Dalla diversità all’identità,
la svolta di Nicolas Sarkozy
di Philippe Bernard
(Le Monde, 21 gennaio 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
L’“identità nazionale” è una realtà che si forma lentamente nel corso degli anni, dei secoli, secondo la storia sociale e politica del paese e in particolare delle migrazioni che accoglie. Niente a che vedere con il ritmo indiavolato con il quale l’esecutivo francese attuale strumentalizza gli ingredienti del “vivere insieme”, emette messaggi contraddittori e fa succedere le une alle altre delle sequenze incoerenti, con il rischio di compromettere questo fragile equilibrio.
Chi se ne ricorda? Qualche mese fa, la Francia era immersa, sotto l’impulso di Nicolas Sarkozy, in un dibattito sulle “statistiche etniche” e sulla “discriminazione positiva”. A quell’epoca, si trattava di far evolvere la tradizione repubblicana di indifferenza alle origini e al colore della pelle, con l’intento dichiarato di lottare meglio contro le discriminazioni. Sarkozy diceva allora di voler riabilitare le “minoranze visibili”. “La Francia deve raccogliere la sfida del meticciato che ci rivolge il XXI secolo”, dichiarava. Volontà di promuovere un nuova idea di uguaglianza?
Fascinazione per il modello americano e recupero dell’Obamania? Strizzata d’occhi ai nuovi elettori provenienti dall’immigrazione? L’ardore presidenziale nel difendere il rispetto della “diversità” era tale che voleva perfino inserirlo nella Costituzione.
In quei tempi non così lontani, Yazid Sabeg, nuovo “commissario alla diversità e alle pari opportunità”, affermava che la Francia era “sulla strada dell’apartheid”, e sosteneva una legge destinata ad autorizzare la raccolta di dati sulle origini. Molto discussa, questa prospettiva fu abbandonata nel maggio 2009. Ma il comitato incaricato da Sabeg di proporre degli strumenti concreti di “misura della diversità” ha proseguito i suoi lavori, annunciando il suo rapporto per giugno. Sette mesi dopo, quel documento redatto sotto la direzione di François Héran, ex direttore dell’Institut national d’études démographiques (INED) non è ancora stato pubblicato.
Il fatto è che nel frattempo il vento è cambiato. Nel momento stesso in cui, l’autunno scorso, il capo dello Stato avrebbe dovuto trarre le conclusioni di questa vasta riflessione, incaricava Eric Besson di scrutare il paese nel profondo della sua identità nazionale. Conosciamo il seguito: un ritornello quotidiano che suggerisce all’opinione pubblica che la Francia non è più quella che era da quando degli immigrati, a volte musulmani, vi si sono stabiliti.
Questa volta, non si tratta più di promuovere una Francia meticcia, ma di preoccuparsene. Non si tratta più di lottare contro le discriminazioni ma di mostrare a dito coloro che “fanno macchia”. Dopo aver dato fuoco alle polveri delle “statistiche etniche”, Sarkozy fa il pompiere per ricucire un’identità nazionale minacciata.
Perché, a rischio di seminare confusione, il presidente della Repubblica ha così radicalmente cambiato opinione? Il rapporto Simone Veil che, nel dicembre 2008, rifiutava il riconoscimento delle differenze etniche nella sfera pubblica e a fortiori nel preambolo della Costituzione non sembrava averlo turbato: Sarkozy vi aveva risposto picche, nominando immediatamente Sabeg.
Le incertezze politiche e la crisi economica hanno probabilmente avuto ragione delle convinzioni del capo dello Stato. Con una disoccupazione galoppante e delle elezioni regionali difficili in prospettiva, non era più il caso di sostenere un discorso suscettibile di essere percepito come favorevole alla promozione, anche sul lavoro, di persone provenienti dall’immigrazione.
Il messaggio subliminale dell’ “identità nazionale” - quello dell’ostilità verso le persone di origine straniera - si ritiene più rassicurante per l’elettore. Di fatto, unito alla polemica sul burqa, appare efficace per relegare in secondo piano le difficoltà economiche. Le polemiche suscitate da Eric Besson e da Jean-François Copé occupano nettamente più spazio nei media che i 450 000 ulteriori disoccupati registrati in Francia nel 2009.
La cosa non è nuova. Nel 1932, in piena depressione economica e ondata xenofoba, una legge permise di fissare delle quote di stranieri nelle imprese. Negli anni seguenti alla crisi petrolifera del 1973, l’argomento della sostituzione degli immigrati maghrebini da parte di lavoratori francesi era un ritornello del governo, che il Front National ha poi saputo sfruttare.
Sorpresa: quel meccanismo oggi sembra inceppato. Il dibattito sull’identità nazionale arriva mentre i francesi hanno altre preoccupazioni. La “perdita dell’identità nazionale” arriva solo in undicesima posizione tra i “timori per la società francese” espressi da un sondaggio CSA del novembre 2008 confermato nel novembre 2009 da un’inchiesta inedita.
Quel lavoro, realizzato da vent’anni per la Commissione nazionale dei diritti umani, riflette un’accettazione relativa ma crescente della diversità francese. Ad esempio, il 60% delle persone interrogate nel 2000 riteneva che ci fossero “troppi immigrati” in Francia; oggi è solo il 39%. Allo stesso modo, il 73% dei francesi considerano gli immigrati come “una fonte di arricchimento culturale”, mentre erano solo 42% nel 1992.
Lontano dai clichés sfruttati dal ministro dell’immigrazione e dell’identità nazionale, sembra che i francesi abbiano sviluppato una certa resistenza alla manipolazione dell’etnicità e del sentimento nazionale.
Un filosofo della ragione e della fede
di Marcel Neusch (La Croix, 21 gennaio 2010 -traduzione: www.finesettimana.org)
L’elezione di Jean-Luc Marion sotto la Coupole non è stata una sorpresa, non solo perché lo si sapeva molto vicino al cardinale Jean-Marie Lustiger a cui succede, ma perché poche opere sono oggi in grado di rivaleggiare con la sua e pretendere un onore così alto come questa accoglienza solenne. Dalla sua tesi: Sur l’ontologie grise de Descartes (Vrin, 1975) fino alla recente raccolta di articoli: Le croire pour le voir (Parole et Silence, 2010), ha pubblicato non meno di venti titoli, la maggior parte tradotti, anche in giapponese, in russo e perfino in cinese.
Cofondatore della rivista cattolica internazionale Communio, uno dei suoi temi preferiti è il legame indissolubile tra ragione e fede. Non ha mai ammesso la loro separazione. “Forse si può perdere la fede, scrive, ma sicuramente non perché si guadagna in ragione.” All’inverso, la ragione può solo perdere razionalità escludendo la fede e il campo che essa apre, cioè la Rivelazione. Nell’epoca del nichilismo, non è la fede che corre il rischio di perdersi, ma la ragione. “Noi perdiamo la ragione perdendo la fede.” Era già la tesi di “l’idolo e la distanza”. Che Nietzsche parli del “crollo degli idoli”, o Hölderlin del “ritiro degli dei”, essi indicano la condizione necessaria per l’avvento di un “Dio più divino”.
Allora, come dire Dio? In Dieu sans l’être (Fayard, 1982), titolo di successo, Jean-Luc Marion prendeva atto del declino del discorso metafisico su Dio, senza però mettere la ragione fuori servizio. Mantiene tutto il suo spazio, non per provare l’esistenza di Dio, il che la porterebbe a fabbricare nuovi idoli, ma per accoglierlo come egli si rivela. “Dio può farsi pensare senza idolatria solamente a partire da sé solo.” Il luogo di un pensiero giusto su Dio non è altro che la sua rivelazione in Gesù Cristo, “icona del Dio invisibile”. L’icona non riduce la distanza, ma vi scava in profondità. “Il visibile non si presenta qui che in vista dell’invisibile.”
Si tratta quindi di pensare Dio fuori dalle categorie dell’essere, il che esige un’altra logica: una metafisica della carità. Essa è, secondo Pascal, dell’ordine del “cuore”, della carità e della santità (in opposizione all’ordine dei corpi e a quello dell’intelligenza). “In questo ordine, si vede solo se si dispone del significato appropriato, la carità stessa. E se ne dispone soltanto se vi si accede così come essa si dona, attraverso la fede. Per vedere, bisogna credere, ma credendo si fa solo opera di ragione. Di una grande ragione (Nietzsche) è vero, quindi tanto più di una ragione.”
