Muore Kapuscinski, reporter sfiorato dal Nobel *
È morto in un ospedale di Varsavia, in Polonia, lo scrittore e giornalista polacco Ryszard Kapuscinski per le complicazioni seguite a un intervento operatorio che aveva avuto sabato. Diventato famoso in tutto il mondo per i suoi reportage di guerra dai paesi dell’Asia, dell’Africa e dell’Europa, e per i suoi libri sulla caduta dei regimi dispostici di Haile Selassie e di Mohammad Reza Phlevi, Kapuscinski aveva 74 anni.
Era nato a Pinsk, nella Polonia orientale, oggi Bielorussia, nel 1932. Figlio di insegnanti, dopo gli studi a Varsavia, aveva lavorato sino al 1981 come corrispondente e inviato, prima in Africa e poi in America Latina, dell’Agenzia di stampa polacca Pap. Il suo primo viaggio è del 1956, quando nel suo paese venne mandato dall’organo della gioventù comunista, in India, perchè il presidente Nehru era appena stato a Varsavia e in alto, nel partito, si riteneva opportuno occuparsi di quel paese. Vi rimase sei mesi, perché‚ la crisi di Suez impedì il ritorno alla nave polacca su cui avrebbe dovuto imbarcarsi.
L’anno dopo sarà la volta di un viaggio in Cina. Al ritorno, chiusa da Gomulka la redazione del suo giornale giovanile, entrerà alla Pap. Come giornalista d’agenzia può, anzi deve scrivere quello che vuole e che vede senza censura alcuna, visto che i suoi pezzi integrali andranno solo a finire su un bollettino riservato a dirigenti e alti quadri del partito "cialis precio", mentre un collega ne trarrà versioni corrette da mandare in rete per i giornali polacchi.
Uscito da un’infanzia molto povera, freddissima e dura, durante i suoi numerosi viaggi Kapuscinski si è trovato spesso alle prese con la miseria e i drammi del Terzo Mondo. «Dove sono nato - ha raccontato - convivevano polacchi, ucraini, russi, tedeschi, ebrei, cattolici, ortodossi, armeni e così via. Da allora ho sempre cercato di ritrovare quell’armonia tra genti e culture e il giornalismo era una strada per andare a cercarla, come l’antropologia uno strumento per capire».
È certo per questo che a maggio ha ricevuto a Udine una laurea Honoris causa in «traduzione e mediazione culturale» per la sua instancabile attività e riflessione sui temi della tolleranza e convivenza. E naturalmente tanti altri premi importanti, tra cui il Principe de Asturias in Spagna e il Grinzane in Italia.
Da noi i suoi libri sono stampati quasi tutti da Feltrinelli e l’ultimo uscito, Autoritratto di un reporter, attraverso interviste e confessioni, svela i segreti del suo fare il giornalista, mentre uno dei più affascinati resta In viaggio con Erodoto, in cui, ormai fermo, ricorda i suoi reportage, i retroscena e vi riflette sopra.
Altri titoli vanno da Il Negus (che all’inizio degli anni Ottanta gli dette fama internazionale) a Ebano, da Imperium (sull’Urss alla vigilia del crollo) a Lapidarium, da Shah in Shah a La prima guerra del football.
* l’Unita, Pubblicato il: 24.01.07, Modificato il: 24.01.07 alle ore 12.21
La grande lezione del giornalista e scrittore polacco morto martedì sera: raccontò i regimi al potere e le periferie del mondo
Kapuscinski, il reporter anti-cinico
Elsa Morante lo paragonò a Shakespeare. Strinse amicizia con Herling,subito dopo averlo incontrato. Accusava i media d’aver rinunciato a raccontare il mondo: «Credo che per fare del buon giornalismo si debba soprattutto essere uomini buoni»
di Goffredo Fofi (Avvenire, 25.01.2007)
Nella seconda metà degli anni settanta ho lavorato per tre anni, la metà di ogni mese, nella redazione della Feltrinelli a Milano, e in una discesa a Roma Elsa Morante mi disse di avere appena letto un grande libro sul Negus, che paragonò a una tragedia di Shakespeare. Ne era entusiasta, e si stupì che io non lo conoscessi, perché era proprio la Feltrinelli ad averlo pubblicato. Quando tornai a Milano lo divorai, e da allora ho seguito l’opera di Kapuscinski con costante ammirazione, e ho avuto la fortuna di conoscere abbastanza bene l’autore, invitandolo o facendolo invitare a diverse manifestazioni quando ancora pochi lo conoscevano.
Per esempio, a Milano per gli incontri di Linea d’ombra, una rivista su cui pubblicammo suoi scritti e interventi; o a Roma, dove lo feci dialogare al Palazzo delle Esposizioni con alcuni giovani scrittori e critici di sicuro avvenire (Onofri, Corrias, Veronesi, Bettin, Sinibaldi, eccetera) tutti interessati a far rinascere in Italia la nobile arte della letteratura d’inchiesta, e a rivitalizzare una fiacca letteratura e un superficiale giornalismo; o a Fermo, per i seminari detti del "redattore sociale" della Comunità di Capodarco (e Maria Nadotti curò per la Piccola Biblioteca Morale della e/o, malauguratamente abbandonata dal suo editore, un’intervista spesso citata e il cui titolo lapidario fu Kapuscinski a volere: Il cinico non è adatto a questo mestiere); o a Napoli per una lontana Galassia Gutenberg.
Nel nostro paese non era ancora famoso come in altri e come meritava di essere, e a Napoli non se lo filò, come si dice, nessuno, ma "Kapu" - come si faceva chiamare dagli amici - fu felice di venire e di girellare, attento a tutto, per la città. Mi aveva chiesto di poter conoscere Gustaw Herling, lo scrittore polacco che vi viveva da tanti anni e vi aveva sposato Lidia Croce, che lui sapeva essere mio amico.
Lo portai dunque da Herling, una mattina, e non appena i due si incontrarono si misero a parlare fitto in polacco come se s i conoscessero da sempre, lasciandomi in un canto a guardarli e ascoltarli, senza capire una parola di quel che si dicevano con emozione e animazione. Quando più tardi veniva a Roma, dove io ormai abitavo, mi telefonava all’alba per invitarmi a prendere insieme cappuccino e cornetto nel bar del suo albergo, in cima a via Nazionale, ed era ogni volta una festa, tanto era caloroso e curioso di tutto, della nostra politica e della nostra cultura, della vita quotidiana romana o di quello che io andavo facendo. Ma ricordo un suo intervento in cui diceva, giunto in Italia dall’Africa, il suo sconcerto nel ritrovarsi nel giro di una giornata dalla miseria di una periferia del Sud del mondo alla colpevole e incurante ricchezza dei caffè all’aperto di piazza Navona.
