Condizioni di vita e speranze dei cubani nel 2007.
Cuba in bilico fra due epoche
di Barbara Meo Evoli *
Cosa accadrà quando morirà Fidel?
Cosa pensano i cubani del regime in cui vivono?
Vogliono che cambi?
Di fronte a tali quesiti, molti cubani, senza conoscere il proprio interlocutore, si limitano a inarcuare le sopracciglia, qualcuno si alza e se ne va, altri gentilmente cambiano discorso. Non si sa mai che la risposta giunga ad orecchie con potere decisionale nel campo lavorativo... e se la risposta non dovesse piacere? Ciò equivarrebbe alla perdita del posto di lavoro. Ci si trova di fronte a un’autocensura sul proprio pensiero spesso mascherata da un “non so”. Spesso si è costretti a mascherare la propria identità di giornalista per non ottenere dai cubani delle opinioni che ricalchino le posture dell’autorità.
Fidel Castro ha compiuto 81 anni ed a un anno dalla sua uscita di scena per causa di un intervento chirurgico che ha determinato la delega dei suoi poteri al fratello Raul, Cuba sta ancora là. Non si è convertita al capitalismo. Secondo l’indagine condotta nella capitale e in varie province dell’Isola nel giugno del 2007, alla domanda «Che succederà quando morirà il lider maximo?», il 76% dei cubani ha risposto che non accadrà nulla, e in questa fetta della popolazione sono compresi sia i fidelisti che gli oppositori al regime. Il 13% ha affermato che ci saranno disordini per le strade e l’11% ha affermato che non ne ha la piu pallida idea.
Inoltre, secondo la maggior parte dei cubani convinti che subito dopo la scomparsa di Fidel tutto continuerà ad essere come prima, bisogna rilevare che vi saranno dei cambiamenti a lungo termine nel sistema, ma avverranno di forma indolore. Chi pensa invece che vi saranno manifestazioni di indisciplina civile nelle città è anche convinto che la situazione sarà rapidamente controllata dalle forze dell’ordine perché «Tutto è già stato previsto dall’autorità». Partendo dalla considerazione fatta dagli stessi isolani che cambiamenti radicali prima della morte di Fidel non possano avvenire, il quesito posto questa volta riguarda cosa i cubani vorrebbero che cambi o non cambi nel sistema. Il 21% degli intervistati auspica per un passaggio al capitalismo. Questi cubani denunciano la bassa qualità dei servizi prestati dallo Stato, pur essendo consapevoli che nell’Isola nessuno muore di fame e a tutti è garantita educazione e sanità. La metà di questi cubani è a favore di un passaggio a un’economia di mercato in vista di migliori condizioni economiche, invece l’altra metà giustifica la sua scelta per mancanza di libertà e democrazia. Tra coloro che si sono espressi in tal senso, solo una piccola parte è a favore di un sistema capitalista sul modello neoliberale statunitense, la restante parte maggioritaria si proietta verso il modello della socialdemocrazia europea.
La Havana, dove si concentra un quinto della popolazione cubana, raccoglie la maggior parte degli oppositori al regime, denominati cinicamente dai fautori del sistema “gusanos”, ossia virus. Altri 2 milioni di cubani, che rappresentano poco meno di un quinto della popolazione residente nell’Isola, sono emigrati all’estero. Tra questi la maggior parte non appoggia il sistema vigente nella propria patria natia. In Florida infatti si concentra la famosa mafia cubano-americana che dagli anni sessanta ad oggi ha diretto una lotta clandestina contro il sistema castrista.
Una parte rilevante della popolazione, il 32%, pensa e desidera che il sistema rimanga identico al presente e non aspira a nessuna modificazione significativa neanche nel lungo termine. Questa parte della popolazione si trova in via maggiore ubicata fuori dalla capitale nelle campagne e nelle cittadine delle province. L’Oriente dell’Isola appoggia firmemente il fratello di Fidel, Raùl Castro, mentre l’Occidente è segnatamente fidelista.
D’altro canto, quasi la metà degli intervistati, il 47%, crede nel sistema socialista e vuole che si perpetui, ma, riconoscendone lucidamente i difetti, propone dei cambiamenti netti. La maggiore insofferenza che si rileva e la necessaria modifica al sistema attuale che ne fanno discendere i cubani riguarda la moneta e i salari. Questi cubani “critici”, non volendo usare il termine “dissidenti” in cui loro stessi non si riconoscono, non richiedono il cambiamento del sistema elettorale nè la pluralità di partiti, ma un miglioramento, in generale, della situazione economica del paese e, in particolare, dei servizi statali prestati ai cittadini.
Bisogna considerare che i salari vanno dai 225 pesos cubani di uno spazzino ai 550 di un medico, tenendo conto che con un peso si compra un pacchetto di noccioline per la strada o due corse d’autobus. Le uniche due monete che circolano attualmente legalmente a Cuba sono il peso cubano e il peso convertibile. La Banca Centrale di Cuba stabilisce il cambio ufficiale per cui 24 pesos cubanos equivalgono a 1 peso convertibile (C.U.C.), mentre 1 dollaro americano, secondo una risoluzione dell’aprile del 2005, corrisponde a 0,80 C.U.C.
Facendo un rapido calcolo, quindi, il salario di un medico si aggira sui 20 C.U.C. (un po’ più di 20 dollari) mensili con cui si può comprare, per esempio, unicamente un paio di scarpe, o 10 scatole di salsa di pomodoro e 10 lattine di birra. È naturale quindi che la maggior parte della popolazione per vivere in condizioni dignitose si è dovuta obbligatoriamente ingegnare con delle pratiche ai limiti della legalità, però tollerate dallo Stato.
Per esempio il venditore del magazzino statale che dispensa i prodotti della canasta basica, si appropria di parte dei prodotti e li vende separatamente “en bolsa negra” (in una busta nera) a un prezzo maggiorato, intanto il poliziotto di quartiere è ben a conoscienza dell’illecito introito del venditore, ma tace poiché a lui il prezzo dei prodotti non viene maggiorato. E cosí funziona in tutti i settori, dal calzolaio, al medico, al professore universitario, all’operaio, tutti si arrangiano sottraendo allo Stato quel necessario per sopravivvere. Ed è un circolo vizioso difficile da fermare.
Per quanto riguarda i vestiti, a parte in pochi negozi, è possibile comprarli unicamente in C.U.C. e ciò vale anche per molti prodotti alimentari, come tutti i frutti non esotici e la carne bovina. Ciò significa che a chi non entrano C.U.C. tocca mettere da parte per poter comprare 1 peso convertibile con 25 o 26 pesos, per alla fine poter acquistare una maglietta.
Andando quindi a vedere cosa hanno realmente in tasca i cubani, 1 C.U.C. (con il quale si può comprare un succo di frutta in scatola) per un maestro di scuola elementare corrisponde alla decima parte del proprio salario. Quando un custode di un albergo può ricevere facilmente in una giornata 20 C.U.C. di mance per il semplice fatto di portare le valige ai turisti stranieri, possessori di euro o dollari.
Di conseguenza, per il differente potere acquisitivo delle due monete, nasce una grande differenza sociale tra chi possiede solo pesos cubani e chi possiede pesos convertibili, perché a conttatto con il turismo o perché tiene un parente all’estero che invia valuta (euro o dollari americani). I cubani dicono infatti «Hay que tener F.É.» per dire «Hay que tener Familia en el Extranjero» (Bisogna avere dei parenti all’estero). La tanto proclamata uguaglianza quindi scompare con la stampa di due monete a cui hanno accesso strati diversi della popolazione.
Dunque la richiesta dei cubani, che appoggiano il proprio sistema però con approccio critico, è quella di emettere una sola moneta per tutti, che sia la stessa con cui vengono pagati i salari che con cui si comprano le mercanzie. Unificata la moneta, i cubani pretendono inoltre una riubicazione della piramide salariale, poichè il facchino di un albergo e il piccolo commerciante alimentare di prodotti in C.U.C. attualmente guadagnano molto di più di un ingegnere o di un professore universitario.
Il secondo grande desiderio dei cubani è quello che sia garantita la libertà di viaggio. Se ai cubani fosse permesso uscire liberamente dall’isola la maggior parte afferma che tornerebbe nel proprio paese dopo aver avuto la possibilità di vedere il mondo al di fuori. Ma questa richiesta si fonda su un falso presupposto: che sia l’autorità cubana a negare il permesso d’uscita dal paese.
Questa convinzione è largamente diffusa nella popolazione inconsapevole che la negativa ai visti proviene dalle ambasciate dei paesi stranieri, non da Cuba, il cui ufficio di emigrazione effettua semplicemente un controllo sugli spostamenti dei cittadini e impone pesanti tasse per la loro uscita dall’Isola.
Il terzo grande cambio si concreta in una riforma costituzionale, ossia la concessione della totale libertà di espressione, di conoscenza e di stampa. Anche se convinto fidelista, il cubano non esprime pubblicamente le proprie critiche, seppur costruttive, a una manovra dell’autorità. Poichè teme una contromisura nei suoi confronti.
Questo tipo di cubano soffre della mancanza di libertà di pensiero ma è certo che se si desse la possibilità al canale televisivo clandestino di Miami diffuso dai “gusanos” espatriati di emettere liberamente o all’opposizione di stampare giornali, il cubano socialista non cambierebbe opinione rispetto al sistema in cui vive, anzi sarebbe più convinto delle proprie idee.
Tale cubano, inoltre, è ben cosciente che lo strumento utilizzato dalla Rivoluzione del 1959 ad oggi per controllare il pensiero degli abitanti dell’Isola è stato il sistema dei Centri di Difesa della Rivoluzione (CDR).
