"In difesa delle cause perse" il nuovo saggio del filosofo
Idea provocatoria: "Nonostante i crimini, l’aspirazione di redenzione dei totalitarismi può essere utile"
In tempo di crisi e rotture, si deve rischiare un Salto di Fede
La disperazione di chi ha combattuto i vecchi paradigmi estremisti
Perché servono le utopie
"Torniamo al pensiero forte"
di Slavoj Zizek (la Repubblica, 29.4.09)
Il senso comune della nostra epoca ci dice che, rispetto alla vecchia distinzione tra doxa (opinione accidentale/empirica, Saggezza) e verità o, ancora più radicalmente, tra conoscenza positiva empirica e fede assoluta, si dovrebbe tracciare una linea tra ciò che si può pensare e si può fare oggi. Sul piano del senso comune, il punto più lontano a cui si può arrivare è un liberalismo conservatore illuminato: ovviamente non ci sono alternative praticabili al capitalismo; allo stesso tempo, lasciata a se stessa la dinamica capitalistica minaccia di minare le proprie fondamenta. (...)
All’interno di questo orizzonte, la risposta non è né un liberalismo radicale alla Hayek, né un crudo conservatorismo, sempre meno aderente ai vecchi ideali dello Stato sociale, ma una miscela tra liberalismo economico e un minimo spirito «autoritario» di comunità (l’enfasi sulla stabilità sociale, i «valori» eccetera) che controbilanci gli eccessi del sistema - in altre parole ciò che hanno sviluppato i socialdemocratici della Terza Via, come Blair.
Questo è il limite del senso comune. Ciò che sta dietro di esso implica un Salto di Fede, una fede nelle Cause perse, Cause che, dall’interno dello spazio della saggezza scettica, non possono che apparire folli. E questo libro parla dall’interno di questo Salto di Fede. Ma perché? Il problema, ovviamente, è che in un tempo di crisi e rotture, la stessa saggezza empirica scettica, costretta nell’orizzonte della forma dominante del senso comune, non può fornire delle risposte, e dunque si deve rischiare un Salto di Fede. Questo passo è il passo da «io dico la verità» a «la verità stessa parla (in/attraverso di me)» (come nel «mathema» lacaniano del discorso dell’analista, in cui l’agente parla da una posizione di verità), sino al punto in cui posso dire, come Meister Eckhart, «è vero, e la verità stessa lo dice». Sul piano della conoscenza positiva, ovviamente, non è mai possibile raggiungere la verità o essere sicuri di averlo fatto - ci si può solo approssimare senza fine, poiché il linguaggio è in ultima istanza autoreferenziale, non c’è modo di tracciare una linea definitiva di separazione tra sofismi, esercizi sofistici, e la Verità stessa (questo è il problema di Platone). La scommessa di Lacan è, in questo senso, la stessa di Pascal: la scommessa della Verità. Ma in che modo? Non correndo appresso a una verità «oggettiva», ma basandosi sulla verità riguardo alla posizione da cui si parla.
Esistono solo due teorie che implicano e praticano una nozione così impegnata di libertà: il marxismo e la psicoanalisi. Sono entrambe teorie di lotta, non solo teorie sulla lotta, ma teorie esse stesse impegnate in una lotta: le loro storie non consistono in un’accumulazione di conoscenza neutra, sono al contrario segnate da scismi, eresie, espulsioni. (...) Normalmente ci si dimentica che i cinque grandi resoconti clinici di Freud sono al fondo resoconti di un successo parziale e di un fallimento finale; nello stesso modo, i più grandi racconti storici marxisti di eventi rivoluzionari sono racconti di grandi fallimenti (della guerra dei contadini in Germania, dei giacobini nella Rivoluzione francese, della Comune di Parigi, della Rivoluzione d’ottobre, della Rivoluzione culturale cinese). Una tale analisi dei fallimenti ci mette di fronte al problema della fedeltà: come riscattare il potenziale emancipatore di questi fallimenti evitando la doppia trappola dell’attaccamento nostalgico al passato e dell’adattamento un po’ troppo furbo alle «nuove circostanze»?
