di PAOLO GALLARATI (La Stampa, 20/07/2008)
Sale negli ambienti scolastici un’esigenza condivisibile da tutti coloro che hanno un minimo di consapevolezza culturale: quella dell’educazione musicale. Con il crollo delle barriere opposte per decenni dalla cultura idealistica ai linguaggi dell’espressione non verbale, la musica viene oggi sentita come un’insostituibile ingrediente nella formazione dell’individuo. La scuola italiana, tuttavia, è ancora impreparata al compito.
Per questo il ministero della Pubblica Istruzione ha costituito il «Comitato nazionale per l’apprendimento pratico della musica nelle scuole di ogni ordine e grado» presieduto da Luigi Berlinguer. Ma le idee sembrano essere ancora confuse. Per chiarirle, l’Università di Bologna ha organizzato un convegno su la «Musica tra conoscere e fare», e un grosso volume sull’argomento è appena uscito da Franco Angeli (Educazione musicale e formazione, a cura di Giuseppina La Face Bianconi e Franco Frabboni).
Il nodo da risolvere è: che cosa vuol dire apprendimento pratico della musica? Il timore è che chi gestisce il Comitato lo intenda solamente come pratica del canto corale e apprendimento di uno strumento, oppure come una non meglio precisata «creatività» musicale, espressione di spontaneismo e allegra forma di socializzazione. Il timore è che si voglia escludere dall’apprendimento della musica ciò che la rende un’arte largamente condivisa e che potrebbe alimentare, tra i giovani, la crescita del pubblico di opere e concerti: una corretta educazione all’ascolto.
Di antinomie il nostro Paese si nutre quotidianamente: contrapposizioni ideologiche sono all’ordine del giorno e impediscono, sovente, mediazioni e fruttuosi compromessi. Eccone un’altra: la pratica musicale come fatto positivo, che sviluppa sensibilità e ingegno, è contrapposta all’ascolto inteso come atteggiamento passivo e quindi negativo.
Ma come è possibile suonare bene se non si sa ascoltare? Pierre Boulez ha dichiarato di aver migliorato enormemente la propria capacità di direttore d’orchestra nel momento in cui ha imparato ad ascoltarsi mentre dirigeva. Lo straniamento da se stessi e dal suono che si produce è la condizione primaria per giudicarlo, migliorarlo, affinare l’esecuzione nel suo complesso.
Come si potrebbe imparare a dipingere senza saper guardare? Sempre più la musica, a mano a mano che è cresciuta la sua complessità tecnica, ha trasmesso il proprio messaggio attraverso i canali dell’ascolto. Nel nostro mondo la musica arreda ogni ambiente: bar, ristoranti, negozi, luoghi pubblici.
La si ascolta? No, la si sente, distrattamente, come sfondo. Stiamo perdendo, così, la consapevolezza che esiste la possibilità di ascoltare, tendendo le orecchie con attenzione, per scoprire come la musica appaia dal silenzio e ci riveli la sua avventura. Per questo esistono le sale da concerto: ricostruire il silenzio.
L’ascolto è rivelazione, non solo dei suoni ma di tutto ciò che l’arte dei suoni trasmette: sensazioni, sentimenti, pensieri. Saper ascoltare significa cogliere la musica nella sua bellezza e comprenderla come espressione e come costruzione, rappresentazione e calcolo, patrimonio di immagini e di pensieri, di storia e di cultura.
Saper ascoltare significa imparare a sentire per sfumature e ragionare per forme, con tutte le prevedibili conseguenze che questo ha sulla formazione dell’individuo. Staccare l’ascolto dalla pratica musicale significa ridurre quest’ultima a semplice esercizio muscolare, soffocandone il principio essenziale che è quello, straordinario, di usare il corpo come strumento del pensiero e di trasformare il pensiero in un’espressione fisica.
Dietro l’antinomia tra pratica e ascolto ce n’è un’altra di tipo istituzionale: quella che, attraverso una maldestra riforma, ha reso completamente incomunicanti le Università e i Conservatori, impedendo che, dall’incrocio delle reciproche competenze, i giovani continuassero a godere di una formazione musicale completa. Ripensare tutto questo è quindi essenziale per un Paese che ha nella propria tradizione musicale uno dei suoi beni culturali più preziosi, conosciuti e amati in tutto il mondo.
Caro Prof...
ho letto il Suo interessante art. su “La Stampa” di oggi, 20.07.2008.
Ma - me la consenta un po’ di “ironia” - in che anno è stato scritto?!!!
SE LA MUSICA TORNASSE A SCUOLA......
MA IN QUALE STATO?! E in quale anno?!
Non ha visto e sentito che in Italia siamo nell’anno primo dell’era caimanica?!
NON HA ASCOLTATO “L’ULTIMA NOTIZIA”?!
Non ha letto delle “ultime novità” e non ha visto il CALENDARIO DEL NUOVO ANNO SCOLASTICO?!
Non me ne voglia!!!
Con tutta la mia personale stima
M. cordialmente,
Federico La Sala
Sul tema, in rete e nel sito, si cfr.:
PIERRE BOULEZ (Wikipedia)
CHI INSEGNA A CHI CHE COSA COME?! QUESTIONE PEDAGOGICA E FILOSOFICA, TEOLOGICA E POLITICA.
COSTITUZIONE ED EDUCAZIONE CIVICA. Crisi dei fondamenti di una civiltà....
di Nadia Fusini *
Se esiste la letteratura non possono non esistere la storia e la critica della letteratura. E dunque, chi si applica a mettere in sequenza i suoi frutti, e chi si dedica al loro giudizio. Alla loro interpretazione. Chi opera per coglierne il senso nascosto, o profondo. O per decifrare nel suo specchio le verità dell’epoca con la quale la letteratura intrattiene rapporti più o meno indiretti.
