1911-2011: l’Italia della scienza negata
di Armando Massarenti *
Immaginate di vivere in un paese in cui l’egemonia culturale è dettata dallo spirito di un uomo che non eccelle solo nel proprio ambito, la matematica, ma è dotato anche di una visione generale, storica, critica, dei diversi saperi scientifici; e che ama ricollocarli, nel loro continuo intrecciarsi e progredire, entro una visione unitaria del sapere. Un uomo che, senza disdegnare le discipline umanistiche, è ben consapevole di quanto la scienza abbia contribuito, e potrà in futuro contribuire, alla crescita dell’industria, dell’istruzione generale, del vivere civile.
Quest’uomo ha anche in mente, fin nei dettagli, un sistema educativo critico e costitutivamente aperto - proprio come i saperi che intende rafforzare e veicolare, e come il "metodo" che ha già portato a scoprire fondamentali leggi di natura - e vuole mettere tutto ciò al servizio di una scuola al passo coi tempi, che non sia concepita solo per una piccolissima élite, ma che sappia stimolare l’intelligenza e la creatività del più ampio numero possibile di persone.
Ora pensate invece a un paese in cui l’egemonia è dettata da una filosofia che considera la scienza, e persino la matematica, come una sorta di menomazione dell’intelletto, frutto di menti settoriali e limitate, soprattutto se confrontata con le vette altissime di un sapere le cui leggi universali sono attingibili a livello Metafisico da poche menti elette, le sole capaci di nutrirsi di arte, filosofia e letteratura, cioè degli ingredienti dell’unica cultura davvero degna di questo nome. E ora scegliete. In quale di questi due paesi preferireste essere nati?
Certo, direte, nessuno dei due esiste allo stato puro. Somigliano più a dei modelli archetipici che a descrizioni di mondi reali. Però, se avete scelto il secondo, spero vi sia almeno chiaro che, nelle sue linee generali, è proprio quello in cui state vivendo. Almeno da un secolo a questa parte, da quando a Bologna si consumò uno dei confronti culturali più drammatici della nostra storia.
Il 6 aprile 1911 si tenne il congresso della Società filosofica italiana, fondata e presieduta dal grande matematico Federigo Enriques, un formidabile organizzatore culturale, autore di libri di storia della scienza, cofondatore della casa editrice Zanichelli (con cui pubblicò buona parte delle sue opere) e di riviste filosofiche e scientifiche.
Enriques riteneva che una filosofia degna di una società moderna non potesse che essere pensata in stretta connessione con l’avanzare delle scienze. Sapeva di porsi così in aperto contrasto con l’emergente idealismo di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, con i quali cercò di ingaggiare un confronto civile, ma rimase sconcertato dalla violenza con cui questi condussero la disputa. Enriques aveva denunciato il loro atteggiamento nei confronti dei saperi scientifici proprio in quanto genericamente liquidatorio e, in definitiva, antifilosofico.
Quella degli idealisti non era la critica filosofica delle scienze, postpositivista, che egli auspicava, capace di entrare nel merito delle competenze di ambiti specifici e di contribuire alla loro crescita, ma un modo apodittico di negare il connubio tra scienza e filosofia, come se Leibniz e Cartesio non fossero stati insieme filosofi e scienziati, oltre che fondatori della filosofia moderna.
Ma fu proprio quel tono sprezzante e liquidatorio a inasprirsi durante la disputa e a segnare la sconfitta di Enriques. Gli fu dato platealmente dell’incompetente. E non solo in campo filosofico. Fu invitato, in maniera insultante, a parlare solo della sua materia, cioè di matematica, un sapere non per veri filosofi ma per quegli «ingegni minuti» che sarebbero appunto gli scienziati. Ma il suo dilettantismo abbracciava anche la scienza. Come si poteva concepire una rivista - notò Gentile - «che discorra, in uno stesso fascicolo, dell’elettro-magnetismo dell’universo, della medianità, dei rapporti tra chimica e biologia, del bisogno di luce che hanno le piante, della coscienza, della scuola economica austriaca, delle principali leggi della sociologia, delle origini del celibato religioso, della riforma dell’insegnamento di matematica elementare eccetera»? «Secondo me, non può incoraggiare se non il dilettantismo scientifico, di cui non so quanto sia per giovarsi la scienza».
Peccato che né Croce né Gentile potessero apprezzare il valore dei "dilettanti" che scrivevano su «Scientia», membri di quella comunità scientifico-filosofica internazionale che, grazie a intellettuali come Enriques, comprendeva anche il nostro giovane stato nazionale. Qualche nome? Mach, Poincaré, Carnap, Cassirer, Rutherford, Lorentz, Russell, Einstein.
La sconfitta di Enriques ha avuto conseguenze durature. Ha portato ad esempio alla costruzione del sistema educativo gentiliano. Che, beninteso, ha avuto i suoi indiscutibili pregi: il liceo, benché antiscientifico nello spirito, ha comunque contribuito a formare una classe dirigente che talvolta è riuscita a eccellere anche in ambiti scientifici. L’insegnamento della filosofia, scientifica o antiscientifica che sia, unito a una solida cultura classica, è comunque un’eccellente palestra del pensiero e una porta di accesso per un’ampia gamma di competenze. Ma oggi che anche i licei classici non sono più quelli di una volta, non sarebbe giusto pensare a una scuola più direttamente improntata ai saperi necessari alla società di oggi? Non potremmo, nel nome di Enriques, provare a proiettarci in un futuro diverso da quello che ci è toccato in sorte un secolo fa?
* Il Sole-24 ore, 17 aprile 2011
Nota sul tema:
EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA. Un breve saggio di Federico La Sala, con prefazione di Riccardo Pozzo.
Federico La Sala
CULTURA
Chiara Valerio: "C’è bisogno di una riforma che mostri che la matematica, la fisica e la chimica sono ’umane’"
La scrittrice e matematica all’HuffPost: "Concentrarsi sulle relazioni tra le competenze, e non solo sulle competenze"
di Adalgisa Marrocco (HuffingtonPost, 27.04.2021)
Raccontare la storia delle scienze, delle loro imprese, delle loro donne e dei loro uomini: da qui si potrebbe partire per far riscoprire l’amore verso lo studio delle discipline scientifiche, di cui spesso si narra la disaffezione da parte degli studenti. Soprattutto in Italia. E riformare la scuola, andando oltre i vecchi retaggi, per mostrare ai ragazzi quanto la matematica, la fisica e la chimica siano “umane” e figlie dei loro tempi. A parlarne all’HuffPost è Chiara Valerio, scrittrice e matematica, autrice di La matematica è politica (Einaudi).
Trova che in Italia lo studio delle discipline scientifiche sia poco incentivato?
L’idea che lo studio, qualsiasi tipo di studio debba essere incentivato, non mi ha mai convinto. Ma capisco la domanda. Diciamo che l’idea che per la matematica - così come per le lingue - sia necessario esserci portati è una idea scoraggiante emotivamente e deresponsabilizzante culturalmente. La comprensione ha una piccola percentuale di illuminazione e una grande percentuale di prassi e intenzione. Credo che sottolineare l’importanza dello studio sia importante, altrimenti in un attimo ci si sente vasi da riempire con poca o molta acqua. Per le ragazze è ancora più difficile, perché le grandi scienziate vengono poco e quasi mai raccontate. Non avrei voluto diventare Batman o Lady Oscar se non me li avessero raccontati, per esempio. Senza arrivare ai supereroi, raccontare che qualcosa è stato fatto a un livello eccellente, da donne e uomini, è una cosa che incentiva chi sta imparando a studiare e pensare di poter giungere a quello stesso livello e anche oltre. Ma capire non è una cosa da X-Men, è una cosa da esseri umani.
Ci sono delle ragioni storiche che determinano questa carenza?
Come ho scritto altrove (“ho poche idee, ma in compenso fisse”, diceva De Andrè e io mi accodo) si potrebbe far risalire la poca affezione allo studio delle discipline STEM (Science, Technology, Engineering and Mathematics, ndr), come si chiamano oggi, allo scontro in due parti tra Croce e Gentile, da un lato, e Federigo Enriques, dall’altro. Tra chi, Croce, aveva un’idea della filosofia e chi come Enriques ne aveva un’altra. Sembrerebbe questa una discussione d’accademia ma non lo è perché, cominciata negli anni Dieci del Novecento, si è conclusa alla fine degli anni Venti del Novecento. Quando una guerra mondiale era finita, il fascismo aveva attecchito in Italia e Gentile era diventato ministro dell’Istruzione. In ballo c’era la riforma del sistema scolastico e universitario. Mentre Gentile e Croce tendevano a limitare la portata culturale della matematica e ad accorpare l’insegnamento di matematica e fisica, Enriques sosteneva la centralità delle scienze esatte per lo sviluppo tecnologico e più ampiamente culturale dell’Italia, centro del conflitto politico alla fine della guerra. La riforma della scuola la firma Gentile, non Enriques. Ma questo è l’inizio.
Poi cosa accadde?
Si potrebbe anche parlare della riforma Falcucci, nel 1985, con il Piano Nazionale Informatica - io l’ho fatto, per esempio - nel quale erano previsti, tra le altre cose, lo studio e la pratica dei linguaggi di programmazione. E ancora la riforma Moratti, dove l’informatica era diventata una delle tre famose “I” (insieme a Inglese e Impresa) ed era poi stata ridotta al conseguimento dell’ECDL e, dunque, al pacchetto Office.
Da dove partire per provare a colmare questo vuoto? Anche considerando che, nel frattempo, il Recovery Plan ha stanziato fondi per incentivare lo studio delle discipline STEM nella futura “Scuola 4.0”.
Da una nuova riforma scolastica e da una riforma dei testi scolastici, che si concentrino sulle relazioni tra le competenze, e non solo sulle competenze, sulla risoluzione dei problemi e non si risolvano in un samsara di formule. Una riforma che preveda lo studio della storia della scienza, così come esiste lo studio della storia della filosofia e della storia dell’arte. Una riforma che mostri come la matematica, la fisica e la chimica siano figlie dei loro tempi e non esistano in assoluto, nel vuoto, da sempre e per sempre. Ma siano “umane” come tutto il resto.
Lei è matematica di formazione e lavora nell’industria culturale: ha senso mantenere uno steccato tra materie scientifiche e quelle umanistiche e sociali? Oppure bisogna andare oltre?
Non ho mai creduto o pensato ci fossero steccati. L’intelligenza viene presentata come la capacità di analisi - siamo cartesiani senza coscienza, per abitudine, forse per istinto, - ma di questa capacità di analisi ci entusiasmiamo e raccontiamo solo la pars destruens: la capacità di separare (”è una lama” si dice a Roma di una persona molto intelligente), ma nel racconto di questa intelligenza manca la ricomposizione - che pure Cartesio elenca nei suoi passi sul Metodo. Ecco, l’intelligenza unisce, non separa, connette. Io mi fido delle e confido nelle connessioni e relazioni, anche di cose lontane. È anche più divertente, no?