Tali centri, istituiti con la vittoria della Rivoluzione, costituiscono una rete che copre l’intero paese senza lasciare scoperto neanche un appezzamento di terra di campagna, né un vicolo di un villaggio. Nelle città ve ne è uno in ogni isolato, controllato a sua volta da un CDR di livello gerarchicamente più alto e con competenza su una maggiore superficie, e così via fino ad arrivare alla vetta della piramide dei CDR che comunica con la polizia e l’autorità centrale. In questi centri i presidenti conoscono a menadito la vita di ogni abitante della zona di loro competenza e si impegnano a dirigerli sempre sulla retta via dell’ortodossia, ciò determinando una supervisione generale dell’autorità sulle opinioni dei cubani e costituendo senza dubbio uno degli elementi che ha permesso il perpetuarsi del sistema.
Un’altra grossa critica è mossa contro la discriminazione fra cubano e straniero. Lo straniero affermano, sia che sia turista o che sia studente, è principe nell’isola e gode di un migliore trattamento rispetto al cubano. Per quanto riguarda il turista, un trattamento privilegiato si può intendere visto che l’economia cubana dipende dall’industria del turismo, ma che lo studente abbia garantito un miglior letto e miglior cibo è ingiusto, considerano. È un prezzo troppo alto da pagare per la causa internazionalista. Il popolo cubano si sente messo in secondo piano dai propri governanti e auspica un investimento maggiore a favore in primis dei cittadini cubani. Si sente orgoglioso di accogliere studenti stranieri o inviare medici in tutto il mondo, ma considera che prima di queste due azioni tanto nobili bisognerebbe risolvere tutti i problemi a casa propria.
Un’ulteriore richiesta consiste in un cambiamento strutturale: che quadri e dirigenti che hanno partecipato alla Rivoluzione siano rimpiazzati da giovani. I cubani sono consapevoli che questi uomini del regime hanno ben svolto il loro lavoro ai loro tempi ma sostengono che nel 2007 dovrebbero ritirarsi di scena e dare voce e potere ai giovani d’oggi. Questa manovra inolte sarebbe tesa a dissuadere i giovani ad abbandonare l’isola. La metà dei giovani infatti nutre il desiderio di almeno vivere un periodo della propria vita fuori da Cuba, nonostante tra questi la maggior parte appoggi il sistema.
Infine, un’altra necessità che avvertono i cubani “critici” riguarda il trasporto, essi sanno bene che fondamentalmente l’assenza di mezzi e di energia è dovuta al blocco economico che grava su Cuba da più di 40 anni, ma aspirano per lo meno a non dover aspettare per un’ora e mezza l’autobus per andare al lavoro. Si chiedono inoltre se la mancanza di trasporti fra le varie città dell’isola sia dovuta solo alle difficoltà economiche che affronta il paese o anche a controlli governativi sugli spostamenti dei cittadini nell’isola.
I cubani “critici”, i quali dall’Isola saranno quelli che in parte decideranno del futuro di Cuba dopo la morte di Fidel, sono orgogliosi di aver resistito al periodo speciale dopo il crollo del muro di Berlino, sono orgogliosi della storia unica del proprio paese, sono orgogliosi di aver resistito agli attacchi dell’imperialismo yankee ma stanno arrivando ai limiti delle proprie forze. Si richiede loro una battaglia diaria contro il cosidetto “impero del male” e tutte le tentazioni del capitalismo, ma il serbatoio di resistenza di un popolo non è infinito, i cubani stanno perdendo la forza di lottare.
Barbara Meo Evoli
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Barbara Meo Evoli é una giovane giornalista free-lance. Laureata in giurisprudenza (Tesi: L’obbligo di cooperazione degli Stati con la Corte penale internazionale), ha lavorato come analista internazionale presso il Ministero della presidenza venezuelano, in qualitá di responsabile dell’area America Latina.
Fidel Castro, folla immensa per addio. Raul, "difenderemo socialismo, si’ se puede"
’’Giuriamo di difendere la patria e il socialismo. Fidel, hasta la victoria siempre’’. Raul Castro si rivolge ai cubani.
dell’inviata Serena Di Ronza *
’SANTIAGO DE CUBA ’Giuriamo di difendere la patria e il socialismo. Fidel, hasta la victoria siempre’’. Raul Castro si rivolge ai cubani. E la risposta delle migliaia di persone, riunite in Plaza de la Revolucion a Santiago de Cuba per l’ultimo omaggio pubblico al Comandante en Jefe, e’ chiara: ’’lo giuriamo’’. Stanco e con la voce roca, Raul parla al suo popolo e citando l’’’esempio’’ di Fidel dice: ’’Ci ha mostrato quello che potevamo fare, quello che possiamo fare. E ora quello che potremmo fare. Si’ se puede’’. La folla risponde: ’’si se puede’’. Una frase storica, rievocata da Barack Obama nella campagna elettorale del 2008 con ’Yes we can’.
Ripercorrendo le tappe della vita di Fidel, incluse le piu’ difficili, Raul ricorda la crisi dei missili e ’’l’impero americano’’. Ma Fidel ’’ci ha mostrato che abbiamo potuto creare una Cuba libera, trasformata in una potenza dal punto di vista della medicina e della biotecnologia’’. ’’Ci ha mostrato’’ che se si e’ potuto combattere per la ’’Namibia libera, per l’Angola e per l’apartheid’’, e che quindi Cuba ce la puo’ fare, ’’si’ se puede’’. ’’Si e’ potuto, si puo’ e si potra’ superare qualsiasi ostacolo per l’indipendenza, la sovranita’ della patria e il socialismo’’. Dalla folla si alza un fragoroso applauso. Raul coglie l’occasione dell’ultimo saluto pubblico al Comandante en Jefe per ringraziare ’’ancora una volta’’ il popolo cubano per ’’il rispetto e l’amore’’ mostrato a Fidel in questi giorni.
’’Milioni di persone hanno firmato i registri della rivoluzione’’, quei registri delle condoglianze che hanno consentito ai cubani, firmandoli, di dare il loro personale saluto a Fidel. ’’Sono rimasto impressionato dalla reazione dei giovani’’ aggiunge. E la Plaza de la Revolucion e’ piena proprio di giovani. La cerimonia di saluto e’ piu’ breve di quella simile che si e’ svolta a L’Avana. Ed e’ dedicata solo al popolo cubano. Le personalita’ presenti, fra i quali Nicolas Maduro presidente del Venezuela, non intervengono. A parlare dal palco sono le associazioni dei lavoratori, degli agricoltori, dei combattenti della rivoluzione cubana. Fidel era un ’’soldato delle idee’’ dice il presidente del sindacato dei lavoratori. ’’Ci ha mostrato che i principi non si discutono, si difendono a ogni costo’’ gli fa eco il presidente dell’associazione degli agricoltori. ’’Porteremo avanti la rivoluzione con lealta’, continueremo l’opera’’ aggiunge il presidente dell’associazione dei combattenti della rivoluzione cubana. ’’Gli studenti non lo tradiranno, non falliranno nella loro opera di portare avanti la rivoluzione’’ dice il presidente dell’associazione studentesca.
La piazza ascolta, canta ’Yo soy Fidel’. Fra la gente si percepisce un partecipazione sincera. ’’Dobbiamo moltiplicarlo, dobbiamo creare tanti Fidel’’ dice Rita Maria. Con l’intervento di Raul Castro si chiude l’ultimo saluto pubblico a Fidel Castro. La cerimonia di sepoltura avverra’ alle 7.00 ora locali, le 13.00 italiane, chiudendo i nove giorni di lutto nazionale, consegnando ’’Fidel all’eternita’’, come dicono i cubani.
Intellettuali in campo per Fidel
Cuba. Scrittori, musicisti, filosofi a scuola di Revolucion
di Geraldina Colotti (il manifesto, 1.12.2016)
Stratega militare, politico, però anche intellettuale. «Raro caso di un capo di stato sempre disposto ad ascoltare e a discutere, senza mai la superbia che tanto spesso ottunde la capacità di comprendere dei leader». Nell’obituary su Fidel Castro, l’intellettuale argentino Atilio Boron ne ha ricordato anche l’alto profilo intellettuale: «Come Chavez, Fidel era un uomo coltissimo e un lettore insaziabile. La sua passione per l’informazione esatta era minuziosa e inesauribile». Boron, una delle voci più presenti nel nuovo corso bolivariano dell’America latina, ha raccontato «l’immensa fortuna» di aver assistito a «un intenso ma rispettoso scambio di idee tra Fidel e Noam Chomsky a proposito della crisi dei missili dell’ottobre ’62 o dell’Operazione Mangusta». In nessun momento «l’anfitrione fece orecchie da mercante a quel che diceva il visitatore nordamericano».
LA CRISI DEI MISSILI fu uno dei momenti più critici della Guerra fredda tra Stati uniti e Unione Sovietica, che seguì al tentativo di invadere Cuba, nell’aprile del ’61, e portò al dispiegamento difensivo di missili nucleari sovietici nell’isola. Come attestano documenti Usa desecretati, l’Operazione Mangusta venne approvata da Kennedy il 18 gennaio del ’62, con lo scopo di «aiutare i cubani a rovesciare il regime comunista a Cuba e istituire un nuovo governo con cui gli Stati uniti possono vivere in pace». Si prevedevano quattro compiti per azioni di intelligence, sei di tipo politico, tredici relativi alla Guerra economica, quattro a quella Psicologica e quattro di tipo militari, con l’obiettivo di giustificare un’invasione dell’isola da parte dell’esercito Usa.