Il tempo di queste due teorie sembra concluso. Come ha affermato recentemente Todd Dufresne, nessun personaggio nella storia del pensiero umano ha commesso più errori rispetto a tutti i fondamentali della propria teoria di Freud - con l’eccezione di Marx, qualcuno potrebbe aggiungere. E infatti nella coscienza liberale le due teorie emergono come i maggiori «complici del crimine» del ventesimo secolo: com’era prevedibile, nel 2005, il famigerato Libro nero del comunismo, che elencava tutti i crimini comunisti, è stato seguito dal Libro nero della psicoanalisi, contenente l’elenco di tutti gli errori teorici e gli inganni clinici della psicoanalisi. Anche se in modo negativo, la profonda solidarietà tra marxismo e psicoanalisi è ora sotto gli occhi di tutti. Tuttavia, ci sono dei segnali che disturbano questo autocompiacimento postmoderno. Commentando la crescente risonanza del pensiero di Badiou, Alain Finkelkraut lo ha recentemente definito «la filosofia più violenta, sintomatica di un ritorno di radicalità e della crisi dell’antitotalitarismo»: un’onesta e sorpresa ammissione di fallimento del lungo e arduo lavoro di tutti i difensori «antitotalitari» dei diritti umani, che hanno combattuto contro «i vecchi paradigmi estremisti», dai nouveaux philosophes francesi ai sostenitori di una «seconda modernità». Ciò che sarebbe dovuto essere morto, liquidato, del tutto screditato, sta ritornando per vendicarsi. Questa disperazione è comprensibile: com’è possibile che questo genere di filosofia stia ritornando nella sua forma più violenta? La gente non ha ancora capito che il tempo di queste pericolose utopie è finito? La nostra proposta è di rovesciare la prospettiva: come affermerebbe Badiou nella sua originale maniera platonica, le idee vere sono eterne, sono indistruttibili, fanno sempre ritorno ogni qual volta vengano proclamate morte. Questo è sufficiente a Badiou per affermare nuovamente queste idee in maniera chiara, e il pensiero antitotalitario si mostra in tutta la sua miseria per ciò che realmente è, un esercizio sofistico privo di valore, una pseudo-teorizzazione delle paure e degli istinti di sopravvivenza più meschini e opportunisti, un modo di pensare che non solo è reazionario ma anche profondamente reattivo nel senso nietzschiano del termine.
Un paio d’anni fa, la rivista Premiere riportava un’inchiesta intelligente sul modo in cui i finali famosi dei film di Hollywood erano stati tradotti in alcune delle maggiori lingue non inglesi. In Giappone, il «Francamente, mia cara, me ne infischio» di Clark Gable a Vivien Leigh da Via col vento era reso con: «Mia cara, temo che fra di noi ci sia un piccolo malinteso» - un omaggio alla proverbiale cortesia ed etichetta giapponese. Al contrario, il cinese (nella Repubblica popolare cinese) traduceva il «Questo è l’inizio di una bella amicizia!» di Casablanca con «Noi due costituiremo ora una nuova cellula di lotta antifascista!» - essendo la lotta antifascista la priorità maggiore, ben al di sopra delle relazioni personali. Per quanto possa sembrare che questo volume ceda spesso ad affermazioni eccessivamente polemiche e «provocatorie» (cosa potrebbe essere più «provocatorio» oggi di mostrare una sia pur minima simpatia o comprensione per il terrore rivoluzionario?), esso pratica piuttosto uno spostamento nel modo degli esempi citati in Premiere: laddove la verità è che me ne infischio del mio avversario, dico che c’è un piccolo malinteso; laddove la posta in gioco è un nuovo condiviso campo di battaglia politico-teorico, può sembrare che io stia parlando di amicizie e alleanze accademiche. In questi casi, spetta al lettore risolvere il rebus che giace di fronte a lui.