MATEMATICA PER TUTTI
I numeri per imparare a pensare
di Franco Lorenzoni (Il Sole-24 Ore, Domenica, 04 dicembre 2016)
«Alla scuola ebraica non si riusciva a immaginare che ci fosse qualcuno che non facesse domande: sarebbe stato un allievo inutile. Invece, chi non era d’accordo con qualcosa che aveva spiegato un professore, alla fine della lezione lo poteva dire e gli era richiesto di tenere lui stesso una lezione, alla sua classe o a quelle vicine, con la sua bibliografia o con una bibliografia che gli suggeriva il professore: insomma era una scuola di alto profilo».
La scuola di cui parla Giacometta Limentani fu fondata in 79 giorni dalla comunità ebraica di Roma, dopo il varo delle le leggi razziste del settembre 1938, con cui il governo fascista espulse dalla scuola ragazzi e insegnanti ebrei.
Lì insegnò per la prima volta Emma Castelnuovo, cacciata dalla scuola pubblica appena vinto il concorso. Ce ne parlano Carla Degli Esposti e Nicoletta Lanciano nella prima biografia dedicata a una delle più grandi innovatrici di didattica della matematica del mondo. Leggendola si comprende perché le grandi rivoluzioni in campo educativo siano così rare. Nel corso di un secolo si contano sulle dita delle mani perché, per rovesciare con audacia e radicalità pensieri, concezioni e comportamenti stratificati nel tempo e in quel bradipo abitudinario a cui troppe volte somiglia la scuola, ci vogliono condizioni eccezionali e un’audacia individuale visionaria.
Emma Castelnuovo, laica e non credente, era profondamente impregnata dell’aspetto più affascinante della cultura ebraica, che consiste nel non darsi tregua nel moltiplicare continuamente le domande. E la prima domanda che si pose la giovane Emma, che per il suo muoversi agitato veniva spesso scambiata per allieva, riguardava il come animare la curiosità dei ragazzi, di tutti i ragazzi, trasmettendogli l’idea che la scoperta delle verità matematiche era qualcosa che si faceva per se stessi.
Suo padre Guido Castelnuovo, di indole serena, nei terribili anni della guerra era angustiato dall’idea che gli studenti che frequentavano i suoi corsi integrativi di cultura matematica non potessero poi laurearsi. Riuscì a trovare un Istituto in Svizzera, disponibile a offrire un diploma legale a distanza agli allievi dell’università semiclandestina, a cui era riuscito a dar vita insieme a Guido Coen. Semiclandestina ma di alto profilo, dato che vi insegnavano Bisconcini, Cacciapuoti, Enriques, Lucaroni, “che teneva Euclide in una mano e Spinoza nell’altra”. L’angustia del padre ci dice quanto, nella famiglia Castelnuovo, cultura e istruzione fossero ritenute necessarie come e il pane.
Nata nel 1913, la figlia di Guido visse in famiglia lo spirito innovatore di chi all’inizio del secolo propugnava un’idea di cultura in cui scienza e arti umane intrecciassero le loro domande, avendo ben chiara l’idea che la diffusione di una cultura aperta al progresso e consapevole delle contraddizioni sociali fosse condizione indispensabile per lo sviluppo della democrazia. Chi maggiormente contribuì alla sua formazione fu certamente Federigo Enriques, suo zio, che la spronò a pubblicare, già nel ’48, il suo primo libro pazzo, come lei usava chiamarlo, che rovesciava radicalmente il tradizionale modo di insegnare la matematica, tuttora largamente e tristemente praticato.
La genesi de “La geometria intuitiva” è assai interessante perché, partendo dalla noia che avvertiva nei ragazzi, la giovane Castelnuovo comprende che deve cambiare tutto e pensa che la geometria possa “darci l’appoggio”, come usava dire. Facendo proprio il pensiero del matematico svizzero Jacob Steiner, uno spirito ribelle che a 18 anni scappò di casa per andare a studiare da Heinrich Pestalozzi, sosteneva infatti che “il calcolo sostituisce il pensiero, mentre la geometria stimola il pensiero”.
“Io mi rifaccio al concetto di intuire che è precisato dalla pedagogia pestalozziana, cioè intuizione intesa come costruzione dove l’attenzione non si rivolga tanto all’oggetto ma alla sua variazione, a un’azione, a una operazione con l’oggetto stesso”.
Lei, che si muoveva incessantemente per la classe e sosteneva che non si può insegnare stando seduti, faceva letteralmente uscire le figure dai libri perché i ragazzi stessi, con elastici, spaghi e stecchette mettessero in movimento mani e pensieri, scambiandosi congetture ed ipotesi in un serrato confronto che lei continuamente animava, allargando lo sguardo all’arte, all’architettura, alle varietà vegetali; a tutti quegli elementi della realtà di cui è appassionante scovare le leggi matematiche.
Qui sta il cuore della sua visione dinamica delle figure e la sua incessante ricerca nel costruire strumenti semplici per comprendere relazioni complesse e permettere a tutti di osservare costanti e varianti.
“Un libro tradizionale comincia dalle definizioni e dai concetti generali” ma “non dimentichiamoci che ciascuna delle nostre definizioni è il risultato di un lavoro durato secoli.” Il rischio è che “il professore farà fare degli esercizi su delle definizioni che lo studente non avrà assimilato, che lui non avrà condotto a scoprire e questo è assurdo”, scrive nel 1950 sui Cahiers Pédagogique. “Io non dò nessuna definizione, l’alunno dovrà sentire lui stesso la necessità delle definizioni, dovrà formulare lui stesso le definizioni”. In questo articolo c’è la sua ferma posizione contro i manuali ricalcati da Euclide che partono da definizioni astratte e il fondamento della sua rivoluzione didattica: una matematica per imparare a ragionare, per imparare a esprimere e a dare forma ai propri pensieri, una geometria che renda consapevoli che si può guardare la realtà “con gli occhi della mente”, scovandone le innumerevoli connessioni, come la invitava a fare da giovane Federigo Enriques, che nel 1906 diede vita, da matematico, alla Società Italiana di Studi filosofici.
Seguono nel libro i racconti delle tante avventure di Emma Castelnuovo nel mondo, tra cui l’esilarante episodio in cui la vediamo contrapporsi energicamente al matematico francese Jean Dieudonné del gruppo Bourbaki che nel 1959, negli anni della febbre insiemistica, in una sua relazione propugnò lo slogan “Abbasso il triangolo”. Dalla sala si alzò in piedi lei, donna e professoressa di scuola media in quel consesso maschile e universitario, e lo interruppe dicendo: “Il tavolo da cui vengono pronunciate queste frasi ed esposte queste considerazioni teoriche non reggerebbe e tutte le vostre carte volerebbero a terra se non avesse quei triangoli molto concreti sotto a sorreggerlo!”.
Così era Emma Castelnuovo: radicale nelle sue scelte, intraprendente e impertinente. La sua lungimiranza fu tale che molte sue invenzioni didattiche vengono ora avvalorate dai più recenti studi nel campo delle neuroscienze, che confermano quanto lavorare sulle trasformazioni continue con materiali dinamici aiuti chi ha maggiori difficoltà a costruire e a far propri i concetti di struttura e classificazione.
Un capitolo della biografia racconta la puntigliosità e precisione con cui redigeva i suoi testi cercando concisione, chiarezza e bellezza, perché le sue proposte didattiche erano sempre accompagnate da immagini suggestive e non banali. C’è un libro che Emma Castelnuovo ha scritto e riscritto per tutta la vita, di cui nel 2005, a 92 anni, ha voluto curare un’ulteriore edizione. E’ l’eredità più preziosa che lascia alla scuola, perché i 6 volumi intitolati semplicemente “La matematica” (La Nuova Italia), sono attualissimi e insuperati tra i libri di testo per la scuola media, per la genialità delle proposte e la capacità di offrire percorsi che aprirono la mente. Purtroppo sono tenuti nascosti dalle sciagurate scelte dell’editoria scolastica, che spesso privilegia novità redditizie alla qualità.
Se conoscete qualche insegnante di matematica regalateglieli. Sono un dono prezioso per chi educa e per i ragazzi, che potranno incontrare un modo aperto e appassionante di provare a comprendere il mondo attraverso la matematica.
La cultura secondo Enriques
di Umberto Bottazzini (Il Sole-24 Ore, Domenica, 31 Luglio 2016)
«Rivedendo l’opera immensa di Federigo Enriques comprendiamo quale perdita irreparabile abbiano subito con la sua morte la matematica, la filosofia, la storia della scienza nel nostro paese». Non sono certo di circostanza le parole con cui il presidente Guido Castelnuovo annuncia ai Lincei l’improvvisa scomparsa dell’amico e collega, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 giugno di settant’anni fa. Matematica, filosofia, storia della scienza, dice Castelnuovo. Ed in geometria si manifesta il genio precoce di un Enriques poco più che ventenne che, fresco di laurea alla Normale e vincitore di una borsa di studio, nel 1892 si presenta a Castelnuovo a Roma.
Ben presto tra i due si instaura un sodalizio scientifico, che alimenta un fitto carteggio quando Enriques si trasferisce a Bologna, si salda in un rapporto familiare con il matrimonio di Guido con Elbina, sorella di Federigo, e trova forma in lavori a due e quattro mani. Con cadenza quasi quotidiana i due matematici affidano alle loro lettere intuizioni e dubbi, risultati e ripensamenti, progressi, delusioni, entusiasmi.
Il 4 maggio 1896 Enriques sorprende l’amico scrivendogli che «da più giorni» si sta «occupando di un’altra questione che dalla matematica prende solo il pretesto. Sentendone il nome tu proverai più orrore che stupore», egli avverte Castelnuovo.
È infatti il «problema filosofico dello spazio» l’ “altra questione” che ha cominciato ad appassionare Enriques. «Assaporo con voluttà, tentando di estrarne il succo» libri di critica della conoscenza, di logica, fisiologia e psicologia comparata, continua Enriques che non esita a confessare: «porto nella ricerca un entusiasmo, che tu stimerai degno di miglior causa, ma che è certo maggiore di quanto ne abbia mai provato per qualsiasi altra questione».
Nientemeno! Venticinque anni Enriques, trenta Castelnuovo. Matematici nel fiore dell’età creativa, che si sono avventurati nei territori inesplorati della geometria delle superfici algebriche.
Dieci anni più tardi, con la classificazione di quelle superfici si conclude il loro comune lavoro di ricerca, ma non quello di Enriques che continua con la collaborazione di numerosi allievi. Al tempo stesso sono giunte a maturazione anche le sue idee in filosofia. Convinto che la filosofia «debba essere fatta da spiriti scientifici, ed in servigio della scienza», dà alle stampe i Problemi della scienza (1906), vero e proprio manifesto della «filosofia scientifica» con cui egli si affaccia sulla scena filosofica italiana e internazionale.
Nel settembre di quell’anno Enriques è protagonista del primo congresso della Società filosofica italiana (Sfi). In polemica con il ministro della Pubblica istruzione, nel suo intervento sostiene «l’assurdità di preparare i futuri filosofi con una esclusiva educazione storica e letteraria», e rivendica per la matematica «un posto d’onore fra gli insegnamenti che preparano alla filosofia».