Viaggiatore instancabile, Kapuscinski ha scritto opere destinate a restare: dopo Il Negus, La prima guerra del football con i reportages da più guerre, dall’America Latina dall’Asia dall’Africa, Shah-in-Shah, sul passaggio dell’Iran o Persia dallo Scià a Khomeini, e i superlativi Imperium, sulla caduta dell’Impero sovietico narrata dai suoi margini, ed Ebano, sintesi di quel che aveva visto e capito dell’Africa. Ma anche Viaggio con Erodoto, che mi pare sia stato meno considerato dalla critica e dai suoi colleghi italiani, a me è sembrato un libro grandissimo: pedagogico in senso lato, per tutti, e l’espressione di quello che del suo mestiere Kapuscinski ha capito e voleva che si capisse - elogio della curiosità e del rispetto, difesa della diversità, lezione di metodo che, pacatamente, riafferma la sua convinzione: il cinico non può fare il mestiere di giornalista; non basta vedere, bisogna anche condividere; se non si conoscono e frequentano da vicino i poveri non si capisce niente di un paese e dei suoi problemi.
Né pauroso né temerario, Kapuscinski si è trovato in mille difficoltà, nel corso dei suoi reportages spesso avventurosi e rischiosi senza che si potesse prevederlo. Né prolisso né evasivo, è dal particolare che egli arrivava al generale. Del potere occorre diffidare, la storia è nemica ma l’uomo, il piccolo uomo di cui ci parlava la letteratura russa dell’Ottocento, il piccolo uomo che la storia volentieri massacra, può dimostrare risorse insospettabili, perché ha l’energia della vita, e può dunque resistere agli assalti della morte.
In un mondo così radicalmente mutato in questi ultimi decenni, «l’uomo si è trovato in una realtà confusa, caotica, difficilmente riconoscibile», e conoscenza ed esperienza si sono frantumate, "atomizzate". Ma proprio per questo occorre rivendicare più che mai al giornalismo un ruolo fondamentale. E la lezione del mite, dell’ostinato grande giornalista-scrittore polacco ha alla fine travalicato anche il semplice rifiuto del cinismo. Non è sufficiente non essere cinici. Kapuscinski ha scritto di recente: «Credo che per fare del buon giornalismo si debba innanzitutto essere degli uomini buoni. I cattivi non possono essere buoni giornalisti».
Aiutare a penetrare i fatti, a entrare nella loro bellezza nascosta o nelle loro piaghe di sofferenza. Quello che i media dovrebbero fare, quello che dovrebbe essere vero giornalismo, ma che viene sostituito dal commercio di informazioni e speculazioni sull’audience.
Il «testamento» del reporter più famoso del mondo
Kapuscinski
Il mondo in un taccuino
Ci sono persone che cercano di creare questa comprensione reciproca. Sono persone che attraversano l’Europa, i continenti e poi ritornano. Ritornano per descrivere questo incontro con l’altro ad altri esseri umani, ai nostri fratelli e alle nostre sorelle. Questo è il lavoro del reporter, questo è il lavoro che io stesso svolgoPenso sia molto importante che esista un gruppo di persone che cercano di rendere questo mondo più comprensibile agli occhi di tutti. Perché viviamo in un mondo pieno di armi a basso costo, di odio, di incomprensione, di stoltezza e se non riusciamo a comprenderci gli uni con gli altri ci autodistruggeremo
di Ryszard Kapuscinski (Avvenire, 10.06.2007)
Non ho viaggiato semplicemente per viaggiare, ma per esplorare, per capire il mondo contemporaneo. Il nostro è un lavoro molto difficile, perché viviamo in un mondo che cambia velocemente, in maniera caotica e abbiamo delle difficoltà a comprendere sia il perché dello sviluppo sia la direzione in cui si sta andando.
In generale, in relazione agli accadimenti, è come se avessimo due universi che si muovono in due direzioni esattamente opposte. Da una parte abbiamo un mondo che va verso l’unificazione e questa è la direzione che spesso chiamiamo globalizzazione e implica una costruzione di valori e riflessioni relative al senso. Questa è una delle direzioni che ha imboccato il mondo contemporaneo e lo sforzo che la caratterizza è quello di costruire un mondo unito, unico. Ma non si tratta necessariamente di uno sviluppo buono: in parte è uno sviluppo positivo, in parte no. Da un lato, infatti, nella globalizzazione si riconosce sicuramente uno sviluppo positivo in molti ambiti, soprattutto economici.
Al tempo stesso, sull’altro versante, ci troviamo di fronte a una globalizzazione che ha degli aspetti molto negativi legati, per esempio, al commercio della droga, delle armi e alla criminalità organizzata. Quindi si tratta di una globalizzazione che ha più facce, più versanti e prende delle direzioni diverse. Dall’altro lato, in direzione opposta, corre un altro fiume, si snoda un’altra strada. Vi appartengono tutti i movimenti, tutte le sensazioni, tutte le emozioni delle persone che cercano di difendere i propri valori proteggendo la propria cultura e le proprie tradizioni. Perché le persone capiscono che mantenendo le proprie tradizioni, la propria lingua e i propri valori si protegge e mantiene viva la propria identità e si conserva così il proprio modo di vivere e di concepire il mondo. Senza un’identità la persona non può vivere come essere umano nel senso pieno della parola.
Viviamo quindi in un mondo che è caratterizzato dalla presenza di due universi, di d ue concezioni opposte. Ne sentiamo parlare alla radio, ne leggiamo sui giornali e possiamo davvero collocare gli eventi in due categorie: gli eventi che conducono verso la globalizzazione e le forze che si muovono in direzione opposta e vogliono mantenere, conservare le tradizioni, i valori locali perché le persone si identificano con questi valori. Questa è la situazione generale del mondo in cui viviamo. Ma dobbiamo trovare anche il modo di descrivere tutto questo, cosa che non è affatto semplice. Non è semplice perché noi siamo posti di fronte a una duplice situazione: da un lato abbiamo delle forme di censura che controllano e limitano l’informazione e dall’altro c’è invece la situazione opposta, poiché grazie ad internet e ad altri mezzi di comunicazione abbiamo a disposizione una grande quantità di informazioni, intesa sostanzialmente come abbondanza di dati. Tuttavia va anche detto che molto spesso si tratta di un’abbondanza assolutamente inutile!