Se esiste la letteratura non può non esistere una visione, e dunque una teoria della medesima. Nel senso puro e semplice che nei suoi frutti si dà a vedere un mondo. E comunque, al di là del suo valore di intrattenimento, di divertimento - che sia in versi o in prosa, che sia un poema, un romanzo o unracconto - l’opera letteraria condensa in sé un pensiero, un’idea del mondo. Come ogni manufatto linguistico.
Esistono dunque a buon diritto il critico, lo storico, il teorico della letteratura. Ora, tali professioni, anche nel senso di fede - di fede e fiducia nella parola: che possa produrre conoscenza - si esplicano in vari modi. C’è il critico accademico, c’è il critico militante, c’è lo storico, e c’è l’interprete, e c’è il recensore di libri sui quotidiani. Chi insegna dall’alto di una cattedra e chi lodevolmente e quotidianamente si impegna a guidare il lettore comune nella scelta di un romanzo, di un libro di poesie, orientandolo con onestà in un panorama assai vasto di esperienze possibili, ben sapendo che esiste un’industria culturale, la cui volontà espansiva non arretra di fronte alle colpevoli sopraffazioni della buona fede del lettore comune. Appunto, il lettore comune, il destinatario reale e ideale del libro.
Ora a me pare che affinché esista una buona letteratura, è necessario che esista un buon lettore. O, per non ripetere il vecchio adagio dell’uovo e della gallina, un buon lettore e una buona letteratura si danno la mano.
La lettura, è questo l’atto da indagare. Come ci arriviamo. Come lo eseguiamo. Intanto, vari sensi e organi vi sono implicati. C’è l’ occhio, e c’è lo sguardo. Non sono la stessa cosa. C’è l’orecchio, e c’è l’ascolto. Non sono la stessa cosa. Leggere, non è solo una questione di occhio. Sì, certo, si legge con l’occhio la parola scritta. Ma si legge anche con l’orecchio.
Mi assumo a cavia, e rivelo che quando leggo, io ascolto. Ascolto la voce, o quel che resta della voce in quel che è scritto. Come fa Leopardi - ricordate?, quando “porgea gli orecchi al suon della tua voce", dice a Silvia. "Sonavan le quiete stanze, e le vie dintorno", in virtù di quella voce. E lui ne ha nostalgia. Potremmo dire con Leopardi che la poesia nasce così, come un’immensa nostalgia della voce viva. Voce viva, viva voce: voce che è appunto segno vivente, fiato, respiro, anima. È il segno di vita che cerca Lear sulle labbra di Cordelia - la più laconica delle sue figlie. La voce viva, la vita. Nelle parole scritte, o morte (è la stessa cosa, insegna Socrate), quando leggiamo, cerchiamo la voce viva.
Questo fa il lettore che ha orecchio: attende alla parola viva. Ascolta nell’enunciazione umana la lotta per l’espressione. Porge l’orecchio per sentire qualcuno in duello con se stesso, coi propri grovigli espressivi, con il mondo che vuole specchiare, rappresentare, svelare... Insomma, in lotta con la volontà di afferrare nella parola, quand’anche per la coda, un’esperienza che è di un altro ordine, rispetto al linguaggio.
Un’esperienza che è vita.
L’orecchio in quanto organo presenta però una caratteristica particolare: è l’unico orifizio del corpo umano che non si chiude. Si può chiudere la bocca, si possono chiudere gli occhi, si può serrare l’ano, per quanto riguarda la vagina è protetta per un certo tempo almeno dall’imene, e anche dopo si può quanto meno contrarla, se non si vuole far passare qualcosa; ma l’orecchio no. Di suo e per natura, l’orecchio non ha difese contro la penetrazione. Proprio per questo è estremamente vulnerabile. E temo che l’acustica roboante di un’industria editoriale sciatta e volgare contribuisca a corrompere l’udito. E così anche chi vorrebbe tenere le orecchie aperte per accogliere il suono della vita, finirà per non sentire più nulla. E non saprà più intonarsi all’esperienza di conoscenza e di piacere che offre una parola autentica, che con il suono della vita si confronta.
A questa educazione dovrebbero attendere la scuola, l’università, la critica e l’estetica. Accade invece - è sotto gli occhi di tutti - che a fronte di una alfabetizzazione universale, corrisponda una ignoranza epocale, frutto di una ideologia dell’istruzione sempre più marcatamente piegata all’utile e all’immediato impiego delle risorse umane e sempre più estranea, quasi non sapesse più che cos’è, alla cura dello sviluppo della coscienza critica.
Assistiamo sconcertati a istituzioni che assecondano la pigrizia e programmano la volontà di lasciar cadere un patrimonio letterario e culturale, di cui il nostro contemporaneo è l’erede, defraudando in realtà il nostro contemporaneo delle antenne che dovrebbe sviluppare per comprendere la sua propria vita. Così chi avesse nel proprio orizzonte ancora tali fini per se stesso, singolarmente dovrà farsi carico della volontà di conoscenza: volontà di conoscenza che non può non passare attraverso la lettura, in un rapporto dinamico tra la tradizione e il presente.
Il fatto è che o leggere ha questo risvolto esperienziale, o non è nulla: non ha nessun valore. Se non di evasione. Mentre io - di nuovo mi offro come cavia - avanzo nella lettura non in fuga, ma a caccia del reale. Non leggo per evadere. Non sono un disertore. O se leggo per fuggire dalla realtà, è perché credo che la lettura mi permetta di entrare in un altro mondo né falso, né vero, ma per l’appunto “reale”.
Questo me l’ha insegnato una donna filosofa, Rachel Bespaloff. Per la quale “la lettura è la messa alla prova spirituale di un’opera.” Mentre un’altra donna filosofa, Simone Weil, mi ha insegnato l’esercizio della lettura come ‘attenzione’. Che siano Camus o Omero, la Bibbia o Kafka, chi legge, insegnano le due donne filosofe, chi legge cerca il senso dell’esistenza umana. In modo indiretto, sospeso, per niente enfatico, chi legge ritorna a farsi le domande essenziali: da dove veniamo? chi siamo? dove andiamo? È una ginnastica essenziale alla formazione umana dell’uomo. E della donna. È un training a cui la letteratura allena. In questo senso, il lettore mette alla prova l’opera che ha di fronte. E l’opera esisterà, sarà grande, rimarrà viva nei secoli dei secoli, se chi vi si abbevera, almeno un poco, estingue la sua sete di verità spirituale.