IN QUEGLI ANNI arrivavano all’Avana intellettuali da ogni parte del mondo: scrittori, pittori, musicisti... E al ritorno dedicavano un omaggio a Cuba. Leonard Cohen, scomparso a novembre, arrivò all’Avana pochi giorni prima dell’invasione della Baia dei Porci. Vent’anni dopo, ha ricordato la figura di Fidel Castro nelle note surrealiste della canzone «Field commander». Nel ’61, Fidel Castro tiene il primo discorso storico agli intellettuali.
DÀ CONTO di «tre sessioni» di accese discussioni, che metteranno le basi per la politica culturale degli anni a venire: «Noi siamo stati agenti di questa Rivoluzione, della rivoluzione economico-sociale che si sta tenendo a Cuba - dice Fidel - A sua volta, questa rivoluzione economico-sociale deve produrre una rivoluzione culturale». Da lì, il «punto più polemico della questione: se deve esserci o no un’assoluta libertà di contenuto nell’espressione artistica».
UN TEMA che, negli anni più complicati della rivoluzione cubana, porterà gli intellettuali a schierarsi. «Nel 1961 - scrive il compianto scrittore Manuel Vazquez Montalban - la Rivoluzione cubana era coccolata dall’intelligencia di sinistra di tutto il mondo e l’Avana come Mosca nel 1920 fu la Mecca di tutti i trasgressori di codici del mondo, che cercavano in Cuba un nuovo destinatario sociale capace di intendere il nuovo». E ricorda il viaggio che fecero Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir, che definirono Fidel Castro «un amico».
TUTTAVIA, la prima grande incrinatura si produsse nel 1971, di fronte al gruppo di scrittori che appoggiarono Heberto Padilla, i quali ritenevano che la rivoluzione avesse tradito. «Quale dev’essere la prima preoccupazione: i pericoli reali o immaginari che possono minacciare il libero spirito creatore, o i pericoli che possono minacciare la Rivoluzione stessa? Dentro la rivoluzione, tutto, contro della rivoluzione, niente», diceva Fidel agli intellettuali, nel ’61. Molti scelsero di sostenere Cuba purchessia, altri le voltarono le spalle, magari per ritornare sui loro passi molti anni dopo.
IL RUOLO di Cuba nei cambiamenti strutturali del continente, ha però rimesso in campo un nuovo immaginario, una nuova mitopoiesi «bolivariana» nutrita dai punti più alti e poliedrici portati dai nuovi movimenti latinoamericani. Si è creata la Rete mondiale degli intellettuali e artisti in difesa dell’umanità, guidata da Venezuela e Cuba, e un laboratorio di pensiero - anche critico, ma fraterno - che va dall’Europa al Latinoamerica, agli Usa, e che si è fatto sentire in questi giorni per ricordare l’apporto di Fidel.
«Fidel soy yo», l’urlo di Cuba
Hasta Siempre. Oltre un milione di cubani ha invaso l’Avana per il saluto al «lìder maximo». Dall’Europa unico leader, Alexis Tsipras
di Roberto Livi (il manifesto, 1.12.2016)
«Donde está Fidel?» domanda il presidente del Nicaragua, Daniel Ortega. «Aqui, yo soy Fidel» risponde un boato che scuote l’Avana. È la voce di più di un milione di persone, una valanga umana che riempie la gigantesca Piazza della Rivoluzione, debordando poi per un lungo tratto del viale d’accesso. Una marea tutt’altro che amorfa, quella che ieri sera per quasi quattro ore ha animato la cerimonia per l’estremo saluto dell’Avana al Comandante della Rivoluzione cubana. Sventolio di bandiere, canti - «Fidel, qué tiene Fidel que los americanos no pueden con él» -, applausi e qualche lacrima e il ritmare di quello slogan col quale un popolo intero vuole identificarsi col suo leader e il suo lascito politico: «Io sono Fidel».
JOSÈ MARTÌ Più in alto, sotto la grande statua di José Martí, di fronte all’entrata del mausoleo dedicato al padre della patria di Cuba, la tribuna delle autorità cubane e soprattutto degli ospiti, che ha visto riuniti i membri delle delegazioni di capi di Stato e di governo, più di venti, o di inviati dei paesi di quattro continenti, America, Europa, Asia e Medioriente e Africa. In prima fila i rappresentanti dell’Alleanza bolivariana, con il presidente venezuelano Nicolás Maduro - simbolicamente seduto alla destra del presidente Raúl Castro (in uniforme da generale) - e i colleghi della Bolivia, Evo Morales, dell’Ecuador, Rafael Correa, del Nicaragua, Daniel Ortega, affiancati dal presidente del Salvador, Salvador Sánchez Céren-, dal messicano Enrique Peña Nieto e dal panamense Juan Carlos Varela. L’Africa australe era rappresentata dai presidenti del Sudafrica e della Namibia.
SCARSE le rappresentanze di altri paesi. A dimostrazione che, anche da morto, Fidel polarizza gli schieramenti, tra chi lo giudica un gigante del XX secolo che ha contribuito a «cambiare il volto dell’America latina e a influenzare il mondo» e chi, soprattutto leader di paesi entusiasticamente neoliberisti, lo ritiene un «caudillo» che ha imposto a Cuba un regime totalitario. La Spagna era rappresentata da Juan Carlos di Borbone e l’Ue dal premier greco Alexis Tsipras. Il presidente Obama non ha voluto sfidare le ire dei repubblicani e ha inviato a rappresentarlo il diplomatico Jeffrey DeLaurentis e Ben Rhodes, il consigliere alla Sicurezza che ha partecipato alle trattative per la normalizzazione dei rapporti con Cuba. Assente anche il presidente russo Vladimir Putin che ha inviato il presidente della Duma, Volodin, a rappresentarlo.
UNA PROVA visibile, comunque, di quanto ha affermato nel suo intervento il presidente della Bolivia, Evo Morales: «Fidel ha portato Cuba nella mappa politica del mondo, lottando contro l’avidità dell’impero. E oggi il mondo riconosce Fidel come un figura politica di taglia inacessibile». Un successo e un credito davvero eccezionali per un’isola di 11 milioni di persone che , fino alla vittoria dei «barbudos» di Fidel nel 1959, era nota soprattutto per gioco d’azzardo, prostituzione e la produzione, monopolizzata dagli Usa, di zucchero. Correa ha affermato che Fidel «è morto invitto» e ha duramente criticato l’embargo degli Usa. «Poche vite sono state tanto complete e luminose. Fidel non se ne va, resta con noi, assolto dalla Storia della patria grande» (latinoamericana), ha detto il presidente Maduro, assicurando Raúl Castro che «può contare oggi più che mai sull’appoggio del Venezuela». Il vicepresidente della Cina ha definito il leader scomparso «un colosso della storia».
Particolarmente emotivi sono stati gli interventi del presidente del Sudafrica, Jacob Zuma e della Namibia, Hage Gengob. Il primo ha messo in risalto l’importanza dell’intervento militare cubano - «con quasi mezzo milione di soldati» - in Angola nella seconda metà degli anni Settanta del secolo scorso per contrastare l’invasione delle truppe del Sudafrica in quegli anni governato dai fautori dell’apartheid. La vittoria cubana comportò non solo la sovranità dell’Angola, «ma anche la decolonizzazione della Namibia e la sconfitta del regime razzista» a Pretoria. «Fidel non inviò le sue truppe per impadronirsi del petrolio, dell’oro o dei diamanti - ha detto Zuma - ma per la libertà e l’indipendenza dei nostri popoli». Tesi confermata dal presidente Gengob: «Quando incontrai Fidel mi disse che dall’Africa avevano portato via solo i resti mortali dei loro soldati».
COMMOVENTE e ripetuto è stato il continuo richiamo alla solidarietà che Fidel, «nonostante l’illegale blocco economico degli Usa», ha saputo assicurare a varie nazioni e popoli: «Ha inviato personale medico e ha formato a Cuba centinaia di nostri studenti di medicina» (Jacob e Gengob), «per il Vietnam si è detto disposto a dare anche il proprio sangue» - (presidente della Camera dei deputati Nguyen Thi) - «dopo un ciclone dimostrarono che con noi erano disposti a dividere il pane» (Daniel Ortega).
La gigantesca manifestazione è stata conclusa dall’intervento del presidente Raúl, il quale ha avuto anche un inatteso motto di spirito assicurando i partecipanti che il suo era «l’ultimo intervento». Un discorso asciutto, che ha ricordato come la piazza della Rivoluzione è stata il luogo dove il fratello maggiore ha annunciato e spiegato tutte le decisioni del suo governo, dalla riforma agraria - «che è stata come passare il Rubicone» - alla dichiarazione del carattere socialista della Rivoluzione.
L’ITALIA «È stata una grande manifestazione di orgoglio nazionale in memoria di un personaggio storico del XX secolo che ha saputo conquistare e difendere l’indipendenza del suo paese», ha dichiarato il viceministro degli Esteri Mario Giro che ha rappresentato il governo italiano. «Un governo che è stato sempre amico di Cuba, pronto a collaborare nei settori economici, commerciali e culturali».
Ieri mattina è partita dalla capitale la carovana funebre che porterà l’urna di legno rivestita dalla bandiera di Cuba all’interno di una teca di vetro che contiene le ceneri di Fidel lungo tutta l’isola fino a Santiago dove saranno inumate domenica. Lungo tutto il percorso - circa 900 chilometri - si prevede una fila ininterrotta di cubani per salutarlo.