Basterebbe ricordare, ad esempio, un episodio. Due anni fa ho partecipato in Germania a un convegno a carattere sociologico sul tema della criminalità. Nell’ambito di quel convegno erano previsti moltissimi relatori, alcune centinaia, il che significa centinaia di diversi interventi. Se da un certo punto di vista possiamo poi dire di sapere tutto sulla criminalità organizzata avendo analizzato ogni singolo dettaglio del fenomeno, dall’altro dobbiamo ammettere che non siamo in grado di fare alcun progresso nella lotta alla criminalità! Siamo dunque in una situazione nuova, in rapido sviluppo, caratterizzata da una differenza sempre crescente tra il momento della raccolta dei dati e delle informazioni che aumentano vertiginosamente e l’incapacità di organizzare la società umana risolvendo i vari problemi che quotidianamente dobbiamo affrontare. Non è un caso che abbiamo delle difficoltà anche con la nostra fantasia, con la nostra capacità di immaginare e di pensare, perché la mente è il prodotto di migliaia di anni di evoluzione, di un processo che è iniziato moltissime generazioni fa. All’inizio l’umanità era strutturata in gruppi di trenta, quaranta persone, che non avevano alcuna modalità di comunicazione con gli altri gruppi e che probabilmente non sapevano nemmeno che ci fossero altri gruppi. Per molti aspetti, il nostro modo di pensare si è costruito sulla base di quell’unità di qualche decina di persone che allora rappresentava tutta la popolazione del mondo.
Inizialmente in modo molto lento e poi sempre più rapido, si è verificato un progressivo allargamento di questo orizzonte che negli ultimi anni è diventato estremamente rapido. La nostra immaginazione, la nostra fantasia - che ha dei limiti evidenti - si è trovata di fronte a una situazione completamente nuova, estremamente complessa. Una situazione che non sappiamo gestire: come possiamo, infatti, gestire la mole di informazioni che ci giunge da tutti i mezzi di informazione, a cominciare da internet che crea una realtà nuova in sé? In questa situazione la nostra immagine del mondo è per molti aspetti contraddittoria e addirittura caotica. Per questo è molto difficile descrivere il mondo anche perché spesso i media non informano, ma sviano perché non cercano la verità essendo guidati da un meccanismo di ricerca di risorse economiche mediante la pubblicità.
Diverse categorie di professioni e gruppi di persone cercano di trovare un significato in tutto questo, di organizzare la nostra conoscenza e di creare un’immagine del mondo che abbia un senso, una logica: fra questi ci sono anche le persone che lavorano nei mezzi di comunicazione. Sfortunatamente i media, come tutto il resto delle attività umane, si possono suddividere tra buoni e cattivi. La maggior parte di noi ascolta e guarda media che non sono "buoni" e non si attende di ricavare granché da questi strumenti di comunicazione. Ne prende le distanze più che cercare di migliorare la propria conoscenza. C’è una grande differenza fra informazione e conoscen za. Un grande poeta inglese, Thomas S. Eliot, lo scrisse già negli anni Trenta, quando si chiedeva: «Abbiamo l’informazione, ma dov’è la conoscenza?». Si tratta di una domanda ancora aperta e nessuno è riuscito a dare una risposta compiuta. L’uomo sta cercando di colmare il vuoto di conoscenza con l’informazione, ma non è aumentando a dismisura le informazioni che si aumenta la conoscenza e questo è uno dei problemi più seri che siamo chiamati ad affrontare.
Se da un lato internet ha rovesciato l’idea di censura portandoci in uno stato di surplus di informazioni, dall’altro ci rende di nuovo smarriti a causa del sovraffollamento di dati. Tuttavia, come accennavo, ci sono tante persone che lavorano nell’ambito di quelli che ho definito "media buoni". Si tratta di persone che cercano di creare conoscenza aiutando a comprendere le diverse caratteristiche, le diverse tendenze, le diverse idee che sono presenti nella nostra realtà, nel nostro pianeta. È molto importante, oggi, gettare questi ponti di conoscenza perché negli ultimi venticinque anni siamo stati testimoni e assieme anche attori di una rivoluzione enorme qual è quella dell’informazione.
Tale processo è dovuto almeno a due fenomeni. Innanzitutto alla fine della guerra fredda che ha diviso il mondo tra dittatura e democrazia per una buona metà del secolo scorso. Si era creato un mondo bipolare che è andato in pezzi con la fine della guerra fredda portando l’umanità a muoversi dopo un lungo periodo di immobilità. Con la fine del bipolarismo le persone hanno iniziato a creare un enorme movimento nella storia dell’umanità, con centinaia di milioni di cittadini che cambiano continuamente il luogo di vita e di lavoro. Nel nostro mondo ci troviamo sempre più spesso a incontrare persone che parlano un’altra lingua, che appartengono a un’altra cultura, che hanno un colore della pelle diverso e che vivono abitudini differenti dalle nostre. Noi li incontriamo, ma non li capiamo e loro non capiscono noi. Al giorno d’ oggi si spostano enormi masse di uomini e donne, si incontrano, entrano in relazione con persone altre, diverse, ma non sanno come comportarsi.
Noi tutti sappiamo, sulla base della nostra esperienza - mi riferisco a quella del primo incontro con l’altro - che il contatto con l’altro necessita sempre di un certo livello di fiducia. Questo perché nell’incontro con l’altro ci sono sempre degli interrogativi, ancor più evidenti nel primo incontro, perché non sappiamo bene chi abbiamo di fronte, chi è l’altro, chi stiamo realmente incontrando. Nelle grandi città, in tante parti del mondo, non siamo neppure sicuri di trovarci di fronte a una persona che poi non ci possa fare del male, o che addirittura non ci uccida. Quindi il primo contatto con l’altro è sostanzialmente un contatto carico di dubbio, perfino di sfiducia. C’è veramente, soprattutto nel primo incontro, un senso di alterità che di questi tempi è ancora più marcato perché è la prima volta nella storia dell’umanità che noi possiamo incontrare così tante persone diverse.
