di PAOLO GALLARATI (La Stampa, 20/07/2008)
Sale negli ambienti scolastici un’esigenza condivisibile da tutti coloro che hanno un minimo di consapevolezza culturale: quella dell’educazione musicale. Con il crollo delle barriere opposte per decenni dalla cultura idealistica ai linguaggi dell’espressione non verbale, la musica viene oggi sentita come un’insostituibile ingrediente nella formazione dell’individuo. La scuola italiana, tuttavia, è ancora impreparata al compito.
Per questo il ministero della Pubblica Istruzione ha costituito il «Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica nelle scuole di ogni ordine e grado» presieduto da Luigi Berlinguer. Ma le idee sembrano essere ancora confuse. Per chiarirle, l’Università di Bologna ha organizzato un convegno su la «Musica tra conoscere e fare», e un grosso volume sull’argomento è appena uscito da Franco Angeli (Educazione musicale e formazione, a cura di Giuseppina La Face Bianconi e Franco Frabboni).
Il nodo da risolvere è: che cosa vuol dire apprendimento pratico della musica? Il timore è che chi gestisce il Comitato lo intenda solamente come pratica del canto corale e apprendimento di uno strumento, oppure come una non meglio precisata «creatività» musicale, espressione di spontaneismo e allegra forma di socializzazione. Il timore è che si voglia escludere dall’apprendimento della musica ciò che la rende un’arte largamente condivisa e che potrebbe alimentare, tra i giovani, la crescita del pubblico di opere e concerti: una corretta educazione all’ascolto.
Di antinomie il nostro Paese si nutre quotidianamente: contrapposizioni ideologiche sono all’ordine del giorno e impediscono, sovente, mediazioni e fruttuosi compromessi. Eccone un’altra: la pratica musicale come fatto positivo, che sviluppa sensibilità e ingegno, è contrapposta all’ascolto inteso come atteggiamento passivo e quindi negativo.
Ma come è possibile suonare bene se non si sa ascoltare? Pierre Boulez ha dichiarato di aver migliorato enormemente la propria capacità di direttore d’orchestra nel momento in cui ha imparato ad ascoltarsi mentre dirigeva. Lo straniamento da se stessi e dal suono che si produce è la condizione primaria per giudicarlo, migliorarlo, affinare l’esecuzione nel suo complesso.
Come si potrebbe imparare a dipingere senza saper guardare? Sempre più la musica, a mano a mano che è cresciuta la sua complessità tecnica, ha trasmesso il proprio messaggio attraverso i canali dell’ascolto. Nel nostro mondo la musica arreda ogni ambiente: bar, ristoranti, negozi, luoghi pubblici.
La si ascolta? No, la si sente, distrattamente, come sfondo. Stiamo perdendo, così, la consapevolezza che esiste la possibilità di ascoltare, tendendo le orecchie con attenzione, per scoprire come la musica appaia dal silenzio e ci riveli la sua avventura. Per questo esistono le sale da concerto: ricostruire il silenzio.
L’ascolto è rivelazione, non solo dei suoni ma di tutto ciò che l’arte dei suoni trasmette: sensazioni, sentimenti, pensieri. Saper ascoltare significa cogliere la musica nella sua bellezza e comprenderla come espressione e come costruzione, rappresentazione e calcolo, patrimonio di immagini e di pensieri, di storia e di cultura.
Saper ascoltare significa imparare a sentire per sfumature e ragionare per forme, con tutte le prevedibili conseguenze che questo ha sulla formazione dell’individuo. Staccare l’ascolto dalla pratica musicale significa ridurre quest’ultima a semplice esercizio muscolare, soffocandone il principio essenziale che è quello, straordinario, di usare il corpo come strumento del pensiero e di trasformare il pensiero in un’espressione fisica.
Dietro l’antinomia tra pratica e ascolto ce n’è un’altra di tipo istituzionale: quella che, attraverso una maldestra riforma, ha reso completamente incomunicanti le Università e i Conservatori, impedendo che, dall’incrocio delle reciproche competenze, i giovani continuassero a godere di una formazione musicale completa. Ripensare tutto questo è quindi essenziale per un Paese che ha nella propria tradizione musicale uno dei suoi beni culturali più preziosi, conosciuti e amati in tutto il mondo.
Caro Prof...
ho letto il Suo interessante art. su “La Stampa” di oggi, 20.07.2008.
Ma - me la consenta un po’ di “ironia” - in che anno è stato scritto?!!!
SE LA MUSICA TORNASSE A SCUOLA......
MA IN QUALE STATO?! E in quale anno?!
Non ha visto e sentito che in Italia siamo nell’anno primo dell’era caimanica?!
NON HA ASCOLTATO “L’ULTIMA NOTIZIA”?!
Non ha letto delle “ultime novità” e non ha visto il CALENDARIO DEL NUOVO ANNO SCOLASTICO?!
Non me ne voglia!!!
Con tutta la mia personale stima
M. cordialmente,
Federico La Sala
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
PIERRE BOULEZ (Wikipedia)
GIORNATA MONDIALE DELLA #VOCE E "#DISAGIO DELLA #CIVILTÀ" (S. #FREUD, 1929): #INNOVAZIONE E #RICERCA. *
#ANTROPOLOGIA E BUONA #COSTITUZIONE (#FISICA E #METAFISICA, TEOLOGICO-POLITICA).
UNA #HAMLETICA #QUESTION - E PEDAGOGICA E DIDATTICA RELATIVA ALL’#ORECCHIO: SE, CHI NON SA ASCOLTARSI QUANDO PARLA O SUONA, PARLA O SUONA SENZA L’#ASCOLTO DI NESSUNO, NEMMENO DI SE STESSO, COME PUO’ #AMARE IL #PROSSIMO COME #SE’ STESSO, SE’ STESSA?!
#TEATRO (#STORIA) E #METATEATRO (#METASTORIA). "AMLETO" (SHAKESPEARE):
* MILANO, "LA STATALE NEWS". "Giornata Mondiale della voce: come prevenirne le patologie":
MUSICA ANTROPOLOGIA E RICERCA SCIENTIFICA: ALFRED A TOMATIS E L’ORECCHIO DI MOZART.
La storia dell’orecchio di Mozart
L’orecchio è uno strumento importantissimo per un musicista. Mozart, aveva un orecchio eccezionale, riusciva a sentire il minimo sbaglio di intonazione e tutta la sua musica è in armonia perfetta: la musica corale scritta da Mozart è davvero speciale per quel suono perfettamente amalgamato formato da voci perfettamente legate da armonie perfette che sembrano accarezzare l’orecchio.
Oltre all’orecchio musicale Mozart aveva una evidente malformazione all’orecchio sinistro: sarà per questo che era così eccezionale?
Studi moderni hanno evidenziato che la malformazione non incide su anomalie dell’orecchio interno e pertanto è solo un fattore ereditario che si manifesta ad un solo orecchio.
Effetto Mozart
Secondo il Dottor Tomatis, la musica di Mozart può curare le difficoltà di apprendimento, l’epilessia, la dislessia, il ritardo mentale e il deficit di attenzione dei bambini.
Nel 1954, Tomatis inventò un apparecchio di rieducazione uditiva chiamato l’Orecchio Elettronico, e lo usò per curare bambini con difficoltà di apprendimento e autismo, convinto che prima di saper parlare bisogna saper ascoltare: cantare bene, parlare, pensare, apprendere bene e, in ultima, la buona salute psicofisica, dipendono da un buon udito.
Quando parliamo o cantiamo, produciamo soltanto suoni che possiamo sentire, Tomatis afferma “che non ci si deve limitare a pensare all’udito come funzione delegata all’orecchio esterno e alla membrana timpanica, ma come attività dell’orecchio interno, cioè del sistema vestibolo-cocleare”.
Tutti sappiamo udire ma pochi sanno ascoltare. L’ascolto è un’abilità particolare, ed è la chiave per: l’apprendimento, il linguaggio e anche per l’identità personale. Il malfunzionamento dell’udito può provocare disturbi di apprendimento e capacità mentali dei bambini. Il dottore pensò bene di prendere come punto di riferimento Mozart.
Mozart è stato concepito e cresciuto nei suoni. Prima ancora di imparare a suonare,il piccolo Wolfgang imparò molto presto ad ascoltare in modo attivo.
Il trattamento è il seguente: si inizia ascoltando musica mozartiana pura, poi gradualmente viene filtrata: si eliminano le frequenze più basse, filtrando prima 1.000 Hz, poi 2.000 Hz, e se ritenuto necessario si arriva fino a 8.000 Hz. Di norma, un bambino riceve questa stimolazione sonora due ore al giorno, cinque giorni alla settimana per tre settimane. Grazie a questo metodo i suoni attraversano le orecchie e le ossa del cranio(probabilmente il modo con il quale i suoni vengono uditi all’interno dell’utero). Tomatis ha ideato cuffie speciali (auricolari dotati di vibratore collocato al vertice del cranio) che trasmettono i suoni direttamente alle ossa craniche
FLS
Viaggio al centro della musica
di Cesare Galla *
L’astrusa avanguardia nata all’indomani della Seconda Guerra mondiale e la canzone popolare italiana, che fra gli anni Cinquanta e i Sessanta veniva affermando una sua dimensione militante, sembrano universi musicali lontanissimi. Eppure, al di là della siderale distanza dell’estetica e del linguaggio, è potuto accadere che due compositori agli antipodi come Luigi Nono e Ivan Della Mea abbiano affrontato a distanza di pochi anni lo stesso testo, la tragica testimonianza sulla Shoah da parte di un ragazzino ebreo del quale si conosce solo il nome, Chaïm, contenuta in una lettera scritta ai familiari dal campo di concentramento nazista di Pustków, fra il 1943 e il 1944, poco prima di morire.