Addio a Castro. Orgoglio Cuba, ’siamo Fidel’. Raul, ’Hasta la victoria’
Migliaia in piazza per Lider. Da Tsipras a Maduro, ultimo addio
di Redazione ANSA
ROMA ’Hasta la victoria siempre’. Raul Castro ringrazia il mondo per ’’la solidarieta’ e il rispetto’’ mostrati per la morte del fratello Fidel. E ringrazia il popolo cubano per l’appoggio e l’amore mostrato. La risposta e’ chiara: ’’Cuba es Fidel. Yo soy Fidel’’. Davanti a migliaia di persone nella Plaza de la Revolucion, la piazza del Comandante en Jefe, sfilano capi di Stato e delegazioni per portare omaggio al Lider Maximo. Ma il vero protagonista e’ l’orgoglioso popolo cubano. L’invasione della Plaza de la Revolucion inizia nel primo pomeriggio. Alle 18.50 locale parte la musica, e sui grandi maxi schermi scorrono immagini di Fidel. Alle 19.00 spaccate, come da programma, parte l’inno nazionale, e prende ufficialmente il via l’addio di L’Avana a Fidel. L’addio a Fidel, protagonista è il popolo cubano - Ascolta l’inviata Serena Di Ronza
Ma in piazza ci sono cubani di tutta l’isola, giunti appositamente per l’occasione. Decine e decine di pullman sono parcheggiati nei pressi della piazza e indicano tutte le citta’ di provenienza, da Santa Clara a Trinidad. Sono arrivati per salutare Fidel, in quello che e’ un ultimo tributo al loro ’eroe’. Sul palco si alternano i leader venuti a omaggiare la scomparsa di Fidel e mostrare il loro appoggio a Cuba.
C’e’ il presidente del Sud Africa, Jacob Zuma, che ricorda come il Comandante en Jefe e i cubani hanno ’’aiutato l’Africa senza voler ne’ diamanti ne’ petrolio’’. Fidel, afferma Zuma, era un ’’combattente che credeva che anche i poveri dovessero vivere con dignita’. Per questo la rivoluzione cubana continua a ispirare il mondo’’. C’e’ il primo ministro greco, Alexis Tsipras, che in greco si rivolge al popolo cubano. ’’Fidel e’ simbolo di indipendenza. Per noi in Europa e’ difficile capire cosa avete passato: noi abbiamo la logica inumana del libero capitalismo e del neoliberismo’’. Tsipras, lodando i valori cubani ’’vicini ai nostri’’, mette in evidenza come anche la Grecia cosi’ come Cuba si e’ ’’alzata contro avversari potenti’’. Parlano il rappresentante della Russia, della Cina, del Quatar e del Vietnam.
Gli applausi piu’ forti sono riservati ai leader sudamericani, e soprattutto al presidente venezuelano, Nicolas Maduro. Maduro dialoga con il pubblico, lo incita e la risposta sono canti e applausi. ’’La battaglia continua’’ dice. L’ultimo a intervenire e’ Raul Castro. I cubani gli riservano un’ovazione. Castro ringrazia, ringrazia il mondo. E ripercorre le tappe della vita di Fidel. Poi da appuntamento al 3 dicembre a Santiago de Cuba, dove e’ in programma l’ultimo bagno di folla per Fidel prima della sepoltura. Le sue ultime parole sono ’Hasta la victoria siempre’. E il pubblico esplode in una gioia triste.
Per Fidel una rosa bianca e un pugno chiuso
Manifestazioni. Molte le delegazioni all’Avana
di Geraldina Colotti (il manifesto, 30.11.2016)
ROMA In tutto il mondo, i registri di condoglianze delle ambasciate cubane si riempiono di messaggi commossi. Mazzi di rose rosse vengono sistemati all’ingresso, insieme alle bandiere dei movimenti, dei partiti, o ai messaggi dei singoli. C’è chi porta una rosa bianca, ricordando la poesia di José Marti, «Cultivo una rosa blanca». Versi sull’amicizia e la lealtà, usati da Obama il 21 marzo a Cuba per indicare la riapertura ufficiale delle relazioni.
UN MESSAGGIO a cui rispose il premio nazionale per la Letteratura Daniel Chavarria: «Anch’io, signor Obama - disse - coltivo una rosa bianca: per Cuba che soffre un blocco globale genocida, in violazione dei più elementari diritti umani. Per Cuba che patisce l’usurpazione illegale, immorale, ingiusta, e che il suo governo pretende infinita, di una parte del suo territorio nella baia di Guantanamo, dove lei mantiene una base navale inoperante in termini strategici e che viene usata come centro di tortura...».
FIDEL non incontrò Obama, che non andrà al funerale del leader, ma il giorno prima ricevette il presidente venezuelano Nicolas Maduro, il cui paese è stato considerato da Obama «una minaccia inusuale e straordinaria per la sicurezza degli Stati uniti» e per questo sottoposto a sanzioni. «Cultivo una rosa blanca»... La prima parola di omaggio pronunciata ieri da Maduro all’Avana è stata di gratitudine per «il grande amico» scomparso. «Fidel no se ha ido», gridano i movimenti venezuelani, ha impresso la sua orma indelebile nel solco dei libertadores, unita a quella di Hugo Chavez: «el amigo» di cui Fidel ha pianto la scomparsa, sulle note del cantautore cubano Raul Torres, dedicate a Chavez il 5 marzo del 2013.
L’IMPRONTA di Fidel - e del Che - in America latina ha determinato il corso delle principali guerriglie che cercavano un esito simile a quello della rivoluzione cubana. La prima fu quella che si sviluppò in Venezuela. E per evitare che «il pericolo rosso» si estendesse nel continente, Washington innescò una guerra senza quartiere, dal Guatemala all’Honduras. Stroncò la primavera allendista, in Cile, nel 1973 e il Piano Condor impose la sua ombra di morte insieme alle dittature del Cono Sur.Castro s’impegnò a fondo per sostenere Allende e appoggiò tutte le occasioni che avrebbero potuto consentire a Cuba di non essere più sola nel continente. E sostenne la rivoluzione sandinista, consigliando fino all’ultimo Daniel Ortega. «Il sangue dei cubani ha seminato in tutto il Continente» - ha detto Fidel a Ramonet nell’Autobiografia a due voci. L’eredità di Fidel - ha ricordato il giovane Elian (ex bambino conteso tra Miami e l’Avana, riscattato da Fidel nel 2000), è in ogni latinoamericano che ha riacquistato la vista a Cuba, in ogni studente che si laurea gratuitamente, in ogni persona che ha sconfitto l’ebola grazie ai medici cubani. Fidel è presente in ogni processo di pace, come quello in corso in Colombia, che deve tutto a Cuba e al Venezuela.
TUTTO QUESTO hanno ricordato i movimenti in tutto il mondo, unendo il ricordo alla lotta. In Brasile, insieme alle bandiere dei Sem Terra, in piazza al grido di «Fora Temer», c’erano quelle cubane e cartelli che dicevano: Fidel vive.
MOLTE DELEGAZIONi dei movimenti e delle sinistre latinoamericane, e anche europee si sono recate a Cuba per i funerali. Dall’Italia, ha mandato delegati l’Associazione di amicizia Italia-Cuba, mentre molti dirigenti di partiti e associazioni hanno espresso cordoglio. Per Fidel, si sono visti striscioni allo stadio, del Pisa e del Livorno. A Livorno, il sindaco Filippo Nogarin ha autorizzato un registro per le condoglianze, e altri comuni hanno organizzato carovane per andarlo a firmare.
Dal nord al sud d’Italia, centri sociali e movimenti hanno dedicato una parte delle iniziative al ricordo di Fidel e al sostegno di Cuba. Venerdì, a Roma, al Casale Alba 2 alle 18 (parco di Aguzzano), si discuterà di Cuba e Venezuela, e del ritorno in forze delle destre nel continente. All’Avana, in questi giorni è arrivato il primo volo commerciale dagli Stati uniti, ma le dichiarazioni di Trump - a cui ha risposto per le rime il presidente boliviano Evo Morales, dandogli dell’«ignorante» -, non promettono niente di buono.
"I DUE CORPI DEL RE" - E DI OGNI ESSERE UMANO. La lezione di Dante, Kantorowicz, Freud e Mandela ...
La storia Come nelle antique esequie reali, un autentico teatro sacralizza l’ultimo viaggio del Comandante
La scomparsa del Capo
Così l’isola celebra l’apoteosi dell’ultimo sovrano del secolo breve
di Marino Niola (la Repubblica, 29.11.2016)
HASTA SIEMPRE Comandante. Ieri in Plaza de la Revolución è cominciato il solenne addio di Cuba a Fidel Castro. Una folla oceanica sfila davanti all’urna con le ceneri del Líder Máximo, circondata da un picchetto d’onore di militari in alta uniforme e sovrastata da una sua foto in bianco e nero. Il lutto per l’ultima icona del Novecento durerà nove giorni. E culminerà il 4 dicembre a Santiago, città madre della rivoluzione, da dove nel 1959 partì la marcia vittoriosa della Carovana della Libertad. Il compagno presidente riposerà a Santa Ifigenia, il cimitero dei padri della patria, accanto a José Marti, il liberatore di Cuba dalla colonizzazione spagnola e a Compay Segundo, l’entrañable presencia del Buena Vista Social Club, che toccava la chitarra con la grazia di un Orfeo tropicale.