(c) 2008 Traduzione di Cinzia Azzurra
Pubblicato in Italia da Ponte alle Grazie
Sul tema, nel sito, si cfr.:
SLAVOJ ZIKEK E LE RADICI CRISTIANE (NON CATTOLICO-COSTANTINIANE).
HANS BLUMENBERG CI SOLLECITA: "USCITE DALLA CAVERNA"!
HEIDEGGER, IL FILOSOFO DEL "CATTOLICESIMO" NAZISTA, CERCA L’USCITA DALLA CAVERNA HITLERIANA.
di Evelyne Pieiller (traduzione dal francese di José F. Padova)
Quando l’ideale comunista sembrava sorpassato, un filosofo che vi si richiama trova un’eco sorprendente, anche all’estero. Ora Alain Badiou, che s’interroga circa le condizioni della vera uguaglianza, afferma la necessità di una rottura radicale con il consenso democratico.
Dal Philosophie Magazine ai «caffè filosofici» (ndt.: iniziativa sorta qualche anno fa a Parigi: libera discussione filosofica, aperta a tutti, che si svolge in locali pubblici,un poco come un tempo i café litteraires, con orario e argomento precisi e animatore competente. Stanno diffondendosi in tutto il mondo - http://fr.wikipedia.org/wiki/Caf%C3%A9_philosophique), già da qualche tempo la filosofia esce dalla sua torre d’avorio per ridare un senso alla fatica di vivere. Dapprima coinvolta nel campo, raramente compromettente, della morale, oggi essa lo è anche in quello politico. Segno dei tempi, alcune brecce cercano di farsi strada nella melanconica impotenza suscitata dalla famosa coppia “legge del mercato - fine delle ideologie”.
Nulla di sorprendente quindi nel ritorno della questione dell’impegno, che corrobora la ripresa della curiosità per Jean-Paul Sartre o Albert Camus. D’altro canto, al di là della seduzione esercitata dal vigore di pamphlet del breve [libro] De quoi Sarkozy est-il le nom ? (1),, la risonanza delle opere recenti di Alain Badiou era poco prevedibile: non già perché vi si esprime una critica del capitalismo - che non è più un’anomalia nel nostro disorientato tempo-, ma perché questa è collegata a un elogio del comunismo, «questa vecchia parola magnifica», secondo la sua definizione, che la storia sembrava aver reso sinonimo di fallimento e di dispotismo. L’attuale diffusione di Badiou indicherebbe dunque che le invocazioni alla moralizzazione del sistema non sono più sufficienti, ma che la lotta contro la rassegnazione cerca di procurarsi sogni e armi. Rimane da esaminare ciò su cui si basa questa alternativa radicale della quale egli è oggi l’enunciatore riconosciuto, da pari a pari con il suo grande interlocutore Slavoj Žižek .
Badiou non intende definire un programma, bensì fare uso della filosofia come di una «forza per la destabilizzazione delle opinioni dominanti» e imporne la «pertinenza rivoluzionaria (2)», dimostrando in primo luogo il «legame interno fra il capitalismo dominante e la democrazia rappresentativa (3)». Poiché quest’ultima ammette «avversari, ma non nemici», nessuno può «esservi portatore di un’altra visione delle cose, di un’altra regola del gioco che non sia quella dominante (4)» - vale a dire il rispetto delle libertà individuali, fra le quali quella d’intraprendere, di essere proprietario, ecc. Iscriversi nel dibattito democratico significa accettarne le intrinseche limitazioni, che impediscono di pensare al di fuori di questi valori. Ora, questi valori sono anche quelli del capitalismo. Non può quindi esservi altro come programma politico se non «la definizione gestionale del possibile (5)», il possibile racchiuso nei limiti della proprietà privata... Partiti e sindacati sono votati, logicamente, a essere collaboratori del parlamentarismo capitalistico e la sinistra rivela così la sua «bassezza costitutiva». La libertà di pensiero e di scelta offerta dal liberalismo come dal riformismo è illusoria, fino a comprendere la sua espressione mediante il suffragio universale. Poiché l’individuo è sottoposto alle influenze, agli egoismi, alle ignoranze, la «ricorrente stupidità del numero», altrimenti detta legge della maggioranza, non può essere altro che tirannia dell’opinione.