Eletto presidente della Società, stila un ordine del giorno approvato all’unanimità, che deplora «la netta distinzione delle Facoltà che in ispecie allontana la Filosofia dalle scienze matematiche, fisiche e biologiche», e auspica «la costituzione di una grande Facoltà che accolga e coordini alla Filosofia tutte le discipline teoriche».
A Milano, a pochi giorni di distanza dal congresso della Sfi si tiene anche il congresso dei Naturalisti italiani in cui il matematico Vito Volterra, in piena sintonia con Enriques, lancia la proposta di una Società italiana per il progresso delle scienze (Sips). «L’insieme dei fatti scientifici nuovi ha rinnovellato in una con le abitudini della vita, l’indirizzo generale della cultura, ed ha sviluppato e consolidato un sentimento tutto nuovo, moderno e originale, che chiamerei sentimento scientifico, il quale domina beneficamente la nostra epoca», afferma Volterra nel 1907 nel discorso inaugurale della Società, che Enriques si affretta a pubblicare nella «Rivista di scienza» (Scientia), la rivista cui ha dato vita quello stesso anno per promuovere «una Filosofia libera da legami diretti coi sistemi tradizionali» ed «affermare un apprezzamento più largo dei problemi della Scienza».
Le pagine della rivista ospitano contributi di Russell e Poincaré, Rutherford e Mach, Freud e Einstein. È una ventata d’aria fresca nel panorama filosofico del nostro Paese, che tuttavia non è affatto apprezzata dai filosofi idealisti, come sono con sfumature diverse Croce e Gentile.
Per quest’ultimo la rivista di Enriques «non può incoraggiare se non il dilettantismo scientifico», e i suoi Problemi della scienza non offrono altro che «vagheggiamenti di una filosofia scientifica» che «non si scontrano mai con la filosofia». Sono le prime avvisaglie di una lotta per l’egemonia in campo filosofico con un antagonista come Enriques che trova largo credito nella comunità filosofica internazionale.
Dal piano accademico la polemica scivola sul terreno pubblico nel 1911 all’indomani del Congresso internazionale di filosofia organizzato a Bologna da Enriques. In una velenosa intervista rilasciata a un quotidiano Croce non esita a definire il matematico-filosofo un «volonteroso» professore, «che con zelo ma scarsa preparazione si diletta di filosofia» e «si addossa le fatiche dei congressi dei filosofi, meritorie quanto sarebbero meritorie e disinteressate le mie, se organizzassi congressi di matematici».
Nel 1919 Croce la svilisce a «polemichetta» con un matematico che «era stato preso da zelo per quella filosofia astrattamente razionalistica, che sorge facile nei cervelli dei matematici e cerca e trova fortuna nei circoli democratici e massonici. Con l’aiuto dei quali, mise insieme il Congresso internazionale di filosofia in Bologna nel 1911».
La prima guerra mondiale segna per Enriques la fine di una stagione, che è resa emblematica dal suo abbandono della direzione di «Scientia». Dagli anni Venti promuove studi e ricerche in storia della scienza e, messe da parte le antiche polemiche, collabora con Gentile dirigendo la sezione di Matematica dell’Enciclopedia Treccani.
Con l’idealismo trionfante in Italia Enriques continua la sua battaglia filosofica all’estero, soprattutto in Francia. «Io appartengo alla generazione di coloro che, educati nell’ambiente della filosofia positivista, hanno visto, nella loro stessa giovinezza, risollevarsi lo stendardo dell’idealismo metafisico e ingaggiare una lotta violenta contro lo spirito positivo», afferma a Parigi nel 1935 al Congrès de Philosophie scientifique che segna la nascita ufficiale dell’empirismo logico. «Dopo trent’anni, dominati da queste correnti di pensiero - continua Enriques - assisto oggi al ritorno della filosofia scientifica.... È questo un avvenimento che saluto di tutto cuore».
Dagli eredi del Circolo di Vienna è considerato uno dei pensatori che ha «preparato il terreno ad una teoria moderna di empirismo scientifico» come dice Neurath, che lo invita a scrivere il testo introduttivo per il primo fascicolo Unity of science della nuova Enciclopedia Internazionale dell’Unità della Scienza. Ma negli stessi anni Enriques prende le distanze dal neopositivismo logico, e in una relazione ai Lincei rivendica di fronte a Gentile l’importanza della storia del pensiero scientifico e l’unità della cultura.
È il suo ultimo intervento in Accademia, il 6 febbraio 1938. Pochi mesi prima che le leggi razziali, bandendo dalle scuole e dalle università studenti e professori ebrei e i libri di autori ebrei, gli tolgano cattedra, voce pubblica e parola scritta.
Croce e il suo amico Einstein
Divisi su concetti e pseudoconcetti ma uniti sui temi politici: entrambi erano preoccupati dalle sorti dell’Europa
di Vincenzo Barone (Il Sole-24 Ore, Domenica, 28.02.2016)
«La gente si lamenta che la nostra generazione non abbia filosofi. Non è assolutamente vero: solo che i filosofi, oggi, stanno in un’altra Facoltà, e si chiamano Planck e Einstein». Così si esprimeva nel 1911 un illustre intellettuale tedesco, il teologo e storico Adolf von Harnack, nel suo discorso di insediamento alla presidenza della Società Kaiser Wilhelm.
Il dominus del pensiero nostrano, Benedetto Croce, era di parere opposto: riteneva che gli scienziati dovessero fare il loro mestiere - cioè «maneggiare e classificare» -, senza intromettersi in faccende riguardanti la filosofia e il «vero». In quello stesso 1911, il matematico Federigo Enriques organizzò a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia. Chiamò a parteciparvi i più importanti filosofi dell’epoca, ma anche grandi scienziati come Peano, Poincaré, Langevin (quest’ultimo, dovendo parlare di relatività a una platea di umanisti, introdusse proprio in quell’occasione il cosiddetto «paradosso dei gemelli»).
Croce presenziò con un certo fastidio alle sessioni del congresso. Durante il viaggio di ritorno, rilasciò una famosa intervista in cui, senza mezzi termini, accusava Enriques di incompetenza e di dilettantismo filosofico. «Si addossa le fatiche dei congressi dei filosofi, meritorie quanto sarebbero meritorie e disinteressate le mie, se organizzassi congressi di matematici», disse. Enriques, però, era uno storico e filosofo della scienza di prim’ordine, mentre la matematica di Croce non andava oltre le quattro operazioni. Né il pensatore napoletano riteneva opportuno approfondire le scienze astratte ed empiriche, alle quali non attribuiva valore conoscitivo.
Ancora nel 1951 (quando ormai la rilevanza concettuale delle scoperte scientifiche del Novecento era incontestabile), parlava di una «tranquilla rivoluzione filosofica» compiutasi nella prima metà del secolo, che sarebbe consistita nel fatto che «le scienze naturali e le discipline matematiche, di buona grazia hanno ceduto alla filosofia il privilegio della verità ed esse rassegnatamente, o addirittura sorridendo, confessano che i loro concetti sono concetti di comodo e di pratica utilità, che non hanno niente a che vedere con la meditazione del vero».
Com’era scontato, Croce non avvertì il bisogno di esprimere un’opinione sulla teoria della relatività, neanche quando, nei primi anni Venti, in occasione della venuta in Italia di Einstein (su invito proprio di Enriques), molti altri filosofi italiani (per esempio, Antonio Aliotta, Annibale Pastore, Francesco Orestano) ritennero di pronunciarsi. Ruppe parzialmente il silenzio solo nel 1929, in un breve scritto di commento a un libro dello studioso tedesco Alexander Maria Fraenkel, Le scienze naturali nella filosofia di Benedetto Croce (tradotto per Laterza solo nel 1952).
Convinto dell’impossibilità di principio di una filosofia della natura, Croce si diceva scettico riguardo al tentativo, attuato da Fraenkel, «di dimostrare che il progresso della scienza, che sarebbe rappresentato soprattutto dalla dottrina della Relatività, ha importanza filosofica e trasforma profondamente la vecchia scienza fisica e naturale, rendendo possibile per la prima volta in questo campo, non il semplice ordinamento classificatorio dell’esperienza, ma il giudizio dell’individuale, affatto analogo al giudizio storico a cui mette capo la Filosofia dello spirito». «Non oso decidere - aggiungeva retoricamente - se abbia ragione esso [Fraenkel] o l’Einstein con gli altri matematici e fisici della nuova scuola; esso che chiama filosofiche le loro scoperte e filosofi quegli scienziati; quelli che protestano contro l’interpretazione filosofica delle loro escogitazioni».
Croce era nel giusto quando respingeva come priva di senso l’interpretazione soggettivistica della relatività, ma lo faceva solo per difendere la purezza dell’idealismo, visto che considerava i concetti della teoria einsteiniana, come tutti i concetti scientifici, nient’altro che «pseudogiudizi riferiti a una fictio». Del tutto infondato, poi, era l’agnosticismo filosofico che pretendeva di attribuire al padre della relatività: con buona pace di tutti gli idealisti, era stato Einstein - assieme ad altri fisici come Schrödinger, Heisenberg, Dirac - a compiere la vera (e non così tranquilla) rivoluzione filosofica del Novecento.
Croce e Einstein non potevano evidentemente incontrarsi sul terreno della scienza e della filosofia, ma trovarono elementi di intesa e di stima reciproca nel campo della politica e degli ideali civili. I due si conobbero a Berlino nel 1931, scoprendo di condividere lo stesso sentimento di preoccupazione per le sorti dell’Europa. Anni dopo, nel 1940, quando la tragedia della guerra si stava già consumando, contribuirono entrambi a un volume sulla libertà (Freedom: its meaning), edito a New York, che raccoglieva gli interventi di molti altri grandi intellettuali dell’epoca.
Nel 1944, all’indomani della liberazione di Roma, Einstein inviò a Croce una lettera di stima e di incoraggiamento per l’importante ruolo che il filosofo stava svolgendo nella ricostruzione della democrazia italiana (la lettera, assieme alla risposta di Croce, fu pubblicata dapprima in opuscolo e poi nella raccolta crociana Pagine Politiche, Laterza, 1945). «Mi consolo - scriveva il grande fisico - nel pensiero che Ella è ora presa da occupazioni e sentimenti incomparabilmente più importanti, e particolarmente dalla speranza che la sua bella patria sia presto liberata dai malvagi oppressori di fuori e di dentro». E proseguiva: «La filosofia e la ragione medesima sono ben lungi, per un tempo prevedibile, dal diventare guide degli uomini, ed esse resteranno il più bel rifugio degli spiriti eletti; l’unica vera aristocrazia, che non opprime nessuno e in nessuno muove invidia, e di cui anzi quelli che non vi appartengono non riescono neppure a riconoscere l’esistenza».