«Miei cari genitori, se il cielo fosse carta e tutti i mari del mondo inchiostro, non potrei descrivervi le mie sofferenze e tutto ciò che vedo intorno a me...». Quelle parole scritte in yiddish e legate a una tradizione rabbinica molto antica erano state pubblicate per la prima volta nel 1954 da Einaudi in un’antologia intitolata Lettere di condannati a morte della Resistenza europea, che aveva costituito peraltro anche la prima documentazione scritta del genocidio degli ebrei. Due anni dopo, erano state inserite con vari altri brani tratti da quel volume nel Canto sospeso per voci soliste, coro e orchestra, uno dei maggiori capolavori di Nono e anche una delle prime composizioni in cui l’Olocausto diventava argomento musicale, dopo lo sconvolgente Un sopravvissuto di Varsavia di Arnold Schoenberg. La stessa lettera, con la sua lancinante poesia e il suo sguardo desolato, sarebbe stata utilizzata nel 1964 dal ventiquattrenne Della Mea in una canzone intitolata Se il cielo fosse bianco di carta. In questo caso, era proprio la prima volta che la canzone popolare affrontava il tema del genocidio degli ebrei. Il brano fu interpretato inizialmente da un’altra protagonista della cantautorialità impegnata come Giovanna Marini, quindi inserito dallo stesso autore in un Lp pubblicato nel 1972, infine ripreso nel 2004 dal gruppo folk goriziano Zuf de Zur, in un arrangiamento dal sapido connotato timbrico klezmer. Destino comune alle due composizioni, un’accoglienza perplessa. Per Nono, anche a causa della voluta non intellegibilità del testo (oggetto di aspra ma contradditoria critica di Karl-Heinz Stockhausen, che pure praticava un’analoga prassi compositiva rispetto alle parole); per Della Mea perché il soggetto fu considerato inadatto al genere e al contesto (le tremende parole di Chaïm scorrono su un trascinante quanto semplice tempo di valzer). Di lì a poco, Auschwitz di Francesco Guccini avrebbe cambiato la prospettiva.
La relazione esistente fra Il canto sospeso di Luigi Nono e Lettera a Chaïm di Ivan Della Mea è uno dei numerosi momenti intriganti e rivelatori del più recente libro di Alessandro Carrera, Polvere di stelle - Dall’armonia delle sfere ai concerti negli stadi (Mimesis / Musica contemporanea, pagg. 398, € 28,00). I dodici saggi raccolti dall’autore in questo libro, originariamente pubblicati nell’arco di quarant’anni a partire dal 1981, non lasciano mai spazio all’idea della raccolta fine a sé stessa. Incorniciati fra una Premessa e una Conclusione di nuovo conio, delineano anzi un filo rosso nel quale la dissertazione di filosofia della musica è nutrita da un comparatismo di fascinosa portata storica e culturale, che può tenere insieme - per fare solo un esempio - il belcantismo spinto delle scene di follia nell’opera del primo Romanticismo italiano e gli “svoli” con i quali Giovanna Marini arricchisce le sue sofisticate rivisitazioni dei lamenti funebri, fra mediazione etnomusicologica e originale consapevolezza creativa.
Il punto di partenza di questo sofisticato percorso è costituito dalla riflessione sulla natura della musica e sul suo significato in relazione con le sue funzioni cosmogoniche e mitologiche, e si conclude con una sorta di appello per la messa a punto di una filosofia della “popular music”. Una ricerca che Carrera - docente di Italian Studies all’Università di Houston, Texas - proclama necessaria e doverosa, e nella quale la suddivisione dei generi appare sempre meno inevitabile.
Si comincia quindi con un dotto excursus sull’essenza sonora del mondo (così s’intitola il primo capitolo), che consente di capire quanto il suono sia elemento fondante nelle narrazioni sull’origine della realtà visibile da un capo all’altro del pianeta, dalle Upaniṣad indiane al Kalevala finnico, nel rapporto per certi aspetti inquietante fra l’idea creatrice di “soffio vitale” e il rapporto con la morte, il vuoto, l’assenza di tutto. Il passo successivo - solo apparentemente lungo, in realtà culturalmente e antropologicamente consequenziale - riguarda il rapporto fra musica e psicanalisi - nel dualismo tra la dottrina freudiana, per molti aspetti singolarmente avulsa dall’elemento musicale, e quella junghiana, nella quale, come scrive Carrera, “il processo di psicologizzazione dell’essenza sonora del mondo trova una delle tappe fondamentali”. A questo punto, il grande tema - del resto connaturato alla musica occidentale fin dalle sue prime manifestazioni - riguarda il significato o il non significato della musica, l’arte che Claude Lévi-Strauss avrebbe definito più avanti nel Novecento “intellegibile ma intraducibile”. A conclusione della “discesa nella psicologia” del mondo dei suoni, la questione si può forse racchiudere nella frase di Pierre Boulez, che opportunamente Carrera pone quasi a suggello del lungo percorso sulle radici profonde della musica. È una sorta di proclama, o di “programma” dell’Avanguardia di cui il compositore francese è stato uno dei maggiori protagonisti: «Il non-significato della musica è irrimediabilmente la nostra forza specifica; non perderemo mai di vista che l’ordine del fenomeno suono è primordiale: vivere quest’ordine è l’essenza stessa della musica”.
Dissodato il terreno in questo modo, l’autore entra nel cuore del discorso nella parte centrale del libro, intitolata “Agonie romantiche e vortici espressionisti”. C’è spazio per una impietosa analisi del velleitario narcisismo di Wagner a proposito della sua opera ultima, Parsifal, ma soprattutto c’è un’analisi approfondita del passaggio dal Romanticismo alla sua crisi e all’Espressionismo, sempre nella chiave della ricerca di significato della musica. Il discorso parte dal razionalismo ormai vicino a incrinarsi, come appare nella seconda metà del Settecento nel Nipote di Rameau di Denis Diderot; passa e si sofferma sul sistema filosofico di Arthur Schopenhauer, che affidava alla musica un primato simbolico e ideale senza precedenti e senza seguiti nella speculazione europea del XIX secolo, con la costruzione di una complessa rete di analogie e simboli nel tentativo di andare oltre la ineffabilità del mondo dei suoni; approda infine alle complesse meditazioni sul senso della musica condotte da Arnold Schoenberg, in buona misura dedicate al rapporto con la parola poetica.
In alternativa, quasi a chiarire una volta di più la visione culturale molteplice e multidirezionale di Carrera, il capitolo intitolato “La storia della musica secondo Ernst Bloch” si occupa di accendere una luce sulla riflessione dell’autore tedesco che non credeva alla successione cronologica degli eventi artistici nella musica, leggendoli invece, dal Rinascimento al secolo Romantico, come un movimento non lineare nel quale l’evoluzione stilistica assume un’importanza solo marginale. Qualcosa del genere, annota Carrera molto più avanti nel libro, nel capitolo in cui si occupa della critica rock come genere letterario, avviene anche se l’argomento è la musica americana del secondo Novecento. Greil Marcus, nel suo fondamentale La storia del rock ’n’ roll in dieci canzoni (2014) “vìola” anch’egli l’ordine cronologico per accedere (e fare accedere il lettore) a una visione molto più creativamente connotata e argomentata espressivamente. Così Ernst Bloch e il critico americano risultano all’improvviso molto meno lontani e “incompatibili” di quanto si potrebbe supporre. E i Flamin’Grooves (gli autori della prima canzone citata nel libro, scritta nel 1972 e incisa nel 1976) ci appaiono in una luce un po’ diversa, com’era accaduto sia per Luigi Nono che per Ivan Della Mea.
La terza e ultima parte del libro è una cavalcata nella canzone d’autore italiana, da Giovanna Marini (specialmente al cospetto della poesia di Pier Paolo Pasolini) a Franco Battiato (il cui declino è indicato nell’incontro con i testi di Manlio Sgalambro), che vengono messi a fuoco in maniera esemplare in due magnifici ritratti biografici e musicali. Ma è anche l’occasione per una dotta quanto brillante dissertazione su “Poetica del fraintendimento e fonetica dell’identità”, un saggio illuminante che prende le mosse dai malintesi e dagli spostamenti semantici che sono numerosi rispetto ai testi cantati in inglese e che in italiano hanno una tradizione dialettale specialmente rispetto al latino, ma che sono stati “vivificati” da due cantautori appartati ma meritevoli di approfondimento come Davide van de Sfroos e soprattutto il poco conosciuto Charlie Cinelli. Nelle sue canzoni il dialetto delle valli bresciane è contaminato dall’italiano e a sua volta “tagliato” dagli apporti di altri parlanti che fanno parte dei flussi migratori caratteristici specialmente di quella zona della Lombardia. La musicologia applicata e la linguistica incontrano la sociologia dell’identità culturale.
Alla base, è sempre dominante in Carrera l’interesse per la parola cantata, che si muove in parallelo e non necessariamente in funzione esplicativa rispetto alla significatività implicita della musica a cui viene collegata. E nella popular music conosce l’esperienza di una “soggettività allargata”, dal punto di vista creativo. Nella tesi dell’autore, infatti, ogni canzone ha una sorta di vita autonoma, resa evidente in maniera diversa da ogni interprete e da ogni versione, non essendo mai davvero “completamente scritta”. Mondi antichi e nuovi, insomma, s’incrociano e s’interrogano in questo libro denso e profondo. E la problematica ma vivificante ricerca del significato della musica non cessa di creare orizzonti diversi per ciascuno di essi, nella realtà del suono.
*Doppiozero, 9 Marzo 2024 (ripresa parziale - senza immagini).
Tutti i benefici della lettura ad alta voce: “I dati parlano chiaro, miglioramenti in comprensione dei testi, competenze linguistiche e socializzazione”
“Letture ad alta voce” è un progetto didattico educativo che mette al centro dell’ambito scolastico le storie come strumento di connessione con le competenze future dei ragazzi. Una pratica che, svolta sistematicamente dai docenti di tutte le materie, favorisce inclusione, integrazione, apprendimento e padronanza della lingua italiana. Pensato e diretto da Federico Batini, professore associato di pedagogia sperimentale all’Università di Perugia, il progetto è stato presentato al Salone del libro di Torino
di Simona Griggio (IL FATTO QUOTIDIANO, 29 MAGGIO 2022)
“Nell’attesa che tu ci leggi il finale del libro, noi stiamo cercando d’immaginare e creare il finale nella nostra mente”. Ecco cosa dice una bimba alla maestra che sta leggendo un racconto alla classe. Leggere ad alta voce storie ai ragazzi, vicende in cui si possano immedesimare, ha effetti meravigliosi su di loro. Basterebbe cominciare con un’ora di lettura ad alta voce ogni giorno per constatarlo. Dove? A scuola. “Letture ad alta voce” è un progetto didattico educativo che mette al centro dell’ambito scolastico le storie come strumento di connessione con le competenze future dei ragazzi. Una pratica che, svolta sistematicamente dai docenti di tutte le materie, favorisce inclusione, integrazione, apprendimento e padronanza della lingua italiana.