E’ vero che da sempre nel mondo, dalla civiltà cinese a quella greca, le persone si sono spostate, ma si è sempre trattato di spostamenti di gruppi limitati. C’erano i navigatori, pochi commercianti, c’è stato un solo Marco Polo. Non mancavano dunque persone che viaggiavano, ma erano in numero così ridotto che i loro spostamenti avevano poca influenza sulla cultura della propria società in generale o sulla cultura del mondo. E questo perché le persone che per una ragione o per un’altra si spostavano e conoscevano nuove culture, che incontravano altre persone, che apprendevano cose nuove, rimanevano dei casi isolati. Adesso tutto è cambiato e con una rapidità senza precedenti. Ora milioni di persone viaggiano, si spostano, si cercano, si incontrano, ma nella maggior parte dei casi non sono in grado di comunicare, di comprendersi.
Quindi gli esseri umani si trovano oggi sotto forte pressione e devono sopportare un livello di stress enorme e senza precedenti perché non sanno come trattare l’altro. E questo contatto con l’altro è sempre reciproco, dal momento che se io devo naturalmente comportarmi bene nei confronti della persona che incontro, lo stesso vale per l’altro: si tratta di un processo doloroso, a volte addirittura tragico - perché ognuno di noi tende a soddisfare le proprie esigenze, le proprie aspettative - che richiede molta buona volontà e molta conoscenza, ma fa parte della nostra natura umana.
Il reporter deve cercare di costruire proprio questa conoscenza. Ci sono persone che lavorano per i buoni giornali, per le buone televisioni, per le buone stazioni radio, che cercano di creare questa comprensione reciproca. Sono persone che vanno dall’altro, che attraversano l’Europa, che attraversano i confini dell’Europa, che attraversano i continenti e che cercano di incontrare l’altro e poi ritornano. Ritornano per descrivere questo incontro con l’altro ad altri esseri umani, ai nostri fratelli e alle nostre sorelle. Questo è il lavoro del reporter, questo è il lavoro che io stesso svolgo. È molto ingenuo attendersi che questo porti a dei risultati nell’immediato, perché non sarà così, non è così, perché si tratta di un cammino realmente pieno di fallimenti, di sconfitte, di esperienze negative.
Ma non c’è un’altra strada da percorrere se vogliamo che l’umanità sopravviva, perché viviamo in un mondo in cui nasce un numero sempre maggiore di persone: la famiglia umana si arricchisce di 80 milioni di fratelli e sorelle ogni anno e di questi 75 milioni nascono nei paesi poveri. La divisione più o meno è questa: il 20% delle persone sul pianeta vive nelle società ricche, mentre l’80% vive in una condizione di povertà, di mancanza di prospettive e di opportunità per il futuro.
Questa divisione del mondo, questa frattura, rappresenta una condizione difficile da cambiare e non abbiamo tante possibilità di mutarla. Fino alla metà del ventesimo secolo in realtà non c’era consapevolezza del fatto c he la povertà esistesse su così ampia scala nel mondo. Le persone pensavano "se uno è povero è perché vuole esserlo" e non riconoscevano un problema nella povertà, non vedevano i problemi morali, psicologici e sociali insiti nella condizione di povertà, non vedevano grossi problemi nel fatto che sostanzialmente otto persone su dieci sono povere e solo due su dieci sono relativamente ricche. Ci troviamo dunque di fronte un fenomeno totalmente nuovo che balza agli occhi se lo confrontiamo con tutto il nostro passato, con la nostra letteratura, ma anche con la storia e la letteratura confuciana o con quella greca, o se ancora guardiamo al taoismo o alle altre religioni. Quindi vi sono molti problemi nuovi che dobbiamo affrontare per i quali i nostri antenati non ci avevano assolutamente preparati, perché non erano prevedibili come fenomeni che avrebbero caratterizzato così in profondità la nostra esistenza.
Penso sia molto importante che esista un gruppo di persone che cercano di rendere questo mondo più comprensibile agli occhi di tutti. È necessario che vi siano queste persone perché viviamo in un mondo pieno di armi a basso costo, di odio, di incomprensione, di stoltezza e se non riusciamo a comprenderci gli uni con gli altri ci autodistruggeremo.
reporter
Ryszard Kapuscinski nasce a Pinsk, in Polonia orientale, oggi Bielorussia, il 4 marzo 1932. Dopo gli studi a Varsavia lavora fino al 1981 come corrispondente estero dell’agenzia di stampa polacca Pap. Famosi i suoi reportage sulla crescita e la caduta di regimi dispotici, sulle rivoluzioni e i movimenti di liberazione in Asia e America Latina, sull’evolversi dell’indipendentismo africano, sul crollo dell’impero sovietico. Uno stile arricchito da una forte partecipazione al destino delle vittime, dei poveri e dei sofferenti nel cammino verso una maggiore giustizia sociale. Nel corso della sua attività di scrittore (viene candidato al Nobel per la letteratura nel 2003) Kapuscinski fa uso non solo dell’esperienza personale, ma anche di una notevole preparazione in campo storico, antropologico e umanistico in generale, trasformando l’esercizio giornalistico in una riflessione profonda e a tratti filosofica.
Tra i suoi libri tradotti in italiano (tutti editi da Feltrinelli): Il Negus. Splendori e miserie di un autocrate (1983); Lapidarium. In viaggio tra i frammenti della storia (1997), un libero "intarsio" di meditazioni che traggono ispirazione dai viaggi, dalle letture e dagli eventi storici; Ebano (1998), un resoconto di quarant’anni di esperienza come inviato nei paesi africani; Shah-in-shah (2001), sull’Iran, negli anni in cui aveva fine la monarchia di Reza Palevi; La prima guerra del football e altre guerre di poveri (2002); In viaggio con Erodoto (2005); Autoritratto di un reporter (2006).
È morto lo scorso 24 gennaio a Varsavia, per le complicazioni di un intervento chirurgico.