Croce rispose cordialmente, dicendo di aver dovuto prendere temporaneo commiato da quel mondo spirituale di cui parlava Einstein, per partecipare direttamente alla vita politica e allo sforzo collettivo per la rinascita del paese. La filosofia, osservava, «è un’azione mentale, che apre la via, ma non si arroga di sostituirsi all’azione pratica e morale, che essa può soltanto sollecitare». Alla fine della lettera, si scusava con l’illustre amico per essersi dilungato in ragionamenti: «Naturam expelles furca, tamen usque recurret» («Potrai scacciare la natura con la forca, ma essa ritornerà sempre»), scriveva, citando Orazio e riferendosi alla natura del filosofo, «che distingue e teorizza». La stessa massima, ironicamente, potrebbe applicarsi al suo spiritualismo: scacciata dalla forca del Filosofo, la Natura finisce sempre per tornare.
Rileggere Gramsci come antidoto all’indifferenza
di Claudio Gallo (La Stampa, 10.02.2015)
Antonio Gramsci, chi è costui? Abbandonando l’imperfetto della citazione manzoniana, Diego Fusaro spiega in un agile testo di Feltrinelli (Antonio Gramsci, pp 175, €14) perché il pensatore sardo merita di essere riletto al presente.
Fusaro accoglie amorevolmente Gramsci nel proprio orizzonte di pensiero. Ne nasce una visione stimolante, che farà balzare dalla sedia i più tradizionalisti. La questione del rapporto dell’autore dei Quaderni dal carcere con il Partito comunista di Palmiro Togliatti, periferica alle intenzioni dell’opera, è appena affrontata. Abbastanza, però, per capire che l’autore si schiera con chi ritiene il Pci colpevole di aver volontariamente lasciato languire Gramsci in prigione, per liberarsi di un critico scomodo. Salvo poi innalzarlo agli onori museali, tra gli dei oziosi del comunismo italiano.
Perché, allora, rileggere l’Ordine Nuovo o i Quaderni? Nel discorso che dialetticamente si compone attraverso quelle opere, Fusaro vede un potente antidoto al Pensiero Unico, la società imbalsamata nel presente, senza possibilità di alternative future, che il filosofo torinese ha più volte tratteggiato come l’ideologia (totalitaria) del capitalismo avanzato.
Fin dall’editoriale del numero unico della rivista La città futura, dell’11 febbraio 1917, intitolato Odio gli indifferenti, Gramsci si schiera appassionatamente contro chi cede al fatalismo e al cinismo di fronte a una realtà percepita come ingiusta, per disperazione o convenienza. Scrive Fusaro: «Se come Gramsci ama ripetere in questo scritto del ‘17 (e si tratta di un modus operandi a cui sempre resterà fedele) “vivere vuol dire essere partigiani”, allora non può esservi spazio per passioni tristi come l’indifferenza e la rassegnazione, il cinismo e il disincanto: amore e odio e “fantasia concreta’” devono diventare le tonalità emotive dominanti dell’essere al mondo dell’uomo».
Parole che acquistano il loro senso forte in questa epoca anestetizzata e impotente, senza speranze al di fuori del cerchio angusto dell’individualità. Senza alternative soprattutto. Se si torna più indietro però, tutto diventa più complicato: è stata proprio l’alternativa amico/nemico infatti a insanguinare il Novecento. Ma questo è un altro discorso.
Secondo Fusaro, la genialità ancora attuale di Gramsci sta nell’aver corretto con la sua filosofia della prassi, in grande anticipo sulla storia, le interpretazioni positivistiche e deterministiche di Marx. Sintesi di volontarismo e dialettica storica, la praxis gramsciana, permette una sorprendente equazione: Hegel sta a Marx, come Gentile sta a Gramsci. In questa linea di pensiero, che lascerà a bocca aperta i marxisti classici per l’accostamento dei «due grandi italiani», sta la maggiore originalità del saggio.
“Manifesto
Per un’Europa di progresso”
Il mondo è in rapida trasformazione. Società ed economia della conoscenza hanno profondamente ridisegnato equilibri ritenuti consolidati. Aree geografiche depresse hanno conquistato, in tempi storicamente irrisori, potenziali enormi di sviluppo e crescita. Conoscenza, cultura e innovazione rappresentano più che mai il traino decisivo verso il futuro.
All’opposto l’Occidente, e alcuni aspetti del suo modello di sviluppo, sono entrati in una crisi profonda. L’Europa, in particolare, risulta investita da gravissimi e apparentemente irresolubili problemi: disoccupazione, crisi del tessuto produttivo, riduzione sostanziale del welfare. A pochi anni dalla sua formale consacrazione, con la nascita ufficiale della moneta comune, l’Europa rischia di deflagrare come sogno di una comunità di cittadine e cittadini che avevano ambito ad una nuova Nazione comune: più ampia non solo geograficamente, quanto nello spazio dei diritti, dei valori e delle opportunità. Lo storico americano Walter Laqueur ha parlato della “fine del sogno europeo”.
Le responsabilità sono diverse e distribuite e investono certamente l’eccessiva timidezza nel processo di costituzione politica del soggetto europeo: la responsabilità di presentare questo orizzonte politico, culturale e sociale con le sole fattezze della severità dei “conti in ordine”. L’Europa dei mercanti e dei banchieri, della restrizione e del rigore: una sorta di gendarme che impone limiti spesso insensati, piuttosto che sostegno nell’ampliare prospettive di visuale sugli sviluppi del futuro.
Proprio a causa di ciò, assistiamo, in corrispondenza della crisi, ad un’impressionante crescita di egoismi locali, di particolarismi e di veri e propri nazionalismi.
Fenomeni spesso intenzionalmente organizzati per sfruttare malesseri veri, e reali stati di sofferenza, ma che rischiano di produrre reazioni esattamente opposte a quanto oggi servirebbe alle popolazioni d’Europa.
Come scienziate e scienziati di questo continente - consapevoli che esiste un nesso inscindibile tra scienza e democrazia - sentiamo quindi la necessità di metterci in gioco. Di ribadire che il processo di costruzione degli Stati Uniti d’Europa è la più importante opportunità che ci è concessa dalla Storia. Che società ed economia della conoscenza - essenziali per il processo di reale evoluzione civile, pacifica, economica e culturale - si alimentano di comunità coese e collaborative, di comunicazioni intense e produttive e di uno spirito critico che permei strati sempre più vasti della società.
L’unica risposta possibile alla crisi incombente è allora la costruzione dell’Europa dei popoli, di un’Europa di Progresso! Realizzata sulla base dei principi di libertà, democrazia, conoscenza e solidarietà.
Nutriamo la stessa speranza con cui Albert Einstein e Georg Friedrich Nicolai nel “Manifesto agli Europei” del 1914 richiamarono alla ragione i popoli europei contro la sventura della guerra, e con cui Altiero Spinelli, Eugenio Colorni ed Ernesto Rossi ispirarono l’idea d’Europa nel loro “Manifesto di Ventotene” del 1943. Le stesse idee che ebbero indipendentemente fautori illustri anche in tutti i Paesi d’Europa.
Vogliamo riprendere ed estendere all’Europa lo spirito che nel 1839 portò gli scienziati italiani a organizzare la loro prima riunione e a inaugurare il Risorgimento di una nazione divisa.
Promotori (*) e Primi firmatari
Ugo AMALDI (CERN, Ginevra)
Giovanni BACHELET (Università di Roma “La Sapienza”)
Giorgio BELLETTINI (Università di Pisa e INFN)
Carlo BERNARDINI (*) (Università di Roma “La Sapienza”)
Sergio BERTOLUCCI (Direttore di ricerca, CERN, Ginevra)
Vittorio BIDOLI (INFN, Roma)
Giovanni BIGNAMI (Presidente Istituto Nazionale di AstroFisica - INAF)
Marcello BUIATTI (Università di Firenze)
Cristiano CASTELFRANCHI (Università Luiss, Uninettuno e ISTC-CNR)
Vincenzo CAVASINNI (*) (Università di Pisa e INFN)
Remo CESERANI (Università di Bologna e Stanford University, CA)
Emilia CHIANCONE (Presidente Accademia dei Quaranta)
Paolo DARIO (Scuola Superiore Sant’Anna, Pisa)
Tullio DE MAURO (Università di Roma “La Sapienza”)
Luigi DI LELLA (CERN, Ginevra)
Rino FALCONE (*) (CNR Roma, Direttore Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione)
Stefano FANTONI (Presidente Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Sergio FERRARI (già vice direttore ENEA)
Ferdinando FERRONI (Presidente Istituto Nazionale di Fisica Nucleare - INFN)
Fabiola GIANOTTI (CERN, Ginevra)
Mariano GIAQUINTA (Scuola Normale Superiore, Pisa)
Pietro GRECO (*)(Giornalista e scrittore, Roma)
Angelo GUERRAGGIO (Università Bocconi)
Fiorella KOSTORIS (Agenzia Nazionale Valutazione Università e Ricerca)
Francesco LENCI (*) (CNR Pisa e Pugwash Conferences for Science and World Affairs)
Giorgio LETTA (Vice Presidente Accademia dei Quaranta)
Lucio LUZZATTO (Istituto Toscano Tumori)
Tommaso MACCACARO (INAF)
Lamberto MAFFEI (Presidente Accademia dei Lincei)
Italo MANNELLI (Scuola Normale Superiore, Pisa e accademico dei Lincei)
Giovanni MARCHESINI (Università degli studi di Padova)
Ignazio MARINO (Thomas Jefferson University, Sindaco di Roma)
Annibale MOTTANA (Università di Roma 3 e accademico dei Lincei)
Paolo NANNIPIERI (*) (Università di Firenze)
Pietro NASTASI (*) (Università di Palermo)
Luigi NICOLAIS (Presidente Consiglio Nazionale delle Ricerche - CNR)
Giorgio PARISI (Università di Roma “La Sapienza”, accademico dei Lincei)
Maurizio PERSICO (Università di Pisa)
Giulio PERUZZI(*) (Università degli studi di Padova)
Caterina PETRILLO (Università degli studi di Perugia)
Pascal PLAZA (CNRS e Ecole Normale Supérieure, Paris)
Claudio PUCCIANI (*) (Vice Presidente Associazione Caffè della Scienza - Livorno)
Michael PUTSCH (CNR Genova, Direttore Istituto di Biofisica)
Carlo Alberto REDI (Università di Pavia)
Giorgio SALVINI (Università di Roma “La Sapienza”, già Presidente dell’Accademia dei Lincei)
Vittorio SILVESTRINI (Presidente della Fondazione IDIS - Città della Scienza, Napoli)
Settimo TERMINI (*) (Università di Palermo)
Glauco TOCCHINI-VALENTINI (National Academy of Sciences, CNR-EMMA-Infrafrontier-IMPC, Monte Rotondo, Roma)
Guido TONELLI (CERN, Ginevra e Università di Pisa)
Enric TRILLAS (Emeritus Researcher European Centre for Soft Computing, già Presidente CSIC, Spagna)
Fiorenzo UGOLINI (Università di Firenze)
Nicla VASSALLO (Università di Genova)
Virginia VOLTERRA (Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione - CNR)
Elena VOLTERRANI (*) (Provincia di Pisa e INFN)
John WALSH (INFN)
Strenuamente antiscientifica
di Giuseppe Bedeschi (Il Sole 24 ORE, 2013-10-13)
La scienza e il pensiero scientifico non hanno mai trovato, nel nostro Paese, un terreno favorevole, né nell’alta cultura né nelle ideologie politiche. Agli inizi del Novecento, Benedetto Croce affermava, nella sua Logica come scienza del concetto puro, che «le scienze naturali non erano altro che edifizi di pseudoconcetti», che con le loro "astrazioni e matematizzazioni", «mutilavano la vivente realtà del mondo, onde le cose venivano fermate e contrassegnate per ritrovarle e servirsene all’uopo. Non già per intenderle»: talché esse venivano ridotte a "oggetti senz’anima".