Pensato e diretto da Federico Batini, professore associato di pedagogia sperimentale all’Università di Perugia, il progetto è stato presentato al Salone del libro di Torino in una delle sue realizzazioni sul territorio,“Lettura ad alta voce a Porta Palazzo: storie di inclusione e empowerment narrativo in uno dei quartieri più vivaci di Torino”. Batini ha messo all’opera un nutrito gruppo di ricerca: una trentina di persone fra ricercatori del dipartimento Fissuf dell’Università di Perugia, esperti dell’associazione Nausika e volontari di LaAV. Obiettivo? Creare un itinerario di formazione, ricerca, monitoraggio e accompagnamento dei docenti alla pratica quotidiana della lettura ad alta voce come strumento educativo e didattico. Dalle scuole dell’infanzia alle primarie fino alle secondarie di primo grado. La sperimentazione si è svolta all’Istituto Comprensivo Torino II, nel cuore del quartiere multietnico di Porta Palazzo. Sono stati formati circa 50 docenti che hanno offerto due mila ore di lettura ad alta voce agli oltre mille studenti dell’Istituto. Lo hanno fatto con regolarità quotidiana, sistematicità, intensità crescente. Con attenzione alla varietà dei contenuti proposti e al confronto relazionale fra i partecipanti. Dalla platea dei piccoli ai teen ager.
I risultati? Strepitosi. Chi ascolta ogni giorno la lettura delle storie acquisisce strumenti molto più adatti a sviluppare eccellenti processi di apprendimento. E questo è un dato importante sul futuro di ogni successo scolastico. “La risposta al progetto - spiega Batini - è stata energica e a tratti addirittura sorprendente: curiosità, soddisfazione, miglioramenti nell’attenzione e nel coinvolgimento. I dati presentati all’evento torinese parlano chiaro. I risultati sono davvero eccellenti. In termini di comprensione dei testi, competenze linguistiche e di socializzazione“. Il progetto di Batini punta al potenziamento delle abilità di bambini e ragazzi attraverso la cosa apparentemente più semplice: la lettura di storie ad alta voce. Ma dietro questa apparente semplicità c’è ben altro. Il miglioramento dei processi di sviluppo cognitivi, psicologici, identitari ed emotivi.
“A scuola - spiega - riempiamo i ragazzi di contenuti ma non lavoriamo sistematicamente sul far loro sviluppare i muscoli per capire questi contenuti”. I ragazzi, per lui, vanno stimolati a fare domande. Non valutative ma aperte. Un esempio? “Secondo voi cosa succederà ora nella storia?”, “Come si sentirà il personaggio?”. Oppure: “Perché vi è piaciuta questa storia?”, “Avete mai avuto esperienza di ciò che accade al personaggio?”. Insomma, un apprendimento piacevole che ribalta il metodo tradizionale della didattica: quello della domanda valutativa di comprensione. Spesso per mettere il voto e via allo scrutinio. Obiettivo del progetto di Batini è invece di elevare la qualità e l’efficacia del sistema educativo, innovare i processi di apprendimento dei bambini e dei ragazzi. Per arrivare, usando le parole di una docente coinvolta, a dar loro “la possibilità di sentirsi liberi, sentirli ridere di cuore anche se all’interno del contesto scolastico”.
Un’utopia? La sperimentazione a Torino dimostra il contrario. Porta Palazzo è uno dei cinque nuclei pulsanti del quartiere torinese Aurora. Confinante con il centro storico della città di Torino. Il fulcro di Porta Palazzo è piazza della Repubblica, la piazza più estesa di tutta la città. Quella che ospita il mercato all’aperto più grande d’Europa. Il suo nucleo è storicamente interessato da un tasso di presenza di immigrati fra i più alti della città. “Una caratteristica - puntualizza il professore - che lo rende un laboratorio di integrazione e convivenza urbana complesso”.
Voluto da Fondazione Scuola-Riconnessioni, “Lettura ad alta voce a Porta Palazzo” , ha preso avvio proprio in questo contesto. Nei quattro differenti plessi, scuola dell’infanzia, primaria e secondaria di primo grado dell’Istituto Comprensivo II di Torino. Per un totale di 1.032 studenti coinvolti. Ma come si misurano i risultati? Con test mirati a valutare, prima e dopo un periodo intensivo di training narrativo, le abilità linguistiche, emotive, di comprensione e le funzioni cognitive delle bambine e dei bambini coinvolti. “Il caso di Porta Palazzo - prosegue Batini - ci ha messo di fronte a condizioni di svantaggio fortissime sulle abilità linguistiche e di comprensione”. L’esperienza è stata particolarmente significativa a causa della forte presenza multietnica nelle classi.
“Anche durante la pandemia, con la mediazione delle tecnologie, il gruppo di ricerca ha proseguito l’esperimento. Che si è rivelato un antidoto alla perdita di competenze osservata nelle altri classi”, spiega. E aggiunge: “Il giorno dopo il lockdown abbiamo registrato la partecipazione di decine di insegnanti con adesione delle famiglie”. Il futuro del progetto di lettura ad alta voce nelle scuole? “Creare una massa critica di insegnanti. A loro, che hanno letto ogni giorno con impegno, passione e dedizione, agli splendidi bambini e ragazzi e alle loro famiglie, va il mio ringraziamento”. La lettura ad alta voce quotidiana, intensiva e progressiva, inoltre, avvicina i ragazzi all’autonomia. “Aumentando le sessioni e la complessità dei testi, da illustrati o legati ad esperienze dirette per età, fino a quelli più complessi, si sviluppano abilità cognitive superiori”. Alla fine del percorso uno studente sente l’esigenza di cercare da solo le proprie letture. E non importa se sia su libri digitali o cartacei.
La conclusione di Federico Batini è chiara e profonda: “Che la lettura si apprenda a sei anni è un equivoco. La lettura è dialogo fra esperienza e abilità. Una palestra per il cervello e anche un piacere che all’inizio arriva attraverso la mediazione di chi legge”. E non può essere solo la famiglia. Poi c’è il fattore dell’immedesimazione. Importantissimo. Le storie proposte devono essere varie. I ragazzi devono potersi riconoscere per anticipare le proprie tappe evolutive. Grasso, timido, pauroso, eroe. Non importa. E I Promessi Sposi? “Sono un punto di arrivo non di partenza”.
Voce, corpo, relazione
A più voci. Filosofia dell’espressione vocale di Adriana Cavarero, a vent’anni dalla sua prima pubblicazione.
di Annalisa Pellino è dottoranda in Visual and Media Studies presso l’Università IULM di Milano. Ha lavorato come curatrice, archivista e docente di storia dell’arte in carcere e nella scuola superiore. Collabora con la Spring School dell’Università di Udine-Gorizia per la sezione di Cinema e Arte Contemporanea.
"Are the humanities undergoing a vocal turn?”. In un articolo del 2015 apparso sulla rivista Polygraph, Brian Kane avanza l’ipotesi che gli studi umanistici siano stati interessati negli ultimi anni da un vero e proprio vocal turn, in grado di competere con il linguistic turn e il visual turn. L’attenzione del musicologo per l’espressione vocale rientra in una più generale tendenza a riconsiderare l’importanza del suono e dell’ascolto nella lettura dell’esperienza audiovisiva contemporanea e nei processi di soggettivazione. Altri studiosi, invece, preferiscono parlare di auditory turn, che effettivamente esprime meglio la varietà dei fenomeni aurali che interpellano l’ascolto e la sua interazione con gli altri sensi. Che si scelga di usare l’una o l’altra formula, la voce è certo uno degli oggetti più interessanti da considerare in questo ripensamento radicale del modo in cui percepiamo noi stessi e il mondo, entriamo in relazione, ripensiamo i termini della nostra stessa identità e il rapporto con la tecnologia: messaggi vocali, interfacce conversazionali, podcast, tecnologie di sintesi vocale per la lettura dei testi e deepfake della voce realizzati con sistemi di intelligenza artificiale (si pensi a quella di Warhol nella nuova serie di Netflix The Andy Warhol Diaries).
Di fronte a questo scenario, però, c’è un aspetto che viene sottovalutato nella riflessione sullo statuto della phoné, sulla sua materialità e sulle sue implicazioni socio-psicologiche, etiche, estetiche e politiche. È il fatto che essa resta comunque il più carnale di tutti i suoni, e a dispetto dei vari tentativi di ricreazione delle sue caratteristiche specifiche come il tono o il timbro, con effetti più o meno naturalistici. Di questa corporeità si è occupata Adriana Cavarero, che nel suo A più voci. Filosofia dell’espressione vocale (Castelvecchi, 2022) - appena ripubblicato dopo circa vent’anni dalla sua prima uscita - esplora lo statuto della voce risalendo alle origini metafisiche del pregiudizio epistemico che ci porta ad assegnare un peso conoscitivo più alla parola scritta che non alla voce che la esprime. L’analisi di Cavarero non solo scuote le fondamenta della cultura occidentale basata sul paradigma oculocentrico, ma sostiene la centralità della voce nell’articolazione del politico e del femminile e, a partire dal pensiero della differenza sessuale, mostra come tale articolazione sia orientata dal sistema del linguaggio. In particolare, la filosofa valorizza l’idea dell’eccedenza della phoné, che è insieme fonazione e relazione, misura del sé ma anche dell’altro, contemporaneamente medium del linguaggio e sua messa in discussione.
Il saggio parte da un confronto serrato con Platone per rileggere l’intera storia della filosofia come un processo di “devocalizzazione del logos”. Nelle concezioni arcaiche della voce, infatti, la phoné è assimilata sia al divino - come sua pura manifestazione sonora - sia al pensiero che si credeva prodotto dai polmoni e dall’apparato respiratorio e fonatorio: non a caso la parola nous (pensiero) rinvia a noos (naso). In questo senso è illuminante la differenza tra la cultura greca che, da Platone in poi, àncora la propria episteme alla sfera del visivo, e quella ebraica, che invece mantiene saldo il legame con la sfera uditiva. Nella prima la voce è sempre ricondotta alla parola scritta, quindi alla sua manifestazione visiva, insonora. Nella seconda, invece, la stessa potenza di Dio si manifesta non tanto nel Verbo, quanto nel respiro (ruah, in ebraico, pneuma nella versione greca dei Settanta e spiritus in latino) e nella voce (qol), sotto forma di “vento, brezza, bufera”, in una “sfera fondamentale di senso che viene prima della parola”. L’atto stesso della creazione consiste in un “puro vocalico, indifferente alla funzione semantica della lingua” e Dio diventa parola solo nella bocca dei profeti: è infatti la rilettura cristiana del Vecchio Testamento che riconduce alla parola (e non al respiro) l’atto della creazione. Sintomaticamente, la differenza si riflette anche nella lettura del testo sacro, che per gli ebrei avviene a voce alta con un’ondulazione ritmica del corpo che sottolinea la sonorità musicale della parola, mentre per i cristiani è silenziosa e immobile.