Il viaggiatore che voleva ritirarsi a Udine
di Laura Delsere (Avvenire, 10.06.2007)
Una terra cercata fino all’ultimo. Il rapporto tra Ryszard Kapuscinski e l’Italia, meta del primo e dell’ultimo dei suoi innumerevoli viaggi, è stata al centro di un incontro nei giorni scorsi a Roma, all’Istituto polacco di cultura. Presenti moglie e figlia del reporter, nel loro primo viaggio nella Penisola: «Sono venuta in pellegrinaggio nel Paese che Ryszard considerava un’altra sua patria», ha esordito la vedova Alicja Kapuscinska. L’Italia Kapuscinski l’aveva studiata in profondità. A cominciare dalla lingua. «Conosceva a memoria in italiano decine di liriche. Gli facevano enorme impressione Sbarbaro, Quasimodo e Ungaretti», ricorda l’amico Jaroslaw Mikolajevski, direttore dell’Istituto romano. «E poi Pavese. A Torino, durante il Grinzane Cavour, si ritagliò un’ora per sé e andò davanti all’hotel Roma, dove Pavese si era tolto la vita, per scattare una foto. Perfino la sua frase in codice per salutarmi a fine telefonata era in un italiano divertito: "Ricordati, che verrà la morte e avrà i tuoi occhi..."».
E in italiano prima che in polacco pubblicò le sue poesie. Tranne una parentesi giovanile, non aveva più scritto versi. «Il 13 dicembre 1981, con la legge marziale in Polonia, la sua redazione chiuse e fu licenziato - ricorda la moglie Alicja -. Emarginato dal ritmo del lavoro d’inviato, tornò alla poesia. Intuiva che frasi dei suoi reportages potevano essere lette come frammenti». La ricchezza linguistica era per lui un bene sostanziale, etico: «Trovare la parola giusta / che sia nel pieno delle forze / che sia tranquilla / non abbia la febbre / In essa si può confidare», scrisse in una lirica. «Per questo considerava una grave responsabilità dei media l’incuria verso il linguaggio», aggiunge Mikolajevski.
Dell’Italia, prima trasferta straniera fuori dalla cortina di ferro, nel 1956, amava quella che gli appariva una leggerezza del vivere. «Le scarpe italiane erano la sua passione - ricorda sempre la moglie - per lui ragazzino senza scarpe di Pinsk, villaggio polacco oggi in Bielorussia, che a 7 anni ebbe il suo primo paio, con quelle italiane ai piedi, così morbide, aveva la vertigine della libertà. Erano il rovescio della durezza e pesantezza delle nostre calzature di europei dell’Est negli anni della dittatura».
In Italia, specie per le vie di Roma, faceva lunghi tragitti a piedi. E si immergeva nel paesaggio. «Davanti a un quadro o a piazza Navona capitava di sentirlo dire sopraffatto "è troppo", - aggiunge Mikolajevski - vissuto tra le più aspre realtà dell’Africa o del Sudamerica, gli sembravano improprie tanta bellezza, felicità e fasto. E in ospedale a gennaio se n’è andato tenendo accanto a sé le immagini di opere di Piranesi e Caravaggio, che si era fatto mandare da Roma».
«Lo incuriosiva anche l’Italia degli emigranti. Bisognerebbe scrivere una storia di quella miseria prima del boom economico, mi disse una volta», nota sempre Mikolajevski. E all’Italia legava il suo futuro. A gennaio, in ospedale, non pensava di morire. Progettava una convalescenza a Napoli con la figlia. E poi di trasferirsi definitivamente con la moglie a Udine: «Vedi come sono felici questi vecchi di Udine, mi disse una volta. Al mattino bevono un grappino, giocano a bocce e se ne vanno in bicicletta. Mi comprerei un basco come il loro...».
Kapuscinski e "L’altro": cronaca di un futuro da annunciare
di Silvia Giuberti (Il sole-24 ore, 9 luglio 2007)
La curiosità salverà il mondo. I bambini dalla pelle scura, in Uganda, toccano l’uomo bianco e si guardano le dita per vedere se, per caso, si siano a loro volta sbiancate. I bambini che giocano sulla scacchiera di una cultura preconfezionata. Ma lanciano i dadi oltre la regola della diffidenza. E se in un villaggio dell’Etiopia gridano e additano il "Ferenci!" -"quello di fuori", l’estraneo- lo fanno in una rincorsa divertita.
Ma il mondo, oggi, invano shakerato come olio ed acqua nel contenitore "ibrido ed eterogeneo" del villaggio globale; il mondo della tecnologia che tenta acrobazie di dialogo con Rete; il mondo in cui egocentrismo e autoreferenzialità sono la nube tossica e ottenebrante di una ricerca -pavida o aggressiva che sia- di identità, ancora costruisce muri tra gli uomini. Nazionalismi, narcisismi e fanatismi come mattoni e calce.
E nonostante il velo faccia sempre più pendant con jeans e maglietta attillati, e razze e culture si inoculino -veleno o toccasana- nelle arterie di altre civiltà, "gli Altri" è solo un nickname fittizio dietro il quale ancora immaginiamo "barbaroi" alla greca o "Yang-kwei", mostri marini, come i cinesi chiamavano gli stranieri che arrivavano dall’oceano.
Eppure "il mondo in cui stiamo entrando è il Pianeta della Grande Occasione". Che sembra quasi uno slogan da ipermercato a prezzi stracciati. Ma è, al contrario, l’invito a dare molto di più. Senza sconti, senza scontri.
Ed è lezione -reportage da un "oltre" in cui credeva?- di Ryszard Kapuscinski, il grande reporter polacco scomparso lo scorso gennaio che, sin dal 1956, anno del suo primo viaggio fuori Europa, ha osservato, ascoltato e vissuto realtà e problemi del Terzo Mondo. "L’altro" è un agile volume che propone quattro brevi conferenze di Kapuscinski come testamento spirituale. Le "Conferenze viennesi" svoltesi nel dicembre del 2004 presso l’Institut fur die Wissenschaften vom Menschen di Vienna ripercorrono il viaggio nella storia della "curiosità per il mondo" che, nonostante invasioni, colonizzazioni e pacchetti turistici tutto compreso, l’autore non esita a definire un "fenomeno raro". Oltre i labirinti della xenofobia -"malattia di gente spaventata, afflitta da complessi di inferiorità"- fu Erodoto il primo a cercare di capire e conoscere gli altri come "specchio nel quale ci vediamo riflessi". L’Europa, tuttavia, seminò per secoli di sangue e crudeltà le vie dell’incontro, brutale sinonimo di assoggettamento e avidità. L’ Illuminismo battezzò in Ragione e Umanità il selvaggio.