“Qual è il luogo in me, dove possa venire in me il mio Dio?”, chiedeva Sant’Agostino. Nella sua rilettura delle Confessioni, Au lieu de soi (PUF, 2008), Jean-Luc Marion mostra che a differenza del Cogito cartesiano, centrato sul sé, la confessione si allarga subito a Dio: il sé diventa se stesso solo attraverso un altro. Così, all’inizio del pensiero, non c’è il sé. “’Io’ non è il primo venuto”.Solo Dio fissa le condizioni di Dio. Rendendosi visibile nel Crocifisso, si è rivelato come dono. Se la ragione può pervenire all’idea di dono e donazione, resta da fare il passo per riconoscervi il donatore. È l’assioma di Sant’Agostino che si impone per la guida della mente. “Comprendere, è la ricompensa della fede.”
Per quanto riguarda le procedure filosofiche messe in atto da Jean-Luc Marion, e da altri, Dominique Janicaud ha parlato di una “svolta teologica della fenomenologia francese” (L’Eclat, 1991), cioè di una sottrazione della ragione a beneficio della fede. Comunque sia, Jean-Luc Marion rivendica il titolo di intellettuale cattolico, a “servizio della razionalità nella Chiesa”. Il suo ruolo consiste in un “lavoro di argomentazione a partire dalla rivelazione. Si tratta di un nuovo sforzo di razionalità cristiana, per intervenire nella razionalità comune. Gli intellettuali tra i battezzati si definiranno per il contributo che vi apporteranno.” È anche a questo titolo di intellettuale cattolico che Jean-Luc Marion meritava di prender posto tra gli Immortali.
“I cattolici francesi cominciano a capire qual è il loro ruolo”
intervista a Jean-Luc Marion, filosofo
a cura di Isabelle de Gaulmyn (La Croix, 21 gennaio 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Il filosofo Jean-Luc Marion, 63 anni, cofondatore della rivista cristiana Communio, fa oggi pomeriggio il suo ingresso all’Académie Française, andando ad occupare il seggio che fu del cardinale Lustiger
Cristiano e filosofo: come articola questa sua doppia appartenenza?
Sono filosofo, esattamente come altri sono piloti di linea, ingegneri o banchieri! È un mestiere come un altro, nell’ordine della conoscenze, direbbe Pascal. L’identità cristiana non è dello stesso ordine della razionalità filosofica. Esistono dei filosofi che hanno delle opinioni religiose, e meno male! Ma non c’è in sé una “filosofia cattolica”, o una “filosofia cristiana”. È specifico delle ideologie, come il marxismo, voler battezzare le scienze umane. La rivelazione cristiana non dipende da una filosofia, grazie a Dio! Ma è vero che mi sono interessato di teologia perché la filosofia passa il tempo ad abbordare la teologia. In particolare quando ho scritto Dieu sans l’être. Non mi sono posto il problema dell’articolazione tra la mia fede cristiana e la filosofia, ma piuttosto il problema del diritto della filosofia di parlare di Dio, della rivelazione cristiana, e il problema dei limiti.
La rivista internazionale Communio, di cui lei è stato cofondatore, è stata a lungo considerata rappresentante di una corrente minoritaria della Chiesa del dopo-Vaticano II. Posizione che, oggi, sembra si sia capovolta?
Nella storia della Chiesa, un Concilio non risponde tanto ad una crisi, quanto piuttosto la provoca. È stato il caso del Vaticano II, che ha provocato una crisi. Secondo me, ciò deriva dal fatto che, dopo il Concilio, certi sono rimasti sulla rottura tra progressisti e conservatori che giustamente il Vaticano II ha voluto superare e risolvere. La scelta che è stata proposta ai cattolici tra i due atteggiamenti, quello progressista e quello conservatore, era sbagliata. Altri, come Urs von Balthasar, Karol Wojtyla o Jean-Marie Lustiger hanno al contrario riletto il Concilio in una prospettiva diversa, alla luce dei Padri della Chiesa, in un movimento di riscoperta patristica. La rivista Communio ha sostenuto questo movimento, e sono trentacinque anni che questa rivista, gestita principalmente da laici, funziona, senza sovvenzioni.
Lei non teme tuttavia oggi un ripiegamento identitario da parte dei cattolici in Francia?
No, non credo, non è un movimento importante. I cattolici francesi cominciano a capire quale debba essere il loro ruolo, non è una cosa ovvia. Sono una minoranza, ma la minoranza più importante, che deve avere voce in capitolo. Certi cristiani si irrigidiscono in uno stato caduco e passato della filosofia, appartenente ad un’epoca scolastica, in cui la razionalità era definita in maniera restrittiva, dove il confronto tra fede e ragione non esisteva. Ma non hanno capito niente delle sfide attuali.
Appunto, perché lei insiste sul legame indissolubile tra fede e ragione?
Credo che siamo arrivati ad un momento chiave di questa riflessione. Coloro che oppongono fede e ragione hanno una visione della fede come qualcosa che non ha logica. Invece c’è una logica di Dio nella rivelazione cristiana, perché Dio è il logos, la ragione. E le stesse persone che negano questa parte di riconquista della ragione da parte della fede riconoscono oggi che ci troviamo di fronte ad una crisi della razionalità: chi può dire, dopo il XX secolo, che cosa si intende per ragione? La frontiera tra il razionale e il non-razionale non ha più nulla di evidente. La scienza non è più la verità assoluta come si è voluto credere, il progresso scientifico prende anch’esso ormai l’aspetto della minaccia, è assolutamente evidente con la crisi ecologica. In quella che chiamo “l’inquietudine razionale”, i cristiani hanno il loro spazio, e il loro contributo può essere fondamentale. A condizione che non portino nel dibattito delle convinzioni frenetiche, ma delle posizioni ragionevoli. “Mantenersi ragionevoli”, ecco ciò per cui i cristiani sono forse ben qualificati, perché il loro Dio non è un Dio dell’onnipotenza irrazionale, ma il Dio del logos.
All’Académie française lei succederà al cardinale Jean-Marie Lustiger, che ha conosciuto molto bene...
L’ho conosciuto nel 1968. Da allora, questo rapporto non si è mai smentito: ho lavorato con lui per venticinque anni, mi ha sposato, mi ha sostenuto nei momenti difficili. Era insieme un rapporto filiale (avevamo una ventina d’anni di differenza) ed un’amicizia molto profonda, dal 1968 fino alla sua morte. La mia opinione è che non si è ancora vista la grandezza di quest’uomo. La gente comincerà a prendere coscienza del suo valore. Comprenderà che l’uomo, con tutte le sue dimensioni, spirituale, politica, intellettuale, personale, aveva una statura paragonabile a quella di un Padre della Chiesa.
SUL TEMA, NEL SITO E IN RETE, SI CFR.:
INDIETRO NON SI TORNA. GIOVANNI PAOLO II, L’ULTIMO PAPA ...
GRECIA - Una sede della "Caritas greca". |
FLS
STORIA E LETTERATURA TEATRO, METATEATRO E FILOLOGIA:
"RE-SHAKESPEARE" CHIARA-MENTE, CON VICTOR HUGO, LUIGI PIRANDELLO ED EDUARDO DE FILIPPO.
In onore e memoria di Victor Hugo e Charles Baudelaire...
LA «#CHARITE’» DEL VESCOVO #MYRIEL DEI "#MISERABILI", LA #CRITICA (#KANT) DELLA #ECONOMIAPOLITICA (#MARX), E IL #CATTOLICESIMO DELL’#AGAPE COSTANTINIANO. Se è vero cje «Il romanzo “I miserabili” si apre con un vescovo, monsignor Myriel, cui sono dedicate pagine straordinarie (...)», e, ancora, che «Abbiamo smesso di leggere la Bibbia e "I miserabili", abbiamo chiuso le porte e i porti ai nostri viandanti, siamo diventati noi i nuovi miserabili e non vediamo più l’innocenza di Jean Valjean, prima e dopo il furto dell’argenteria.», non è altrettanto storicamente e #parresia-stica-mente preciso sostenere - come fa lo storico e l’economista Luigino Bruni nell’articolo «”I miserabili”: la grammatica del dono. Il rischio dell’ospitalità”, il capitolo che egli dedica al capolavoro di Victor Hugo nel suo recente “Viaggio economico nei capolavori della letteratura” ) - che «Myriel ci sta allora insegnando cosa è veramente l’#agape, cioè la forma dell’amore tipica dei cristiani.».