Simone Weil insegna che al cuore della lettura v’è un’esperienza etica. Si legge per conoscere, si legge per trasformarsi, per cambiare. Perché come nella muta del serpente, il vecchio Adamo decada e il novello Adamo nasca, e con lui naturalmente una nuova Eva... Si legge perché riconosciamo allo scrittore la capacità di operare in noi una metamorfosi. Sì, certo, è alla realtà, è al mondo vero, che lo scrittore attinge per costruire il suo mondo irreale; ma è del mondo reale, che vuole parlare - per cogliere oltre la sua opacità, oltre il suo capriccio, un’apertura all’essere più profonda, più radicale, che si dà soltanto così, perché lui la inventa. Cioè, la trova. E cioè, la crea. È un momento davvero miracoloso quello in cui trascendenza e invenzione si confondono. E il lettore se ne fa testimone, perché è nel lettore che questo processo si incarna.
Chi risponde così dell’atto della lettura, si fa lui stesso scrittore. A simbolo risponde simbolo, sentenziò anni fa in uno scambio privato il grande Roland Barthes. Aveva assolutamente ragione. Ma perché questo accada, il lettore dovrà farsi deuteragonista attivo e esigente. E coraggiosamente, con ostinazione mettersi alla ricerca - sarà il suo proprio Graal - dei libri che gli offrano tale esperienza. Allontanando da sé la cattiva influenza di tutti quei mediatori che della letteratura fanno commercio, e con i lacci seduttivi di una perniciosa arte della retorica lo dissuadono dallo sviluppare le antenne che servono a distinguere la parola autentica da quella falsa. Siamo diventati così sofisticati nel palato, tanto da distinguere prelibate vivande di raro gusto, e non vogliamo diventare altrettanto capaci di godere della parola?
La scomparsa di un vero Maestro
Pierre Boulez
di Piero Mioli (Il Mulino, 15 gennaio 2016])
Schönberg est mort, scrisse con enfasi nel 1952, certo non immaginando che quel suo strano messaggio, misto di costernazione e senso di liberazione, sarebbe stato inteso come uno snodo fondamentale della musica contemporanea. Quando lo pubblicò, Pierre Boulez aveva 27 anni, essendo nato a Montbrison, nella Loira, il 26 marzo 1925. Ora che è mancato anche lui, il 6 gennaio 2016 a Baden-Baden (più che novantenne, malato sì, ma sveglio come non mai), in tutto il mondo son fioccati messaggi più o meno intitolati così, dalla nuda notiziola a qualche prima profonda riflessione. Altro senso di liberazione? No, ma in 64 anni i tempi sono molto cambiati, la critica musicale con la maiuscola chissà dov’è finita, né Boulez era mai stato quel tiranno della musica che secondo lui era stato o meglio era diventato Arnold Schönberg. Però le sue idee, espresse con una chiarezza quasi luciferina, erano altrettanto drastiche, intransigenti, schierate: Arnold aveva distrutto l’armonia tradizionale inventando prima l’emancipazione della dissonanza o atonalità e poi la dodecafonia e quel suo stadio ulteriore che è il serialismo, e lui, lui Pierre, diceva che il compositore contemporaneo deve distruggere a sua volta, che una nuova musica non seriale non ha senso, che lo Stravinskij neoclassico era un gambero e lo Stravinskij dodecafonico una scimmia (quanto a un sinfonista della razza di Šostakovič, giusto per fare un altro esempio, nulla da salvare). Il vero “guaio” di Schönberg (dispotismo a parte) Boulez l’aveva evitato componendo sì in quello stile assolutamente avanguardistico ma senza più onorare le antiche forme di concerto, sonata e così via. E quando, provetto concertatore e direttore d’orchestra qual era oltre che compositore, dovette fare le sue scelte e fare le sue esclusioni, non ebbe dubbi: ogni onore a Webern, allievo di Arnold e suo vero maestro ideale, e a Berg e compagnia viennese; sì anche a quell’iperromantico, un po’ troppo “trombone” di Wagner, e a quell’impressionista-simbolista di Debussy, sempre un po’ troppo sospiroso, anche se a patto di prosciugare il primo e innervare il secondo; e niente da fare con tanti autori barocchi (Vivaldi?), classici (Haydn?), romantici (Schumann?), italiani (Verdi?).
È anche per questo rigore che Boulez è stato un artista fra i più significativi e influenti del secondo Novecento in Francia e in Europa, capace di agire su diversi fronti e sempre al passo con i tempi. Ha scritto saggi acuti e corposi, spesso tradotti in italiano da Einaudi come Points de repère del 1981, che spazia dalla riflessione estetica a lucide schede su singoli musicisti. Ha diretto, fra l’altro senza mai impugnare la fatidica bacchetta (del comando) e limitandosi alla manualità, l’orchestra di Cleveland, l’orchestra della Bbc di Londra, l’Orchestra Filarmonica di New York, dando interpretazioni straordinarie, perfettamente analitiche e nemiche di ogni suggestione sentimentale, dal Parsifal di Wagner al Pelléas et Mélisande di Debussy, dalla Sinfonia fantastica di Berlioz all’intero Anello del Nibelungo di Wagner stesso (a Bayreuth nel primo centenario del 1976, con la regia di un connazionale del valore di Patrice Chéreau). Ha insegnato a Darmstadt e Basilea, ha fondato (nel 1977) e a lungo diretto l’Ircam (Institute de Recherche et Coordination Acoustique/Musique) di Parigi, ha composto parecchia musica che lo pone ai vertici dell’originalità qualitativa della sua epoca.