Aprendo i sentieri a un’antropologia (Radcliffe-Browne, Evans Pritchard, Malinowski) che imparò a piantare la tenda tra le popolazioni come condizione sine qua non della conoscenza dell’altro. Colui che, secondo la filosofia profondamente etica di Emmanuel Lèvinas , è il nostro Maestro, sempre più vicino a Dio di noi. Il mondo attuale, decolonizzato e multiculturale, dovrà dunque fare i conti con quantità, qualità e ibridazione di Identità in cerca di interazione: "Il vero luogo" afferma Sapir "del crearsi della cultura".
Al 12 ottobre 1990, presso il Simposio Internazionale degli scrittori a Graz, risale la seconda conferenza, "Il mio altro". L’altro di Kapuscinski "non è di pelle bianca". L’ottanta per cento dell’intera popolazione mondiale. Chiamata a un protagonismo "corresponsabile del destino" comune. Anche tra le pagine di una letteratura contemporanea che, tra "triangoli coniugali, conflitti tra padri e figlie, fallimenti di coppia", si isola entro psicanalitici confini di un mondo che sembra ignorare le "altre storie".
A Cracovia, nel 2003, si tenne la terza conferenza, "L’altro nel villaggio globale", durante l’inaugurazione dell’anno accademico della Scuola Superiore Europea Jozef Tischner. La filosofia del dialogo contro l’impersonalità della cultura di massa.
Ma è la quarta ed ultima conferenza, in occasione del conferimento della laurea honoris causa presso l’Università Jagellonica di Cracovia, il 1° ottobre 2004, a contenere le parole chiave di un’eredità spirituale: "L’incontro con l’altro come la sfida del XXI secolo". Incontrarsi per sfidare la sfiducia. Come all’epoca delle religioni antropomorfiche, quando "non si sapeva mai se il viandante fosse un uomo o un dio celato sotto sembianze umane. Questa incertezza, questa intrigante ambivalenza è una delle fonti della cultura dell’ospitalità che impone di accogliere con benevolenza il nuovo arrivato".
"L’altro" di Ryszard Kapuscinski
Feltrinelli pagg. 77 euro 6,00
www.feltrinelli.it
Il relativismo assennato del viaggiatore Erodoto
Rispettava tutti i popoli, amava la Grecia
di Dino Cofrancesco (Corriere della Sera, 12.07.2012)
«Ciò che distingue un uomo civilizzato da un barbaro - ha scritto Joseph Schumpeter - è il rendersi conto della validità relativa delle proprie convinzioni e, malgrado ciò, sostenerle senza indietreggiare». Se questa è la migliore definizione di quella che Bertrand Russell chiamava «la saggezza dell’Occidente», forse una delle sue prime espressioni sono le Storie di Erodoto. Il grande viaggiatore, che Cicerone chiamava «il padre della storia», è stato spesso considerato non solo la fonte remota dello scetticismo moderno, ma, altresì, dell’antropologia contemporanea, di Lévi Strauss e Clifford Geertz.
«Ognuno chiama barbarie quello che non è nei suoi usi. Sembra infatti che noi non abbiamo altro punto di riferimento per la verità e la ragione che l’esempio e l’idea delle opinioni e degli usi del Paese in cui siamo». Il citatissimo aforisma di Montaigne sembra ripreso dal racconto in cui Dario, per dimostrare quanto incompatibili siano i costumi umani, mette di fronte ai Greci, che non riescono a concepire come ci si possa cibare del cadavere dei congiunti, i Callati inorriditi all’idea di doverli seppellire: «Se si proponesse a tutti gli uomini di fare una scelta fra le varie tradizioni e li si invitasse a scegliersi le più belle, ciascuno, dopo opportuna riflessione, preferirebbe quelle del suo Paese: tanto a ciascuno sembrano di gran lunga migliori le proprie costumanze».
In anni, come i nostri, nei quali l’Occidente viene caricato di ogni colpa - dal genocidio culturale a quello ambientale - Erodoto rischia, però, di diventare il primo teorico del relativismo culturale e il giudice di un etnocentrismo avvertito come una malattia dell’anima. In realtà, ci sono almeno tre tipi di relativismo. Il primo è il relativismo ontologico, la consapevolezza che la realtà è un prisma: usi, costumi, credenze, valori, riti, filosofie, pratiche scientifiche sono molteplici e ineliminabili. Il secondo è il relativismo metodologico, per il quale si comprendono popoli e istituzioni collocandosi al loro interno: non si possono capire civiltà come quelle egiziana o persiana, guardandole con i paraocchi greci. Il terzo è il relativismo assiologico, ovvero l’idea che tutti i modelli sociali e culturali abbiano eguale valore, stiano tutti sullo stesso piano.
Ho l’impressione che, ove si eccettuino i grandi grecisti del passato, come Arnaldo Momigliano, in certi cultori di Erodoto, critici dei nostri pregiudizi tardo-illuministici, i tre relativismi tendano a giustapporsi. Erodoto è un relativista ontologico: crede in un cosmo ordinato, in una provvidenza che governa il mondo e che, ad esempio, rende prolifici gli animali mansueti, come i conigli, e concede pochi nati alle belve, ma sulle questioni religiose, sui fini ultimi, preferisce non pronunciarsi («quanto io sentii da loro riguardo alle cose divine non mi sento invogliato a riferirlo»); è un relativista metodologico, se si pensa alle innumerevoli pagine che dedica alla spiegazione di costumi che potevano sembrare irrazionali ai suoi compatrioti; ma non è affatto un relativista assiologico: lo splendore e la magnificenza dell’impero persiano e la grande civiltà fiorita sulle rive del Nilo lo riempiono di ammirazione, ma pensa che i buoni costumi o le buone leggi siano esportabili. «Gli egiziani chiamano barbari tutti quelli che non parlano la loro stessa lingua», «gelosi delle loro tradizioni non ne accettano altre» ma, grazie a loro, «gli etiopi sono diventati più civili». Sotto il regno di Amasi, si dice, l’Egitto godette il massimo della prosperità e venne promulgata «la legge che, ogni anno, ciascun cittadino dovesse dichiarare al governatore della provincia dove traeva i suoi proventi. (...) Solone di Atene prese dall’Egitto questa legge per divulgarla tra gli ateniesi; ed essi l’osservano tuttora, perché è veramente giustissima».