Niente di rivoluzionario in questo banale disprezzo delle «elite», convinte di essere le sole dotate d’intelligenza. Salvo che Badiou lo giustifica nel nome stesso di un ideale rivoluzionario: quello dell’uguaglianza vera, ciò che implica che «gli altri esistono esattamente come me». Lo ostacola quello che egli chiama «l’animalità»: l’attaccamento a sé, alla propria identità, questo cattivo fondo spontaneamente portato a preferirsi e che si sviluppa nel possesso. Suffragio universale, suffragio degli ego...
Qui si ritrova una costante del pensiero di destra, che si appoggia su questa stessa definizione della natura umana come avida ed egocentrica per «naturalizzare» il capitalismo». Badiou, da parte sua, malgrado tutto salva questa povera «specie animale che tenta di superare la sua animalità (6)», accordandole l’attitudine alla trascendenza, vale a dire la capacità di subordinare le necessità egoistiche a principi, a verità che valgono per tutti. D’altronde è qui il fondamento stesso della democrazia, che postula come ogni persona sia dotata di ragione, dipendendo dalla società (in particolare mediante l’insegnamento) fargli avere i mezzi per imparare a farne uso, allo scopo di emanciparsi dalla confusione delle pulsioni e da altri fattori d’opinione. Ma, per Badiou, l’uscita dalla caverna dell’ego non è né progressiva né programmabile. Essa ha luogo nello shock di un incontro con ciò che egli chiama «l’avvenimento». Un atto, storico, artistico o amoroso, all’improvviso fa «apparire una possibilità che era invisibile o perfino impensabile (7)», lacerando il consenso sul valore sovrano attribuito a ciò che singolarizza l’individuo piuttosto che a ciò ch’egli ha di universale. Questo svelamento repentino permette di strapparsi alla «finitezza animale delle identità», di salutare finalmente la fondamentale eguaglianza degli esseri umani: di entrare nella trascendenza.
Questa folgorante apertura di possibilità pone qualche domanda: da dove viene lo staccarsi improvviso dall’errore per salutare la verità? Per quale sorte si è «eletti»? L’attivazione della trascendenza assomiglia stranamente alla «grazia» e l’effetto trasfigurante della verità non esclude l’evocazione di una conversione. Non si può fare a meno di approvare Žižek , grande conoscitore dell’opera di Badiou, quando sottolinea che «la rivelazione religiosa costituisce il suo paradigma inconfessato (8)». L’«ipotesi comunista» sarebbe quindi l’altro nome dell’amore, questa «esperienza personale dell’universalità possibile (9)», al quale il filosofo platonico, dopo aver scritto su san Paolo, ha dedicato un libro di interviste?