Come autore, Pierre Boulez comincia nel 1946 con una sonatina per flauto e pianoforte. Sul modello di Webern, dopo un paio di sonate per pianoforte giunge nel ’51 al serialismo integrale della Poliphonie X per 18 strumenti, per passare poi alla “forma aperta” e all’“alea controllata” ad esempio in Pli selon Pli del ’62 per soprano con strumenti e in quel Répons (Responsorio) che è nato nel 1981 e ha subito continue metamorfosi (è questo il concetto di opera aperta, mentre l’alea è la maniera compositiva inventata da John Cage che pratica l’imprevedibile del caso). Altre opere significative, in un catalogo vasto e vario e spesso divaricato fra più versioni sono Rituel in memoriam Bruno Maderna per orchestra, Structures pour deux pianos in due libri, Le marteau sans maître per contralto e sei strumenti su testi di René Char. Clamorosa, per esempio, la differenza fra le due sonate per pianoforte. La prima è breve, nove minuti in due movimenti, e mentre si diverte a studiare le risonanze di uno strumento tanto fondato sul famoso pedale specifico, conosce una prima versione che cita limpide melodie tradizionali e una definitiva che cancella ogni memoria per quintessenziarsi totalmente. Lunga la seconda, invece, quattro movimenti come certe sonate viennesi: sembra imitare la Hammerklavier di Beethoven, anche perché come quella termina con una fuga, ma in verità vuole essere addirittura una “esorcizzazione” del passato. Prova ne sia che abbonda di trilli, famosi o famigerati abbellimenti qui distolti dal grazioso compito di ornare e invitati piuttosto a travisare, frammentare, disturbare.
Sempre assistito da una ricca bibliografia, nella primavera scorsa Boulez è stato onorato dal Musée de la Musique di Parigi con una mostra che ha tratto materiali da quella Darmstadt che è la roccaforte dell’avanguardia musicale, ma anche da Bologna, dalla Biblioteca del Dipartimento delle Arti (Sezione di Musica e spettacolo), con tanto di catalogo pubblicato da Actes Sud (da me recensito nella «Nuova informazione bibliografica», n. 2015/3, pp. 627-630).
Non c’è dubbio che la scomparsa di Pierre Boulez, annunciata in ogni dove come raramente capita a un musicista, provochi una grande quantità di pubblicazioni divulgative e scientifiche: da esse si trarrà ulteriore linfa per comprendere sempre meglio l’intellettuale, l’artista, il maestro nella sua complessità. Ma certo nell’assieme del pensiero e dello stile quella di Boulez è una figura che ha una sua chiara cifra - come dire? - di contrasto. Boulez aveva studiato con Messiaen, grande e diversissimo compositore tutto ispirato alla fede religiosa e al canto degli uccelli. Messiaen aveva composto reagendo ai Six, un gruppo di musicisti ironici e prosaici nemici giurati delle troppo poetiche nuances di Debussy. Il quale aveva avuto un problematico rapporto di amore (poco) e odio (molto) con il Romanticismo estremo di Wagner. Dunque oggi, nel 2016, il mondo della musica colta ha tutti i diritti di coltivare e anche di contraddire i principi dell’arte di Boulez. Quello di conoscerlo e pregialo, invece, è un dovere sacrosanto.
Insegno Beethoven ai sordi
Giulia Cremaschi Trovesi: il corpo è musica
di Paola D’Amico (Corriere La Lettura, 10.02.2013)
Francesco ha una diagnosi di autismo, s’è diplomato a pieni voti in pianoforte. La sua esecuzione del Concerto italiano di Bach è perfetta. Anche Nicola è autistico e suona il piano e il sax. Ha le unghie consumate, perché quando non suona si tormenta le mani, che non stanno mai ferme, come un torrente in piena di emozioni inesprimibili. Giulia Mazza ha 25 anni, una laurea in biologia, è sorda bilaterale profonda e suona Schubert, Bach e Shostakovich al violoncello: rivedere cento volte il video di uno dei suoi concerti in teatro è emozionante e disarmante. L’accompagna al piano Giulia Cremaschi Trovesi, la musicoterapeuta che la segue da quando aveva 3 anni. «Come fa? Questo è il grande mistero. Non mi sono ancora abituata ai miracoli. Non cerchiamo di entrare nella testa di un altro», sdrammatizza. «Qui - aggiunge - c’è stata una mamma fantastica che ha creduto in quello che le spiegavo e cioè che la musica è dentro l’uomo, il grembo materno è la prima orchestra, il luogo dove non esiste un solo attimo di silenzio, dove la musica è pulsazione, respiro, voce».
Per entrare nel mondo di Giulia Cremaschi Trovesi occorre fare tabula rasa, abbandonare stereotipi, luoghi comuni, pregiudizi e tecnicismi. La chiave di lettura che lei offre sembra semplice: «La musica è dentro di noi. Siamo corpo vibrante. Senti il tuo corpo, il respiro, la voce, ascoltati... La soluzione è dentro di te».
La musicoterapeuta che insegna a suonare Beethoven a sordi e autistici, che fa cantare e danzare i ragazzi Down, che guarda con scetticismo alle diagnosi frettolose di «deficit d’attenzione e iperattività», spiazza così i suoi ospiti - grandi e piccini, per lei sono tutti uguali. Ripete: «La musica è per tutti, è un linguaggio universale».
Ha 70 anni, due occhi celesti e magnetici, capelli biondo cenere mai tinti, è energica e paziente. Insegna da quando di anni ne aveva venti. Vive con i figli e i nipoti nella grande casa di famiglia in cima a un colle, a Rosciano, frazione di Ponteranica a ridosso di Bergamo, in Val Brembana. «Non insegno nulla, hanno già tutto, la musica, il ritmo. Un bimbo piccolo è già capace, io gli do soltanto l’occasione per mostrarlo».