Un altro confronto importante per spiegare il fondamento “antiacustico e videocentrico” della filosofia e, per estensione, di tutto il pensiero occidentale, è quello che Cavarero stabilisce tra questa e l’epica, quindi tra Platone e Omero. Nell’epica, ciò che guida il discorso è la metrica, il ritmo e il suono, funzioni di un più complesso sistema mnemonico all’interno del quale il poeta cieco si fa cantore e interprete del messaggio della musa figlia di Mnemosyne. “Il vocalico comanda il semantico”, ma questo non è ammissibile nella casa della ratio androcentrica, tanto che Platone condanna l’epos e la mousiké, ovvero il piacere corporeo della musicalità: “sottratto all’evento dinamico del flusso vocale e consegnato alla fermezza del segno scritto, il linguaggio diventa un oggetto di osservazione [...] assume una forma organizzata, lineare e rivedibile”.
In particolare, ciò che Cavarero contesta alla struttura del sapere occidentale, a partire dalle sue basi filosofiche, è il fatto di ridurre la voce a phoné semantiké, neutralizzandone la corporeità e il potere relazionale. La filosofa, infatti, riconosce alla voce un ruolo centrale nella decostruzione del logocentrismo iniziata da Jacques Derrida con La voix et le phénomène (1967), al quale dedica l’appendice del libro riconoscendogli il merito di aver restituito indirettamente la voce alla sua materialità corporea. Nondimeno, se Derrida si concentra alla parola scritta (grammata) Cavarero si rivolge alla musicalità del vocalico che, attenzione, non va confuso con l’orale e, “come ogni strumento, necessita di una partitura”. Per chiarire la sottile ma sostanziale differenza fra le due dimensioni, la filosofa si richiama alla distinzione operata dal medievalista Paul Zumthor tra oralità, che indica “il funzionamento della voce in quanto portatrice di linguaggio”, e vocalità, intesa come “l’insieme delle attività e dei valori che le sono propri, indipendentemente dal linguaggio”. La voce, infatti, può essere sia portatrice di parola sia pura emissione sonora: del resto, se la prima può fare a meno della seconda, non si può certo dire il contrario. Che si tratti di parola scritta o proferita, la voce le contiene entrambe, ne stabilisce le condizioni di possibilità ma allo stesso tempo le eccede con la sua sonorità, stabilendo una tensione tra performativo e narrativo.
A questa tensione è dedicata tutta la seconda parte del libro, una galleria di ritratti di Donne che cantano, spesso figure femminili mostruose, teriomorfe e mortifere. Si pensi al canto mellifluo e seduttivo delle sirene, che sfidano il raziocinio di Odisseo, e sul cui corpo si consuma il complesso intreccio tra sistema del linguaggio e stereotipi di genere. Quella delle sirene, infatti, è originariamente una voce narrante, proprio come quella della Musa aedica, ma questo legame tra il canto e la phoné semantiké delle donne-uccello viene a perdersi nelle successive rappresentazioni che, non a caso, le trasforma in “sinuose, scarmigliate e pisciformi”, ridotte a puri vocalizzi o addirittura al silenzio. È questa solo la prima di tutta una serie di figurazioni in cui le voci femminili non sono mai presenti come parola o discorso, ma vanno incontro a un processo di sottrazione e fluidificazione: nell’acqua diventano puro suono ambientale che annacqua la soggettività e, per dirla con Douglas Kahn “spegne la scintilla dell’agency” (Noise, Water, Meat. A History of Sound in the Arts, MIT Press, 2001).
Un analogo destino di “nientificazione” (che nella nuova edizione diventa erroneamente “mentificazione”) tocca alla ninfa Eco. Punita da Giunone per il suo eccesso verbale e condannata a ripetere i suoni altrui. La ragazza ciarliera perde la facoltà di articolare i propri discorsi, il suo corpo si scarnifica fino quasi a mineralizzarsi e, assorbito dal paesaggio, si disperde nell’atmosfera. Nell’incontro erotico con Narciso, inoltre, Eco diventa un osceno “specchio acustico”, aspetto fortemente valorizzato nelle Metamorfosi di Ovidio, per cui l’huc coeamus (qui riuniamoci) di Narciso, muta, nella bocca di Eco, in coeamus (uniamoci) con riferimento al coito. Il loro duetto si basa sull’equivoco generato proprio dall’eccesso del vocalico che mina la comprensibilità del semantico: sul ritorno dello stesso suono da una parte e della stessa immagine dall’altra.
Cavarero si sofferma a lungo sul confinamento della voce femminile nell’inarticolato o nei due estremi del canto e del silenzio, che si configurano sia come campi speciali di interdizione da parte dell’ordine simbolico patriarcale, sia della sua sovversione. Si pensi ad Ada (Holly Hunter) in The piano (Jane Campion, 1993), o ancora a tutti i personaggi femminili inaddomesticati del melodramma che muoiono cantando: “Carmen è una zingara, Butterfly e Turandot sono esotiche, Tosca è una cantante, Violetta è una poco di buono. Donne che vivono al di fuori dei ruoli familiari, figure trasgressive e spesso capaci di indipendenza, esse non si limitano a morire, ma devono morire perché tutto torni a posto”. L’opera, fra l’altro, è per Cavarero il luogo per eccellenza dove il principio acustico che orienta il femminile vince su quello videocentrico del maschile: ciò avviene attraverso la figura del castrato che rinuncia ai propri connotati virili per farsi corpo-voce di donna. E anche quando si riversa nella scrittura, la voce femminile mantiene il suo legame con la “sfera preverbale e inconscia, non ancora abitata dalla legge del segno, dove regna l’impulso ritmico e vocale”. A tal proposito la filosofa fa riferimento a l’écriture feminine di Hélène Cixous - qui assimilata alla nozione di chora semiotica di Julia Kristeva - insieme gesto estetico e politico: “scrittura fluida, ritmica e debordante, che rompe le regole del simbolico facendo esplodere la sintassi. Essa precede ed eccede i codici che governano il logos fallocentrico.” Cixous è un’ebrea algerina che prova a scompaginare e reinventare la sintassi della lingua paterna - il francese, la lingua del colonizzatore - musicandola con il tedesco da ebrea askenazita della madre in maniera del tutto in(a)udita: si tratta di un piacere legato alla voce materna che si mescola con quello orale del latte e informa una “lingualatte (languelait) che, nella sua effusione gratuita, ricopre tutto il registro dei piaceri orali e delle vocalizzazioni infantili”.
Ma allora, viene da chiedersi, cosa significa la voce quando si sottrae al sistema della significazione? Due sono gli aspetti su cui insiste Cavarero: l’unicità della persona e la relazione. La phoné esprime innanzitutto il corpo che la emette, in quanto manifestazione di una “singolarità irripetibile” che si manifesta nel dire piuttosto che il detto: “la voce pertiene al vivente, comunica una presenza in carne e ossa, segnala una gola e un corpo particolare”. Inoltre, al contrario dello sguardo, la voce è sempre relazionale: in latino, ci ricorda la filosofa, vocare è chiamare: “prima ancora di farsi parola, la voce è un’invocazione rivolta all’altro e fiduciosa di un orecchio che la accoglie”. Nella “prossimità pneumatica” si stabilisce dunque l’essere per l’altro, ovvero la relazione che ha luogo nel contatto diretto tra le cavità di un corpo che emette un suono e quelle di un corpo che lo riceve, in ciò che di più nascosto e vibrante c’è in ognuno di noi.
Anche qui sono numerose le voci, filosofiche e letterarie, che si incontrano in questo viaggio a ritroso alla scoperta della materialità della phoné: da Ida Dominijanni ad Hannah Arendt, da Jean-Luc Nancy a Emmanuel Lévinas; dal Re in ascolto di Italo Calvino a Hurbinek - il bambino nato nel campo di concentramento di Auschwitz la cui vicenda, narrata da Primo Levi ne La Tregua (1963), chiude significativamente il saggio. Proprio le storie del Re in ascolto e di Hurbinek dicono di quanto la voce sia un plus-de-corp - per usare un’espressione di Mladen Dolar (La voce del padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi, Orthotes, 2014) - che si rivela attraverso una serie di manifestazioni fisiologiche e somatiche capaci di eccedere la struttura del linguaggio, occupando uno spazio di verità e di relazione non linguistica con l’alterità, dove umano e animale si approssimano e la voce “qualcosa dice, ma niente che si possa fissare in un significato. Mima il linguaggio, senza arrivare alla parola. Comanda, seduce”.
* Fonte: Il Tascabile, 11.05.2022 (ripresa parziale - senza note).
Scheda
Mladen Dolar, La voce del Padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi
di orthotes *
Plutarco racconta la storia di un uomo che, spennando un usignolo e vedendo che c’è attaccata ben poca carne, gli dice: «Sei fatto soltanto di voce - e nient’altro». Togliere le penne del significato che coprono la voce, smontare il corpo da cui la voce sembra emanare, resistere al fascino del canto delle Sirene e della loro voce, concentrarsi sulla voce e nient’altro: ecco la difficile missione affrontata da Mladen Dolar in questo lavoro seminale. La voce non ha rappresentato un argomento di grande rilevanza filosofica fino agli anni Sessanta, quando Derrida e Lacan l’hanno posta al centro delle proprie riflessioni.
In La voce del Padrone Dolar va oltre Derrida e la sua teoria del “fonocentrismo”, riprendendo e sviluppando la tesi di Lacan che considera la voce come una delle principali incarnazioni dell’oggetto (objet petit a).
Secondo Dolar, al di là delle due concezioni più comuni della voce come veicolo di significato e come fonte di ammirazione estetica, c’è un terzo livello di comprensione: la voce come oggetto, come leva del pensiero. Egli studia l’oggetto voce su più piani - la linguistica della voce, la metafisica della voce, l’etica della voce e la voce della coscienza, la relazione paradossale tra voce e corpo, la politica della voce - ed esamina gli usi della voce in Freud e Kafka. Con questa opera fondamentale Dolar elabora una teoria filosofica della voce in quanto oggetto-causa lacaniano.
Mladen Dolar, La voce del Padrone. Una teoria della voce tra arte, politica e psicoanalisi
di orthotes *
Plutarco racconta la storia di un uomo che, spennando un usignolo e vedendo che c’è attaccata ben poca carne, gli dice: «Sei fatto soltanto di voce - e nient’altro». Togliere le penne del significato che coprono la voce, smontare il corpo da cui la voce sembra emanare, resistere al fascino del canto delle Sirene e della loro voce, concentrarsi sulla voce e nient’altro: ecco la difficile missione affrontata da Mladen Dolar in questo lavoro seminale. La voce non ha rappresentato un argomento di grande rilevanza filosofica fino agli anni Sessanta, quando Derrida e Lacan l’hanno posta al centro delle proprie riflessioni.
In La voce del Padrone Dolar va oltre Derrida e la sua teoria del “fonocentrismo”, riprendendo e sviluppando la tesi di Lacan che considera la voce come una delle principali incarnazioni dell’oggetto (objet petit a).