Allora si comprende meglio perché non è la classe operaia che gli importa, ma il povero ultimo, simbolizzato dagli operai immigrati, e ancor più dai sans-papiers [ndt.: così sono chiamati in Francia i clandestini] - i quali «devono essere onorati, perché a nome di noi tutti organizzano l’affermazione di un pensiero diverso circa la vita umana (10)». Si comprende anche meglio perché per esistere il comunismo dovrà darsi gli strumenti per «controllare l’influsso dell’identità», sempre minaccioso, a pena di non poter mantenere una società realmente ugualitaria. Ma chi saprà giudicare che una simile scelta, un tale proposito, è portatore d’ineguaglianza, se non un’aristocrazia d’illuminati - i filosofi, detentori della verità? «Senza Idea, il disorientamento delle masse popolari è ineludibile (11)». Certamente dovrà arrivare il giorno, «forse fra mille o duemila anni, in cui la società sarebbe educata, nell’accezione platonica del termine (12)», vale a dire che tutti sarebbero filosofi. Ma aspettando questo Eden, bisognerebbe imporre il bene comune. Questo non sgomenta colui che ha sempre considerato come «il nostro debito verso la Rivoluzione culturale rimane immenso» e approva la domanda di Saint-Just: «Che cosa vogliono coloro che non vogliono né la Virtù né il Terrore», se non la democrazia priva di uguaglianza...?
L’«ipotesi» di Badiou a lungo termine fa quindi alquanto rabbrividire. Nell’immediato, per contro, questo «comunismo» non turba per nulla l’ordine istituito. Gli attacchi contro un suffragio universale «populista» non possono soddisfare gli adepti della «governance», che raramente sono rivoluzionari; il rifiuto di qualsiasi azione nel quadro di un partito o di un sindacato non può altro che rallegrare i detentori del sistema. Ma, soprattutto, l’affermazione spiritualista di una rivelazione della verità assoluta sembra non offrire più altro se non un comunismo sbarazzato dal marxismo, tento ben estratto dalla storia che ne è adornato del fascino poetico delle utopie inoffensive.
(1) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, Circonstances, 4, Lignes, Paris, 2007.
(2) Alain Badiou, Second Manifeste pour la philosophie, Fayard, coll. « Ouvertures », Paris, 2009.
(3) Alain Badiou et Alain Finkielkraut, L’Explication. Conversation avec Aude Lancelin, Lignes, 2010.
(4) France Culture, 27 février 2010.
(5) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit.
(6) « L’hypothèse communiste - interview d’Alain Badiou par Pierre Gaultier», www.legrandsoir.info
(7) Alain Badiou, L’Hypothèse communiste, Circonstances, 5, Lignes, 2009.
(8) Slavoj Žižek , Le Sujet qui fâche, Flammarion, Paris, 2007.
(9) Alain Badiou (avec Nicolas Truong), Eloge de l’amour, Flammarion, coll. «Café Voltaire », Paris, 2009.
(10) Alain Badiou, De quoi Sarkozy est-il le nom ?, op. cit.
(11) Alain Badiou, L’Hypothèse communiste, op. cit.
(12) Alain Badiou et Alain Finkielkraut, L’Explication, op. cit.
* Le Monde Diplomatique, gennaio 2011, pagg. 26/27
Il pensiero fortissimo di Slavoj Zizek
È considerato tra i pensatori più influenti in circolazione. Detesta i postmoderni e ama Marx, Freud e Lacan. Ora escono tre suoi libri
Bisogna smetterla con la favola che non esistono più punti di vista, che la verità ci sfugge da ogni parte Dio e la storia non erano morti, come in molti hanno proclamato. Si erano rifugiati nell’inconscio
di Antonio Gnoli (la Repubblica, o4.07.2009)
Slavoj Zizek è un pensatore complesso e uno scrittore prolifico. Tre suoi libri sono apparsi in queste settimane: In difesa delle cause perse (Ponte alle Grazie, pagg. 521, euro 26). Lacrimae rerum (Scheiwiller, pagg.388, euro 18) e Leggere Lacan (Bollati Boringhieri, pagg. 136, euro 15). Questo sessantenne sloveno è un filosofo di successo. Qualche tempo fa il settimanale Time lo ha eletto tra i pensatori più influenti in circolazione.