Il suo incontro con la musica è avvenuto quando aveva cinque anni. «Papà capì e mi portò da una suorina delle Canossiane, Emilia, che usava il linguaggio del corpo. Un giorno disse che ero veloce a imparare e mi dovevano cercare un altro insegnante». Gli studi, i diplomi, l’insegnamento alle scuole magistrali. Fino all’incontro con il primo bimbo autistico: «Me lo affidarono nel 1975, il figlio di un collega. Dopo qualche tempo ho lasciato la scuola per dedicarmi soltanto a questo nuovo lavoro».
Nel suo ufficio austero c’è ancora il profumo della polenta che ha cucinato sulla stufa per i nipotini il giorno prima. Giulia siede alla scrivania come sul ponte di comando di una nave: tre piccoli televisori sono appesi sopra il grande desktop del computer, con la foto di famiglia a fare da sfondo. Sugli schermi scorrono le immagini dei suoi ragazzi in concerto. «Il mio lavoro è questo: capire da un dettaglio quante potenzialità ci sono in un bambino».
L’incontro dei più piccoli con la magia dei suoni avviene in una stanza rivestita in legno, come la cassa armonica di uno strumento musicale: si muovono, gattonano, giocano, battono i piedi e lei li segue accompagnando ogni loro gesto con un suono. Non sono loro a dover seguire suoni e ritmi imposti. Giulia siede al piano: «Gioco con la tastiera, la uso con i bambini come fosse la buca della sabbia». In ogni gesto, movimento, azione, intonazione della voce, c’è già un ritmo, un tempo, una musica, spiega, così come i tratti del volto esprimono un’emozione. «Improvvisare alla tastiera per rispecchiare tutto questo vuol dire saper leggere (non certo interpretare) e dare voce alle note scritte nella e sulla persona».
È una strada che non conosciamo, faticosa, quella intrapresa da Giulia. Quando incontrò in udienza Papa Wojtyla gli chiese: «Perché tanta fatica?». «Le cose difficili - rispose Giovanni Paolo II - fanno sempre fatica ad imporsi». Ha pubblicato libri (l’ultimo, Il grembo materno. La prima orchestra), tenuto insieme nella Federazione italiana musicoterapeuti (www.musicoterapia.it) coloro che lavorano con i suoni per riabilitare patologie molto gravi (autismo) e i casi di plurihandicap (lesioni cerebrali, sordocecità, esiti da nascite premature). Eppure, la fatica di andare controcorrente non ha mai scalfito il suo ottimismo: «Perché non dovrei essere ottimista?».
Citando la filosofa e religiosa tedesca Edith Stein e i suoi studi sull’empatia ci invita a immaginare di essere «partiture viventi». Il corpo parla di noi stessi a nostra insaputa. Ecco spiegato il «miracolo» della violoncellista non udente. Noi viviamo con il nostro corpo, «non sentiamo solo con le orecchie, c’è la risonanza che investe il corpo ed è fonte di emozioni, ma di solito il corpo viene soffocato dall’educazione ricevuta a tavolino».
Educazione dei tempi moderni, poco inclini ad aprirsi a una strada che impone la fatica di tornare alle radici della musica. «Non ho inventato niente. Il veronese padre Antonio Provolo, due secoli orsono, faceva già cantare in coro i sordi nell’istituto che aveva fondato per loro. Vuoi che un non udente parli? Gli fai scaturire la voce attraverso le emozioni. I bambini sordi me lo hanno insegnato. Quando suonavo, si buttavano sulla cassa armonica del pianoforte per essere investiti, compenetrati dalle onde sonore. Stavano così abbracciati al pianoforte che diedi loro il permesso di andarci sopra, si stendevano e non si muovevano più». Il pianoforte può diventare un poderoso tamburo che martella i ritmi e all’improvviso un delicato carillon. Le onde sonore si propagano attraverso l’aria e permeano il mondo attorno attraverso la risonanza.
«Non sentiamo soltanto con le orecchie». Era già chiaro agli antichi. Nelle tradizioni sciamaniche dalla Mongolia al Messico, nelle tradizioni arcane cabalistiche del giudaismo e del cristianesimo, i suoni vocali e gli armonici sono stati usati per guarire e trasformare, per bilanciare i centri energetici del corpo e attivare le risonanze del cervello. E il padre della geometria aveva già svelato come un suono ne generi altri superiori (armonici): Pitagora credeva che l’universo fosse un immenso monocorde, uno strumento con una sola corda tirata tra il cielo e la terra, parlò di musica delle sfere, pensava che i movimenti dei corpi celesti che si spostano producessero un suono.
Alla parete della sala di musica sono appesi dei grandi quadri: riproducono con parole e disegni la filastrocca del Girotondo, un canto gregoriano e l’Ut queant laxis con cui Guido D’Arezzo legò indissolubilmente a ogni suono della scala musicale una sillaba (ut-re-mi-fa-sol-la-si). La strada ora è in discesa e Giulia ci congeda: «Sordità e autismo sono due aspetti di un unico problema, mancando in entrambi i casi la tensione e la predisposizione del corpo che vibra all’ascolto, il sordo "si chiude alla vita" e l’autistico "diviene sordo alla comunicazione". Il musicoterapeuta coglie nelle persone la tensione emotiva che permette o non permette al corpo di vibrare».
Attraverso la pelle udiamo meglio i suoni
Parole e rumori non solo soltanto il frutto di onde sonore che raggiungono le nostre orecchie, ma rappresentano una percezione sensoriale ben più complessa che coinvolge anche la vista e il tatto. Lo afferma la rivista Nature.
di Stefano Massarelli *
Parole, rumori e musica non solo soltanto il frutto di onde sonore che raggiungono le nostre orecchie, ma rappresentano una percezione sensoriale ben più complessa che coinvolge anche la vista e il tatto. A sostenerlo è un’ultima incredibile ricerca pubblicata sulla prestigiosa rivista scientifica Nature.