DA #COSTANTINO IL GRANDE, A #NAPOLEONE BONAPARTE, E ALLA FINE DEL "#SOGNO"DEL "SACRO ROMANO IMPERO": RICOMINCIARE DA "#AMLETO"! Da quel poco che conosco dell’opera di Victor Hugo so che conosceva la lingua greca e ne era "parigina-mente" fiero: il famoso #pane (quello "eu-#charis-tico"), la "#Grazia di Dio", richiama sì il #messaggioevangelico, appunto la "#Charitas" (la "Charité", la "Carità") dello "Spirito santo" (1 Gv.), senza il quale l’ #amore (l’#agape), rinvia solo alla "economia" e a #Mammona (alla "#caritas")! Nella prospettiva di una #antropologia (#cristologia) del #dono (e del "per-dono"), se non sbaglio, avevano già lavorato alla grande non solo filosofi ed economisti come #GiambattistaVico e la "Scuola del #Genovesi", ma anche, continuando e ricordando, letterati e poeti come Luigi #Pirandello e #Eduardo #DeFilippo (e Shakespeare, ovviamente): a loro, il #Presepe della "#Danimarca" non è mai piaciuto ("#Natale in Casa Cupiello", 1931).
#NICEA (325-2025). A #EDUARDO E PIRANDELLO, INFATTI, PIACE #PARLARE E #RESPIRARE LIBERAMENTE, LOCALMENTE E GLOBALMENTE. SUL TEMA, PIRANDELLO L’AVEVA GIA’ DETTO E SCRITTO LA "SUA", CON DETERMINAZIONE NELLE "NOVELLE" (NEL 1918 ALLA FINE DELLA PRIMA #GUERRAMONDIALE); ED #EDUARDODEFILIPPO (DUE ANNI DOPO I #PATTILATERANENSI E IL #CONCORDATO TRA CHIESA CATTOLICA E FASCISMO, NEL 1929) LO SCRIVE E LO DICE CON UNA "BATTUTA" DIVENUTA "EPOCALE", NEI CONFRONTI DEL COSIDDETTO "#DONO" DI COSTANTINO, IN "#NATALE IN CASA CUPIELLO", NEL 1931.
"IL BUON DIO STA NEL DETTAGLIO" (ERNST #CASSIRER - ABY #WARBURG): L’#UOMOIMMAGINARIO E IL "#CINEMA" DI #PLATONE.
"SAPEREAUDE!" (KANT, 1724-2024): IL NODO DEL "#CORPOMISTICO" E LA #TEOLOGIA-#POLITICA: UNA #LEZIONE E UN #RICORDO DI #SIMONE #WEIL. Per #fermare il #tempo e riflettere sugli #effettispeciali del "cinema" sulla #storia dell’#Europa (e del #PianetaTerra), forse, una buona "occasione" e una brillante sollecitazione per riflettere sul dominante #androcentrismo platonico.paolino ed hegeliano e, ancor di più e urgentemente, sulla #hamlet-ica #question antropologica e "cristologica" (#Kant, 1724-2024):
SIMONE WEIL: "L’immagine del corpo mistico di Cristo è molto seducente, ma l’importanza che si annette oggi a questa immagine mi pare uno dei sintomi più gravi della nostra decadenza. La nostra vera dignità infatti non sta nell’essere membra di un corpo, anche se mistico, anche se quello di Cristo, ma in questo: nello stato di perfezione, al quale tutti aspiriamo, noi non viviamo più in noi stessi, ma è Cristo che vive in noi; in questa condizione, Cristo nella sua integrità, nella sua unità indivisibile, diviene, in certo senso, ognu no di noi, come è tutto intero nell’ostia. Le ostie non sono frammenti del suo corpo. L’importanza attuale dell’immagine del corpo mistico dimostra quanto i cristiani siano miseramente esposti alle influenze esterne. certo inebriante sentirsi membro del corpo mistico del Cristo: ma oggi molti altri corpi mistici, che non hanno Cristo come capo, procurano alle proprie membra un’ebbrezza, a mio parere, della stessa natura" (Simone Weil, 1942).
Nota:
LA CIBERNETICA DELLA CIBERNETICA, L’ANTROPOLOGIA E LA #FILOLOGIA: UNA #QUESTIONE DI #GOVERNO E DI #TEOLOGIA-#POLITICA, E DI #DIVINACOMMEDIA.
#SAPERE AUDE! (ORAZIO - KANT): UNA HAMLETICA "QUESTION". SE SI PARLA DI CIBERNETICA - il κυβερνήτης [kybernetes] era il timoniere, colui che sa guidare le navi (o, come dirà di sé Christine De Pizan, colei «capace di condurre le navi», forse, non si parla dell’arte (#techne) del #governare (dal gr. #κυβερνάω «reggere il timone»), del guidare una nave, sia in senso fisico, sia in senso metaforico - #metafisico (e politico, in generale)?
CRITICA DELLA #RAGIONE "PURA" (PLATONICO-PAOLINA). ESSENDO, TUTTI E TUTTE, IMBARCATI ED IMBARCATE nella stessa #Nave, il #PianetaTerra (come già aveva capito e diceva il filosofo e matematico Blaise #Pascal), forse, non è meglio andare più a fondo nello scandagliare le profondità del mare (anche della lingua), per non naufragare (sia personalmente, come #individuo, sia umanamente, come #specie), e uscire dall’orizzonte del #geocentrismo (come dall’#androcentrismo -"patriarcato", così dal "ginecentrismo" - dal "matriarcato"), e, dare il via a una seconda "rivoluzione copernicana"? Se non ora, quando?
LA COSMOTEANDRIA E LA QUESTIONE COSMOLOGICA (COSMO), TEOLOGICA (DIO), E ANTROPOLOGICA (UOMO). BLAISE PASCAL, PER PENSARE "TROPPO" SUL COME FARE AFFARI («DEUS "CARITAS" EST») CON LA «SCOMMESSA», SI LASCIO’ MOLTO AFFASCINARE DALLA CALCOLATRICE «PASCALINA», E, INFINE, NON RIUSCI’ NE’ A CONOSCERE BENE SE’ STESSO E NEMMENO A CAPIRE (COME COMPRESE EINSTEIN, CON DANTE) CHE LA "DEA" «#CHARITE’» (LA "CHARITAS"), L’AMORE "CHE MOVE IL SOLE E LE ALTRE STELLE", "NON GIOCA A DADI".
STORIA E LETTERATURA: LA "SCOMMESSA" DI DON RODRIGO (A. MANZONI, "I PROMESSI SPOSI" [1628], III) E LA "FEDE" DI PASCAL (1623 - 1662):
"[...] Come non so di dove vengo, così non so dove vado; so soltanto che, essendo che uscendo da questo mondo, cadrò per sempre o nel nulla o in potere di un Dio sdegnato, senza però conoscere quale di queste due condizioni mi toccherà in sorte per l’eternità [...]". Paradossalmente, alla "soluzione" fideistica di Pascal, come di ogni altra soluzione simile (cattolica o no), può ben dirsi quanto poco oltre, egli stesso scrive: "Chi vorrebbe avere come amico uno che discorresse in siffatto modo? Chi lo sceglierebbe tra tanti per metterlo a parte delle cose sue? Chi ricorrerebbe a lui nelle afflizioni? E insomma, a qual uso della vita si potrebbe destinarlo?" (B. Pascal, "Pensieri", n. 180, Mondadori 1976).
LA "MONARCHIA" DEI "DUE SOLI" (DANTE ALIGHIERI) E LA "CHIMERA" DEL "POST-UMANO".
A) LA #QUESTION DI #SHAKESPEARE,
NOTA:
PENELOPE- IDEA E COMMEDIA: FILOLOGIA E ANTROPOLOGIA. Con lo spirito dell’opera “The Penelopiad” di Margaret Atwood e della "Divina Commedia" di Dante Alighieri, un segnavia di uscita dall’orizzonte della tragedia...
#STORIAELETTERATURA. Data la immersione totale di tutta la cultura occidentale nell’immaginario dell’#Odissea, "étudier, très succinctement, la technique d’« écriture féminine » de Margaret Atwood, à travers son ouvrage «The Penelopiad» et plus précisément, à travers l’ironie dans son rapport aux «métamorphoses» apportées au texte de l’Odyssée d’Homère" (cfr. Rebecca Plewinski, "La technique d’«écriture féminine» de Margaret Atwood: l’exemple de The Penelopiad») che con mente "penelope-idea" sa catturare e aggiogare persone e popoli con il proprio "canto" e l’ esperienza tragica della sua "fenomenologia dello #spirito".