Il Mediterraneo di Erodoto è uno spazio aperto, in cui gli dèi, le leggi, i costumi passano da una riva all’altra fecondando le terre che li accolgono. L’autore delle Storie non rinuncia a denunciare la barbarie di certi popoli, come i Massageti e gli Sciti, e l’eccellenza morale e intellettuale di altri. Chi scrive dei Greci: «Se è vero che sono liberi, non sono poi liberi in tutto: domina su di loro un padrone, la legge, di cui hanno timoroso rispetto molto più ancora che i tuoi sudditi non l’abbiano per te», non può certo essere arruolato tra i progenitori dell’antioccidentalismo.
Corriere della Sera, 12.7.12
Nel volume della collana «I classici del pensiero libero. Greci e latini» in edicola domani, al prezzo di un euro più il costo del quotidiano, si trova il primo libro delle Storie di Erodoto, un caposaldo per la conoscenza della cultura antica. I libri della collana sono disponibili anche su iPad, scaricando da App Store l’applicazione «Biblioteca del Corriere della Sera». Come illustra Sergio Romano nell’inedita prefazione, conviene ignorare l’annosa disputa tra chi ammira la grandezza dello storico di Alicarnasso e chi lo accusa di scarsa attendibilità e di «abbellimenti» con racconti fantastici. Meglio godere del racconto affascinante di questo grande viaggiatore dell’antichità, che nel narrare le guerre combattute tra greci e persiani nei decenni precedenti la sua nascita, ama divagare in direzioni impreviste, e per il quale «un tempio, un santuario, un monumento, le mura di una città, un ponte, un guado o un canale servono per confermare la verità degli eventi narrati e divengono prove decisive». Restituendo la ricchezza, storica ma anche mitica, di una civiltà. (i.b.)
Svetlana Aleksievic, premio Nobel per la letteratura
“Ma la libertà non era dietro l’angolo”
Il racconto dei destini di uomini e donne durante la guerra e, oggi, di cosa vuol dire vivere (e scrivere) ai tempi di Lukashenko e di Putin.
Alla vigilia del suo viaggio a Stoccolma, dove ritirerà il premio Nobel per la letteratura, confessa: “Avrebbero dovuto darlo a Kapuscinski”
intervista di Wlodek Goldkorn (La Repubblica, La domenica, 29.11.2015)
SVETLANA ALEKSIEVIC, NOBEL PER LA LETTERATURA 2015 (ritirerà il premio a Stoccolma il prossimo10 dicembre) abita all’ottavo piano di un grigio palazzo in stile sovietico, di apparente razionalità, ma di una certa povertà e trascuratezza formale, come lo fu il mondo sovietico. È tornata a Minsk, la scrittrice e giornalista, pochi anni fa, dopo un lungo periodo di peregrinazioni in Europa occidentale, «perché nonostante tutto, nonostante Lukashenko (il presidente dittatore, ex direttore di un kolkoz, che l’ha accusata di aver denigrato il popolo bielorusso, ndr), questa è casa mia». E anche la capitale di questo piccolo Paese, tutto boschi e paludi ai margini del nostro mondo, dove la Storia è stata poco clemente, perché qui la guerra partigiana e le rappresaglie dei tedeschi furono di grande atrocità, sembra un posto in cui l’orologio batte ancora l’ora sovietica. I simboli e i monumenti costruiti nell’epoca dell’Urss dominano il paesaggio, così come la scenografia delle apparizioni del presidente richiama i riti moscoviti ai tempi di Breznev. E le strade portano i nomi dei capi di partito e degli apparati di sicurezza comunisti.
Aleksievic, con la storia ha un rapporto intimo, se non altro perché i suoi libri sono una narrazione corale «della storia dell’Utopia rossa», e perché i suoi maestri - ne vuole subito annoverare due: Ales Adamovic e Vasilij Bykov - sono stati scrittori bielorussi che come pochi altri hanno raccontato i destini degli uomini e donne comuni durante la guerra; e l’hanno fatto senza retorica patriottarda, e per questo non erano ben visti dal regime. O forse, i maestri erano tre, perché quando sente dire che il primo ad aver parlato al cronista di lei come candidato al Nobel fu un grande reporter polacco, nato pure lui in Bielorussia, Ryszard Kapuscinski, Aleksievic, con la voce triste, dice: «Avrebbe dovuto avere lui il premio. Ma è morto, e così gli sono subentrata io».
Del suo Paese e della Storia dice questo: «Siamo nelle mani di Lukashenko: un po’ dittatura, qualche elemento di totalitarismo, un po’ socialismo. Siamo un paese socialista dove la gente ha una mentalità sovietica, veste secondo la moda sovietica e ha in casa mobili sovietici».
Parliamo della storia dell’Utopia. Il comunismo tentava di spostare in avanti le lancette dell’orologio russo, notoriamente lento e arretrato, e fissarle sul fuso orario occidentale?
«Sì. Il progetto era quello di modernizzare il paese, agganciare l’Europa, superarla nello sviluppo economico e fondare un’umanità nuova e giusta. Finì in un oceano di sangue e in milioni di esseri umani morti».
Un grande romantico dell’Ottocento, Michail Lermontov, definiva la Russia “paese di schiavi e padroni”. È mai esistita un’alternativa?
«Dalla metà anni degli Ottanta e fino ai primi Novanta eravamo convinti che esistesse. Sto parlando del periodo della perestrojka, di Gorbaciov, dell’intellighenzia progressista che lo appoggiava. Pensavamo che la libertà fosse dietro l’angolo, che sarebbe bastato togliere il potere ai comunisti per cambiare radicalmente il paese. Siamo stati ingenui. Dopo i decenni del Gulag, preceduti da secoli di servitù della gleba e da una fede dominata dalla chiesa ortodossa, asservita al potere statale, non si poteva conquistare, all’improvviso, la libertà. La libertà è una pianta che ha bisogno del tempo per crescere. Così è arrivato Putin con l’antica retorica: “Grande Russia, Stato forte”. Ai tempi di Gorbaciov ci chiedevamo: ma perché il popolo non parla? Oggi il popolo parla: appoggia Putin, perché crede alle sue parole da pifferaio magico. E guardi, che dietro a Putin, ci sono forze ancora peggiori e più pericolose».
Sta dicendo che in Russia i demoni sono sempre presenti? Non solo nel libro di Dostoevskij, ma anche in “Il Maestro e Margherita”, Bulgakov fa arrivare il diavolo a Mosca. C’è qualcosa di diabolico nell’animo russo?