Studi condotti in passato hanno dimostrato come l’organo della vista è in grado di "integrare", o anche stravolgere alcuni suoni che giungono alle nostre orecchie. È questo il caso del noto effetto McGurk, un’illusione acustica in cui la percezione uditiva di una sillaba (ba-ba) risulta modificata dal momento che si osserva qualcuno che pronuncia una sillaba differente (ga-ga).
La stessa cosa, secondo Bryan Gick della University of British Columbia, sembra avvenire nel caso di parole che inducono degli stimoli tattili sulla nostra pelle. La pronuncia di sillabe aspirate come "pa" e "ta", spiega Gick, produrrebbe ad esempio un lieve flusso d’aria che verrebbe percepito dalla nostra pelle contribuendo alla corretta interpretazione della parola pronunciata.
Per sostenere questa ipotesi, Bryan Gick e i colleghi hanno sottoposto un campione di 22 volontari all’ascolto di alcune sillabe come "pa", "ta", "ba", "da", unito a un flusso d’aria artificiale emesso a livello dei palmi delle mani o sul collo. Dai risultati è emerso che le sillabe "ba" e "da" tendevano ad essere confuse con "pa" e "ta" quando al suono erano associati dei piccoli flussi d’aria sulle mani e sul collo dei soggetti interessati. Ciò sottolinea come la nostra pelle, allo stesso modo degli occhi, abbia un ruolo importante nel "sostenere" l’udito nella giusta percezione delle parole, sostengono i ricercatori.
Fonte: Gick B et Derrick D. Aero-tactile integration in speech perception. Nature 2009; 462:502-4.
http://www.scribd.com/doc/23434928/Da-Nature-Parole-sulla-pelle
Ezio Bosso racconta a “Repubblica” il potere degli spartiti. E la magia delle note che ci fa tutti più belli
Inno alla gioia
Perché la musica è la sola cura universale
di Ezio Bosso (la Repubblica, 31.05.2017)
«Dentro una nota c’è tutto il teatro di cui hai bisogno», ho detto una volta a una giovane attrice-cantante. Lei lamentava una difficoltà espressiva, ma in realtà era semplicemente soffocata dai mille gesti che la distraevano dall’unica esigenza che aveva: il suono. E grazie a quell’episodio anch’io ho imparato qualcosa di importante: il valore più profondo delle note. Quella frase detta in maniera spontanea mi ha fatto riflettere, scavalcando quella parte di me che procede quasi in automatico dopo tanti anni di “onorato servizio” e che mi fa andare avanti sicuro della mia conoscenza. E che però mi fa dimenticare un pezzo fondamentale della mia esistenza di musicista, dando per scontato il bello a cui tendiamo. Un po’ co- me quando scrivi un messaggino: è vero che un cuore emoticon e un cuore in parole hanno lo stesso significato in fondo, ma io continuo a leggere nel secondo caso “grazie di cuore” e nel primo “grazie di disegnino di un cuore”. Quel giorno mi sono reso conto, o meglio ho ricordato, che dentro una singola nota non solo c’è tutto il teatro del mondo, ma c’è tutta la vita.
Tutta la vita di una persona, perché troppo spesso dimentichiamo che chi ha scritto quella musica non era un mezzobusto di marmo o un ritratto dall’espressione un po’ trombonesca, ma era una persona. E dentro quella nota c’è tutta la sua vita, il suo tempo, la storia che lo accompagna, la sua ricerca, i suoi sentimenti, ciò in cui crede e anche le sue fragilità e insicurezze. Certo, da tempo il mio approccio interpretativo si basa fortemente sull’approfondimento storico, estetico, filologico: cosa facile, in fondo convivo con uno scrittore di musica da 45 anni e non sono mai riuscito a cacciarlo. Eppure questo era un tassello che avevo forse un po’ trascurato.
In una nota c’è tutto questo e nelle migliaia di note e punti e trattini e cunei che compongono una partitura c’è tutto il percorso. E quando suoniamo, lo liberiamo a noi stessi e a chi ascolta con noi, aggiungen-do lo stesso ammontare di vita che ci ha messo chi lo ha scritto.
Per questo abbiamo la responsabilità non solo di rispettare le note suonando impeccabilmente, ma anche di approfondire, studiando ogni aspetto possibile nascosto nelle note che compongono quella mappa meravigliosa che è una partitura. Una mappa da seguire ma anche da cui alzare gli occhi per godersi il paesaggio, senza rischiare di non andare a sbattere contro un muro; da imparare a memoria e ripercorrere in ogni istante che ne sentiamo l’esigenza.
La musica ha anche questo potere: fa viaggiare nel tempo e nello spazio, fa vedere senza bisogno di guardare, fa conoscere i luoghi evitando le noiosissime serate di visione di diapositive di un tempo o dell’imbarazzante “guarda qui” in telefoni sempre troppo piccoli per mostrare abbastanza.
Era ciò che già diceva “il mio babbo” Beethoven che definiva la sua settima sinfonia proprio la mappa per l’utopia. O che troviamo in Mendelssohn nella quarta sinfonia e che si intitola “italiana” perché nasconde in ogni nota luci romane, colori veneziani, funerali napoletani e riti di tarantolati come fossero appunti di viaggio. O, meglio, come fosse una mappa aborigena che indica luoghi in cui “nutrirci“ come nelle vie dei canti. Gli aborigeni la sanno molto più lunga di noi.
La musica non è (solo) un momento di intrattenimento o di emozione fugace. La musica è una esigenza, è una magia che noi esseri umani ci siamo andati a cercare sostenendo, presun- tuosi come siamo, di averla inventata. E ogni nota che ci hanno lasciato e che lasciamo scrivendo contiene tutta quella magia. Nella musica io credo fermamente e sono convinto che oggi più che mai tutti dovremmo crederci di più, per credere anche in noi stessi, per ricordarci tra le altre cose che siamo belli, solo un po’ buffi, anche se tendiamo a dimenticarlo.