L’ALBA DELLA MERAVIGLIA ("Earthrise"). Per #Dante, con l’aiuto del "padre" #Virgilio ("Eneide") su sollecitazione della "#bella e beata" #madre Beatrice (sollecitata a sua volta da Lucia, inviata da Maria, madre di Gesù "Cristo"), la "folle impresa" di uscire dalla "selva oscura" e ritrovare la "diritta via", con il vecchio "Ulisse" e con la vecchia "Penelope" sulle proprie spalle, è possibile: è l’amore che muove il sole e le altre stelle.
#Antropologia, #Giustizia, e #Carità (#Charité, #Charitas, #Charidad, #Charity).
#Storia e #memoria: #Dante2021, #Pascal, e la #Bibbia civile d’#Europa...
#FILOSOFIA E #MESSAGGIO EVANGELICO. Nel secondo dei "Tre Discorsi sulla condizione dei grandi" di #Blaise Pascal c’è un sottile e importante richiamo all’indicazione evangelica di "dare a #Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio" (non "#Erode" né "#Mammona" e "#Mammasantissima") e una implicita consonanza con la proposta di #Dante (#Monarchia) relativa al #riconoscimento reciproco dei #Due Soli (#potere temporale e #potere spirituale - le ragioni del #corpo e le ragioni del #cuore). Ovviamente, è un generale invito all’#essere umano a uscire dalla #claustrofilia (#Elvio Fachinelli, 1983) e a coniugare la #duplicità strutturale della propria condizione alla #luce dell’#amore "che move il sole e le altre stelle" (Par. XXXIII, 145) e a ripensare la #questioneantropologica ricollegando il tema delfico del «#conosci te stesso» alla #domanda di «#come nascono i bambini». Uscire dallo #statodiminorità (#Kant - 1784, #Miche lFoucault - 1984), forse, è proprio #ora....
#FILOLOGIA #ANTROPOLOGIA CULTURALE E #SCIENZA POLITICA.
RIPRENDERE IL #DISCORSO DA #CAPO E DAL #CAPO. Nel rileggere le pagine di #Pascal sulla "condizione dei grandi", sul piano delle #Istituzioni (sia laiche sia religiose, sia temporali sia spirituali), forse, è anche bene e giusto #ricordare che la parola "#carisma" è una parola che ci viene dal #greco antico: "#chàrisma", e richiama la "#Charis" ("#Grazia"), le "#Chàrites" (le tre "#Grazie") del mondo greco, legate alle #arti e alla #bellezza, e poi la "#Charitas" (il Dio pieno di #grazia del #messaggio evangelico: "Deus #charitas est": 1 Gv.: 4.8).
Federico La Sala
Sulla Messa.
E l’ateo libertino «murò» il mattone del latino (altrui)
di Massimo Borghesi (Avvenire, martedì 27 luglio 2021)
Nel quadro delle infuocate critiche da parte di alcuni settori ’tradizionalisti’ a seguito della pubblicazione di Traditionis custodes spicca un particolare: il filosofo francese Michel Onfray, campione dell’ateismo libertino consegnato nel suo Trattato di ateologia, è divenuto il portabandiera della destra cattolica. Il noto intellettuale, famoso per il suo tono dissacrante verso la religione, si è infatti espresso a favore della vecchia messa in latino e ciò è bastato per elevarlo a santo protettore di quanti si oppongono, da tempo, al pontificato di Francesco.
Al pari dei teoconservatori americani degli anni passati, l’ateo Onfray giustifica la sua scelta a partire dalla difesa della ’civiltà occidentale’. Come l’autore ha affermato, in una intervista pubblicata su ’Il Foglio’, («Habemus papam Onfray», 24 luglio 2021), la opzione per il rito tridentino dipende dal fatto che: «Sono un puro prodotto di questa civiltà che cristallizza e armonizza Saulo, Pericle, Cesare e Costantino. Non credo in Yahweh, Zeus, Giove o Gesù Cristo. Ma vibro con tutta questa civiltà che ha generato geni in filosofia, arte, architettura, agronomia, teologia, poesia, letteratura, storia, tecnologia, medicina, farmacia, astronomia, astrofisica, politica».
Lo scettico, il miscredente, ’vibra’ per la civiltà europea. Al modo di Charles Maurras, il fondatore dell’Action française, il movimento cattolico di destra francese sconfessato da Pio XI negli anni Venti, anch’egli è un ateo devoto, un conservatore che ama l’ordine ’antico’. Non per sé, si badi bene, ma per gli altri, per il popolo.
«Sono stato uno di quelli che ha lavorato alla costituzione di un’etica post-cristiana. Ho pubblicato diversi libri a favore di questo progetto, nessuno dei quali rinnego - dal Traité d’athéologie a La Sculpture de soi a Théorie du corps amoureux o Féeries anatomiques. Questi libri rimangono la mia etica, ma un’etica privata non è un’etica collettiva. Perché un’etica collettiva presuppone il sacro e il trascendente per imporsi con l’aiuto di un braccio armato: Gesù non sarebbe bastato a creare una civiltà se san Paolo non avesse creato un corpo di dottrina sviluppato in seguito dalla patristica e, soprattutto, se Costantino non avesse messo la forza dello Stato al servizio di questa morale». Al pari degli atei libertini del XVI secolo, Onfray distingue tra la morale privata, quella gaudente-irreligiosa riservata a lui e all’élite, e quella pubblica regolata dalla religione e dalla spada. Cristo senza Costantino sarebbe nulla, il sacro esiste solo grazie alla potenza dello Stato.
Lo scettico Onfray è un tipico rappresentante della teologia politica di destra. Della messa in latino non importa nulla al nostro filosofo. Importa solo come blocco, mattone di un ordine che deve essere conservato affinché il ’popolo’ non si perda nell’anarchia. Strani compagni di strada quelli scelti dai cosiddetti cattolici tradizionalisti, cioè dagli anti-conciliari, per colpire il Papa. Criticati fino a ieri, per aver incarnato e promosso il libertinismo di massa dell’era della globalizzazione, oggi divengono, d’improvviso, gli apostoli della ’restaurazione’, i custodi della retta dottrina, gli amanti della verità.
Sono anni che questa destra cattolica si affida agli ’atei devoti’ per criticare il Papa e salvaguardare una ortodossia immaginaria. Il Papa sarebbe l’eterodosso e Onfray l’ortodosso. Una singolare contrapposizione che induce a riflettere sul profondo declino di certo pensiero cattolico contemporaneo.
LETTERA APOSTOLICA IN FORMA DI MOTU «PROPRIO» DEL SOMMO PONTEFICE
FRANCESCO
SULL’USO DELLA LITURGIA ROMANA ANTERIORE ALLA RIFORMA DEL 1970
Custodi della tradizione, i vescovi, in comunione con il vescovo di Roma, costituiscono il visibile principio e fondamento di unità nelle loro Chiese particolari. [1] Sotto la guida dello Spirito Santo, mediante l’annuncio del Vangelo e per mezzo della celebrazione della Eucaristia, essi reggono le Chiese particolari, loro affidate. [2]
Per promuovere la concordia e l’unità della Chiesa, con paterna sollecitudine verso coloro che in alcune regioni aderirono alle forme liturgiche antecedenti alla riforma voluta dal Concilio Vaticano II, i miei Venerati Predecessori, san Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, hanno concesso e regolato la facoltà di utilizzare il Messale Romano edito da san Giovanni XXIII nell’anno 1962. [3] In questo modo hanno inteso «facilitare la comunione ecclesiale a quei cattolici che si sentono vincolati ad alcune precedenti forme liturgiche» e non ad altri. [4]
Nel solco dell’iniziativa del mio Venerato Predecessore Benedetto XVI di invitare i vescovi a una verifica dell’applicazione del Motu Proprio Summorum Pontificum, a tre anni dalla sua pubblicazione, la Congregazione per la Dottrina della Fede ha svolto una capillare consultazione dei vescovi nel 2020, i cui risultati sono stati ponderatamente considerati alla luce dell’esperienza maturata in questi anni.
Ora, considerati gli auspici formulati dall’episcopato e ascoltato il parere della Congregazione per la Dottrina della Fede, desidero, con questa Lettera Apostolica, proseguire ancor più nella costante ricerca della comunione ecclesiale. Perciò, ho ritenuto opportuno stabilire quanto segue:
Art. 1. I libri liturgici promulgati dai santi Pontefici Paolo VI e Giovanni Paolo II, in conformità ai decreti del Concilio Vaticano II, sono l’unica espressione della lex orandi del Rito Romano.
Art. 2. Al vescovo diocesano, quale moderatore, promotore e custode di tutta la vita liturgica nella Chiesa particolare a lui affidata, [5] spetta regolare le celebrazioni liturgiche nella propria diocesi. [6] Pertanto, è sua esclusiva competenza autorizzare l’uso del Missale Romanum del 1962 nella diocesi, seguendo gli orientamenti dalla Sede Apostolica.