Adesso un’isola senza voce e senza musica si prepara a celebrare l’apoteosi laica dell’ultimo sovrano del secolo breve. E lo fa ricorrendo a una simbologia millenaria che, sin dai tempi degli imperatori romani, fa della scomparsa del capo, un autentico teatro della morte. Una grande drammatizzazione dello scarto che sussiste tra l’immortalità del potere e la mortalità dell’uomo che lo incarna. Quello stesso scarto che separa le ceneri di Fidel dalla gigantografia dell’eroe rivoluzionario. I resti mortali dell’uomo dalla sua effigie immortale. Che, ora come allora, serve a rappresentare e garantire la continuità del potere e dunque la continuità della vita di tutti.
Nel Medio Evo, un’autorevole dottrina politica, destinata a sopravvivere fino alla fine delle monarchie assolute, accreditava ai regnanti due nature, a immagine e somiglianza di Cristo. È la cosiddetta teoria dei due corpi del re, secondo la quale il sovrano possiede sia un corpo fisico, che palpita, sanguina, si ammala, muore. Sia un corpo politico, che coincide con la sua nazione e il suo popolo, di cui è il simbolo supremo. Questa seconda natura invece è considerata immortale. La simbiosi tra queste due facce della sovranità rendeva indispensabile scongiurare in tutti i modi il contagio di malattie e lo stesso invecchiamento del re, perché l’indebolirsi del suo organismo fisico non contagiasse l’organismo sociale. Perché in un certo senso l’uomo può morire, ma lo Stato assolutamente no. Tanto che nella Francia e nell’Inghilterra rinascimentali per esorcizzare il pericolo dell’interregno, cioè del vuoto di potere che si apriva alla morte del sovrano, si nutriva e si trattava come persona viva un simulacro del defunto, una sorta di manichino regale, fino all’incoronazione del successore. Insomma, il re è morto, viva il re!
Si trattava di una sorta di transfert simbolico dal potere verso l’immagine. Come dire che la mano del defunto non ha più la forza di reggere lo scettro, ma non ha ancora lasciato la presa. Paradossalmente per allungare la vita del morto, ogni giorno veniva visitato dai medici il suo avatar, fatto di cera o di cuoio, che per tutta la durata del periodo di lutto ne constatavano il peggioramento. Come se il cadavere fosse ancora gravemente ammalato, ma non spirato. Questa messa in scena si chiamava funus imaginarium, ovvero funerale dell’immagine. Un rito che prevedeva una lunghissima processione attraverso l’intera nazione, durante la quale i due corpi del sovrano erano inseparabili. Il climax veniva raggiunto con il rogo finale del fantoccio su una pira di aromi e incensi, che trasportavano l’immagine del sovrano in cielo tra gli dei. Solo allora il re veniva dichiarato morto. E sepolto.
Il caso più celebre è quello del funerale di Francesco I di Francia, avvenuto nel 1547 e che durò alcuni mesi, perché il feretro regale doveva toccare tutte le città più importanti e non poteva saltarne nemmeno una, senza provocare una rivolta popolare.
Questa necessità di sospendere il tempo prima della sepoltura trova la sua spiegazione nel fatto che il rito funebre ha un fortissimo senso politico, sociale, culturale. E soprattutto emotivo. In questo senso l’urna cineraria del Jefe Máximo toccherà insieme alle città e ai villaggi, anche e soprattutto i cuori del suo popolo. Anche perché l’itinerario ripercorre a ritroso il cammino dei barbudos. È un ritorno nel ventre materno della revolución. Che torna sui suoi passi. Fino a quella prova generale che è stato l’assalto fallito alla caserma Moncada di Santiago del 26 luglio del 1953, quando Fidel lanciò il primo guanto di sfida a Fulgencio Batista.
Insomma proprio come nelle antiche esequie reali, e come nelle processioni delle icone religiose, l’ultimo viaggio del Comandante sacralizza un percorso che è fatto di spazio e di tempo, di sentimenti e di avvenimenti. Così il corpo cremato del capo riassume insieme la storia e la geografia dell’isola. Con un rituale solenne che chiude per sempre una pagina memorabile del Novecento e al tempo stesso ne apre una nuova.
Le nuove baie dei Porci e noi
di Tommaso Di Francesco (il manifesto, 2.12.2016)
Le immagini e le voci che giungono da Cuba sono inequivocabili. Milioni di persone di ogni età aspettano la carovana con le ceneri di Fidel e danno il loro personale e collettivo addio all’uomo che considerano giustamente come il leader che ha difeso, a caro prezzo, l’indipendenza dell’isola e quelle che possiamo definire come le difficili, minime quanto straordinarie, conquiste in campo sociale.
Mentre tutto questo accade, una miriade di altisonanti tromboni di destra e di ex sinistra si scatena in un nuovo gioco: aprire nuove baie dei Porci, lanciando vere e proprie aggressioni verbali e scritte.
Prima di tutto al buon senso e alla verità storica. L’invasione della Baia dei Porci fu, nel 1961, il tentativo dell’Amministrazione Usa di abbattere il giovane potere rivoluzionario dell’Avana, fallito per la sollevazione armata del popolo cubano.
Ora quella baia sembra tornare d’attualità. Il fatto è che a distanza di quasi sessanta anni a Fidel non riescono a perdonare l’avere garantito che Cuba non diventasse misera come Haiti e che, nel cortile di casa degli Stati uniti, non venisse aggregata senza identità e dignità come Porto Rico alle altre stelle americane; non riescono a perdonarle che l’affermazione della rivoluzione cubana sia stata d’esempio per l’intero continente, latinomaericano che, negli anni Settanta subì l’intervento militare dei golpisti locali supportati dall’Occidente «democratico», Usa in prima fila a ordire il massacro del Cile di Allende e a coordinare le stragi sanguinose del Plan Condor.
Un continente intero che poi si riscattò con un dispiegarsi di movimenti, dal Brasile al Cile, dal Venezuela all’Argentina e alla Bolivia che, arrivati al potere, realizzarono cambiamenti epocali del potere e delle condizioni sociali di milioni e milioni di esseri umani. Certo ora i governi di quella svolta sono dappertutto in crisi, ma la transizione dai golpe alla democrazia è potuta accadere fra l’altro avendo Cuba come punto di riferimento.
Non gli perdonano a Fidel anche il fatto di avere sostenuto in Africa le lotte dell’Anc di Nelson Mandela contro l’apartheid e quelle anticoloniali in Angola, Mozambico e Guinea Bissau.
Non gli perdonano in buona sostanza l’avere dimostrato che «ribellarsi è giusto». Per questo Obama e quasi tutti i leader europei non vanno ai funerali di Fidel (come non va Putin per «rispetto» al neoeletto Donald Trump).
E sfottono sulla libreta, la carta annonaria cubana che dà diritto ai beni alimentari essenziali, non sapendo che negli avanzati Stati uniti 30milioni di persone vivono con la più semantica food card; sfottono sulla egualitaria sanità cubana, dimenticando che a soli 6 km dalla Casa bianca, a Washington, nel famigerato e nascosto ghetto nero di Anacostia c’è una così alta mortalità infantile da essere denunciata nelle statistiche di Save the Children e delle Nazioni unite; strillano sui diritti umani ma scordano che il campo di concentramento di Guantanamo - base militare Usa in terra cubana - è una vergogna del mondo e di ogni diritto internazionale che si rispetti.
Sono queste aggressioni ignoranti le nuove invasioni della baia dei Porci.
Detto questo però, per noi resta decisivo un ragionamento. Se non vogliamo avere un atteggiamento solo celebrativo, dobbiamo considerare che non sarà la nostra solidarietà verbale a salvare dal nuovo isolamento a cui Cuba sarà di nuovo costretta per l’avvento di Trump - meraviglioso prodotto del disastro democratico statunitense. Solo una capacità di critica positiva delle trasformazioni realizzate a Cuba come delle difficili, contraddittorie riforme avviate da Raúl Castro, sosterrà lo sforzo di continuare quell’esperienza rivoluzionaria. E insieme solo la ripresa di una iniziativa politica e di movimento per la trasformazione radicale del potere e del modello di sviluppo qui, nelle cittadelle avanzate del capitalismo, in Occidente, potrà rompere una logica rituale e immobile per fare dell’addio a Fidel Castro una testimonianza concreta di nuovo impegno. Hasta siempre.
Il Comandante che ha fatto una rivoluzione senza perderla
Hasta siempre Fidel. Ha lasciato un paese in condizioni migliori di quando lo ha liberato dal dittatore Batista
di Gianni Minà (il manifesto, 27.11.2016)
Con un esempio palese di assoluta discrezione venerdì se ne è andato da questo mondo il Comandante Fidel Castro, l’unico, nel mondo moderno, che abbia fatto una rivoluzione e non l’abbia persa.
L’unico leader che abbia lasciato un paese in condizioni migliori di quando ha rischiato la pelle per liberarlo dalle prepotenze del dittatore Fulgencio Batista, uno che governava sotto braccio alla mafia.
È singolare che queste realtà, inconfutabili per l’America Latina (Piano Condor, desaparecidos) non siano ancora adeguatamente riconosciute e ricordate da una parte del mondo occidentale che pure, in questi ultimi anni, ha toccato tetti inauditi di empietà perseguitando esseri umani come noi e riempiendosi la bocca con le parole «libertà» e «democrazia», quando in realtà il loro unico «merito» era di essere nati nel posto giusto, al momento giusto.
Questa logica invece era stata ben chiara, fin dal tempo delle insurrezioni studentesche, per il giovane avvocato Fidel Castro tanto che, arrestato per le sue sedizioni, si era difeso da solo in tribunale con una frase che avrebbe fatto epoca: «La storia mi assolverà».