Secondo Dolar, al di là delle due concezioni più comuni della voce come veicolo di significato e come fonte di ammirazione estetica, c’è un terzo livello di comprensione: la voce come oggetto, come leva del pensiero. Egli studia l’oggetto voce su più piani - la linguistica della voce, la metafisica della voce, l’etica della voce e la voce della coscienza, la relazione paradossale tra voce e corpo, la politica della voce - ed esamina gli usi della voce in Freud e Kafka. Con questa opera fondamentale Dolar elabora una teoria filosofica della voce in quanto oggetto-causa lacaniano.
* Fonte: Orthotes
MUSICA, MUSE, PROFETI E SIBILLE, ANTROPOLOGIA, E "MOS-ART" DI SALUTE E LIBERAZIONE:
DISAGIO DELLA CIVILTA’ (FREUD, 1929). Il problema, a mio parere, è che la ricerca e i risultati di Alfred A. Tomatis (Nizza, 1º gennaio1920 - Carcassonne, 25 dicembre2001) sono talmente innervati con la nostra non-volontà di sapere di sé che, pur comprendendo che già il solo "parlare è suonare il proprio corpo" (Alfred Tomatis), alle accademiche platoniche orecchie (cieche e sorde e zoppe, come quelle di Edipo) il messaggio non arriva o arriva assolutamente distorto.
DANTE 2021: MEMORIA DI APOLLO E DELLE MUSE
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA.
COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA. Crisi dei fondamenti di una civiltà....
di Nadia Fusini *
Se esiste la letteratura non possono non esistere la storia e la critica della letteratura. E dunque, chi si applica a mettere in sequenza i suoi frutti, e chi si dedica al loro giudizio. Alla loro interpretazione. Chi opera per coglierne il senso nascosto, o profondo. O per decifrare nel suo specchio le verità dell’epoca con la quale la letteratura intrattiene rapporti più o meno indiretti.
Se esiste la letteratura non può non esistere una visione, e dunque una teoria della medesima. Nel senso puro e semplice che nei suoi frutti si dà a vedere un mondo. E comunque, al di là del suo valore di intrattenimento, di divertimento - che sia in versi o in prosa, che sia un poema, un romanzo o unracconto - l’opera letteraria condensa in sé un pensiero, un’idea del mondo. Come ogni manufatto linguistico.
Esistono dunque a buon diritto il critico, lo storico, il teorico della letteratura. Ora, tali professioni, anche nel senso di fede - di fede e fiducia nella parola: che possa produrre conoscenza - si esplicano in vari modi. C’è il critico accademico, c’è il critico militante, c’è lo storico, e c’è l’interprete, e c’è il recensore di libri sui quotidiani. Chi insegna dall’alto di una cattedra e chi lodevolmente e quotidianamente si impegna a guidare il lettore comune nella scelta di un romanzo, di un libro di poesie, orientandolo con onestà in un panorama assai vasto di esperienze possibili, ben sapendo che esiste un’industria culturale, la cui volontà espansiva non arretra di fronte alle colpevoli sopraffazioni della buona fede del lettore comune. Appunto, il lettore comune, il destinatario reale e ideale del libro.
Ora a me pare che affinché esista una buona letteratura, è necessario che esista un buon lettore. O, per non ripetere il vecchio adagio dell’uovo e della gallina, un buon lettore e una buona letteratura si danno la mano.
La lettura, è questo l’atto da indagare. Come ci arriviamo. Come lo eseguiamo. Intanto, vari sensi e organi vi sono implicati. C’è l’ occhio, e c’è lo sguardo. Non sono la stessa cosa. C’è l’orecchio, e c’è l’ascolto. Non sono la stessa cosa. Leggere, non è solo una questione di occhio. Sì, certo, si legge con l’occhio la parola scritta. Ma si legge anche con l’orecchio.
Mi assumo a cavia, e rivelo che quando leggo, io ascolto. Ascolto la voce, o quel che resta della voce in quel che è scritto. Come fa Leopardi - ricordate?, quando “porgea gli orecchi al suon della tua voce", dice a Silvia. "Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno", in virtù di quella voce. E lui ne ha nostalgia. Potremmo dire con Leopardi che la poesia nasce così, come un’immensa nostalgia della voce viva. Voce viva, viva voce: voce che è appunto segno vivente, fiato, respiro, anima. È il segno di vita che cerca Lear sulle labbra di Cordelia - la più laconica delle sue figlie. La voce viva, la vita. Nelle parole scritte, o morte (è la stessa cosa, insegna Socrate), quando leggiamo, cerchiamo la voce viva.
Questo fa il lettore che ha orecchio: attende alla parola viva. Ascolta nell’enunciazione umana la lotta per l’espressione. Porge l’orecchio per sentire qualcuno in duello con se stesso, coi propri grovigli espressivi, con il mondo che vuole specchiare, rappresentare, svelare... Insomma, in lotta con la volontà di afferrare nella parola, quand’anche per la coda, un’esperienza che è di un altro ordine, rispetto al linguaggio.
Un’esperienza che è vita.
L’orecchio in quanto organo presenta però una caratteristica particolare: è l’unico orifizio del corpo umano che non si chiude. Si può chiudere la bocca, si possono chiudere gli occhi, si può serrare l’ano, per quanto riguarda la vagina è protetta per un certo tempo almeno dall’imene, e anche dopo si può quanto meno contrarla, se non si vuole far passare qualcosa; ma l’orecchio no. Di suo e per natura, l’orecchio non ha difese contro la penetrazione. Proprio per questo è estremamente vulnerabile. E temo che l’acustica roboante di un’industria editoriale sciatta e volgare contribuisca a corrompere l’udito. E così anche chi vorrebbe tenere le orecchie aperte per accogliere il suono della vita, finirà per non sentire più nulla. E non saprà più intonarsi all’esperienza di conoscenza e di piacere che offre una parola autentica, che con il suono della vita si confronta.
A questa educazione dovrebbero attendere la scuola, l’università, la critica e l’estetica. Accade invece - è sotto gli occhi di tutti - che a fronte di una alfabetizzazione universale, corrisponda una ignoranza epocale, frutto di una ideologia dell’istruzione sempre più marcatamente piegata all’utile e all’immediato impiego delle risorse umane e sempre più estranea, quasi non sapesse più che cos’è, alla cura dello sviluppo della coscienza critica.
Assistiamo sconcertati a istituzioni che assecondano la pigrizia e programmano la volontà di lasciar cadere un patrimonio letterario e culturale, di cui il nostro contemporaneo è l’erede, defraudando in realtà il nostro contemporaneo delle antenne che dovrebbe sviluppare per comprendere la sua propria vita. Così chi avesse nel proprio orizzonte ancora tali fini per se stesso, singolarmente dovrà farsi carico della volontà di conoscenza: volontà di conoscenza che non può non passare attraverso la lettura, in un rapporto dinamico tra la tradizione e il presente.
Il fatto è che o leggere ha questo risvolto esperienziale, o non è nulla: non ha nessun valore. Se non di evasione. Mentre io - di nuovo mi offro come cavia - avanzo nella lettura non in fuga, ma a caccia del reale. Non leggo per evadere. Non sono un disertore. O se leggo per fuggire dalla realtà, è perché credo che la lettura mi permetta di entrare in un altro mondo né falso, né vero, ma per l’appunto “reale”.
Questo me l’ha insegnato una donna filosofa, Rachel Bespaloff. Per la quale “la lettura è la messa alla prova spirituale di un’opera.” Mentre un’altra donna filosofa, Simone Weil, mi ha insegnato l’esercizio della lettura come ‘attenzione’. Che siano Camus o Omero, la Bibbia o Kafka, chi legge, insegnano le due donne filosofe, chi legge cerca il senso dell’esistenza umana. In modo indiretto, sospeso, per niente enfatico, chi legge ritorna a farsi le domande essenziali: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? È una ginnastica essenziale alla formazione umana dell’uomo. E della donna. È un training a cui la letteratura allena. In questo senso, il lettore mette alla prova l’opera che ha di fronte. E l’opera esisterà, sarà grande, rimarrà viva nei secoli dei secoli, se chi vi si abbevera, almeno un poco, estingue la sua sete di verità spirituale.
Simone Weil insegna che al cuore della lettura v’è un’esperienza etica. Si legge per conoscere, si legge per trasformarsi, per cambiare. Perché come nella muta del serpente, il vecchio Adamo decada e il novello Adamo nasca, e con lui naturalmente una nuova Eva... Si legge perché riconosciamo allo scrittore la capacità di operare in noi una metamorfosi. Sì, certo, è alla realtà, è al mondo vero, che lo scrittore attinge per costruire il suo mondo irreale; ma è del mondo reale, che vuole parlare - per cogliere oltre la sua opacità, oltre il suo capriccio, un’apertura all’essere più profonda, più radicale, che si dà soltanto così, perché lui la inventa. Cioè, la trova. E cioè, la crea. È un momento davvero miracoloso quello in cui trascendenza e invenzione si confondono. E il lettore se ne fa testimone, perché è nel lettore che questo processo si incarna.
Chi risponde così dell’atto della lettura, si fa lui stesso scrittore. A simbolo risponde simbolo, sentenziò anni fa in uno scambio privato il grande Roland Barthes. Aveva assolutamente ragione. Ma perché questo accada, il lettore dovrà farsi deuteragonista attivo e esigente. E coraggiosamente, con ostinazione mettersi alla ricerca - sarà il suo proprio Graal - dei libri che gli offrano tale esperienza. Allontanando da sé la cattiva influenza di tutti quei mediatori che della letteratura fanno commercio, e con i lacci seduttivi di una perniciosa arte della retorica lo dissuadono dallo sviluppare le antenne che servono a distinguere la parola autentica da quella falsa. Siamo diventati così sofisticati nel palato, tanto da distinguere prelibate vivande di raro gusto, e non vogliamo diventare altrettanto capaci di godere della parola?