Art. 3. Il vescovo, nelle diocesi in cui finora vi è la presenza di uno o più gruppi che celebrano secondo il Messale antecedente alla riforma del 1970:
§ 1. accerti che tali gruppi non escludano la validità e la legittimità della riforma liturgica, dei dettati del Concilio Vaticano II e del Magistero dei Sommi Pontefici;
§ 2. indichi, uno o più luoghi dove i fedeli aderenti a questi gruppi possano radunarsi per la celebrazione eucaristica (non però nelle chiese parrocchiali e senza erigere nuove parrocchie personali);
§ 3. stabilisca nel luogo indicato i giorni in cui sono consentite le celebrazioni eucaristiche con l’uso del Messale Romano promulgato da san Giovanni XXIII nel 1962. [7] In queste celebrazioni le letture siano proclamate in lingua vernacola, usando le traduzioni della sacra Scrittura per l’uso liturgico, approvate dalle rispettive Conferenze Episcopali;
§ 4. nomini, un sacerdote che, come delegato del vescovo, sia incaricato delle celebrazioni e della cura pastorale di tali gruppi di fedeli. Il sacerdote sia idoneo a tale incarico, sia competente in ordine all’utilizzo del Missale Romanum antecedente alla riforma del 1970, abbia una conoscenza della lingua latina tale che gli consenta di comprendere pienamente le rubriche e i testi liturgici, sia animato da una viva carità pastorale, e da un senso di comunione ecclesiale. È infatti necessario che il sacerdote incaricato abbia a cuore non solo la dignitosa celebrazione della liturgia, ma la cura pastorale e spirituale dei fedeli.
§ 5. proceda, nelle parrocchie personali canonicamente erette a beneficio di questi fedeli, a una congrua verifica in ordine alla effettiva utilità per la crescita spirituale, e valuti se mantenerle o meno.
§ 6. avrà cura di non autorizzare la costituzione di nuovi gruppi.
Art. 4. I presbiteri ordinati dopo la pubblicazione del presente Motu proprio, che intendono celebrare con il Missale Romanum del 1962, devono inoltrare formale richiesta al Vescovo diocesano il quale prima di concedere l’autorizzazione consulterà la Sede Apostolica.
Art. 5. I presbiteri i quali già celebrano secondo il Missale Romanum del 1962, richiederanno al Vescovo diocesano l’autorizzazione per continuare ad avvalersi della facoltà.
Art. 6. Gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica, a suo tempo eretti dalla Pontificia Commissione Ecclesia Dei passano sotto la competenza della Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica.
Art. 7. La Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti e la Congregazione per gli Istituti di Vita Consacrata e le Società di Vita Apostolica, per le materie di loro competenza, eserciteranno l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza di queste disposizioni.
Art. 8. Le norme, istruzioni, concessioni e consuetudini precedenti, che risultino non conformi con quanto disposto dal presente Motu Proprio, sono abrogate.
Tutto ciò che ho deliberato con questa Lettera apostolica in forma di Motu Proprio, ordino che sia osservato in tutte le sue parti, nonostante qualsiasi cosa contraria, anche se degna di particolare menzione, e stabilisco che venga promulgata mediante pubblicazione sul quotidiano “L’Osservatore Romano”, entrando subito in vigore e, successivamente, venga pubblicato nel Commentario ufficiale della Santa Sede, Acta Apostolicae Sedis.
Dato a Roma, presso San Giovanni Laterano, il 16 luglio 2021 Memoria liturgica di Nostra Signora del Monte Carmelo, nono del Nostro Pontificato.
FRANCESCO
* Fonte: Vatican.va, 16 luglio 2021 (ripresa parziale).
Idee.
Nancy: perché è così difficile essere-in-comune
La libertà supera la soggettività perché essa è proprio ciò che viene al soggetto, da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi
di Jean-Luc Nancy (Avvenire, giovedì 20 maggio 2021)
Perché l’essere-in-comune non è riconosciuto come essenza della società? Perché questo «in comune» non è fatto di un semplice accordo, ma al contrario implica il disaccordo. Secondo Kant, la nostra socialità procede da una «insocievole socievolezza». Il comune è un concetto che si presta a un’ambiguità: o si pensa a ciò che è comune a una pluralità, oppure si pensa all’essere insieme di una pluralità. Nella prima accezione, il comune è un bene condiviso (come i cosiddetti beni comuni di cui si parla molto oggi), nella seconda designa una modalità dell’essere. Questa modalità implica una pluralità, che implica diversità, la quale a sua volta implica la possibilità di divergenze o addirittura opposizioni di interessi, di aspettative, di ricettività.
L’essere-in-comune è una condizione complessa e difficile. In un certo senso implica la comunicazione come dimensione essenziale (ecco perché il linguaggio ne è inseparabile; si potrebbe anche dire che sia il linguaggio ad aprire l’in-comune; ma ci sono fin dall’inizio pluralità di lingue e diversità di significato) - e in altro modo implica la mutua estraneità degli individui e un’incomunicabilità essenziale (ad esempio, la traduzione tra lingue ne rivela la complessità). Ciò che si chiama «società» designa la necessità di fabbricare un modo di funzionamento che risponda all’«insocievole socievolezza». La società cerca di rispondere alla propria deiscenza interna. Tutte le società hanno tentato di farlo generando un’istanza di identificazione (dio, re, popolo, patria, clan, ecc.). Solo la società democratica moderna si è assunta il compito di identificarsi con la propria complessità. È un po’ come voler creare una lingua che contenga la diversità delle lingue (ma non esiste un meta-linguaggio).
Ecco perché è una sfida che non cessa di porre problemi e che dopo aver tentato di compiersi come «comunismo» (che sarebbe stata una sorta di meta-socialità) si converte al contrario in una crescente disparità di condizioni e nell’esplosione di egoismi e di ripiegamenti identitari. In un certo senso, forse gli uomini non sono mai stati così poco liberi come oggi: sono assoggettati alle loro estraneità, ai loro sfruttamenti ed esclusioni e alla limitata ristrettezza degli interessi. Invece, pensare alla società come un’associazione di uomini liberi significherebbe pensarla come lo spazio in cui ciascuno e tutti potrebbero accogliere - e condividere con gli altri - uno slancio che porti via le esistenze al di là di loro stesse, staccandole dalle loro necessità per condurle in uno spazio dove possano riconoscersi in una storia o in un destino, in una “destinerrance” come dice Derrida che le eccede tutte e così conferisce loro un senso.
Ma questo implica qualcosa di più dell’organizzazione socio-politica. Ciò implica un’eccedenza rispetto a ogni organizzazione, una an-archia testimoniata dalla non socialità o dalla asocialità dell’amore, dell’arte, ma forse anche, inevitabilmente, del crimine o della dissoluzione del legame sociale. La libertà supera la soggettività perché essa, d’altronde, è proprio ciò che viene al soggetto (sempre che si voglia utilizzare questo concetto), da più lontano di se stessi e che prevale altrove, al di là di se stessi. Essa è ciò che mi permette di non essere né causa né conseguenza in una relazione, ma semplicemente quell’inizio puntuale che nei termini di Kant inaugura una nuova serie di fenomeni ma che non vale per questa serie: che vale come inizio, origine immemorabile e insituabile.
Tale è la libertà di un gesto gratuito, di una linea gettata su un foglio o di un insieme di note suonate sulla tastiera, di una dichiarazione d’amore o di amicizia - dichiarazione non necessariamente verbale ma in atto - o di ogni sorta di decisioni di esistenza attraverso le quali incontri, scontri, situazioni mi portano dove non avrei mai pensato di andare, poiché in realtà non esisteva prima dell’incontro. Quello di cui sono il subjectum perché mi sta succedendo, ma non il soggetto che l’avrebbe fatto accadere. Essenzialmente la libertà ci libera dal soggetto, dall’assoggettamento al se-stesso e dai suoi limiti per esporci al sé-altro: non un altro sé ma l’alterità in me, tu in me o il cosmo in me o l’animale o il colore, il ritmo, l’aria che attraversa il flauto, l’impensabile e tutte le figure della libertà.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
LO SPIRITO CRITICO E L’AMORE CONOSCITIVO. LA LEZIONE DEL ’68 (E DELL ’89). Un omaggio a Kurt H. Wolff e a Barrington Moore Jr.
NUOVO REALISMO E "GAIA SCIENZA": LA LEZIONE DI DANTE (E NIETZSCHE), OGGI. CONOSCERE SE STESSI E CHIARIRSI LE IDEE, PER CARITÀ!
