a essere ordinato prete (dovette “emigrare” a Teramo).
Sullo sfondo, in ogni caso, resta il problema: il funzionamento degli organi decisionali della Chiesa e la capacità di giudizio e di scelta di coloro (oggi i vescovi, domani i cardinali) che sono chiamati a decidere in un’epoca in cui la macchina dell’informazione, se pilotata in un certo modo, può diventare un soggetto determinante nell’orientare il consenso.
Stati generali del movimento il 9 e 10 luglio.
Comencini: vogliamo che la nostra rete resti in piedi
Riecco le donne di "Se non ora quando"
"A Siena per cambiare il Paese"
"Lavorano come gli uomini ma guadagnano meno: dati Istat sconfortanti"
di Silvia Fumarola (la Repubblica, 28.06.2011)
ROMA - Le donne sono abituate a non arrendersi; se cominciamo qualcosa, difficilmente mollano a metà strada. Ma perché la condizione femminile cambi veramente bisogna impegnarsi a fondo, far sentire la propria voce, senza dare niente per scontato, senza incertezze: per questo, dopo aver portato un milione di persone in piazza, le donne di "Se non ora quando?" organizzano la grande manifestazione a Siena del 9 e 10 luglio, perché «l’Italia diventi davvero un paese per donne». Indietro non si torna ma dopo il 13 febbraio, e la conferma che c’era una grande voglia - dapprima silenziosa - di cambiare, non si sono fatti grandi passi avanti.
Adesso gli oltre 120 comitati locali, nati in quell’occasione, si incontreranno nella città toscana, nel complesso di Santa Maria della Scala per una sorta di Stati generali della condizione femminile, un momento di confronto con le donne di tutta Italia, sui temi fondamentali: la vita quotidiana, il lavoro, l’immagine femminile, il ruolo nella società, la difficoltà enorme di conciliare famiglia e professione. Quante sono le donne nelle stanze dei bottoni? Ancora troppo poche. Linda Laura Sabbadini dell’Istat fornirà dati sconfortanti e l’economista Tindara Addabbo spiegherà come le donne siano ancora discriminate: lavorano come gli uomini, ma guadagnano meno.
«Vogliamo che la rete resti in piedi» chiarisce la regista Cristina Comencini «e si allarghi il più possibile; se siamo riuscite a portare tanta gente in piazza è stato grazie al web, al confronto continuo con tante donne diverse, in tutto il Paese. È fondamentale mettere insieme le esperienze e confrontarci, c’è stato un risveglio lo scorso inverno che è prezioso, le energie non vanno disperse. Partendo dalla difesa del corpo delle donne adesso vogliamo andare avanti, mettere al centro il lavoro. I dati parlano chiaro: le 800mila italiane costrette a lasciare il loro impiego dopo una gravidanza, l’esercito di precarie e disoccupate - eppure, è appurato, le donne sono le più efficienti e preparate - sono la dimostrazione che questo non è un Paese per donne. Il campo non lo lasciamo, anche se ci rendiamo conto che il nostro progetto di cambiamento è molto ambizioso».
Ma le donne riunite alla Fnsi (tra cui Francesca Comencini e Lunetta Savino, fondatrici del movimento) dov’è stata presentata la nuova iniziativa - che prevede anche una sottoscrizione online per la due giorni senese, sul sito di "Se non ora quando?" - hanno l’aria di voler andare fino in fondo. «Vogliamo coinvolgere gli uomini e farci sentire perché la politica» come spiega la Comencini «non può non farsi contagiare da un movimento che dal Nord al Sud ha scosso il Paese». «Il 13 febbraio ha fatto esplodere un processo già in corso» aggiunge la sindacalista Valeria Fedeli «e ciò che sta avvenendo dice che una parte della società civile si è svegliata. Non dobbiamo mollare, anche se c’è un pezzo della politica e delle istituzioni che si muove per bloccare questo movimento, come dimostrano le ultime decisioni sull’età pensionabile. A Siena sarà un atto fondativo pubblico».
Siena diventerà per due giorni "la città delle donne": sono previsti sconti ed iniziative, come anticipa Tatiana Campioni, direttrice del Complesso di Santa Maria della Scala. «Per noi è un’iniziativa bellissima, speriamo davvero che tante donne, insieme, riescano a fare la differenza». «Cambiare» è il verbo più ripetuto. «Perché per cambiare davvero va combattuta una battaglia culturale» dice Lunetta Savino «il mondo ha bisogno dello sguardo delle donne, capace di andare a fondo nelle cose e modificarle. E va rinnovato anche il linguaggio, il modo di far sentire la protesta. Non a caso, all’inizio, abbiamo usato lo strumento del teatro, portando in scena lo spettacolo "Libere"».