La scomparsa di un vero Maestro
Pierre Boulez
di Piero Mioli (Il Mulino, 15 gennaio 2016])
Schönberg est mort, scrisse con enfasi nel 1952, certo non immaginando che quel suo strano messaggio, misto di costernazione e senso di liberazione, sarebbe stato inteso come uno snodo fondamentale della musica contemporanea. Quando lo pubblicò, Pierre Boulez aveva 27 anni, essendo nato a Montbrison, nella Loira, il 26 marzo 1925. Ora che è mancato anche lui, il 6 gennaio 2016 a Baden-Baden (più che novantenne, malato sì, ma sveglio come non mai), in tutto il mondo son fioccati messaggi più o meno intitolati così, dalla nuda notiziola a qualche prima profonda riflessione. Altro senso di liberazione? No, ma in 64 anni i tempi sono molto cambiati, la critica musicale con la maiuscola chissà dov’è finita, né Boulez era mai stato quel tiranno della musica che secondo lui era stato o meglio era diventato Arnold Schönberg. Però le sue idee, espresse con una chiarezza quasi luciferina, erano altrettanto drastiche, intransigenti, schierate: Arnold aveva distrutto l’armonia tradizionale inventando prima l’emancipazione della dissonanza o atonalità e poi la dodecafonia e quel suo stadio ulteriore che è il serialismo, e lui, lui Pierre, diceva che il compositore contemporaneo deve distruggere a sua volta, che una nuova musica non seriale non ha senso, che lo Stravinskij neoclassico era un gambero e lo Stravinskij dodecafonico una scimmia (quanto a un sinfonista della razza di Šostakovič, giusto per fare un altro esempio, nulla da salvare). Il vero “guaio” di Schönberg (dispotismo a parte) Boulez l’aveva evitato componendo sì in quello stile assolutamente avanguardistico ma senza più onorare le antiche forme di concerto, sonata e così via. E quando, provetto concertatore e direttore d’orchestra qual era oltre che compositore, dovette fare le sue scelte e fare le sue esclusioni, non ebbe dubbi: ogni onore a Webern, allievo di Arnold e suo vero maestro ideale, e a Berg e compagnia viennese; sì anche a quell’iperromantico, un po’ troppo “trombone” di Wagner, e a quell’impressionista-simbolista di Debussy, sempre un po’ troppo sospiroso, anche se a patto di prosciugare il primo e innervare il secondo; e niente da fare con tanti autori barocchi (Vivaldi?), classici (Haydn?), romantici (Schumann?), italiani (Verdi?).
È anche per questo rigore che Boulez è stato un artista fra i più significativi e influenti del secondo Novecento in Francia e in Europa, capace di agire su diversi fronti e sempre al passo con i tempi. Ha scritto saggi acuti e corposi, spesso tradotti in italiano da Einaudi come Points de repère del 1981, che spazia dalla riflessione estetica a lucide schede su singoli musicisti. Ha diretto, fra l’altro senza mai impugnare la fatidica bacchetta (del comando) e limitandosi alla manualità, l’orchestra di Cleveland, l’orchestra della Bbc di Londra, l’Orchestra Filarmonica di New York, dando interpretazioni straordinarie, perfettamente analitiche e nemiche di ogni suggestione sentimentale, dal Parsifal di Wagner al Pelléas et Mélisande di Debussy, dalla Sinfonia fantastica di Berlioz all’intero Anello del Nibelungo di Wagner stesso (a Bayreuth nel primo centenario del 1976, con la regia di un connazionale del valore di Patrice Chéreau). Ha insegnato a Darmstadt e Basilea, ha fondato (nel 1977) e a lungo diretto l’Ircam (Institute de Recherche et Coordination Acoustique/Musique) di Parigi, ha composto parecchia musica che lo pone ai vertici dell’originalità qualitativa della sua epoca.
Come autore, Pierre Boulez comincia nel 1946 con una sonatina per flauto e pianoforte. Sul modello di Webern, dopo un paio di sonate per pianoforte giunge nel ’51 al serialismo integrale della Poliphonie X per 18 strumenti, per passare poi alla “forma aperta” e all’“alea controllata” ad esempio in Pli selon Pli del ’62 per soprano con strumenti e in quel Répons (Responsorio) che è nato nel 1981 e ha subito continue metamorfosi (è questo il concetto di opera aperta, mentre l’alea è la maniera compositiva inventata da John Cage che pratica l’imprevedibile del caso). Altre opere significative, in un catalogo vasto e vario e spesso divaricato fra più versioni sono Rituel in memoriam Bruno Maderna per orchestra, Structures pour deux pianos in due libri, Le marteau sans maître per contralto e sei strumenti su testi di René Char. Clamorosa, per esempio, la differenza fra le due sonate per pianoforte. La prima è breve, nove minuti in due movimenti, e mentre si diverte a studiare le risonanze di uno strumento tanto fondato sul famoso pedale specifico, conosce una prima versione che cita limpide melodie tradizionali e una definitiva che cancella ogni memoria per quintessenziarsi totalmente. Lunga la seconda, invece, quattro movimenti come certe sonate viennesi: sembra imitare la Hammerklavier di Beethoven, anche perché come quella termina con una fuga, ma in verità vuole essere addirittura una “esorcizzazione” del passato. Prova ne sia che abbonda di trilli, famosi o famigerati abbellimenti qui distolti dal grazioso compito di ornare e invitati piuttosto a travisare, frammentare, disturbare.
Sempre assistito da una ricca bibliografia, nella primavera scorsa Boulez è stato onorato dal Musée de la Musique di Parigi con una mostra che ha tratto materiali da quella Darmstadt che è la roccaforte dell’avanguardia musicale, ma anche da Bologna, dalla Biblioteca del Dipartimento delle Arti (Sezione di Musica e spettacolo), con tanto di catalogo pubblicato da Actes Sud (da me recensito nella «Nuova informazione bibliografica», n. 2015/3, pp. 627-630).
Non c’è dubbio che la scomparsa di Pierre Boulez, annunciata in ogni dove come raramente capita a un musicista, provochi una grande quantità di pubblicazioni divulgative e scientifiche: da esse si trarrà ulteriore linfa per comprendere sempre meglio l’intellettuale, l’artista, il maestro nella sua complessità. Ma certo nell’assieme del pensiero e dello stile quella di Boulez è una figura che ha una sua chiara cifra - come dire? - di contrasto. Boulez aveva studiato con Messiaen, grande e diversissimo compositore tutto ispirato alla fede religiosa e al canto degli uccelli. Messiaen aveva composto reagendo ai Six, un gruppo di musicisti ironici e prosaici nemici giurati delle troppo poetiche nuances di Debussy. Il quale aveva avuto un problematico rapporto di amore (poco) e odio (molto) con il Romanticismo estremo di Wagner. Dunque oggi, nel 2016, il mondo della musica colta ha tutti i diritti di coltivare e anche di contraddire i principi dell’arte di Boulez. Quello di conoscerlo e pregialo, invece, è un dovere sacrosanto.
Insegno Beethoven ai sordi
Giulia Cremaschi Trovesi: il corpo è musica
di Paola D’Amico (Corriere La Lettura, 10.02.2013)
Francesco ha una diagnosi di autismo, s’è diplomato a pieni voti in pianoforte. La sua esecuzione del Concerto italiano di Bach è perfetta. Anche Nicola è autistico e suona il piano e il sax. Ha le unghie consumate, perché quando non suona si tormenta le mani, che non stanno mai ferme, come un torrente in piena di emozioni inesprimibili. Giulia Mazza ha 25 anni, una laurea in biologia, è sorda bilaterale profonda e suona Schubert, Bach e Shostakovich al violoncello: rivedere cento volte il video di uno dei suoi concerti in teatro è emozionante e disarmante. L’accompagna al piano Giulia Cremaschi Trovesi, la musicoterapeuta che la segue da quando aveva 3 anni. «Come fa? Questo è il grande mistero. Non mi sono ancora abituata ai miracoli. Non cerchiamo di entrare nella testa di un altro», sdrammatizza. «Qui - aggiunge - c’è stata una mamma fantastica che ha creduto in quello che le spiegavo e cioè che la musica è dentro l’uomo, il grembo materno è la prima orchestra, il luogo dove non esiste un solo attimo di silenzio, dove la musica è pulsazione, respiro, voce».
Per entrare nel mondo di Giulia Cremaschi Trovesi occorre fare tabula rasa, abbandonare stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi e tecnicismi. La chiave di lettura che lei offre sembra semplice: «La musica è dentro di noi. Siamo corpo vibrante. Senti il tuo corpo, il respiro, la voce, ascoltati... La soluzione è dentro di te».
La musicoterapeuta che insegna a suonare Beethoven a sordi e autistici, che fa cantare e danzare i ragazzi Down, che guarda con scetticismo alle diagnosi frettolose di «deficit d’attenzione e iperattività», spiazza così i suoi ospiti - grandi e piccini, per lei sono tutti uguali. Ripete: «La musica è per tutti, è un linguaggio universale».
Ha 70 anni, due occhi celesti e magnetici, capelli biondo cenere mai tinti, è energica e paziente. Insegna da quando di anni ne aveva venti. Vive con i figli e i nipoti nella grande casa di famiglia in cima a un colle, a Rosciano, frazione di Ponteranica a ridosso di Bergamo, in Val Brembana. «Non insegno nulla, hanno già tutto, la musica, il ritmo. Un bimbo piccolo è già capace, io gli do soltanto l’occasione per mostrarlo».
Il suo incontro con la musica è avvenuto quando aveva cinque anni. «Papà capì e mi portò da una suorina delle Canossiane, Emilia, che usava il linguaggio del corpo. Un giorno disse che ero veloce a imparare e mi dovevano cercare un altro insegnante». Gli studi, i diplomi, l’insegnamento alle scuole magistrali. Fino all’incontro con il primo bimbo autistico: «Me lo affidarono nel 1975, il figlio di un collega. Dopo qualche tempo ho lasciato la scuola per dedicarmi soltanto a questo nuovo lavoro».
Nel suo ufficio austero c’è ancora il profumo della polenta che ha cucinato sulla stufa per i nipotini il giorno prima. Giulia siede alla scrivania come sul ponte di comando di una nave: tre piccoli televisori sono appesi sopra il grande desktop del computer, con la foto di famiglia a fare da sfondo. Sugli schermi scorrono le immagini dei suoi ragazzi in concerto. «Il mio lavoro è questo: capire da un dettaglio quante potenzialità ci sono in un bambino».
L’incontro dei più piccoli con la magia dei suoni avviene in una stanza rivestita in legno, come la cassa armonica di uno strumento musicale: si muovono, gattonano, giocano, battono i piedi e lei li segue accompagnando ogni loro gesto con un suono. Non sono loro a dover seguire suoni e ritmi imposti. Giulia siede al piano: «Gioco con la tastiera, la uso con i bambini come fosse la buca della sabbia». In ogni gesto, movimento, azione, intonazione della voce, c’è già un ritmo, un tempo, una musica, spiega, così come i tratti del volto esprimono un’emozione. «Improvvisare alla tastiera per rispecchiare tutto questo vuol dire saper leggere (non certo interpretare) e dare voce alle note scritte nella e sulla persona».
È una strada che non conosciamo, faticosa, quella intrapresa da Giulia. Quando incontrò in udienza Papa Wojtyla gli chiese: «Perché tanta fatica?». «Le cose difficili - rispose Giovanni Paolo II - fanno sempre fatica ad imporsi». Ha pubblicato libri (l’ultimo, Il grembo materno. La prima orchestra), tenuto insieme nella Federazione italiana musicoterapeuti (www.musicoterapia.it) coloro che lavorano con i suoni per riabilitare patologie molto gravi (autismo) e i casi di plurihandicap (lesioni cerebrali, sordocecità, esiti da nascite premature). Eppure, la fatica di andare controcorrente non ha mai scalfito il suo ottimismo: «Perché non dovrei essere ottimista?».