FLS
Recensione
Finiamola con il sistema clericale
di Andrea Lebra *
È un libro che in Francia sta riscuotendo notevole successo. Esso affronta di petto e in modo meticoloso e documentato una delle questioni che stanno particolarmente a cuore a papa Francesco: come prevenire, contrastare e superare nella Chiesa quel «brutto male che ha radici antiche» (meditazione mattutina del 13 dicembre 2016) costituito dal clericalismo, «modo anomalo di intendere l’autorità nella Chiesa» e «atteggiamento che non solo annulla la personalità dei cristiani, ma tende anche a sminuire e a sottovalutare la grazia battesimale» posta dallo Spirito Santo nel loro cuore (Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018).
Il saggio (Edizioni du Seuil, aprile 2020) è intitolato En finir avec le cléricalisme. Lo ha scritto Loïc de Kerimel, padre di quattro figli e nonno di sei nipoti, fratello del vescovo di Grenoble-Vienne, Guy de Kerimel, apprezzato docente di filosofia per quasi trent’anni in un liceo di Le Mans, acuto teologo, assiduo lettore delle opere di uno dei più autorevoli teologi francesi, il gesuita Joseph Moingt deceduto ultracentenario il 28 luglio 2020.
Cofondatore dell’associazione Chrétiens en marche per una presenza attiva e responsabile del laicato nella Chiesa, particolarmente impegnato nell’ambito della Conférence Catholique des Baptisé-e-s Francophones per una riforma profonda della Chiesa, Loïc de Kerimel ha anche un ruolo particolarmente attivo nell’Amitié judéo-chrétienne de France, associazione che ha come obiettivo quello di favorire il dialogo tra cristiani ed ebrei.
Radici culturali del clericalismo
Preceduto da una bella prefazione di Jean-Louis Schlegel, redattore di Esprit, la rivista fondata nel 1932 da Emmanuel Mounier, En finir avec le cléricalisme ha il merito di andare alle radici teoriche e culturali del clericalismo, una malattia cronica di cui soffre il cristianesimo dalla fine del secondo secolo dell’era cristiana. Pubblicato nell’aprile 2020, poco dopo la morte prematura dell’autore, può essere considerato come un suo testamento spirituale.
Intento di Loïc de Kerimel non è tanto quello di stigmatizzare le forme devianti del clericalismo nella Chiesa sfociate - come ha affermato papa Francesco nella Lettera al popolo di Dio del 20 agosto 2018 - negli abusi sessuali, di potere e di coscienza, quanto piuttosto quello di evidenziarne il carattere sistemico.
Quest’ultimo è individuato dall’autore nel fatto che si siano introdotte e reiterate in seno al “popolo di Dio” le categorie della separazione (clero/laici, uomini/donne, puro/impuro), della gerarchizzazione (vescovi/presbiteri/diaconi/religiosi/fedeli), dell’emarginazione della donna e della sacralizzazione di una persona mediante l’imposizione delle mani che crea le condizioni per sentirsi parte di una casta (quella “sacerdotale”) detentrice di competenze e di attribuzioni esclusive ed escludenti.
Il carattere sistemico di quello che papa Francesco denuncia come «un modo non evangelico» di concepire il ruolo ecclesiale del presbitero (discorso del 6 ottobre 2018 ai pellegrini della Chiesa greco-cattolica slovacca) o come «una caricatura e una perversione del ministero» del vescovo (discorso del 24 gennaio 2019 ai vescovi centroamericani), ovvero ancora come «un pericolo dal quale devono guardarsi anche i diaconi» (discorso del 25 marzo 2017 ai preti e ai consacrati in occasione della visita apostolica a Milano), viene sviscerato percorrendo dapprima la storia dei primi secoli della Chiesa.
Configurazione gerarchico-sacrificale del sistema clericale
Secondo Loïc de Kerimel, all’origine del clericalismo vi è un processo di sacralizzazione della funzione del presbiterato che, a partire dalla fine del terzo secolo, la Chiesa nascente ha mutuato dalle strutture centralizzatrici della tribù giudaica dei Leviti. Il ceto sacerdotale costituirebbe una casta depositaria di poteri divini implicante una differenza non solo di grado, ma di natura tra il clero e i laici. Rispetto alla generalità delle persone battezzate, il clero sarebbe depositario di una superiorità religiosa derivante dal sacramento dell’ordine.
Paradossalmente, mentre la religione ebraica, con la sostituzione del tempio con la sinagoga, del rabbinato con il sacerdozio e del sistema sacrificale con lo studio della Torà, si trova di fatto, dopo la distruzione del Tempio nell’anno 70 d.C., desacralizzata e desacerdotalizzata, la Chiesa si struttura secondo categorie levitiche, come l’istituzione del sommo sacerdote (cioè del vescovo), la distinzione sacerdoti/laici, l’esclusione delle donne, la concezione sacrificale del culto e la reintroduzione dello “spazio sacro” interamente ad esso dedicato e accessibile solo al clero.
L’autore, al riguardo, cita la formula lapidaria usata da Joseph Moingt nella sua opera Esprit, Église et monde - De la foi critique à la foi qui agit, Éditions Gallimard, Paris 2016, p. 216: l’Antico Testamento fondato sulla legge ha sopraffatto il Nuovo fondato sull’amore vicendevole (p. 29).
All’inizio non era così
Quindici i capitoli del libro distribuiti in tre parti. La prima (capitoli da 1 a 6) prende in esame la nascita del «sistema clericale», in contrasto con l’insegnamento di Gesù e con la vita delle prime comunità cristiane. L’elemento più problematico del processo che lungo la storia ha subìto il ministero ordinato - vissuto oggi concretamente nei distinti ruoli del vescovo, del presbitero e del diacono - è l’assunzione di un forte carattere sacrale e sacerdotale, che all’inizio gli era completamente estraneo.
Significativo che gli scritti neotestamentari, compresi gli apocrifi, concordino nell’attribuire a Gesù una discendenza genealogica che non ha nulla a che fare con la tribù di Levi, escludendolo così in radice dall’appartenenza al ceto sacerdotale.
A proposito di Gesù - e dei suoi apostoli - i Vangeli non parlano mai di sacerdozio. Tanti i titoli a lui attribuiti (Maestro, Profeta, Figlio di Davide, Figlio dell’uomo, Messia, Signore, Figlio di Dio), ma mai quello di Sacerdote o di Sommo sacerdote (p. 45).
«Leggendo i testi delle origini cristiane, ci si può rendere conto che nessun apostolo e nessun’altra persona si separa dalla comunità in virtù di un carattere sacro, o si comporta in quanto ministro di un culto nuovo o compie atti specificamente rituali. Si può osservare che non c’è alcuna distinzione tra persone consacrate e non consacrate... Non ci sono spazi occupati da un’istituzione sacerdotale». Lo scrive Joseph Moingt (in: Dieu qui vient à l’homme, t. 2/2, Les Éditions du Cerf, Paris 2008, p. 842), il teologo spesso richiamato da Loïc de Kerimel.
Ad essere indelebile nell’ambito del «santo popolo fedele di Dio» - scrive l’autore - è la condizione comune dei battezzati e delle battezzate alla quale tutto, compreso l’esercizio dell’autorità, è subordinato (p. 41).
È quanto emerge dalle Scritture ed è ciò che il concilio Vaticano II ha affermato in modo autorevole: prima del ministero ordinato, prima cioè del «sacerdozio ministeriale» del vescovo, del presbitero e del diacono, vi è la condizione comune di tutti i credenti in virtù del battesimo, significativamente definita «sacerdozio comune». Ed è ciò che, purtroppo, a livello pratico e diffuso, per il momento non pare essere stato recepito dalla Chiesa, anche se fa ben sperare l’insistenza di papa Francesco nel rimettere al centro il battesimo come base ineludibile della vita cristiana.
Detto in altri termini con riferimento al presbiterato, è dal battesimo che si origina non il “potere” su una comunità di credenti, ma il “servizio” ad essa. Il sacramento dell’ordine non sacralizza la persona sulla quale vengono imposte le mani, ma ne radicalizza piuttosto la vocazione battesimale.
Il clericalismo: un problema la cui soluzione non è dietro l’angolo
Nella seconda parte del suo saggio (capitoli da 7 a 11), l’autore si sofferma sull’evoluzione e sul rafforzamento del sistema clericale nel corso della storia della Chiesa.