In realtà è più che disonesto, da parte dei farisei di casa nostra (i cosiddetti riformisti) ignorare che Cuba ha pagato, per la testardaggine del suo Comandante, un prezzo altissimo con l’assurdo embargo che dura da più di 55 anni. E questo solo per aver rivendicato il diritto di autodeterminazione del proprio popolo scegliendo un sistema che non piaceva agli Stati uniti. Insomma una punizione di assoluta prepotenza.
Questo meccanismo perverso ha significato però che il 70% degli attuali cittadini dell’isola sia cresciuto schiacciato, per molto tempo, dalla repressione dell’embargo nordamericano.
Non è sorprendente dunque che questa resistenza fosse il peccato che qualcuno continuava (e continua) a imputare a Fidel Castro malgrado da 10 anni fosse uscito di scena a causa della salute precaria.
Eppure non è un mistero che quasi tutti i premier e i capi di Stato latinoamericani, da anni, facessero sempre, di ritorno dai meeting del nord (Onu, multinazionali) uno scalo a La Havana per sentire il parere del Comandante sul riscatto dell’America Latina e sul futuro da scegliere nonostante le politiche criminali del Fondo Monetario Internazionale o della Banca Mondiale o della Borsa di New York.
C’è addirittura chi è convinto che il ritiro di Fidel abbia messo in crisi l’evoluzione di alcuni processi politici e sociali di altri paesi del sud del pianeta. Non sorprende quindi che, in quasi tutto il mondo, la notizia della sua dipartita è stata trattata con assoluto rispetto, tranne forse da alcuni gruppuscoli di Miami, quelli che hanno favorito il terrorismo organizzato in Florida e messo in atto a Cuba, come Posada Carriles che continua a passeggiare tranquillamente per Miami. Sarebbe ora, anzi, che qualcuno chiedesse la verità agli stessi Stati uniti.
E non è un caso che proprio la Chiesa, coerente con l’atteggiamento di Papa Francesco contro la violenza e la guerra, abbia scelto di impegnare la propria diplomazia per la soluzione di complicate situazioni ferme da tempo scegliendo, due volte, come luogo di pace, proprio Cuba.
Non nascondo che come cittadino del globo, in caccia di verità, ancor prima che come giornalista, io senta ora la mancanza di un protagonista della storia che i critici diranno che ha spesso sbagliato, ma nello stesso tempo si è sacrificato per rispettare i diritti e la dignità di tutti.
Se ne deve essere accorto anche il Papa quando un anno fa è andato in visita privata da Fidel, accompagnato solo da un monsignore e di conseguenza fornendo al mondo un esempio tangibile di sensibilità.
Quella sequenza che ho inserito nel film-documentario «Papa Francesco, Cuba e Fidel» testimonia una tenerezza emozionante. Il Pontefice prendendo la mano di Fidel lo ha esortato: Ehi, de vez en cuando tirame un Padre Nuestro («Qualche volta lanciami un Padre Nostro») ricevendo come risposta dallo stesso Fidel un inatteso: Lo recordaré («Me ne ricorderò»).
Quando 30 anni fa, una combinazione della vita, favorita da Gabriel Garcia Marquez e Jorge Amado (giurati al Festival del Cinema de La Habana), mi permise di conoscere Fidel Castro, mi resi conto subito della personalità di questo protagonista della storia.
Con una ovvia gentilezza gli chiesi prima dell’intervista se, come tutti i capi di Stato, desiderasse conoscere in anticipo le domande. Fu drastico: «No. Con la storia che abbiamo, possiamo aver paura delle parole?».
L’intervista, concessa successivamente, durò 16 ore e fu pubblicata con due prologhi, uno di Garcia Marquez e l’altro di Jorge Amado.
Durante la visita di Papa Francesco a Cuba, a settembre del 2015, ho visto il 90enne Fidel a sorpresa in sedia a rotelle, ma lucidissimo. Qualcuno gli aveva detto che con una troupe stavamo documentando quell’incontro inatteso e pieno di speranze. Ci convocò nella sua villetta e, oltre a spiegarci l’imbarazzante situazione dell’Europa sul problema dei migranti e dei diseredati, si espresse con molto entusiasmo riguardo al Pontefice argentino: «Il suo modo di essere non mi stupisce per niente - spiegò - perché essenzialmente si tratta di una persona molto onesta, molto sincera e disinteressata». È stata l’ultima volta che l’ho visto.
Avevo la promessa di andare, a metà dicembre, al «Festival del Cinema de La Habana» e di portargli una copia del documentario. Non ho avuto tempo di farlo, ma mi ha colpito, qualche mese dopo, il suo intervento al congresso del partito. Non tanto la frase: «Presto compirò 90 anni. Non mi aveva mai sfiorato una tale idea e non è stato il frutto di uno sforzo, è stato il caso. Presto sarò come tutti gli altri, il turno arriva per tutti».
Mi ha emozionato questa affermazione piena di speranza: «Rimarranno le idee dei comunisti cubani come prova che questo pianeta, se si lavora con fervore e dignità, è in grado di produrre i beni materiali e culturali di cui gli esseri umani necessitano... Alla gente dobbiamo trasmettere che il popolo cubano vincerà».
Fidel Castro: «Io sono la rivoluzione». Quell’ultima intervista concessa a Oliver Stone
di Oliver Stone l’Espresso 26.11.16:
I suoi nemici dicono che è stato un re senza corona e che ha confuso l’unità con l’unanimità.
E in questo i suoi nemici hanno ragione.
I suoi nemici dicono che se Napoleone avesse avuto un giornale come il <
E in questo i suoi nemici hanno ragione.
I suoi nemici dicono che esercitò il potere parlando molto e ascoltando poco, perchè era più abituato agli echi che alle voci.
E in questo i suoi nemici hanno ragione.
Però i suoi nemici non dicono che non fu per posare davanti alla Storia che mise il petto di fronte ai proiettili quando venne l’invasione, che affrontò gli uragani da uguale a uguale, da uragano a uragano, che sopravvisse a seicentotrentasette attentati, che la sua contagiosa energia fu decisiva per convertire una colonia in una patria e che non fu nè per un artificio del Demonio nè per un miracolo di Dio che questa nuova patria ha potuto sopravvivere a dieci presidenti degli Stati Uniti, che avevano il tovagliolo al collo per mangiarla con coltello e forchetta.
E i suoi nemici non dicono che Cuba è uno dei pochi paesi che non compete per la Coppa del Mondo dello Zerbino.
E non dicono che questa rivoluzione, cresciuta nel castigo, è quello che ha potuto essere e non quello che avrebbe voluto essere. Nè dicono che in gran parte il muro tra il desiderio e la realtà si fece sempre più alto e più largo grazie al blocco imperiale, che affogò lo sviluppo della democrazia cubana, obbligò la militarizzazione della società e concesse la burocrazia, che per ogni soluzione tiene un problema, l’alibi per giustificarsi e perpetuarsi.
E non dicono che considerando tutte le afflizioni, considerando le aggressioni esterne e l’arbitrarietà interna, questa isola rassegnata però testardamente allegra ha generato la società latino-americana meno ingiusta.
E i suoi nemici non dicono che questa impresa fu opera del sacrificio del suo popolo, però anche fu opera dell’ostinata volontà e dell’antiquato senso dell’onore di questo cavaliere che sempre combattè per i vinti, come quel suo famoso collega dei campi di Castilla.
Fidel a Obama, non abbiamo bisogno di regali dall’impero
Dura critica al discorso "mieloso" del presidente Usa a Cuba
diRedazione
ANSA L’AVANA
28 marzo 2016
"Non abbiamo bisogno che l’impero ci regali niente": è così che Fidel Castro commenta oggi la storica visita di Barack Obama a Cuba, in una delle sue abituali "riflessioni" pubblicate dalla stampa ufficiale, che sebbene è intitolata "fratello Obama" contiene una dura critica del discorso che il presidente Usa ha rivolto al popolo cubano.
Analizzando il contenuto del discorso "mieloso" di Obama, l’ex presidente cubano osserva ironicamente che "si suppone che ognuno di noi rischiava di soffrire un infarto nel sentire queste parole del presidente Usa", ed elenca una serie di denunce contro la politica di Washington, non solo riguardo a Cuba ma anche ricordando la guerra civile in Angola, alla quale hanno partecipato militari castristi, in quella che ha definito "una pagina onorabile nella lotta per la liberazione dell’essere umano".
"Che nessuno si illuda che il popolo di questo nobile e disinteressato Paese rinuncerà alla gloria e ai diritti, alla ricchezza spirituale che ha guadagnato con lo sviluppo dell’educazione, la scienza e la cultura", sottolinea il ’Lìder Maximo’, prima di aggiungere che "siamo capaci di produrre gli alimenti e le ricchezze materiali di cui abbiamo bisogno, grazie allo sforzo del nostro popolo: non abbiamo bisogno che l’impero ci regali niente".
Papa Francesco: il 12 febbraio storico incontro con il patrarca di Mosca Kyrill a Cuba
Lombardi, incontro con Kyrill preparato da tempo
di Redazione ANSA *
Il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill si incontreranno a Cuba il 12 febbraio, quando il Papa farà una tappa prima del viaggio in Messico. Lo annunciano congiuntamente Sante Sede e Patriarcato di Mosca, definendolo "storico incontro". I due si incontreranno all’aeroporto di Cuba e rilasceranno anche una dichiarazione comune.