Citando la filosofa e religiosa tedesca Edith Stein e i suoi studi sull’empatia ci invita a immaginare di essere «partiture viventi». Il corpo parla di noi stessi a nostra insaputa. Ecco spiegato il «miracolo» della violoncellista non udente. Noi viviamo con il nostro corpo, «non sentiamo solo con le orecchie, c’è la risonanza che investe il corpo ed è fonte di emozioni, ma di solito il corpo viene soffocato dall’educazione ricevuta a tavolino».
Educazione dei tempi moderni, poco inclini ad aprirsi a una strada che impone la fatica di tornare alle radici della musica. «Non ho inventato niente. Il veronese padre Antonio Provolo, due secoli orsono, faceva già cantare in coro i sordi nell’istituto che aveva fondato per loro. Vuoi che un non udente parli? Gli fai scaturire la voce attraverso le emozioni. I bambini sordi me lo hanno insegnato. Quando suonavo, si buttavano sulla cassa armonica del pianoforte per essere investiti, compenetrati dalle onde sonore. Stavano così abbracciati al pianoforte che diedi loro il permesso di andarci sopra, si stendevano e non si muovevano più». Il pianoforte può diventare un poderoso tamburo che martella i ritmi e all’improvviso un delicato carillon. Le onde sonore si propagano attraverso l’aria e permeano il mondo attorno attraverso la risonanza.
«Non sentiamo soltanto con le orecchie». Era già chiaro agli antichi. Nelle tradizioni sciamaniche dalla Mongolia al Messico, nelle tradizioni arcane cabalistiche del giudaismo e del cristianesimo, i suoni vocali e gli armonici sono stati usati per guarire e trasformare, per bilanciare i centri energetici del corpo e attivare le risonanze del cervello. E il padre della geometria aveva già svelato come un suono ne generi altri superiori (armonici): Pitagora credeva che l’universo fosse un immenso monocorde, uno strumento con una sola corda tirata tra il cielo e la terra, parlò di musica delle sfere, pensava che i movimenti dei corpi celesti che si spostano producessero un suono.
Alla parete della sala di musica sono appesi dei grandi quadri: riproducono con parole e disegni la filastrocca del Girotondo, un canto gregoriano e l’Ut queant laxis con cui Guido D’Arezzo legò indissolubilmente a ogni suono della scala musicale una sillaba (ut-re-mi-fa-sol-la-si). La strada ora è in discesa e Giulia ci congeda: «Sordità e autismo sono due aspetti di un unico problema, mancando in entrambi i casi la tensione e la predisposizione del corpo che vibra all’ascolto, il sordo "si chiude alla vita" e l’autistico "diviene sordo alla comunicazione". Il musicoterapeuta coglie nelle persone la tensione emotiva che permette o non permette al corpo di vibrare».
Attraverso la pelle udiamo meglio i suoni
Parole e rumori non solo soltanto il frutto di onde sonore che raggiungono le nostre orecchie, ma rappresentano una percezione sensoriale ben più complessa che coinvolge anche la vista e il tatto. Lo afferma la rivista Nature.
di Stefano Massarelli *
Parole, rumori e musica non solo soltanto il frutto di onde sonore che raggiungono le nostre orecchie, ma rappresentano una percezione sensoriale ben più complessa che coinvolge anche la vista e il tatto. A sostenerlo è un’ultima incredibile ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.
Studi condotti in passato hanno dimostrato come l’organo della vista è in grado di "integrare", o anche stravolgere alcuni suoni che giungono alle nostre orecchie. È questo il caso del noto effetto McGurk, un’illusione acustica in cui la percezione uditiva di una sillaba (ba-ba) risulta modificata dal momento che si osserva qualcuno che pronuncia una sillaba differente (ga-ga).
La stessa cosa, secondo Bryan Gick della University of British Columbia, sembra avvenire nel caso di parole che inducono degli stimoli tattili sulla nostra pelle. La pronuncia di sillabe aspirate come "pa" e "ta", spiega Gick, produrrebbe ad esempio un lieve flusso d’aria che verrebbe percepito dalla nostra pelle contribuendo alla corretta interpretazione della parola pronunciata.
Per sostenere questa ipotesi, Bryan Gick e i colleghi hanno sottoposto un campione di 22 volontari all’ascolto di alcune sillabe come "pa", "ta", "ba", "da", unito a un flusso d’aria artificiale emesso a livello dei palmi delle mani o sul collo. Dai risultati è emerso che le sillabe "ba" e "da" tendevano ad essere confuse con "pa" e "ta" quando al suono erano associati dei piccoli flussi d’aria sulle mani e sul collo dei soggetti interessati. Ciò sottolinea come la nostra pelle, allo stesso modo degli occhi, abbia un ruolo importante nel "sostenere" l’udito nella giusta percezione delle parole, sostengono i ricercatori.
Fonte: Gick B et Derrick D. Aero-tactile integration in speech perception. Nature 2009; 462:502-4.
http://www.scribd.com/doc/23434928/Da-Nature-Parole-sulla-pelle
Ezio Bosso racconta a “Repubblica” il potere degli spartiti. E la magia delle note che ci fa tutti più belli
Inno alla gioia
Perché la musica è la sola cura universale
di Ezio Bosso (la Repubblica, 31.05.2017)
«Dentro una nota c’è tutto il teatro di cui hai bisogno», ho detto una volta a una giovane attrice-cantante. Lei lamentava una difficoltà espressiva, ma in realtà era semplicemente soffocata dai mille gesti che la distraevano dall’unica esigenza che aveva: il suono. E grazie a quell’episodio anch’io ho imparato qualcosa di importante: il valore più profondo delle note. Quella frase detta in maniera spontanea mi ha fatto riflettere, scavalcando quella parte di me che procede quasi in automatico dopo tanti anni di “onorato servizio” e che mi fa andare avanti sicuro della mia conoscenza. E che però mi fa dimenticare un pezzo fondamentale della mia esistenza di musicista, dando per scontato il bello a cui tendiamo. Un po’ co- me quando scrivi un messaggino: è vero che un cuore emoticon e un cuore in parole hanno lo stesso significato in fondo, ma io continuo a leggere nel secondo caso “grazie di cuore” e nel primo “grazie di disegnino di un cuore”. Quel giorno mi sono reso conto, o meglio ho ricordato, che dentro una singola nota non solo c’è tutto il teatro del mondo, ma c’è tutta la vita.
Tutta la vita di una persona, perché troppo spesso dimentichiamo che chi ha scritto quella musica non era un mezzobusto di marmo o un ritratto dall’espressione un po’ trombonesca, ma era una persona. E dentro quella nota c’è tutta la sua vita, il suo tempo, la storia che lo accompagna, la sua ricerca, i suoi sentimenti, ciò in cui crede e anche le sue fragilità e insicurezze. Certo, da tempo il mio approccio interpretativo si basa fortemente sull’approfondimento storico, estetico, filologico: cosa facile, in fondo convivo con uno scrittore di musica da 45 anni e non sono mai riuscito a cacciarlo. Eppure questo era un tassello che avevo forse un po’ trascurato.
In una nota c’è tutto questo e nelle migliaia di note e punti e trattini e cunei che compongono una partitura c’è tutto il percorso. E quando suoniamo, lo liberiamo a noi stessi e a chi ascolta con noi, aggiungen-do lo stesso ammontare di vita che ci ha messo chi lo ha scritto.
Per questo abbiamo la responsabilità non solo di rispettare le note suonando impeccabilmente, ma anche di approfondire, studiando ogni aspetto possibile nascosto nelle note che compongono quella mappa meravigliosa che è una partitura. Una mappa da seguire ma anche da cui alzare gli occhi per godersi il paesaggio, senza rischiare di non andare a sbattere contro un muro; da imparare a memoria e ripercorrere in ogni istante che ne sentiamo l’esigenza.
La musica ha anche questo potere: fa viaggiare nel tempo e nello spazio, fa vedere senza bisogno di guardare, fa conoscere i luoghi evitando le noiosissime serate di visione di diapositive di un tempo o dell’imbarazzante “guarda qui” in telefoni sempre troppo piccoli per mostrare abbastanza.
Era ciò che già diceva “il mio babbo” Beethoven che definiva la sua settima sinfonia proprio la mappa per l’utopia. O che troviamo in Mendelssohn nella quarta sinfonia e che si intitola “italiana” perché nasconde in ogni nota luci romane, colori veneziani, funerali napoletani e riti di tarantolati come fossero appunti di viaggio. O, meglio, come fosse una mappa aborigena che indica luoghi in cui “nutrirci“ come nelle vie dei canti. Gli aborigeni la sanno molto più lunga di noi.
La musica non è (solo) un momento di intrattenimento o di emozione fugace. La musica è una esigenza, è una magia che noi esseri umani ci siamo andati a cercare sostenendo, presun- tuosi come siamo, di averla inventata. E ogni nota che ci hanno lasciato e che lasciamo scrivendo contiene tutta quella magia. Nella musica io credo fermamente e sono convinto che oggi più che mai tutti dovremmo crederci di più, per credere anche in noi stessi, per ricordarci tra le altre cose che siamo belli, solo un po’ buffi, anche se tendiamo a dimenticarlo.
Tanti fraintendono la mia idea di “musica libera” e pensano che significhi “fai un po’ quello che ti va, esprimiti come vuoi”. Non è così. Io chiamo la musica detta - impropriamente - classica, “libera” perché è scevra dagli ego, dai pregiudizi, dalle manipolazioni e per osmosi libera tutti coloro che partecipano, perché ogni nota, pur contenendo tutto ciò che dicevo prima, non appartiene più a chi l’ha scritta, ma a tutti e diventa Ezio o Maria o Claudio quando la interpretano Ezio, Maria o Claudio, ma anche quando la ascoltiamo, quando tutti diventiamo quella musica, vibriamo nella stessa nota. E le note in qualche modo si legano a tutte le altre note del passato. La musica libera è una catena infinita di vita che attraversa secoli e confini ed è una delle ragioni per cui dopo centinaia di anni continuiamo ad avere bisogno di ascoltare Monteverdi, Bach, Beethoven, Mozart o Brahms. Non perché la musica sia solo bella ma perché le apparteniamo.