Tanti fraintendono la mia idea di “musica libera” e pensano che significhi “fai un po’ quello che ti va, esprimiti come vuoi”. Non è così. Io chiamo la musica detta - impropriamente - classica, “libera” perché è scevra dagli ego, dai pregiudizi, dalle manipolazioni e per osmosi libera tutti coloro che partecipano, perché ogni nota, pur contenendo tutto ciò che dicevo prima, non appartiene più a chi l’ha scritta, ma a tutti e diventa Ezio o Maria o Claudio quando la interpretano Ezio, Maria o Claudio, ma anche quando la ascoltiamo, quando tutti diventiamo quella musica, vibriamo nella stessa nota. E le note in qualche modo si legano a tutte le altre note del passato. La musica libera è una catena infinita di vita che attraversa secoli e confini ed è una delle ragioni per cui dopo centinaia di anni continuiamo ad avere bisogno di ascoltare Monteverdi, Bach, Beethoven, Mozart o Brahms. Non perché la musica sia solo bella ma perché le apparteniamo.
Quel vibrare all’unisono in due o in migliaia provoca fenomeni fisici e benefici neurologici. Ha poteri curativi. I nostri neuroni ritrovano un equilibrio e le cellule funzionano nei migliore dei modi. La musica ci rende belli, rende bellino persino me. Ci rende tutti belli nel momento in cui tocchiamo uno strumento o impugniamo la bacchetta - non posso confermare quando prendiamo la matita per scriverla perché non ho elementi, ma se tanto mi dà tanto... Leviga i difetti, ci illumina. Fa sparire persino le ruote della sedia su cui mi muovo. Fateci caso, osservate le foto dei musicisti mentre suonano. O guardatevi quando cantate a casa. La musica libera è basata sul trascendere, noi non esistiamo ed esistiamo. Le apparteniamo quanto ci appartiene.
Ed è per questo che fare musica è una responsabilità che va oltre il dovere di restituire a chi ascolta il tempo che ci regala. È una responsabilità che passa in ogni nota, in quell’eredità eterna che dobbiamo trasmettere e anche per questo credo che tutto il sapere che ci lega ad essa debba essere condiviso. Non per fare i fighetti, ma per condividere l’aiuto che ci ha dato nel comprenderla. Raccontare la musica a chi non la conosce rende liberi perché insegna ad ascoltare anziché a subire.
E che sia negli asili, nei conservatori o nelle scuole, negli ospedali o nelle carceri, nelle sale da concerto, in tv o con le cuffie, bisogna divulgarla, cioè renderla di tutti con ogni mezzo possibile. In ogni momento in cui viene suonata e ascoltata c’è il segreto della sua libertà, e della sua capacità di starci vicino da centinaia e centinaia di anni: perché alla fine una musica per essere davvero libera entra nella pancia, passa per il cuore e fa muovere la testa. E quando queste tre cose si muovono insieme diventiamo davvero liberi. Scrivere musica è un atto d’amore. Chi scrive la musica lo fa per lasciarla a qualcun altro. Un atto di generosità, quello di dedicarsi all’altro ma che come in ogni amore vero non ci annienta. E l’amore è l’unico gesto di coraggio che esista.
educazione
Ezio Bosso e la musica «fin dall’asilo»
«Obbligatorio a scuola Pierino e il lupo»
Il maestro, i bambini e le note: «Lasciamo che lo stupore si impossessi di loro. E li guidi nella vita. Qual è il problema? Che la musica è vista solo come performance»
BOLOGNA - L’altro giorno a Parma Ezio Bosso ha presentato un suo libro, firmato con Guido Crainz e Ugo De Siervo, intitolato molto emblematicamente I miei primi 2 giugno (edizioni L’Io e il mondo di TJ) e dedicato ai bambini «per comprendere che quando si parla di musica si parla anche di libertà».
Maestro Bosso, la musica a scuola. Lei che idea si è fatto sulle polemiche contro il flauto e il suo insegnamento?
«Andrò forse controcorrente, ma io sono a favore del flautino, perché è uno strumento che tutti possono permettersi. E può diventare, proprio per questo motivo, una prima educazione al suono. L’unico problema è che se dovessi decidere io, farei iniziare lo studio alle elementari se non già all’asilo. Alle medie è già tardi».
Qual è secondo lei il grande fraintendimento parlando di educazione alla musica?
«Che si confondono l’educazione alla musica con l’educazione allo strumento. Bisognerebbe insegnare prima la musica. L’ascolto e la conoscenza di questa materia sono essenziali e indispensabili alla comprensione del resto».
Lei quando ha cominciato il suo rapporto con la musica?
«A tre anni - e dico subito che non sono figlio di musicisti - sono capitato nel negozio di una prozia di mio padre. Un negozio che - come le chiamavano allora - era una casa musicale, dove si vendevano spartiti e strumenti».
E cosa successe?
«Ah..., è presto detto: rimasi folgorato davanti a un pianoforte. Mi dovettero portare via a forza».
Come potrebbe tradurre questa sua esperienza in termini di educazione musicale?
«In sintesi mi viene da dire - e per carità, ne sono pure convintissimo - che la musica viene vista solo e soltanto come un fenomeno performativo».
E la vera magia secondo lei, dove andrebbe cercata e trovata?
«Bisognerebbe portare i bambini ad ascoltare la musica. Lasciare che lo stupore si impossessi di loro. Questa, secondo me, è la vera magia. Non costringerli a cantare e a ballare solo per il piacere della zia di turno...».
In quale direzione pensa che si potrebbe procedere per migliorare la conoscenza della musica per il mondo dei più piccoli?
«Presentare gli strumenti a scuola. Far scoprire ai bambini con la descrizione di un musicista cos’è, per esempio, un controfagotto. Quasi nessuno sa come è fatto e come emette musica un controfagotto. Poi renderei obbligatorio in tutte le scuole Pierino e il Lupo di Prokof’ev e una partitura di Britten poco nota e pochissimo eseguita, come Noye’s Fludde (L’Arca di Noè) op. 59, dove i più piccoli contano come gli adulti e dove suonano tutti insieme».