E parimenti "sen- z’anima" era per Giovanni Gentile la scienza: in essa «c’era sempre un difetto, una certa materialità e astrattezza, che era, in fondo, l’astrattezza del logo astratto (e di un logo concreto decaduto a logo astratto)»: donde la «tendenza logicamente necessaria della scienza» a percepire la natura come una realtà "senza fini, estranea allo spirito".
Nelle ideologie politiche, dicevamo, le cose non sono andate meglio: anche qui la scienza, e l’organizzazione industriale del mondo moderno intimamente legata agli sviluppi della scienza, sono state spesso oggetto di critiche aspre e distruttive. Il fascismo, in nome dell’Uomo Nuovo che doveva nascere dalla Rivoluzione nazionale, contrappose alla società industriale l’ideale arcaicizzante del "ritorno alla terra", per salvare l’Italia da quello che Mussolini chiamava con disprezzo il "supercapitalismo": al quale imputava la «standardizzazione del genere umano dalla culla alla bara», che aveva trovato nella società americana la sua realizzazione più compiuta e pericolosa. Di qui l’accanita, instancabile polemica degli intellettuali fascisti contro l’America.
Su queste premesse filosofiche e ideologico-politiche si soffermano largamente, e giustamente, Elio Cadelo e Luciano Pellicani nel loro bel saggio Contro la modernità. Le radici della cultura antiscientifica in Italia.
Gli autori mostrano anche come questa ispirazione antiscientifica caratterizzi non solo le ideologie "di destra", ma anche importanti filoni delle ideologie "di sinistra". Basti pensare alla enorme fortuna che da noi ebbero nel Sessantotto e negli anni successivi le opere della Scuole di Francoforte. Fu uno straordinario revival di autori tedeschi emigrati negli Stati Uniti (Adorno, Horkheimer, Marcuse, eccetera), i cui scritti non avevano avuto largo corso prima.
Gli autori della Scuola di Francoforte si ispiravano a un hegelo-marxismo, in cui Hegel aveva completamente sopraffatto Marx: mentre per questi, infatti, il capitalismo aveva un ruolo fondamentale nella storia, quello di sviluppare enormemente le forze produttive, con l’applicazione della scienza ai processi produttivi (e di qui un alto apprezzamento per la scienza medesima), per i filosofi "francofortesi", invece, la struttura metodica delle scienze naturali era un prodotto della reificazione capitalistica, sicché le scienze venivano messe sotto accusa in quanto manifestazione genuina del ca- pitalismo.
Se questa critica era importata (massicciamente) dall’estero, non mancarono da noi teorizzazioni fatte da studiosi italiani in questa direzione. Nel 1976 un gruppo di fisici pubblicò un libro (che ebbe allora vasta eco), L’ape e l’architetto, a cura di un noto fisico, Marcello Cini, il quale scriveva che non era sufficiente «fermarsi alla critica dell’uso capitalistico della scienza, ma occorreva spingersi oltre, fino a esaminare se anche nel tessuto stesso della scienza - nei suoi contenuti e nei suoi metodi, nella scelta dei problemi da risolvere e nella definizione delle priorità da rispettare, nella stessa formulazione delle sue ipotesi e nella costruzione dei suoi strumenti - non si potessero rintracciare le impronte dei rapporti sociali di produzione capitalistici, nell’ambito dei quali essa veniva prodotta». Di conseguenza, «non solo la cosiddetta razionalità economica, ma la stessa pretesa razionalità scientifica si identificavano con la logica irrazionale del capitalismo». Era assolutamente necessario, pertanto, denunziare in tutti i modi la natura irrimediabilmente classista della scienza.
Questo atteggiamento negativo verso la scienza, proveniente da tante direzioni e da tanti rivoli diversi, ha inciso senza dubbio sulla mentalità media degli intellettuali italiani, e quindi della nostra classe dirigente in senso lato.
Così non può meravigliare il fatto che il nostro Paese mostri una stupefacente insensibilità per i problemi della ricerca e dello sviluppo scientifici, e che in questo settore vitale siamo inchiodati da quasi trent’anni a una spesa che oscilla tra l’1,1 e l’1,3 % del Pil (che è la metà della media europea).
E non solo: in Italia c’è il numero più basso di ricercatori in campo scientifico rispetto ai Paesi del G8: solo 70mila rispetto ai 640mila del Giappone o ai 147mila del Regno Unito. Tutto ciò non è certo frutto del caso, come Cadelo e Pellicani mostrano in capitoli appassionanti.
Tutta colpa della borghesia
Gli idealisti contro la scienza alla base della crisi italiana
«Contro il materialismo» di Pierpaolo Antonello analizza come da noi sia stato sminuito in modo sistematico il pensiero scientifico
di Pietro Greco (l’Unità, 30.09.2012)
NON È COLPA DEGLI IDEALISTI, SOSTIENE ANNA TARQUINI GIÀ NEL TITOLO DI UN SAGGIO APPARSO DI RECENTE SULLA RIVISTA «IL MULINO». Non è colpa dell’«idealismo italiano» di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, sostiene la storica in forza all’università La Sapienza di Roma, se l’Italia da decenni ha fatto a meno della scienza per alimentare la propria cultura e la propria economia. Le colpe vanno ricercate altrove.
Non è solo colpa solo di Croce e Gentile, sostiene Pierpaolo Antonello, docente di Letteratura italiana contemporanea a Cambridge, Gran Bretagna, in un libro, Contro il materialismo, in uscita in questi giorni per l’editore Nino Aragno. Ma è colpa anche di tanti altri idealisti che, a destra come a sinistra, hanno sminuito, in maniera sistematica e persino deliberata, il valore culturale della scienza e, nel medesimo tempo - sottolinea il Senior Lecture dell’università inglese, nel poderoso volume (oltre 400 pagine) in cui rifà il «bilancio di un secolo» di confronto tra le «due culture» in Italia - la portata di quel «materialismo volgare» che si fonda sulla profonda e ineludibile componente biologica dell’uomo.
Il libro di Pierpaolo Antonello farà certo discutere. Perché è (sanamente) scomodo. Anche per la sinistra italiana. Anche per la comunità scientifica. La tesi di fondo è molto diversa - persino opposta - a quella di Anna Tarquini. Gli idealisti sono colpevoli, eccome. Ma il punto di partenza e il punto di approdo delle due analisi sono i medesimi. Il punto di partenza è una constatazione di fatto: l’Italia è un paese di nuovo in fase di declino perché nel corso del XX secolo e di questo primo scorcio del XXI non ha quasi mai saputo fare i conti con la modernità. Perché continua a «rifiutare la scienza».
Il punto di approdo è il medesimo. Colpevole di questa storica incapacità è, soprattutto, la borghesia italiana, piccina e provinciale, che nel nostro paese, a differenza che in Inghilterra o in Francia, non è mai riuscita a fare la sua rivoluzione. Nel mezzo c’è il ruolo, controverso, degli intellettuali. Anna Tarquini, in buona sostanza, li assolve. Se l’Italia «rifiuta la scienza», la colpa non è dei filosofi, ma dei produttori. Non è dell’idealismo ma del «modello di sviluppo senza ricerca» fatto proprio, unica in occidente, da una borghesia produttiva di corte vedute. La tesi di Pierpaolo Antonello è invece diversa. Molto netta e ben documentata. Anche i filosofi idealisti, anche i letterati hanno la loro buona parte di colpa. Tutta l’Europa nel corso del Novecento ha vissuto lo scontro di quelle che Charles Percy Snow ha definito «le due culture»: quella umanistica e quella scientifica.
Ma solo in Italia - attraverso quattro diverse ondate, lunghe ciascuna una trentina di anni, l’ultima delle quali dura tuttora - hanno prevalso sempre e regolarmente gli «umanisti». Determinando l’anomalia italiana, che è culturale oltre che economica. Pierpaolo Antonello ha analizzato in dettaglio due componenti (più una) della cultura italiana del XX secolo e della prima parte del XXI secolo: quella filosofica e quella letteraria. In entrambe non solo si è scavato un solco tra le «due culture». Ma «quel solco è stato deliberatamente scavato in profondità e difeso strategicamente» da una parte prevalente dei nostri intellettuali.
Nella componente letteraria, in realtà, il confronto tra «umanisti» e «scientifici» è stato abbastanza ricco e ha avuto un esito non sempre a senso unico. Figure come Italo Calvino, Primo Levi, Carlo Emilio Gadda e, aggiungiamo noi, Gianni Rodari hanno rinnovato la «vocazione profonda» della letteratura italiana, che - da Dante a Leopardi - è quella del confronto con la «filosofia naturale». In ambito filosofico, invece, non c’è stata partita. Hanno sempre vinto gli idealisti. E, sostiene Antonello riprendendo esplicitamente una tesi espressa da Sebastiano Timpanaro nel saggio Sul materialismo del 1970, hanno sempre perso i materialisti.
PROVINCIA DEL REICH FILOSOFICO
Nel corso di tutto il Novecento e in questi primi anni del XXI secolo, l’Italia è stata, come sosteneva Lucio Colletti, «una provincia del Reich filosofico germanico». La vittoria ha arriso agli idealisti non solo negli ambienti culturali conservatori, quelli di Benedetto Croce e Giovanni Gentile, per intenderci, che hanno esercitato una forte egemonia nella prima parte del XX secolo, sia negli anni dell’Italia liberale sia in quelli, oscuri, dell’Italia fascista.
Ma un certo idealismo antiscientifico - una vena adorniana che si è rifiutata sia di guardare all’uomo come portatore anche di bisogni materiali «volgari»; sia di guardare alla scienza come fonte di conoscenza; sia di guardare alla tecnica come fonte possibile di emancipazione e non solo come fonte di preoccupazione - ha prevalso anche nella cultura cattolica e nella cultura della sinistra che hanno dominato la seconda parte del XX secolo.
Qui, forse, la tesi di Pierpaolo Antonello diventa più scomoda. Perché sostiene che la gran parte degli intellettuali della sinistra italiana, ha rinunciato all’approccio materialista e illuminista, per abbracciare la retorica antiscientifica, apocalittica e adorniana.
Anche a sinistra ha prevalso un certo idealismo, che ha continuato a scavare un solco tra le due culture che, scrive Antonello, è servito «soprattutto agli umanisti per mantenere il loro residuo prestigio sociale...andando contro, da un punto di vista marxiano, agli interessi di quelle classi che avrebbero dovuto difendere e promuovere, disattendendo le stesse indicazioni gramsciane». Dunque l’idealismo crociano, l’idealismo cattolico e l’idealismo di sinistra hanno (avrebbero) avuto sempre partita vinta. Un paese che non sa fare i conti con la modernità e che oggi, con un declino economico e non solo economico che dura da almeno vent’anni, ne paga il conto. Una scuola senza cultura scientifica. Un’industria senza innovazione di prodotto. Un mondo politico che fa a meno, anche in Parlamento, degli scienziati che altrove - dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti - sono parte decisiva della classe dirigente.