«Più che una domanda lei ha fatto un’annotazione, che mi sembra precisa. Sono stata ora a Mosca. La sera, in strada si vedono pattuglie di persone, sembrano cosacchi, che girano con in mano icone sacre e fruste. Ho chiesto loro: chi state cercando? “Coloro che offendono la Chiesa”, mi hanno risposto. Intendono per esempio registi di teatro famosi, o scrittori contemporanei. Hanno inventato una parola, “GayEuropa”, che dimostra tutto il disprezzo per l’Occidente e la convinzione che il popolo russo salverà il mondo dalle «perversioni». Mi preoccupa quest’atmosfera militarista, violenta. Aggiunga la questione dello spazio. Lo spazio russo è sterminato. Viaggiando in Siberia, nella taiga, ci sono territori grandi come intere nazioni, disabitati. Rispetto a questo spazi, l’uomo è niente. La vita umana in Russia vale poco».
Sta dicendo che più che un “uomo sovietico” esiste un uomo russo?
«Diceva Dostoevskij: “è ampio l’uomo russo”. Intendeva dire: l’uomo russo non conosce i limiti e quindi finisce per accettare il giogo delle autorità. Il paradosso è solo apparente, perché l’uomo russo tende a scambiare la libertà per l’arbitrio. E stenta a capire i valori evidenti in Occidente: come, ad esempio, il fatto che senza lavorare non si possono avere i soldi, che il lavoro è frutto di un’atroce disciplina. Era impressionante questa incomprensione quando ai tempi della perestrojka vedevo arrivare i primi imprenditori occidentali, e i russi non capivano cosa volessero».
È questa l’origine della nostalgia per Stalin?
«No. La colpa è del capitalismo selvaggio. Il cinque per cento della popolazione possiede tutto. Ai tempi dell’Urss le cure mediche, le scuole, l’istruzione erano gratis: oggi per curarsi e per far studiare i figli bisogna pagare, e i soldi non ci sono. E allora l’unica alternativa è la nostalgia, perché il passato è l’unica cosa che non assomiglia al presente e che la gente conosca».
Parliamo di lei. È una scrittrice russa, che però non ha mai vissuto in Russia. O forse, da queste parti è normale. Il massimo poeta polacco di tutti i tempi, Adam Mickiewicz, era lituano e non ha mai messo piede in Polonia.
«Ho tre case. Per la maggior parte della mia vita ho vissuto in Bielorussia, la patria di mio padre. Poi c’è l’Ucraina dove sono nata. Mia madre era ucraina e io ho amato moltissimo sua madre, mia nonna. E poi la mia infanzia l’ho trascorsa in Ucraina e ho presente il sapore dei cibi e i profumi delle piante dell’Ucraina. La mia terza casa è la cultura russa. Sono cresciuta come persona sui libri di Cechov e di Dostoevskij».
Il suo Macondo dove è? Lei racconta spesso della panchina di un paesino dove stavano sedute le donne che parlavano della guerra...
«I miei genitori erano maestri di scuola del villaggio. Un paesino bielorusso. E le donne parlavano dei loro uomini, dei partigiani. Era l’inizio della mia strada da scrittrice. Nel libro, appena uscito da voi in Italia, ma scritto nel 1983, La guerra non ha il volto di donna, parlo anche di donne russe, tatare, zingare».
La narrazione delle donne è differente dalla narrazione maschile?
«Certo. Quando cominciai a lavorare su quel libro, avevo notato che le donne volevano fare un racconto maschile. Parlavano di come i loro uomini facessero la guerra. Esisteva solo il canone maschile della narrazione bellica. Io le ho indotte a raccontare invece la loro guerra. Qual è la differenza? Il maschio è educato per diventare soldato, per difendere, per combattere. Per il maschio, specie nell’ex Urss, ma anche in Russia oggi, la cultura della guerra è normale. La Storia è una storia delle guerre maschili. Le donne invece non erano preparate alla guerra. Per cui avevano reazioni pure, ingenue. Certo, erano donne soldato, andavano a difendere la patria e combattevano. Ma le donne hanno sempre saputo che la guerra significa uccidere esseri umani. Mi raccontavano come era difficile vedere un campo dopo la battaglia con tutti questi morti: russi e tedeschi».
Avevano pietà anche per i tedeschi?
«A scuola mi insegnavano a odiare i tedeschi. Mia nonna ucraina invece mi raccontava quanto le facessero pietà questi ragazzi, quasi bambini, costretti a fare i soldati e a morire. E quando una volta vide un soldatino che stava piangendo,allora gli ha dato due uova per consolarlo. La donna sa il valore della vita perché è la donna a dare la vita».
Qual è il limite alla sofferenza che una persona può sopportare?
«Una persona può sopportare moltissimo. Ma la sofferenza non ti fa più forte. Per diventare forte occorre invece la gioia. La sofferenza è disumana».
E invece il limite di quello che può esprimere la lingua umana?
«Amo dire: esiste la narrazione della catastrofe e la catastrofe della narrazione. Le due categorie non vanno confuse. Ecco, noi non abbiamo altro strumento che la parola. Però non tutto si può raccontare».
Perché?
«Perché la stessa nozione di realtà non è chiara né evidente. Lo dicono perfino gli scienziati. Una persona può vedere solo frammenti di quello che succede a lei e al mondo intorno, ma non la totalità della vita e dell’evento. Io scrivo romanzi corali, romanzi composti da tante voci perché sono consapevole che la verità non può essere contenuta in un solo cervello e un solo cuore. Ci sono tante verità, diverse tra di loro e perfino mutevoli. Amo il metodo di Dostoevskij. Nei suoi libri, ogni protagonista narra, anzi urla, la sua particolare verità».
Non tanto ascoltando, quanto scrivendo, perché scrivendo lei ha travalicato il confine tra il giornalismo e la grande letteratura, cosa ha imparato sulla morte e sull’amore, i due grandi temi della letteratura appunto, e delle vite di ciascuno di noi?
«Ho cercato di capire anche cosa è il Male. Posso dire questo: ho compreso quanto l’uomo sia bellissimo e al contempo terribile».
Ha detto che non possiamo rinunciare alla parola. La parola può salvare il mondo?
«Neanche la parola di Cristo ha salvato il mondo. Ma dobbiamo agire come se fossimo convinti che la nostra parola lo possa invece fare. Se non diamo il nome alle cose, la situazione del mondo sarebbe ancora peggiore di quanto lo sia».