Perché la musica è normalità fuori dai nostri confini italici?
«Perché la musica da noi non viene considerata un momento di vita, fondamentale per incuriosirci nei confronti del mondo, ma soltanto qualcosa di astratto e di non ben definito».
* Corriere della Sera/Bologna, 17 maggio 2017
Torna con un album e un concerto in tv il 23 dicembre. “Lotto per rimanere una persona, non un personaggio”
di Piero Negri
inviato a Gualtieri (Reggio Emilia) *
L’eccezione è la norma, nella vita di Ezio Bosso. Non solo, non tanto, per la popolarità che in 13 minuti di televisione si è guadagnato a Sanremo. Non solo per la malattia neurodegenerativa che l’ha colpito, di cui dopo qualche secondo trascorso con lui ci si dimentica naturalmente. La sua storia è un’eccezione: è un musicista colto capace di parlare a tutti (e chi è stato a uno dei suoi tanti concerti in giro per l’Italia - tutti sold out - lo sa bene) e di portare in hit parade un album complesso e per nulla pop come The 12th Room.
Ora il contratto con la Sony Music e l’uscita di ...and the things that remain, che raccoglie il suo meglio, o qualcosa del genere, dal 2004 a oggi.
«Il concetto di antologia non mi entusiasma. Ho accettato di farla perché ci ho messo tre inediti e perché con la Sony ho firmato un accordo mondiale da musicista, come si usava un tempo: significa che in futuro potrebbero arrivare album con composizioni non mie, o non suonate da me».
È possibile distaccarsi così dalle proprie composizioni?
«Non solo è possibile, è necessario: detesto il concetto di musica “mia”. Al massimo, è scritta da me. Noi siamo solo un tramite, ce lo dimentichiamo spesso per metterci la tuta da Superman, per aver ragione. Vivo di vibrazioni empatiche, la ragione mi fa paura».
Con lei non c’è mai nulla di scontato: l’album si intitola ...and the things that remain, ma non contiene la composizione che si chiama così.
«Per un certo periodo a tutte le persone che incontravo chiedevo quali erano per loro “le cose che rimanevano”. Qualcuno pensava a ciò che rimarrà di noi dopo la morte, ed è un pensiero che ho anch’io, con il tempo che mi resta e i figli che non ho, ma molti riflettevano su ciò che gli era stato trasmesso da chi non c’è più. Ho scritto un trio con quel titolo, nell’album non c’è ma il concetto sì: di questo mi occupo, della musica che rimane».
È un musicista classico, post-minimalista, divenuto popolare a Sanremo senza mai diventare pop. Strano, no?
«Per chi viene ai concerti però non ci sono equivoci. Questo successo pop, che è solo italiano, rafforza in me solo il desiderio di fare un passo indietro. A me oggi interessa la potenzialità di divulgare bellezza. Quando un ragazzo mi dice, sono stato al concerto di Mario Brunello che faceva le suite di Bach perché l’hai detto durante un concerto, per me è il massimo. Nella musica io credo: la musica non è bella, è importante, è vita. La grande musica fa sì che esista la musica che scrivo io e fa sì che esista io, che viva e viva meglio».
Ha conosciuto anche i famosi aspetti negativi del successo?
«Non è facile essere sulla bocca di tutti, né avere tante persone che vogliono fare una foto con me, quando io le foto le ho sempre detestate, fin da piccolo. C’è affetto, però anche fatica: ero abituato a rispondere a tutti, ora non ce la faccio e alcuni si arrabbiano, mi dicono che sono cattivo, e ci rimango male. Lotto per affermare che sono una persona, non un personaggio».
Ha detto molti no?
«Sì. Mi hanno perfino chiesto di commentare gli Europei. Ma io di calcio non so niente, seguo più il rugby. Il 23 dicembre, però, sono su Sky Arte con la registrazione del concerto qui a Gualtieri, la mia seconda casa. Avevo detto: tornerò in tv solo se qualcuno trasmette in prima serata un concerto della musica a cui appartengo. Mantengo la promessa».
È l’uomo della prime volte: l’hanno chiamata a dirigere alla Fenice, a Venezia, e ha aperto tutte le prove al pubblico.
«Nessuno l’aveva mai fatto: è stata una bellissima esperienza, con solo aspetti positivi. Tra i tanti, anche quello di tener vivo il teatro tutto il giorno».
A Venezia ha diretto Mendelssohn, Beethoven e Bosso: cos’altro le piacerebbe affrontare?
«Il sogno è che un’orchestra mi dica: facciamo tutto Beethoven. Così finalmente dirigo il mio papà musicale. Se mi chiede cosa mi piacerebbe dirigere, torno all’infanzia: Beethoven, Má vlast di Smetana e Les préludes di Liszt. A 5 anni, ascoltandoli di nascosto, sognai di dirigere».
Quindi nasce direttore?
«Volevo fare il direttore, ma allora, quando arrivavi da una famiglia povera, ti facevano capire che non potevi permettertelo. Ti dicevano: suona il contrabbasso, almeno trovi un lavoro sicuro. La direzione te la devi guadagnare, magari incontrando, come è successo a me, maestri che ti incoraggiano».
Si sente più che altro direttore?
«Lo dico sempre, sono un direttore che compone e che all’occorrenza suona il pianoforte. La mia natura è quella di concertare gli altri. Però il piano mi ha aiutato, mi ha permesso di fare musica senza stancarmi troppo. Tre anni fa non sarei mai riuscito a dirigere, poco tempo prima non riuscivo neanche a suonare il pianoforte: tentai un concerto di tre quarti d’ora e svenni sulla tastiera».
Cosa è cambiato in lei?
«Il mio unico segreto è la disciplina, è la musica che me l’ha insegnato. Con la musica non “esprimi te stesso”, esprimi l’arte, le dai cuore. Ma è essenzialmente disciplina. Lo studio quotidiano che faccio da 40 anni non è mai cambiato: è quello che mi ha permesso di vivere meglio la mia condizione».