Quel vibrare all’unisono in due o in migliaia provoca fenomeni fisici e benefici neurologici. Ha poteri curativi. I nostri neuroni ritrovano un equilibrio e le cellule funzionano nei migliore dei modi. La musica ci rende belli, rende bellino persino me. Ci rende tutti belli nel momento in cui tocchiamo uno strumento o impugniamo la bacchetta - non posso confermare quando prendiamo la matita per scriverla perché non ho elementi, ma se tanto mi dà tanto... Leviga i difetti, ci illumina. Fa sparire persino le ruote della sedia su cui mi muovo. Fateci caso, osservate le foto dei musicisti mentre suonano. O guardatevi quando cantate a casa. La musica libera è basata sul trascendere, noi non esistiamo ed esistiamo. Le apparteniamo quanto ci appartiene.
Ed è per questo che fare musica è una responsabilità che va oltre il dovere di restituire a chi ascolta il tempo che ci regala. È una responsabilità che passa in ogni nota, in quell’eredità eterna che dobbiamo trasmettere e anche per questo credo che tutto il sapere che ci lega ad essa debba essere condiviso. Non per fare i fighetti, ma per condividere l’aiuto che ci ha dato nel comprenderla. Raccontare la musica a chi non la conosce rende liberi perché insegna ad ascoltare anziché a subire.
E che sia negli asili, nei conservatori o nelle scuole, negli ospedali o nelle carceri, nelle sale da concerto, in tv o con le cuffie, bisogna divulgarla, cioè renderla di tutti con ogni mezzo possibile. In ogni momento in cui viene suonata e ascoltata c’è il segreto della sua libertà, e della sua capacità di starci vicino da centinaia e centinaia di anni: perché alla fine una musica per essere davvero libera entra nella pancia, passa per il cuore e fa muovere la testa. E quando queste tre cose si muovono insieme diventiamo davvero liberi. Scrivere musica è un atto d’amore. Chi scrive la musica lo fa per lasciarla a qualcun altro. Un atto di generosità, quello di dedicarsi all’altro ma che come in ogni amore vero non ci annienta. E l’amore è l’unico gesto di coraggio che esista.
educazione
Ezio Bosso e la musica «fin dall’asilo»
«Obbligatorio a scuola Pierino e il lupo»
Il maestro, i bambini e le note: «Lasciamo che lo stupore si impossessi di loro. E li guidi nella vita. Qual è il problema? Che la musica è vista solo come performance»
BOLOGNA - L’altro giorno a Parma Ezio Bosso ha presentato un suo libro, firmato con Guido Crainz e Ugo De Siervo, intitolato molto emblematicamente I miei primi 2 giugno (edizioni L’Io e il mondo di TJ) e dedicato ai bambini «per comprendere che quando si parla di musica si parla anche di libertà».
Maestro Bosso, la musica a scuola. Lei che idea si è fatto sulle polemiche contro il flauto e il suo insegnamento?
«Andrò forse controcorrente, ma io sono a favore del flautino, perché è uno strumento che tutti possono permettersi. E può diventare, proprio per questo motivo, una prima educazione al suono. L’unico problema è che se dovessi decidere io, farei iniziare lo studio alle elementari se non già all’asilo. Alle medie è già tardi».
Qual è secondo lei il grande fraintendimento parlando di educazione alla musica?
«Che si confondono l’educazione alla musica con l’educazione allo strumento. Bisognerebbe insegnare prima la musica. L’ascolto e la conoscenza di questa materia sono essenziali e indispensabili alla comprensione del resto».
Lei quando ha cominciato il suo rapporto con la musica?
«A tre anni - e dico subito che non sono figlio di musicisti - sono capitato nel negozio di una prozia di mio padre. Un negozio che - come le chiamavano allora - era una casa musicale, dove si vendevano spartiti e strumenti».
E cosa successe?
«Ah..., è presto detto: rimasi folgorato davanti a un pianoforte. Mi dovettero portare via a forza».
Come potrebbe tradurre questa sua esperienza in termini di educazione musicale?
«In sintesi mi viene da dire - e per carità, ne sono pure convintissimo - che la musica viene vista solo e soltanto come un fenomeno performativo».
E la vera magia secondo lei, dove andrebbe cercata e trovata?
«Bisognerebbe portare i bambini ad ascoltare la musica. Lasciare che lo stupore si impossessi di loro. Questa, secondo me, è la vera magia. Non costringerli a cantare e a ballare solo per il piacere della zia di turno...».
In quale direzione pensa che si potrebbe procedere per migliorare la conoscenza della musica per il mondo dei più piccoli?
«Presentare gli strumenti a scuola. Far scoprire ai bambini con la descrizione di un musicista cos’è, per esempio, un controfagotto. Quasi nessuno sa come è fatto e come emette musica un controfagotto. Poi renderei obbligatorio in tutte le scuole Pierino e il Lupo di Prokof’ev e una partitura di Britten poco nota e pochissimo eseguita, come Noye’s Fludde (L’Arca di Noè) op. 59, dove i più piccoli contano come gli adulti e dove suonano tutti insieme».
Perché la musica è normalità fuori dai nostri confini italici?
«Perché la musica da noi non viene considerata un momento di vita, fondamentale per incuriosirci nei confronti del mondo, ma soltanto qualcosa di astratto e di non ben definito».
* Corriere della Sera/Bologna, 17 maggio 2017
Torna con un album e un concerto in tv il 23 dicembre. “Lotto per rimanere una persona, non un personaggio”
di Piero Negri
inviato a Gualtieri (Reggio Emilia) *
L’eccezione è la norma, nella vita di Ezio Bosso. Non solo, non tanto, per la popolarità che in 13 minuti di televisione si è guadagnato a Sanremo. Non solo per la malattia neurodegenerativa che l’ha colpito, di cui dopo qualche secondo trascorso con lui ci si dimentica naturalmente. La sua storia è un’eccezione: è un musicista colto capace di parlare a tutti (e chi è stato a uno dei suoi tanti concerti in giro per l’Italia - tutti sold out - lo sa bene) e di portare in hit parade un album complesso e per nulla pop come The 12th Room.
Ora il contratto con la Sony Music e l’uscita di ...and the things that remain, che raccoglie il suo meglio, o qualcosa del genere, dal 2004 a oggi.
«Il concetto di antologia non mi entusiasma. Ho accettato di farla perché ci ho messo tre inediti e perché con la Sony ho firmato un accordo mondiale da musicista, come si usava un tempo: significa che in futuro potrebbero arrivare album con composizioni non mie, o non suonate da me».
È possibile distaccarsi così dalle proprie composizioni?
«Non solo è possibile, è necessario: detesto il concetto di musica “mia”. Al massimo, è scritta da me. Noi siamo solo un tramite, ce lo dimentichiamo spesso per metterci la tuta da Superman, per aver ragione. Vivo di vibrazioni empatiche, la ragione mi fa paura».
Con lei non c’è mai nulla di scontato: l’album si intitola ...and the things that remain, ma non contiene la composizione che si chiama così.
«Per un certo periodo a tutte le persone che incontravo chiedevo quali erano per loro “le cose che rimanevano”. Qualcuno pensava a ciò che rimarrà di noi dopo la morte, ed è un pensiero che ho anch’io, con il tempo che mi resta e i figli che non ho, ma molti riflettevano su ciò che gli era stato trasmesso da chi non c’è più. Ho scritto un trio con quel titolo, nell’album non c’è ma il concetto sì: di questo mi occupo, della musica che rimane».
È un musicista classico, post-minimalista, divenuto popolare a Sanremo senza mai diventare pop. Strano, no?
«Per chi viene ai concerti però non ci sono equivoci. Questo successo pop, che è solo italiano, rafforza in me solo il desiderio di fare un passo indietro. A me oggi interessa la potenzialità di divulgare bellezza. Quando un ragazzo mi dice, sono stato al concerto di Mario Brunello che faceva le suite di Bach perché l’hai detto durante un concerto, per me è il massimo. Nella musica io credo: la musica non è bella, è importante, è vita. La grande musica fa sì che esista la musica che scrivo io e fa sì che esista io, che viva e viva meglio».
Ha conosciuto anche i famosi aspetti negativi del successo?
«Non è facile essere sulla bocca di tutti, né avere tante persone che vogliono fare una foto con me, quando io le foto le ho sempre detestate, fin da piccolo. C’è affetto, però anche fatica: ero abituato a rispondere a tutti, ora non ce la faccio e alcuni si arrabbiano, mi dicono che sono cattivo, e ci rimango male. Lotto per affermare che sono una persona, non un personaggio».
Ha detto molti no?
«Sì. Mi hanno perfino chiesto di commentare gli Europei. Ma io di calcio non so niente, seguo più il rugby. Il 23 dicembre, però, sono su Sky Arte con la registrazione del concerto qui a Gualtieri, la mia seconda casa. Avevo detto: tornerò in tv solo se qualcuno trasmette in prima serata un concerto della musica a cui appartengo. Mantengo la promessa».
È l’uomo della prime volte: l’hanno chiamata a dirigere alla Fenice, a Venezia, e ha aperto tutte le prove al pubblico.
«Nessuno l’aveva mai fatto: è stata una bellissima esperienza, con solo aspetti positivi. Tra i tanti, anche quello di tener vivo il teatro tutto il giorno».
A Venezia ha diretto Mendelssohn, Beethoven e Bosso: cos’altro le piacerebbe affrontare?
«Il sogno è che un’orchestra mi dica: facciamo tutto Beethoven. Così finalmente dirigo il mio papà musicale. Se mi chiede cosa mi piacerebbe dirigere, torno all’infanzia: Beethoven, Má vlast di Smetana e Les préludes di Liszt. A 5 anni, ascoltandoli di nascosto, sognai di dirigere».
Quindi nasce direttore?
«Volevo fare il direttore, ma allora, quando arrivavi da una famiglia povera, ti facevano capire che non potevi permettertelo. Ti dicevano: suona il contrabbasso, almeno trovi un lavoro sicuro. La direzione te la devi guadagnare, magari incontrando, come è successo a me, maestri che ti incoraggiano».
Si sente più che altro direttore?
«Lo dico sempre, sono un direttore che compone e che all’occorrenza suona il pianoforte. La mia natura è quella di concertare gli altri. Però il piano mi ha aiutato, mi ha permesso di fare musica senza stancarmi troppo. Tre anni fa non sarei mai riuscito a dirigere, poco tempo prima non riuscivo neanche a suonare il pianoforte: tentai un concerto di tre quarti d’ora e svenni sulla tastiera».
Cosa è cambiato in lei?
«Il mio unico segreto è la disciplina, è la musica che me l’ha insegnato. Con la musica non “esprimi te stesso”, esprimi l’arte, le dai cuore. Ma è essenzialmente disciplina. Lo studio quotidiano che faccio da 40 anni non è mai cambiato: è quello che mi ha permesso di vivere meglio la mia condizione».