Ad aiutare questa egemonia dell’idealismo antiscientifico, sostiene Antonello, ha contribuito anche la comunità scientifica italiana. Che è stata spesso divisa e quasi mai è riuscita ad affermare il proprio ruolo. Anche se molte sono state le figure degli scienziati italiani con una lucida visione dei rapporti tra scienza e società e, in alcuni casi queste figure sono riuscite a produrre effetti di così straordinaria importanza (i computer Olivetti, lo sviluppo dell’aerospazio, della farmaceutica, della chimica dei polimeri) da sembrare sul punto di cambiare la fisionomia del paese.
Ma è tempo di giungere all’approdo. E di chiederci: come mai i diversi tipi di idealismo hanno vinto sistematicamente per un secolo e più? Come mai il paese da 120 anni non riesce a fare i conti con la modernità? La risposta sta, probabilmente, lì dove la cercava Antonio Gramsci. Nella natura peculiare della nostra borghesia produttiva. Quasi sempre provinciale e piccina piccina. Spesso eversiva.
Scienza debole? Non è colpa di Croce e Gentile
Il declino della ricerca è iniziato negli anni Sessanta quando essere gentiliani non era di moda
Le responsabilità, casomai, vanno cercate tra gli attori coinvolti direttamente: industria, enti pubblici, governi, università
di Alessandra Tarquini (l’Unità, 17.03.2012)
Nel dibattito pubblico è ricomparso un antico luogo comune: quello secondo cui la ricerca scientifica italiana ha avuto uno sviluppo stentato grazie all’influenza del neoidealismo di Croce e Gentile. Dunque, se siamo un Paese diverso dagli altri, con una mentalità retorica e antiscientifica, se studiamo poco la matematica, e, soprattutto, se non abbiamo colto fino in fondo l’importanza del progresso scientifico e tecnologico, lo dobbiamo principalmente a loro. Ma davvero il neoidealismo monopolizzò la cultura italiana del XX secolo? E cosa accadde nel nostro paese quando i filosofi neoidealisti esercitarono la loro maggiore influenza sulla società e sulla politica? E, ancora, come cambiò la scienza quando la fortuna di Croce e Gentile lasciò il posto ad altri sistemi di pensiero?
Iniziamo dall’egemonia degli idealisti: nel 1903 Croce fondò la «Critica» con la collaborazione di Gentile e con l’obiettivo di suscitare una discussione che attraversasse diverse discipline e contribuisse al rinnovamento della cultura nazionale, allora dominata dal positivismo. E in effetti, in quei primi anni del Novecento, senza alcun potere accademico o politico, Croce rappresentò un riferimento teorico per moltissimi intellettuali italiani. Proprio allora, a giudicare da Camillo Golgi e Guglielmo Marconi, da Vito Volterra e Ulisse Dini, la scienza visse una stagione di grandi successi, che non rimasero confinati al mondo dei ricercatori. Come hanno recentemente ricordato Pietro Nastasi e Angelo Guerraggio, gli scienziati dell’Italia liberale furono fra gli esponenti più autorevoli della classe dirigente: alcuni erano membri del Parlamento, altri ricoprivano posizioni di responsabilità politica.
Il ruolo di Croce cambiò con la guerra di Libia. Da allora fu Gentile a esercitare una maggiore influenza sui giovani e, con l’avvento del fascismo, un vero e proprio potere sull’organizzazione della cultura. Nominato ministro dell’istruzione nel 1922, portò in Parlamento la riforma che istituì il liceo scientifico e rese il liceo classico, già previsto dalla legge Casati, una scuola d’élite dove, com’è noto, si insegnavano le scienze in misura decisamente meno rilevante rispetto alle discipline umanistiche. Nel 1925 Gentile fu nominato direttore scientifico dell’Enciclopedia Treccani che diede alle scienze applicate e a quelle pure uno spazio considerevole; nel 1928 divenne direttore della Scuola Normale di Pisa e nel 1941 fondò la domus galileiana, un importante centro di ricerca per la storia della scienza.
ASCESA E DECADENZA
In che modo, dunque, la sua indiscutibile egemonia sulla cultura italiana pesò sulla scienza? A giudicare dagli enti di ricerca fondati dal regime totalitario, con la volontà di controllare e dare spazio agli scienziati, dovremmo pensare che la presenza di un filosofo neoidealista, ai vertici dell’organizzazione culturale del fascismo, fu un fatto sicuramente positivo: nel 1923 nacque il Consiglio nazionale delle ricerche; nel 1926 l’Istituto centrale di statistica; sempre nel 1926 l’Accademia d’Italia che negli anni Trenta assunse il patrimonio dell’Accademia dei Lincei; nel 1927 l’Istituto di storia delle scienze; nel 1934 l’Istituto di sanità pubblica e nel 1939 l’Istituto nazionale di alta matematica e quello di geofisica. In realtà, nella seconda metà degli anni Trenta, l’influenza di Gentile sulla cultura italiana entrò in una fase di decadenza.
Ad esempio, nel 1933 a Roma, durante l’ottavo congresso nazionale di filosofia, i filosofi realisti insieme ai neopositivisti, a molti cattolici e ad alcuni neokantiani sferrarono un attacco durissimo contro il filosofo, dichiarando, dopo trent’anni di neoidealismo, il ritorno al realismo.
Gentile morì nel 1944, Croce nel 1952. Nel dopoguerra la sconfitta proseguì provocando il tramonto irreversibile di una cultura considerata nazionalista e, in ogni caso, responsabile dell’avvento del regime fascista. Norberto Bobbio raccontava che dopo il fascismo, i giovani iniziarono a esplorare le filosofie «straniere», decisi a debellare per sempre lo spiritualismo della cultura italiana nelle sue diverse forme. Ancora più esplicitamente, Paolo Rossi scrisse che la sua generazione si era impegnata nella critica contro Croce e Gentile, come ci si dedica a uno sport praticato con tenacia, continuità e un certo sadismo.
In effetti, dagli anni Quaranta gli idealisti costituirono una minoranza degli intellettuali italiani, ben più affascinati dall’esistenzialismo, dalla fenomenologia, dal marxismo e dal neoilluminismo e, negli anni Sessanta, pronti ad accogliere gli stimoli offerti dallo strutturalismo, cioè da una riflessione che non nasceva in Italia e mostrava una forte attenzione alle scienze sociali. Da allora l’antropologia, la ricerca sociale, la psicologia, la critica letteraria e, ovviamente, la linguistica divennero campi del sapere di una cultura che faceva della distanza da Croce e da Gentile un suo tratto distintivo.
Ora, a ben vedere, fu proprio in quel periodo che iniziò il lento e irreversibile declino della scienza. Come ha ricordato Giovanni Paoloni, negli anni Sessanta sia le politiche della ricerca pubblica, sia gli orientamenti del sistema privato dovettero misurarsi con cambiamenti di vasta portata. L’Olivetti e la Montecatini, per citare due aziende molto note che avevano prodotto ricerca industriale di altissimo livello, tagliarono i settori innovativi e rafforzarono quelli economicamente più sicuri. A sua volta lo Stato investì sempre meno nelle politiche che avrebbero potuto promuovere la ricerca industriale e facilitò l’espansione della piccola e media imprenditoria, tradizionalmente estranee ai processi di innovazione.
Dalla metà degli anni Sessanta, insomma, quando essere crociani o gentiliani non era certo di moda, abbiamo seguito un modello diverso da quello dei paesi che hanno impiegato risorse economiche e le hanno messe a disposizione dello sviluppo scientifico e tecnologico. Ma allora, se è così, invece di attribuire le colpe al liceo classico voluto da Gentile, o alla concezione crociana della scienza, perché non ricordiamo che la ricerca scientifica coinvolge una grande quantità di soggetti come le industrie, le università, gli enti privati, la pubblica amministrazione, i governi e, non da ultimo, le imponenti agenzie sovranazionali?
Ma soprattutto perché non diciamo che gli imprenditori, i tecnologi, gli scienziati ostacolati da Croce e da Gentile non ci sono mai stati? Forse dovremmo iniziare a chiederci se la responsabilità di una sconfitta non sia prima di tutto di chi la subisce. Se in Italia non si è avvertita l’importanza della ricerca, se le dedichiamo l’1,2 per cento del nostro Pil contro il 2 per cento della media europea, non dipenderà forse dagli scienziati, dalle politiche pubbliche e dalle industrie private? E allora lasciamo in pace Croce e Gentile. Semmai studiamo la loro filosofia e il rapporto che ebbe con il proprio tempo, senza dimenticare che fu un tempo assai generoso con la ricerca scientifica.
Italia in crisi. Tutta colpa di Croce?
Cento anni fa si tenne a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia che alimentò un’accesa discussione tra il filosofo e il matematico Enriques
.Proprio dall’esito di quello scontro, forse, deriva il declino del nostro Paese
La scienza. È ancora vissuta come un corpo estraneo nel mondo culturale
Chi è Benedetto Croce (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 - Napoli, 20 novembre 1952) è stato un filosofo, storico, scrittore e politico italiano, principale ideologo del liberalismo novecentesco italiano e «rifondatore» del Partito Liberale. Con Giovanni Gentile dal quale lo separava la concezione filosofica e la posizione politica nei confronti del fascismo è stato un protagonista importante della cultura italiana ed europea della prima metà del XX secolo.
di Pietro Greco (l’Unità, 18.09.2011)
Il 6 aprile 1911 si tenne, a Bologna, il IV Congresso Internazionale di Filosofia. Lo presiede l’italiano Federigo Enriques. Un matematico. E quella insolita scelta alimenta una polemica già in atto con Benedetto Croce (e Giovanni Gentile) che non solo ha una lunga coda, anche sui media, per l’intera annata. Ma che ancora ritorna e riaccende gli animi. Tanto che alcuni sostengono che l’attuale declino dell’Italia deriva per la gran parte dall’esito di quello scontro.
Il cuore della polemica è il protagonismo filosofico degli scienziati del tempo, ben incarnato dal matematico Federigo Enriques. Rubando un aforisma ad Albert Einstein, potremmo dire che all’inizio del XX secolo diventa sempre più forte l’idea che «senza la scienza la filosofia sarebbe vuota». Enriques, come Einstein, è convinto che la cultura dell’uomo sia unitaria e che la scienza ne è parte integrante. Che filosofi e scienziati debbano porsi in maniera sempre più stringente la questione delle implicazioni filosofiche connesse alle nuove conoscenze scientifiche. E che i più adatti per fare una buona filosofia della scienza siano proprio gli scienziati, a patto che imparino ovviamente i fondamentali del buon filosofare.