È un riconoscimento rivelatore dello stato d’animo di un certo pensiero americano che comincia a interrogarsi su questioni forti come la guerra, il terrorismo e la crisi economica. Non si può continuare a far finta di niente o affidarsi alla musa dell’ironia. Perciò basta con le pratiche decostruzioniste (alla Derrida), fuori le tematiche postmoderne (alla Lyotard). Via anche i neocon. Meglio bussare alla porta di Zizek. Le sue analisi del contemporaneo non rinunciano all’idea di soggetto (anche se scabroso), non temono il ricorso al passato e ai suoi autori. I preferiti sono Cartesio e Spinoza, Hegel e Marx. Sguazza a suo agio nella modernità.
C’eravamo dentro nel Seicento, ci stiamo tuttora. Se vogliamo raccontarla smettiamola con la storia che non ci sono più punti di vista, che la verità ci scappa da tutte le parti, che siamo concettualmente deboli. Basta voltarsi per vedere che alle nostre spalle c’è gente che ha pensato in grande e che ci può ancora essere utile. Però è vero che le cose sono un po’ più ingarbugliate. Non puoi più prendere, mettiamo Hegel e Marx , trasportarli di peso ai nostri giorni e fargli raccontare la favoletta del proletariato o della dialettica conciliata. Li devi rileggere. Li devi adattare. E se non ce la fai a spiegarti con le loro parole, vai al cinema. Lì c’è un immenso repertorio di storie e di battute che ti chiariranno le idee. Perché il cinema, agli occhi di Zizek, è la tessitura del mondo. È la filologia con cui interpreti una pagina di Lacan o uno scampolo della tua vita.
Zizek è un pensatore anamorfico: muta l’immagine a seconda se lo guardi da vicino o da lontano. Non è distorto è sorprendente. Si prenda l’introduzione a Lacan. È un’operazione, passateci l’espressione, di denudamento della parola. La parola lacaniana spogliata della sua oscurità e immessa nel condotto della vita contemporanea sembra rinascere a una seconda esistenza. L’operazione è seducente e faziosa al tempo stesso. Da un lato il più oscuro tra i pensatori contemporanei, quello che ha trasformato l’inconscio freudiano da ricettacolo di impulsi selvatici in qualcosa che si struttura come linguaggio; dall’altro, il più versatile tra gli intellettuali dell’ultimo decennio, che tesse le lodi di Lenin, che flirta con il fantasma di Stalin e si prende sulle spalle padre Jacques e con grande senso di abnegazione lo porta in visita tra le macerie (o meglio tra le patologie) del presente. Dico "presente" consapevole che non è una categoria che Zizek apprezzi.
Del resto non ama i postmoderni. Per costoro, l’era delle grandi narrazioni è finita, in politica non dobbiamo più aspirare a sistemi onnicomprensivi e a progetti di emancipazione globale. «Tutte stronzate», replica infastidito Zizek (sto citando da In difesa delle cause perse). Contro le quali bisogna opporre una linea di difesa tracciata da autori che hanno saputo pensare la società nella quale operavano e che in parte è ancora la nostra.
Oltre a Marx, c’è Freud. Le loro teorie hanno creato legioni di seguaci. Ma nel momento in cui le si è volute mettere in pratica hanno prodotto innumerevoli guasti. Hanno fallito entrambe, anche se in modo diverso. Per caso, non risiede qui la loro grandezza? Ora che sono diventate "cause perse", non sarebbe giunta l’ora di riconsiderarle? Dal momento che la causa persa è indifendibile, come accoglierla? Ci vuole coraggio per sostenere che la politica di Heidegger, caso estremo di un filosofo sedotto dal nazismo, il terrore rivoluzionario da Robespierre a Mao, lo stalinismo, la dittatura del proletariato ecc. non siano macchie terribili che hanno sporcato la storia. A Zizek il coraggio non manca. Egli assume i fallimenti della storia (lui forse parlerebbe di perversioni) come un modo implicito - e fuori dai condizionamenti dell’etica - per leggere la nostra vicenda contemporanea: «Il vero obiettivo della cause perse non è difendere il terrore stalinista in quanto tale, ma rendere problematica la troppo facile alternativa democratica liberale».