"La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca - si legge nel comunicato congiunto, che è stato letto ai giornalisti da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana - hanno la gioia di annunciare che, per grazia di Dio, Sua Santità Papa Francesco e Sua Santità il Patriarca Kirill di Mosca e di tutta la Russia, si incontreranno il 12 febbraio. Il loro incontro avrà luogo a Cuba, dove il Papa farà scalo prima del suo viaggio in Messico, e dove il Patriarca sarà in visita ufficiale. Esso comprenderà un colloquio personale presso l’aeroporto internazionale José Martí dell’Avana e si concluderà con la firma di una dichiarazione comune". "Questo incontro - prosegue la nota - dei Primati della Chiesa cattolica e della Chiesa ortodossa russa, preparato da lungo tempo, sarà il primo nella storia e segnerà una tappa importante nelle relazioni tra le due Chiese. La Santa Sede e il Patriarcato di Mosca auspicano che sia anche un segno di speranza per tutti gli uomini di buona volontà. Invitano tutti i cristiani a pregare con fervore affinché Dio benedica questo incontro, che possa produrre buoni frutti".
L’ incontro tra il Papa e il patriarca di Mosca Kyrill è stato "preparato da lungo tempo", afferma il comunicato congiunto Santa Sede-Patriarcato di Mosca, letto da padre Federico Lombardi in sala stampa vaticana. "Sono lieto - ha detto il portavoce - di poter leggere un importante comunicato, lo leggerò in quattro lingue, e ho aspettato le 12,10 perché è congiunto con il patriarcato di Mosca".
L’ARCS a Cuba: una realtà solida e in piena crescita
di Federico Mei (ARCS culture solidali, 17.12.2015)
Sarà un 2016 carico di aspettative oltre che di speranze per il popolo Cubano che, pur orgoglioso del proprio passato, è ormai proiettato verso un futuro ancora tutto da scrivere.
In questo processo l’ARCS c’è e, anche grazie al sostegno di molti comitati territoriali ARCI, e il riconoscimento dei suoi partner Cubani, si appresta ad iniziare un nuovo anno con rinnovate energie solidali.
Il panorama di interventi in corso o in fase di avvio, così come di quelli in costruzione è ampio e va dall’impegno per la sovranità alimentare dell’isola attraverso la promozione di un’agricoltura sostenibile e inclusiva, alle azioni dirette alla salvaguardia del patrimonio storico-culturale così come alla promozione di processi socio-culturali e scambi tipici del nostro tessuto associativo. Innovazione e sperimentazione, partnership strutturate e di alto livello, coinvolgimento di comitati e territori Arci, dialogo e partecipazione dei beneficiari e delle istituzioni locali sono da sempre gli ingredienti che caratterizzato la progettualità di ARCS e che anche per il 2016 saranno alla base degli interventi proposti.
Mentre è in corso una importante esperienza di sostegno all’agricoltura urbana e sub-urbana nel Municipio di Pinar del Rio, che vede l’utilizzo di energie rinnovabili e tecniche sostenibili per la produzioni di alimenti per la popolazione, l’ARCS avvierá nel 2016 un intervento nel Municipio di Mantua diretto a migliorare la produzione locale di latte destinato a fini sociali. Mantua, il cui nome deriva da un gruppo di migranti Mantovani stabilitisi qui dopo un naufragio, è un piccolo municipio della provincia di Pinar del Rio che, anche per la conformazione del territorio, risulta uno dei piú isolati e dove piu importanti sono le conseguenze della scarsezza di prodotti alimentari, come il latte, nei periodi di bassa produzione anche a causa delle difficoltà di trasporto. In collaborazione con il partner ACTAF e con il sostegno delle istituzioni locali, si realizzerà quindi un piccolo progetto pilota diretto a migliorare i rendimenti della produzione di latte di 4 cooperative destinato a fini sociali come ospedali, asili, scuole primarie e categorie protette operando sull’alimentazione delle mandrie attraverso un uso più efficiente dei pascoli e inserendo tecniche di conservazione delle derrate per i periodi di secca.
Anche in questo caso il principio ispiratore dell’intervento ARCS è quello della sostenibilità e di proporre progetti pilota con aspetti innovativi promuovendo la messa a “sistema” delle esperienze e delle buone prassi nell’ottica della massimizzazione dell’impatto.
Non solo produzione comunque. Con il supporto di Arci Lecco e Arci Liguria, sempre a Pinar del Rio, si realizzeranno laboratori diretti a sensibilizzare le giovani generazioni sui principi dell’agricoltura sostenibile cos¡ come su aspetti di rispetto ambientale. Le grandi ristrettezze economiche degli ultimi 25 anni infatti, hanno promosso sull’isola importanti esperienze di riciclo e riutilizzo di materiali così come l’applicazione di tecniche agricole sostenibili (ampio uso di fertilizzanti e antiparassitari organici) e una forte attenzione al rispetto ambientale che il processo di rinnovamento in corso rischia di ridimensionare. Ecco quindi l’importanza di mantenere viva l’attenzioni su queste tematiche utilizzando anche strumenti tipici del settore culturale come le arti plastiche e visive.
L’impegno per la sovranità alimentare del paese, aspetto di primaria importanza per il benessere della popolazione, non è affrontata solo con progetti promossi direttamente da ARCS ma anche con interventi più ampi condivisi con le altre Ong internazionali presenti sul territorio insieme ai partner locali di settore. È da più di un anno infatti che 12 Ong europee, tra cui l’ARCS, stanno costruendo un grande programma paese che prende spunto dagli importanti risultati ottenuti dagli interventi della società civile europea negli ultimi anni e che parte dal protagonismo dei territori, come i Municipi e il comparto contadino, in contrapposizione con i grande programmi degli organismi internazionale che al contrario vengono concordati dall’alto.
Anche nel campo della salvaguardia patrimoniale ARCS è stata invitata a rinnovare il proprio impegno dopo l’importante intervento realizzato con l’Officina de l’Historiador de la Habana diretto all’uso di tecnologie innovative per migliorare il lavoro di restauro e conservazione del patrimoni storico dell’Havana Vecchia.
È infatti in corso la costruzione di un nuovo intervento che punterà molto sulla realizzazione di percorsi formativi stabili per i tecnici cubani nell’uso di nuove tecnologie cosi come azioni dirette all’uso delle stesse per fini educativi nel campo della museologia, dell’educazione ambientale della valorizzazione dell’identitá culturale. Le aperture in corso e l’interesse del nostro mondo imprenditoriale per l’isola, soprattutto nel settore del restauro e della conservazione, ribadite anche nel corso della visita del nostro Primo Ministro, fanno inoltre sperare in un futuro ricco di collaborazioni in particolare con quelle imprese che, pur con un occhio ai profitti, non mettono in secondo piano la sostenibilità tanto ambientale che sociale di cui il popolo cubano va fiero e per le quali l’ARCS puo sicuramente rappresentare un importante interlocutore.
Non dimentichiamo infine il settore culturale dove il grande interesse suscitato dal progetto Santa Fè vede l’associazione impegnata in un processo di arricchimento della relazione con le giovani generazioni della AHS - Associazione Hermanos Saiz , associazione che riunisce i giovani artisti cubani, che vanno dalla promozione di scambi culturali, la partecipazione ad eventi culturali tanto a Cuba che in Italia come progetti diretti a rafforzare il ruolo di promozione dell’arte giovane della AHS.
Lettera dall’Avana
Cuba inaugura l’era Francesco
Il Papa argentino è cresciuto in un ambiente socio-culturale in cui è forte la domanda di una dignità negata: i legami dell’isola con l’America Latina, il ruolo attivo della Chiesa
di Franco Avicolli (Il Sole-24 ore, Domenica, 24.05.2015)
La partecipazione di Raúl Castro ai festeggiamenti per il 75° anniversario della vittoria dell’esercito russo sul nazifascismo, gli incontri con il papa Francesco e poi con Renzi nel breve tempo di una mattinata e il rapido ritorno a Cuba per ricevere Hollande, sono i segni della grande offensiva internazionale di Cuba avviata con la riapertura dei rapporti con gli Usa. Si tratta della volontà di ricollocare il Paese caraibico nel panorama internazionale forse con volontà di bilanciare con l’Europa i possibili squilibri che potrebbero nascere nel rapporto con il potente vicino del nord.
L’azione politica e diplomatica mostra un Raúl Castro solido e capace di gestire il passaggio delicato con la stessa autorità con cui lo faceva suo fratello Fidel. E ciò dopo un ciclo in cui era legittimo chiedersi se i cinquanta anni della Rivoluzione cubana fossero trascorsi all’ombra del líder máximo e con la conseguenza che tutto il resto dovesse muoversi in sottordine. Raúl ostenta autorevolezza e disinvoltura e chiarisce che la Cuba che è venuta fuori dal período special succeduto alla crisi dell’Urss e con Fidel Castro non più sulla scena è consapevole del cammino difficoltoso intrapreso.
La seconda questione è che Cuba è in grado di richiamare l’attenzione e di suscitare domande. Lo testimonia la rilevanza con cui i mass media trattano l’evento in corrispondenza ovvia dell’importanza che danno ad esso i Paesi interessati ribadendo ancora una volta che Cuba è un fenomeno quanto meno culturale per la sua capacità di andare oltre le righe e di imporsi all’attenzione, malgrado la sua importanza economica non sia tale..