Contro questa idea si è espresso, da tempo, Benedetto Croce. Che in un libro del 1905, Logica come scienza del concetto puro, sostiene che i principi matematici non sono veri, ma contraddizioni organizzate; che la matematica è «vera simia Philosophiae», una scimmia della filosofia come si dice del diavolo, scimmia di Dio. E infine ricorda le parole di Giovan Battista Vico, secondo cui le scienze sono materia per «ingegni minuti». È implicito che la storia e la filosofia sono, invece, le discipline per le menti che hanno una visione universale.
In un articolo pubblicato sulla rivista Leonardo, inoltre, Croce espone esplicitamente il suo pensiero: «La matematica, non possedendo né verità storica, né (...) verità filosofica, non è scienza ma strumento e costruzione pratica».
È per questo che don Benedetto mal sopporta quel «matematico che si diletta di filosofia» che, insieme a Eugenio Rignano, ha fondato la Rivista di Scienza (che dal 1910 assume il nome di Scientia) su cui fa scrivere di filosofia molti scienziati, filosofi e storici di gran nome di tutta Europa, compresi Einstein, Russell, Mach, Carnap, Cassirer. Che ha fondato una Società Filosofica Italiana, di cui è presidente. E che si presenta al III Congresso Internazionale di Filosofia che si tiene nel 1908 a Heidelberg chiedendo e ottenendo di organizzare il prossimo, nell’aprile del 1911, a Bologna.
BOTTA E RISPOSTA...
Malgrado le critiche di Benedetto Croce, il congresso ha luogo e ha successo. Questo, lungi dal sopire la polemica, la riaccende. Ho stime del professori Enriques e del suo bisogno di filosofia: «Solo che non potendo appagare questo bisogno con la cosa, lo appaga con la parola».
In estate Federigo Enriques risponde a tono, con un articolo che è sferzante già nel titolo: «Esiste un sistema filosofico di Benedetto Croce?». Nella stessa estate del 1911 Croce risponde su La Critica ironizzando sulla «curiosa mania che si è impossessata del valente professor Enriques e che lo trae a voler frequentare per forza un mondo, che non è il suo». La polemica, come raramente
succede, ha dei vinti e dei vincitori. Non solo perché - come ricordano Lucio Russo ed Emanuela Santoni nella loro storia della scienza italiana intitolata, non a caso, Ingegni minuti - negli anni successivi Benedetto Croce assume una posizione egemonica nel mondo filosofico italiano. Ma anche perché l’altro grande esponente del neoidealismo italiano, Giovanni Gentile, quando diventerà Ministro dell’Istruzione del governo fascista di Mussolini realizzerà una riforma della scuola che, a detta di molti, penalizza la matematica e le scienze.
TRE TESI
Nella polemica contemporanea, molti scienziati sostengono tre tesi. La prima è che nella cultura italiana si sente ancora l’eco profonda dell’idealismo di Croce e Gentile. La seconda è che questo imprinting è la causa del ruolo marginale che ha la scienza non solo nella cultura, ma nell’economia e nella società del paese. La terza è che il ruolo marginale della scienza, nell’era della conoscenza, è la causa principale del declino economico dell’Italia.
La prima tesi è un dato di fatto. La scienza è vissuta ancora come un corpo estraneo nel mondo culturale italiano, scolastico e non. La terza tesi è anch’essa dimostrata dalla storia: l’Italia è l’unico tra i paesi avanzati ad aver perseguito anche nel dopoguerra un modello di «sviluppo senza ricerca». E oggi - nell’era della conoscenza - paga le conseguenze di questa scelta che non sa ribaltare.
Resta la seconda tesi. È colpa dell’idealismo crociano tuttora presente se il nostro sistema produttivo è in affanno? O, piuttosto, non è vero il contrario: è a causa di un sistema produttivo che non crede nella ricerca e non evoca una forte domanda di cultura scientifica se l’idealismo crociano è ancora imperante. Il tema meriterebbe di essere indagato. E sarebbe opportuno - sarebbe assolutamente urgente - che un altro Federigo Enriques si facesse carico di organizzare, al più alto livello possibile, questa discussione largamente interdisciplinare la cui posta in gioco, a cent’anni dal congresso filosofico di Bologna, è il futuro del paese.
Geometria come cultura
di Umberto Bottazzini (Il Sole-24 Ore, 17 aprile 2011)
Il 6 aprile del 1911 si apriva a Bologna il IV Congresso Internazionale di Filosofia sotto la presidenza di Federigo Enriques. Enriques? Un «professore di matematica che si diletta di filosofia», lo definisce un astioso Benedetto Croce in una celebre intervista rilasciata a un quotidiano dopo la conclusione del Congresso. Quel «professore di matematica» è in realtà un geniale matematico, che ha dato contributi di eccezionale valore nel campo della geometria e, all’epoca, è ormai considerato uno dei maestri della scuola italiana di geometria algebrica, una scuola che si è affermata su posizioni di riconosciuta avanguardia sulla scena internazionale. Insomma, uno dei grandi della matematica della prima metà del Novecento.
Non solo. Quando, con l’inizio del secolo, si chiude la straordinaria stagione della collaborazione scientifica con Guido Castelnuovo, che in meno di dieci anni ha portato alla creazione della teoria delle superfici algebriche, l’impegno di Enriques si manifesta in misura crescente sul terreno filosofico e culturale. «La filosofia penso debba essere fatta da spiriti scientifici, e in servigio della scienza», egli scrive all’amico Vailati nel 1901 annunciando la convinzione che lo porterà, di lì a qualche anno, a lasciare i «campi della Geometria, ove il pensiero riposa tranquillo nella sicurezza degli acquisti» per inoltrarsi decisamente sul terreno della filosofia.
La riflessione critica sui principi della geometria e sulla natura dello spazio rappresenta per Enriques non solo il punto di partenza ma un continuo termine di confronto nell’elaborazione della sua filosofia "scientifica". Come dirà ne I problemi della scienza (1906), era stato infatti il progresso della geometria nel corso del secolo appena concluso ad avere agito «direttamente sopra lo sviluppo del razionalismo». In particolare, le geometrie non euclidee avevano reso «manifesto che le nostre nozioni geometriche, in quanto si riferiscono alla realtà sensibile, non possono in alcun modo pretendere a quella rigorosa certezza, che fu tenuta come uno degli argomenti più forti in favore del loro carattere a priori».
La critica al kantismo si accompagna all’idea che «il progresso della scienza è procedimento di approssimazioni successive, dove dalle deduzioni parzialmente verificate e dalle contraddizioni eliminanti l’errore delle ipotesi implicite, sorgono nuove induzioni più precise, più probabili, più estese». Un’idea ribadita nel 1912 in Scienza e razionalismo: «La corrispondenza fra i concetti scientifici e la realtà sensibile rimane sempre una corrispondenza approssimata, ma il valore obiettivo della razionalità del sapere consiste in ciò che il processo della scienza è un processo di approssimazioni successive illimitatamente perseguibile».
Nel 1906, intervenendo a Milano al convegno della Società Filosofica Italiana Enriques sostiene, in polemica con il ministro della Pubblica istruzione, «l’assurdità di preparare i futuri filosofi con una esclusiva educazione storica e letteraria», rivendicando per la matematica «un posto d’onore fra gli insegnamenti che preparano alla filosofia». Nel successivo congresso della Società a Parma afferma che «il rinascimento filosofico nella scienza contemporanea» chiude definitivamente la stagione del positivismo, «l’epoca che si distinse su tutte come antifilosofica» e che «fu in realtà dominata da una filosofia particolare», il positivismo appunto.
In quegli anni l’attività del matematico e filosofo Enriques è frenetica. Viene eletto presidente della Società Filosofica Italiana, con Rignano e altri dà vita a «Scientia», fonda la «Rivista di filosofia», organizza congressi filosofici nazionali e internazionali, come quello di Bologna. L’impegno in campo filosofico si accompagna a una altrettanto intensa attività di ricerca in campo matematico, premiata nel 1909 col Premio Bordin dell’Académie des sciences di Parigi attribuita a un’ampia, fondamentale memoria scritta con l’antico allievo Francesco Severi. Agli occhi di Croce e Gentile, Enriques è un antagonista, che trova credito nella comunità filosofica internazionale. Con Enriques la polemica è accesa, i toni violenti.
Più che quella polemica, è tuttavia la Prima guerra mondiale a segnare per Enriques la fine di una stagione e una cesura profonda, resa emblematica dal suo abbandono della direzione di «Scientia». Del resto, la sostanziale estraneità rivendicata alla scienza dalle vicende contingenti della vita politica sembra essere la chiave di lettura dell’attività di Enriques anche negli anni del fascismo. Che, messe da parte le antiche polemiche, non gli impedirà di collaborare con Gentile dirigendo la sezione di Matematica dell’Enciclopedia Treccani.
Di fronte all’idealismo di Croce e Gentile trionfante in Italia, Enriques non rinuncia tuttavia a continuare la sua battaglia filosofica in scritti che trovano attenti lettori all’estero, soprattutto in Francia. «La filosofia della natura è caduta nel nulla», osserva con amarezza Enriques in un saggio apparso in francese nel 1934. «I nuovi idealisti credono di sbarazzarsi del suo peso morto ritenendo ogni forma di studio della natura come una maniera di attività pratica, indifferente al pensiero. In tal guisa, non solo impoveriscono l’idealismo ma, ciò che è più grave per dei pensatori storicisti, commettono un errore antistorico. Perché tutta la storia della filosofia, almeno della filosofia occidentale, prende norma e ispirazione dal pensiero naturalistico».
SULLA LIBERTA’ DI GIUDIZIO, SULLA LIBERTA’ DI PENSIERO E DI AZIONE DI GRAMSCI, :UN IMPORTANTE, MA PARZIALE E AMBIGUO, RICONOSCIMENTO DA PARTE DEL ‘GRAN SACERDOTE’ DELLA “RELIGIONE DELLA LIBERTA’”:
“Benedetto Croce recensì nei “Quaderni della critica, (III,8,1947) le Lettere dal carcere. Ed è rimasta celebre la sua potremmo dire appropriazione dell’autore rivelato da quelle lettere: “Come uomo di pensiero egli fu dei nostri”
Cosa intendesse con tali parole è giusto chiedersi. La risposta prenderebbe molto spazio perché comporterebbe di affrontare una delle questioni centrali della cultura italiana del Novecento, e cioè l’implicazione profonda dell’opera di Gramsci, quale fu rivelata daí Quaderni, con le due correnti dominanti del neoidealismo italiano impersonate rispettivamente da Croce e da Gentile, nonché i limiti di tale implicazione e l’innesto che Gramsci tentò di quelle filosofie nell’orizzonte mentale e pratico del comunismo.
Ci terremo invece alla spiegazione che ne dà lo stesso Croce: ammirevole perché fondata sulla sola lettura delle lettere e non ancora dei Quaderni.
In quelle lettere Croce riscontra “apertura verso la verità da qualsiasi parte gli giungesse, scrupolo di esattezza e di equanimità, gentilezza e affettuosità del sentire”, e soggiunge: “noi altri, nel leggerlo, ci confortiamo di quel senso della fraternità umana che, se sovente si smarrisce nei contrasti politici, è dato serbare nella poesia e nell’opera del pensiero, sempre che l’anima si purghi e di salire al cielo si faccia degna, come accadeva al Gramsci”.