Stigmatizzando i legami tra la violenza e il sacro a partire dagli studi di René Girard (p. 143), egli rilegge la Riforma di Lutero e il Concilio di Trento che ha accentuato la dimensione sacrificale dell’eucaristia e della sacralità della figura del prete, mettendo decisamente in ombra la centralità del fondamento battesimale che accomuna tutti i credenti.
Per quanto riguarda i nostri tempi, non nasconde la sua delusione in presenza del fenomeno della riclericalizzazione galoppante presente in alcuni ambiti ecclesiali e che sembra interessare soprattutto i «preti della generazione Giovanni Paolo II» che nutrono la nostalgia «di un sacro inglobante che esonera il singolo individuo dalla responsabilità di vivere e di pensare» (p. 197).
Il che lo induce a prendere atto che il sistema clericale sembra avere ancora un futuro decisamente roseo, anche perché a volere preti clericali sono numerose e potenti famiglie di affiliati appartenenti per lo più a categorie socioprofessionali elevate (p. 198). Presbiteri, non sacerdoti!
Nella terza parte (capitoli da 12 a 15) Loïc de Kerimel cerca di rispondere alla domanda se oggi sia possibile, da parte della Chiesa, uscire dal clericalismo concretizzando l’ideale cristico (p. 64) dell’uguaglianza di tutte le persone battezzate in ragione della medesima dignità cristiana proclamata certamente dal concilio Vaticano II, ma in modo non del tutto privo di equivoci.
L’autore cita al riguardo Gilles Routhier, uno dei più autorevoli storici del concilio Vaticano II, il quale ritiene che, a cinquant’anni dal Vaticano II, la prospettiva decisamente rivoluzionaria di considerare il tema del «popolo di Dio» prioritario rispetto alla costituzione gerarchica della Chiesa è rimasta a livello di pio desiderio.
In particolare, quanto all’immagine del ministro ordinato, il docente canadese di ecclesiologia ritiene che il Concilio si sia trovato davanti due prospettive: l’una, tradizionale, che parte dallo nozione di sacerdote - sul modello del “sacrificatore” delle religioni tradizionali, del greco hiéreus e dell’ebraico cohen -; l’altra, attestata nel Nuovo Testamento, basata sull’idea di presbiterato - lo statuto dell’anziano, dell’uomo (o della donna?) che, per esperienza maturata, è in grado di esercitare l’arte del discernimento e di contribuire a risolvere conflitti, dimostrando così di avere titolo per prendersi cura della comunità affidatagli, per dare il proprio contributo alla vita dei credenti in un servizio generoso e appassionato, per presiedere il culto.
Secondo Gilles Routhier, il Concilio ha scelto la seconda prospettiva e, conseguentemente, utilizza il termine presbitero là dove il concilio di Trento usa quello di sacerdote.
Citando, poi, Yves Congar, Routhier aggiunge che non solo il termine sacerdote non è biblico, ma che esso privilegia indebitamente, tra le tre funzioni attribuite a Cristo (sacerdotale, profetica, regale), quella sacerdotale a detrimento delle altre due.
Trattandosi di presbiteri, il loro ministero sacerdotale, cioè la celebrazione dell’eucaristia e dei sacramenti, non è che una delle dimensioni del loro ministero presbiterale. Quest’ultimo è in primo luogo ministero dell’evangelizzazione e del governo. La celebrazione dell’eucaristia non monopolizza la definizione di chi è e cosa fa il prete (p. 204).
Nessuna ineguaglianza in Cristo e nella Chiesa
Il riconoscimento - quanto a nazionalità, condizione sociale o sesso - della «eguale dignità in Cristo e nella Chiesa» (Lumen gentium 32 a commento di Gal 3,28) delle persone battezzate e la conseguente fine del «dominio maschile» costituiscono la condizione sine qua non sia della possibilità di uscita dalla crisi che attanaglia la Chiesa dopo gli scandali in tema di abusi sessuali, di potere e di coscienza, sia più semplicemente della fedeltà all’Evangelo (p. 229).
La radicale uguaglianza di tutti i membri del «popolo di Dio» senza discriminazioni di nazione, di condizione sociale o di sesso non annulla le differenze di funzioni, ma fa sì che l’esercizio di queste ultime non generi scissioni nel corpo ecclesiale, allontani ogni forma deviante di autoritarismo e, nello stesso tempo, valorizzi diversità e complementarietà dei carismi (cf. 1Cor 12) a servizio del bene comune (p. 257).
Soprattutto, «si potrà parlare - afferma l’autore - di uscita dal sistema clericale solo il giorno in cui a nessuna donna sarà impedito di esercitare le funzioni di governo, di insegnamento e di culto» riservate oggi ai maschi. Ma aggiunge anche che, prima di pensare di aprire alle donne la possibilità di accedere al ministero presbiterale, è necessario desacralizzarlo e desacerdotalizzarlo, evitando di strutturarlo secondo un rigido e discriminante ordine gerarchico (p. 241).
Mettere fine all’esclusione delle donne dovuta al sistema clericale dimostrerebbe davvero che, con Gesù di Nazaret, si è passati dal sacro al santo, da una concezione elitaria di salvezza alla convinzione che Dio si dona immediatamente a tutti e a tutte senza escludere nessuno (p. 244).
* Fonte: Settimana News, 23 novembre 2020 (ripresa parziale).
Parigi, 24/02/2021
La laicità o la libertà di credere e di non credere.
di Susanna Magri *
Troppo spesso la laicità francese è considerata ingiusta e intollerante, e il progetto del presidente Emmanuel Macron per contrastare l’islam radicale è assimilato a un’offensiva contro la religione musulmana nel suo insieme. Tentiamo di far chiarezza esaminando a grandi linee la realtà dell’esercizio della laicità in un Paese che non riconosce all’individuo, nello spazio pubblico, che la sua qualità di cittadino.
Il dibattito si è spesso focalizzato, in Francia e all’estero, su alcune leggi che riguardano esplicitamente le religioni e l’islam in particolare. Si tratta della legge del 2004 che proibisce alle donne musulmane di portare il velo nelle scuole, ma che proibisce nel contempo l’ostentazione di qualsiasi altro segno di appartenenza religiosa, come la croce e la kippah. La legge del 2010 non autorizza il velo integrale nello spazio pubblico, perché celando il viso impedisce il riconoscimento della persona.
Il dibattito prima e dopo l’adozione di queste disposizioni fu vivace, ma esse non hanno altro scopo che d’imporre il rispetto della laicità a tutte le religioni. Se l’islam è più visibilmente interessato, non lo è in quanto tale, ma perché le sue frange radicali rivendicano e impongono ai fedeli, e alle donne in modo particolare, l’ostentazione nello spazio pubblico dei segni di appartenenza confessionale.
A tal proposito, è opportuno insistere sulla realtà dell’offensiva dell’islamismo radicale per affermare il primato della Sharia sulla legge francese a partire dagli anni Novanta, offensiva illustrata recentemente dal caso di Mila, la ragazza minacciata di stupro, di morte e fisicamente aggredita per aver criticato l’islam sulla rete e ora costretta alla clandestinità («Le Monde», 3 ottobre 2020).
Non a caso, la laicità è un pilastro fondante della Repubblica francese. Essa garantisce una libertà fondamentale, che non è solo quella di praticare la religione di propria scelta, ma anche di non praticarne alcuna, istituendo il «diritto di credere e di non credere». Come scrive Pascal Bruckner, la laicità «protegge le religioni e ci protegge dalle religioni». François Héran dopo l’assassinio di Samuel Paty ribadisce: «la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (1948) afferma il diritto di cambiare religione o di cessare di credere: ed è per questa ragione che l’Arabia Saudita ha rifiutato di sottoscriverla» (Lettre aux professeurs d’histoire-géographie, «La vie des idées», 30 ottobre 2020).
In dicembre si è aperto in Parlamento il dibattito sul progetto di legge mirato a combattere il «separatismo islamico». Il nemico da combattere, secondo il presidente Macron, non è l’islam ma «un progetto cosciente, teorizzato, politico-religioso di creare una contro-società le cui manifestazioni concrete sono la descolarizzazione dei bambini, lo sviluppo di pratiche sportive e culturali comunitarizzate come pretesto per insegnare principi non conformi alle leggi della Repubblica, quali la negazione dell’uguaglianza tra uomini e donne, della dignità umana». Ed è così che il separatismo raggiunge il suo intento: «rifiutare la libertà d’espressione, la libertà di coscienza, il diritto di blasfemia. È così che a poco a poco conduce alla radicalizzazione».