Per Zizek c’è qualcosa di equivoco nel nostro modo di accogliere o subire le retoriche della democrazia. Con la differenza che dove il totalitarismo ti dice cosa devi fare senza entrare minimamente nelle tue intenzioni, la liberal democrazia invece vuole convincerti che quello che devi fare è giusto che venga fatto così. Da un lato c’è l’imposizione, dall’altro l’autoconvincimento. Zizek riporta un dialoghetto tra Vince Vaughn e Jennifer Aniston, tratto dal film Break Up: «Volevi che io lavassi i piatti e laverò i piatti, qual è il problema?» Lei risponde: «Non voglio che tu lavi i piatti, quello che voglio è che tu voglia lavare i piatti!». Questa, commenta Zizek, è la riflessività del desiderio, la sua richiesta terroristica: io non voglio soltanto che tu faccia quello che voglio, ma anche che tu lo desideri. Si intravede l’ombra di Lacan. Perché il Maestro è presente in questa maniera ossessiva in tutti i suoi lavori?
Zizek non dà una risposta diretta. Ma la si può ricavare da quest’altra affermazione: «Il Maestro è colui che riceve dei doni in modo tale che colui che dona percepisca l’accettazione del proprio dono come un premio». Il dono è un atto solo in apparenza gratuito. In realtà crea un vincolo feroce che Marcel Mauss ha illuminato. È come se Zizek ci dicesse: attenzione, non voglio dipendere da Lacan, voglio liberarmi di lui. E per farlo usa le stesse tecniche lacaniane. È come regalare il Cavallo di Troia al migliore amico. Non solo è un gesto astuto ma anche carico di illusorietà. Mi ha sempre colpito l’accusa di illusionista della parola che è stata spesso rivolta a Lacan. È questo che seduce Zizek? Ciò che Lacan descrive non è la realtà, ma qualcosa che somiglia a un trucco che si forma dentro la sua lingua, dentro il suo codice. E che cosa ci dice quella lingua illusoria, oscura, paradossale? Ci dice dell’inconscio. E nel dirlo ci avverte che non è vero che la psicoanalisi, come pensava per lo più Freud, è una cura con cui l’individuo prova ad adattarsi alla realtà sociale; e ci dice anche che quando usiamo la parola reale occorre sapere che non è la stessa di quando sosteniamo "il tavolo è reale", o "Luigi è reale".
La psicoanalisi per Lacan - afferma Zizek - svolge un compito ulteriore rispetto alla cura: tenta di spiegare il reale nelle sue strutture profonde e fantasmatiche. Diciamolo in un altro modo: Freud era molto interessato a curare le patologie, Lacan è molto interessato alle patologie in sé. Nevrosi, psicosi, perversioni hanno la stessa dignità del loro contrario. Ce l’hanno nell’esistenza umana, la quale può essere decifrata solo accedendo ai suoi tre livelli: Simbolico, Immaginario, Reale. Non è il caso di addentrarsi nella tripartizione. Basti qui dire che l’ordine simbolico governa le nostre azioni e la nostra parola. Ma chi è che determina quell’ordine che gestisce le nostre vite? Noi pensiamo di esser una certa determinata cosa, di reagire in modo più o meno prevedibile a certi stimoli, come reagiremmo meccanicamente alla fame e alla sete. In realtà, senza esserne consapevoli, qualcosa o qualcuno guida le nostre scelte. Zizek usa l’espressione lacaniana grande Altro.
È il grande Altro, è questo soggetto, così potente da essere invisibile al nostro sguardo e tuttavia presente nelle nostre azioni, a guidarci. Il pensiero corre a Dio e alla Storia. Non erano morti, come qualcuno ha creduto, si erano rifugiati nell’inconscio. Da lì il pensiero di Zizek è ripartito.