E sfida gli intellettuali comunisti suoi antagonisti nella quotidiana battaglia delle idee “a adoprarsi a portare, se potevano, la dottrina comunistica a quell’altezza” (Cfr. Luciano Canfora, Prefazione, a: Antonio Gramsci, Lettere dal carcere, RCS Quotidiani, Milano 2011, p. 9)
Un convegno a Ischia ripercorre il rapporto tra scienziati e politica E oggi? La crisi attuale e il modo di uscirne, tema che corre sotto traccia 1861 e 1945, quando l’Italia si salvò grazie alla scienza
Scienza & Sviluppo: due volte nella sua storia l’Italia è uscita dalla crisi investendo su questo binomio, all’Unità e nel secondo dopoguerra. E oggi? A Ischia un convegno affronta questo tema.
di Cristiana Pulcinelli (l’Unità, 18.04.2011)
Ci sono due momenti nella storia del nostro paese in cui siamo usciti da una situazione davvero difficile. Il primo è stato dopo l’unità d’Italia, il secondo dopo la seconda guerra mondiale. Cosa li accomuna? Il fatto che, a dispetto di tutto, gli italiani hanno avuto fiducia nel futuro, hanno scommesso sulla capacità del paese di farcela e hanno creduto nella scienza come motore di crescita. Oggi siamo di nuovo sotto le macerie, con un paese più povero e ingiusto di ieri e con una scarsa prospettiva di riprendersi. Ritroveremo la fiducia che ci ha aiutato nel passato?
TRA LE MACERIE
La domanda è serpeggiata nel convegno «La scienza nell’Italia unita» , venerdì e sabato scorsi al circolo Georges Sadoul di Ischia. A parlare Lucio Russo, Angelo Guerraggio, Marco Ciardi, Marco Pantaloni, Maria Lettieri, Lucio Bianco, Gianni Battimelli, Gianni Paoloni, Pietro Greco e Sergio Ferrari. Ognuno ha raccontato un pezzo della storia del rapporto tra la scienza e la società italiana, e ognuno cercava di rispondere alla stessa domanda: ce la caveremo? E il pubblico, soprattutto ragazzi delle scuole superiori, li ha ascoltati con un’attenzione dovuta forse al fatto che sentiva che non si stava tanto parlando del passato, quanto del futuro.
Guardiamo alla storia. Nel 1861 l’Italia era un paese poverissimo, l’analfabetismo molto diffuso, nel Mezzogiorno mancavano le infrastrutture, non c’era un servizio postale né trasporti. Ma il clima di euforia e di fiducia permise al paese di investire in scienza, innovazione e istruzione. Quintino Sella, ingegnere di formazione, da ministro delle finanze per risanare i conti operò tagli drastici ai finanziamenti, ma mai a quelli per la scuola. E gli scienziati, che avevano combattuto per l’Unità d’Italia, parteciparono attivamente alla costruzione dell’Italia appena unita, ricoprendo anche cariche istituzionali. L’impegno nasceva dall’idea che per lo sviluppo civile del paese bisognasse alzare il livello tecnologico e quindi ci volesse una politica della scienza nazionale. Poi si formò una classe politica professionale che scalzò gli scienziati e già agli inizi del ‘900 la luna di miele tra scienza e società era finita.
Nel 1945 l’Italia usciva dalla guerra in condizioni disastrose e nessuno avrebbe scommesso una lira sul suo futuro. Ma anche qui un clima di fiducia che si creò tra la scienza e alcuni settori produttivi permise di risollevarsi dalle macerie. Tra il 1945 e il 1964 l’Italia cresce in modo esponenziale anche grazie alla fiducia nella ricerca e nell’innovazione. Tanto che a inizio anni ‘60 il paese vantava poli di eccellenza scientifico tecnologici che il mondo gli invidiava: informatico, petrolifero, nucleare, chimico, medico. E le storie di Olivetti, Mattei, Ippolito, Natta e Marotta sono lì a testimoniarlo.
Da allora sono passati quasi cinquant’anni e non si è più avuto un rapporto così felice tra scienza e società in Italia. L’Italia è in declino da oltre vent’anni. Il Pil italiano, fino a metà anni ‘80 migliore della media europea, da quel momento diventa peggiore. Gli investimenti in ricerca e sviluppo sono tra i più bassi in Europa e nel mondo. Ci sarà un legame tra questi fatti?
Al top per efficienza gli Istituti di Fisica nucleare e di Astrofisica
Il nostro Paese si difende: è al sesto posto nel mondo per numero di pubblicazioni. Non decolla il promettente Iit
di Elena Dusi (la Repubblica, 18.04.2011)
ROMA - Eppur ci siamo. Nonostante uno dei finanziamenti per la ricerca più bassi al mondo (1,14% del Pil), l’Italia è al sesto posto per produzione scientifica. L’ultima classifica della Royal Society britannica ci attribuisce il 3,7% delle pubblicazioni che vengono citate in altri studi al mondo (uno degli indici usati per misurare la qualità della scienza), con gli Usa in testa al 30%. Ma il panorama del paese è tutt’altro che omogeneo, e a scavare tra eccellenze e inefficienze sono andati Francesco Sylos Labini, astrofisico del Centro Fermi e del Cnr e Angelo Leopardi, docente di idraulica all’università di Cassino. Il loro articolo "Enti di ricerca e Iit: dov’è l’eccellenza" è stato pubblicato da "Scienza in rete" la rivista online del "Gruppo 2003 per la ricerca scientifica" che comprende alcuni fra gli studiosi italiani col maggior numero di citazioni. Incrociando i dati fra personale, finanziamenti e pubblicazioni sulle riviste scientifiche, la loro analisi offre un quadro ragionato di quali sono gli enti che muovono la ricerca scientifica in Italia.
Il gigante Cnr (Consiglio nazionale delle ricerche) ha 6.600 dipendenti e ottiene dallo Stato 566 milioni di euro all’anno per 6.300 pubblicazioni. Ogni studio in media costa dunque 89 mila euro e il rapporto fra scienziati e articoli è praticamente pari a uno (0,96). Il rapporto Scimago - un database internazionale che misura le performance dei vari istituti di ricerca - piazza il Cnr al primo posto in Italia e al 23esimo al mondo su un totale di quasi 2.900 enti di ricerca, ma tiene conto solo del numero delle pubblicazioni e non dei costi sostenuti.
Più efficienti del Cnr - secondo l’analisi di Sylos Labini e Leopardi - sono Infn e Inaf. L’Istituto nazionale di fisica nucleare ha 1.900 dipendenti e gli alti investimenti che i suoi esperimenti richiedono sono finanziati ogni anno dallo Stato con 270 milioni. La produzione scientifica è molto alta: 2.423 pubblicazioni all’anno. Ogni studio costa in media 111mila euro e ciascun ricercatore è autore di 1,27 articoli. Nel rapporto Scimago 2010, l’Infn si è piazzato al 181esimo posto. I più parsimoniosi in assoluto fra gli scienziati italiani lavorano all’Inaf, Istituto nazionale di astrofisica, posizione 397 nella classifica Scimago. In 1.130 ogni anno producono 1.356 articoli (1,2 a scienziato) con un finanziamento di 91 milioni di euro. Ogni loro pubblicazione costa al paese in media 67 mila euro. Un’inezia rispetto all’ultimo ente della classifica, quell’Istituto italiano di tecnologia che venne fondato nel 2003 per ricoprire il ruolo di "Mit italiano", ma che ancora non riesce a decollare.
Con 100 milioni all’anno di finanziamenti fissati dalla legge 363/2003 fino al 2014, l’Iit fa lavorare 811 scienziati, che nel 2009 (anno a cui si riferiscono i dati) hanno pubblicato 274 ricerche. La produttività di ogni ricercatore è di appena 0,34 articoli, ognuno dei quali costa ai contribuenti 363 mila euro, oltre il quintuplo rispetto all’Inaf. Nella classifica Scimago, il "Mit italiano" che ha sede a Genova, un’età media dei ricercatori di 34 anni e solo 2 dei 374 scienziati con un contratto a tempo indeterminato secondo il principio della competitività anglosassone, si piazza nella casella 2.823 su un totale di 2.833. Il direttore scientifico Roberto Cingolani, un fisico esperto di nanotecnologie, spiega che «l’Istituto italiano di tecnologia è nato di recente e ha bisogno di tempo per raggiungere criteri sufficienti per la valutazione».
Ma di certo all’Iit - a differenza degli altri enti di ricerca che nuotano nelle ristrettezze - non sono mai mancati i mezzi, inclusi 128 milioni di euro provenienti dalla liquidazione dell’Iri nel 2008 e il lampante conflitto di interessi di un Vittorio Grilli che è allo stesso tempo direttore generale del ministero del Tesoro e presidente dell’Iit. Non stupisce con queste premesse che il 15 marzo la Corte dei Conti abbia lodato l’Istituto per il suo avanzo di bilancio di 60 milioni di euro. Si attende ora che questi soldi siano usati per migliorare ancora la posizione dell’Italia nella ricerca del mondo.
Le due passioni di Enrico Bellone, la fisica e la democrazia
di Pietro Greco (l’Unità, 18.04.2011)
Enrico Bellone, storico della fisica, gran comunicatore della scienza, che i lettori dell’Unità ben ricordano, è morto sabato scorso, 16 aprile, a Tortona, dove era nato 72 anni fa. Si era laureato in fisica a Genova, aveva poi collaborato con Ludovico Geymonat e Paolo Rossi, dando un formidabile contributo a una disciplina, la storia della scienza, che forse solo con la sua generazione ha avuto in Italia un momento felice. Prima, ma ahimé, anche dopo ha avuto spazi molto stretti nelle università italiane. E questo si è rivelato (si rivela tuttora) come un bel guaio. Perché senza memoria storica non c’è cultura scientifica. E senza cultura scientifica diffusa il nostro paese - anche se ha espresso grandi scienziati (Bellone era un grande esperto di Galileo) e tuttora ne esprime - vive in un’eterna crisi di incompiutezza: sociale, economica e politica, oltre che strettamente cognitiva.
«LE SCIENZE»
A ben vedere questo era il quadro in cui Enrico Bellone ha svolto la sua attività sia di storico della fisica (che lo ha portato alla Cattedra Galileana di Storia della Scienza presso l’università di Padova) sia di comunicatore (è stato per anni il direttore di Le Scienze, edizione italiana della più prestigiosa rivista di divulgazione scientifica del mondo, lo Scientific American).
Un’attività che in entrambe le dimensioni ha svolto sempre con straordinario rigore e formidabile passione. Parlando chiaro. Nel duplice senso di scrivere i suoi articoli, i suoi saggi, i suoi libri con stile brillante e comprensibile e di entrare nel vivo della discussione, senza guardare in faccia a nessuno. Poteva sembrare, a tratti, brusco: era solo animato da onestà intellettuale.Gli era stato conferito, di recente il premio Preti per il «dialogo tra scienza e democrazia». Ma era molto amareggiato, negli ultimi anni. Proprio perché vedeva, nel paese di Galileo, calpestata ancora una volta la scienza e, quindi, erosa ancora una volta la democrazia.