La terza questione è la centralità che hanno in tutto il progetto la Chiesa di Roma e il papa Francesco, che in settembre visiterà Cuba. Il papa è argentino ed è cresciuto in un ambiente sociale e culturale in cui è forte la domanda storica di una dignità negata e non è casuale che Bergoglio abbia posto il tema della dignità dell’uomo al centro del suo magistero. Orbene, il papa sa bene quale ruolo ha avuto Cuba in America Latina nella lunga storia di quella regione per l’affermazione di identità e dignità negate. E il papa e Cuba sanno ambedue che uno dei grandi protagonisti della vicenda storica che ha aperto un nuovo cammino nei rapporti tra gli Usa e l’America Latina è l’argentino Ernesto Che Guevara.
Sono questioni che hanno valenza civile e culturale che ribadiscono che c’è una convergenza tra la Chiesa di Roma e Cuba e che questa si verifica sul tema della dignità dell’uomo che purtroppo non ha molti protagonisti sulla scena politica nazionale e internazionale e di cui la tragedia delle migrazioni è un esempio fin troppo evidente.
La questione non è estranea al rapporto fra Cuba e gli Usa che storicamente ha avuto atteggiamenti di arroganza verso il Paese caraibico dalla dottrina Monroe e dalla progettazione esecutiva illustrata con la Conferenza Panamericana di Washington del 1889-90. L’azione degli Stati Uniti è stata sempre di contrapposizione e di sovrapposizione ai legittimi processi di indipendenza che i Paesi dell’America Latina avviarono agli inizi dell’Ottocento e rimasti sostanzialmente frustrati per la loro invadenza condizionante e tutt’altro che pacifica. Nel caso di Cuba e del suo processo di indipendenza che si realizza tra il 1895 e il 1898 c’è addirittura l’aggravante dell’intervento diretto che espropria il Paese caraibico anche della gloria di una guerra vinta sul campo dall’esercito libertador dei cubani e il peso dell’emendamento Platt che legittima l’intervento degli Usa secondo valutazioni di suo interesse.
Ma se il problema dei rapporti Cuba-Usa ha una sua forte valenza culturale, bisogna anche considerare che a Cuba l’assunzione di una coscienza storica e di dignità non sono un’esclusiva dell’apparato dello Stato e del mondo culturale cubano cosiddetto ufficiale.
La rivoluzione cubana ha generalizzato il diritto all’istruzione, il diritto alla salute e al lavoro e ad altri diritti che hanno permesso una crescita straordinaria delle generazioni che dopo il 1959 hanno potuto giovarsene. Ed è accaduto che il problema storico dei rapporti con gli Usa che la rivoluzione castrista ha dovuto affrontare e subire, sia diventato anche un problema della società cubana oggi più istruita e più consapevole della problematica economica e sociale in cui si ritrova. E del suo mondo culturale che si caratterizza, come dappertutto, con azioni e protagonismi soggettivi a volte scomodi soprattutto per un sistema politico dove i fattori ideologici hanno un ruolo di rilievo.
Insomma si è verificato che degli intellettuali e degli artisti siano interessati all’essere cubano e al suo destino oltre lo spazio tracciato dallo Stato in senso temporale e ideale. Per cui sulla scena del Paese ci sono non solo la dignità generata dalla rivoluzione castrista, ma anche quella di altri momenti della storia di Cuba, come ha voluto dire Mario Coyula con il romanzo Catalina che recupera l’importanza culturale di una borghesia nata dalla guerra per l’indipendenza e cancellata forse più per pigrizia che per necessità. O come scrivono di altre questioni anche ideologiche, scrittori come Leonardo Padura che è una voce dissonante che però si riconosce in una valenza tutta interna al Paese e ben radicata.
Se negli anni Sessanta un regista come Tomás Gutiérrez Alea (Titón) faceva un film come Memorie del sottosviluppo tratto dal romanzo omonimo di Edmundo Desnoes che faceva un viaggio introspettivo di un borghese in una società nell’effervescenza rivoluzionaria, oggi l’eco di quell’atteggiamento dello stesso Desnoes è Memorie dello sviluppo che entra invece nell’inquietudine di un intellettuale non più affascinato dalla rivoluzione senza però esserne un nemico. E si tratta anche di vicende personali dello scrittore andato negli Stati Uniti dove ha vissuto tra il 1980 e il 2003 e del regista Miguel Coyula che ne ha tratto un film. L’uno e l’altro vivono oggi a Cuba.
Fra i valori della dignità culturale di Cuba non è possibile non dare il giusto rilievo a uno dei giganti della letteratura cubana e mondiale come José Lezama Lima di fede cattolica, come i poeti Cintio Vitier, Fina García Marruz ed Eliseo Diego. La Rivoluzione cubana ha permesso di indagare sullo spessore storico del Paese e le nuove generazioni hanno riscoperto l’importanza di un passato come è accaduto con il corposo recupero dell’Avana vecchia avvenuto per merito della determinazione di un altro cattolico, Eusebio Leal che ha creato un modello per altre possibili azioni similari.
Hanno quindi la loro importanza il rapporto storico tra i due Paesi e il ruolo che Cuba intende dare al proprio mondo culturale nella ricostruzione del rapporto con gli Usa. C’è un problema di carattere quantitativo perché lo scambio del prodotto culturale, poniamo per esempio il cinema, non può essere lasciato alla massima libertà del tipo «noi vi diamo quello che facciamo e voi quello che fate» perché a questo livello ogni possibile dialogo diverrebbe un monologo e un accenno in questo senso di una trentina di anni fa, non ebbe seguito appunto per questo.
Ma se il problema è quantitativo nel rapporto bilaterale, esso è qualitativo relativamente al ruolo che avrà il mondo culturale cubano proprio nella definizione della dignità dell’uomo. In questi anni numerosi intellettuali cubani hanno visitato gli Usa e non sono mancati intellettuali americani che sono stati a Cuba. Il più importante testo sulla Scuola Nazionale dell’Arte Revolution of Forms. Cuba’s Forgotten Art Schools è stato scritto dallo storico dell’architettura statunitense John Loomis. Ma si tratta comunque di episodi da ambo le parti. Ora si tratta di mostrare quale faccia intende far vedere Cuba al mondo e quale vogliono vedere gli Usa e se, appunto, nella costruzione di un rapporto in cui la cultura sarà chiamata a svolgere un ruolo qualitativamente importante, le pendenze storiche di ambedue i Paesi agiranno come condizionante o se la nuova fase aprirà le porte a un atteggiamento culturale davvero nuovo.
Credo che questo fattore sia decisivo non solo per le sorti di Cuba, ma forse dell’intero rapporto che gli Usa hanno con l’America Latina. E l’azione della Chiesa di Roma avrà un ruolo fondamentale.
Un pontefice romano a Cuba. Il diavolo e l’acqua santa
risponde Sergio Romano (Corriere della Sera, 30.11.2016)
Caro Massa,
Fidel Castro aveva studiato in un istituto dei gesuiti e non aveva avuto, nel corso della gioventù, una formazione strettamente marxista. Il suo rapporto con l’Unione Sovietica, dopo la definitiva rottura delle relazioni con Washington, era stato un matrimonio di convenienza. Per sopravvivere, a 150 chilometri da un Paese ostile ed enormemente potente, il leader cubano aveva bisogno di un adeguato protettore e dovette ritenere che il suo rapporto con l’Unione Sovietica sarebbe stato tanto più stretto quanto più l’isola avesse accettato di esibire tutti i segni distintivi dei regimi comunisti. Ma le riforme fallite di Michail Gorbaciov e il crollo del sistema sovietico all’inizio degli anni Novanta ebbero per la economia cubana effetti disastrosi. Privato degli sbocchi commerciali che l’Urss offriva ad alcuni prodotti tipici dell’isola (soprattutto zucchero e sigari) e degli aiuti finanziari provenienti da Mosca, il castrismo corse il rischio di essere travolto da una crisi di regime.
Furono queste le ragioni per cui Castro dovette rivedere i rapporti internazionali dell’isola e, nel novembre del 1996, approfittò di una Assemblea generale della Fao (l’organizzazione mondiale dell’Agricoltura e della Alimentazione) per un viaggio a Roma. Non vi sarebbe stata un’udienza papale poco più di un anno dopo, tuttavia, se anche Giovanni Paolo II non avesse avuto interesse a stabilire migliori rapporti con Cuba. Nell’America del Sud, in quegli anni, la Chiesa Romana sapeva di essere minacciata da due pericoli. Il primo era la Teologia della Liberazione, una sorta di marxismo cristiano che Giovanni Paolo II, probabilmente, detestava più del comunismo; il secondo era lo straordinario successo delle confessioni evangeliche in terre che erano state lungamente dominate dalla Chiesa cattolica. Una più forte presenza a Cuba le avrebbe permesso di resistere meglio a questo duplice pericolo.
Giunsero anni, più tardi, in cui Castro, dopo l’ascesa al potere di Hugo Chavez a Caracas, poté contare sulla straordinaria generosità del caudillo venezuelano e sulle sue forniture di petrolio a prezzo scontato. Ma la morte di Chavez e la crisi venezuelana hanno chiuso il rubinetto degli aiuti e costretto i fratelli Castro ad approfittare della presenza di Barack Obama alla Casa Bianca per fare un passo decisivo verso la riconciliazione con gli Stati Uniti: un evento in cui probabilmente papa Francesco ha avuto una parte importante. Il prossimo capitolo della storia cubana comincerà nel 2018 quando Raul Castro, come ha annunciato dopo la morte del fratello, rinuncerà a chiedere un nuovo mandato.
Oblò cubano: http://www.tellusfolio.it/index.php?lev=65&color=blue
Magari interessa
Gordiano Lupi www.infol.it/lupi
P.S.: gusanos vuol dire vermi, non virus...