Ma il progetto ha anche una componente autocritica: lasciando che interi quartieri si trasformino in ghetti, in concentrazioni di popolazioni secondo le origini geografiche e gli ambienti sociali, in nidi di miseria e di difficoltà, la Repubblica, ammette Emmanuel Macron, non ha mantenuto la sua promessa. Non sorprendentemente, il nuovo impegno politico di porre rimedio a questo stato di cose è stato immediatamente criticato come insufficiente. Le critiche si sono concentrate sulla politique de la ville applicata alle periferie urbane. Mentre i responsabili della gestione di questa politica chiedono di potenziarla, antropologi e sociologi ne evidenziano i limiti: migliorare il destino dei giovani dei «quartieri» implica dare loro la possibilità di uscirne. Non c’è mobilità sociale senza mobilità spaziale: disfare i ghetti significa aprire le città. La sfida non è solo urbanistica, ma economica e sociale: si tratta di far ripartire l’ascensore sociale rimasto fermo da troppo tempo. Ma nel contempo bisogna ostacolare sia le discriminazioni che chiudono le porte dell’impiego e della promozione professionale, sia le costrizioni religiose e culturali che impediscono l’emancipazione, soprattutto femminile, dalla famiglia e dalla comunità d’origine.
Combattere gli ostacoli religiosi all’emancipazione sociale fa dunque parte degli obiettivi che dovrebbe perseguire una democrazia. Ora, nell’arsenale di strumenti volto ad aprire l’orizzonte di ogni cittadino, rientra, non ultima, la critica della religione. Il diritto francese ne consacra la legittimità, motivando così, spesso, il dissenso nei suoi riguardi. È il caso di opinioni che invocano l’offesa per giustificare il limite della libertà d’espressione. La caricatura, specie quando è cruda come negli ultimi «Charlie-Hebdo», è allora considerata un insulto alla religione, quindi alimento di conflitti e violenza. La verità è tutt’altra.
Il diritto francese distingue l’insulto al credente e l’ingiuria alla religione. Il primo è reato, il secondo
no - così per esempio la richiesta di condanna di associazioni musulmane contro gli epigrammi del romanziere Michel Houellebecq, fu respinta dai tribunali. La cultura anglosassone, ma anche italiana, può ammettere la critica alla religione, a volte più che giustificata nel caso della Chiesa cattolica, ma non la satira. Eppure la satira, spesso veemente, discende dalle Lumières, è figlia del 1789, dell’ostilità a un clero ancien régime, è legata alla decristianizzazione profonda della Francia lungo i due secoli successivi. La caricatura religiosa, il diritto di blasfemia vengono da lì, così come discendono dai Diritti dell’uomo sanciti dalla Rivoluzione francese i principi di tolleranza e libera espressione delle opinioni. La loro portata è universale e dovrebbe essere considerata come tale da tutte le democrazie. Certo, la bestemmia può offendere, ma offende solo chi vuole considerarsi offeso.
Ognuno è libero di comporre o no caricature religiose, di guardarle o no, di sentirsene offeso o no. Ma nessuno è libero di perseguitare chi pensa, legge, disegna, diversamente da sè. Nei confronti di questo pilastro fondamentale delle nostre democrazie non ci sono compromessi possibili.
“Addomesticare la Rivoluzione. I «principî del 1789» nella cultura cattolica francese del Secondo Impero” di Luca Sandoni *
Dott. Luca Sandoni, Lei è autore del libro Addomesticare la Rivoluzione. I «principî del 1789» nella cultura cattolica francese del Secondo Impero pubblicato dalle Edizioni della Normale: quale dibattito intorno alla Rivoluzione e ai suoi valori animò il cattolicesimo francese negli anni del Secondo Impero?
È un dato di fatto piuttosto assodato, nel sentire comune come nella storiografia, che tra cattolicesimo e Rivoluzione francese non corra buon sangue. Come potrebbe essere diversamente? I rivoluzionari, oltre ad aver tagliato la testa a un re, hanno imprigionato un papa, Pio VI (e un altro, Pio VII, è stato imprigionato da Napoleone), hanno stravolto l’assetto della Chiesa francese e ridotto gli ecclesiastici alla stregua di funzionari, salvo poi approdare al deismo e alla scristianizzazione. Più in generale, la Rivoluzione francese ha sovvertito un regime fondato sull’unione molto stretta, benché tutt’altro che disinteressata, tra potere politico e religioso, aprendo la strada alla secolarizzazione della società. Di tutti questi temi si è alimentata fin da subito la pubblicistica cattolica controrivoluzionaria, che ha trovato in autori come Joseph de Maistre, Louis de Bonald e Félicité Lamennais i suoi esponenti più ispirati. Le loro opere, che hanno conosciuto grandissimo successo, hanno fissato il canone della vulgata controrivoluzionaria cattolica: la Rivoluzione francese è un’opera empia e satanica, permessa da Dio solo come ammaestramento e punizione per i peccati degli uomini, la quale ha avuto origine dalla cultura illuministica e, prima, dalla Riforma protestante; con la Rivoluzione non si può quindi scendere ad alcun compromesso, bisogna combatterla senza quartiere e creare le condizioni per rimuovere le cause vicine e lontane che l’hanno resa possibile.
Questa lettura del tutto repulsiva della Rivoluzione ha trovato indubbiamente grande fortuna nel mondo cattolico ed è stata largamente maggioritaria per tutto il XIX secolo e la prima metà del XX. Eppure l’insistenza con cui, in sede storiografica, si è sottolineato e si sottolinea il carattere onnipresente e pervasivo di questa lettura ha finito per semplificare troppo il quadro e far perdere di vista le sfumature. Il mio libro parte proprio da questa percezione e dalla constatazione che le interpretazioni cattoliche sulla Rivoluzione, lungi dal risolversi nell’adesione a un paradigma monolitico, risentono della varietà e della complessità dei tempi e dei contesti politici in cui vengono di volta in volta formulate. Al pari di quanto avviene per altre “famiglie” politiche, anche per i cattolici la Rivoluzione, intesa come momento fondativo della modernità socio-politica, è un avvenimento costantemente rimesso in prospettiva dagli eventi contemporanei e spesso le lenti dell’attualità ne restituiscono immagini e riflessi diversi. D’altronde le esigenze politiche del presente condizionano sempre l’incessante rilettura a cui gli uomini sottopongono il loro passato e la Rivoluzione francese non fa eccezione, neppure per i cattolici.
Le mie ricerche si sono concentrate sul caso francese e su un periodo di tempo ben preciso: gli anni successivi alla Rivoluzione del 1848 e in particolare i due decenni del cosiddetto Secondo Impero (1851-1870). Le ragioni di questa scelta sono essenzialmente due. Da un lato gli eventi del Quarantotto fungono da catalizzatore di nuove riflessioni cattoliche sulla Rivoluzione e la sua eredità: Sylvain Milbach ha mostrato che già negli anni Quaranta negli ambienti cattolico-liberali vengono avanzate letture che si discostano dal canone controrivoluzionario, di cui rigettano in particolar modo il determinismo astorico, letture che continuano e si complicano dopo il 1848. Dall’altro lato, il carattere ideologicamente ibrido del Secondo Impero, un regime che si presenta al tempo stesso come erede e liquidatore della Rivoluzione, alimenta ulteriormente queste riflessioni. Un fatto, in particolare, appare determinante: la nuova costituzione del 1852 afferma, all’art. 1, di «riconoscere, confermare e garantire i grandi principî del 1789». Benché estremamente vago, il sintagma «grands principes de 1789» assurge così a simbolo dei valori liberal-rivoluzionari posti a fondamento dell’ordinamento pubblico francese e su di esso saranno costretti a esercitarsi a lungo esegeti e interpreti cattolici, nel difficile tentativo di spiegare come si possa essere al contempo buoni cittadini e buoni cattolici accettando quei principî.
Qual era il contesto politico ed ecclesiale del tempo?
I decenni centrali del XIX sono anni di ansie e di paure. Gli sconvolgimenti del Quarantotto hanno mostrato la forza e la vitalità degli ideali rivoluzionari, che si caricano allora di più accese rivendicazioni sociali. La repressione violenta dei moti, seppur vittoriosa, non basta a cancellare il senso di catastrofe suscitato nelle classi dirigenti e borghesi di mezza Europa e un po’ dovunque la restaurazione dell’ordine si accompagna a un marcato ripiegamento conservatore. Più forti si levano le voci di quanti denunciano l’insufficienza di una repressione meramente materiale e rivendicano, per evitare nuove rivoluzioni, la necessità di una rifondazione morale della società, di cui solo la religione può farsi fondamento e garante.
In Francia la rivoluzione in un primo momento trionfa. L’insurrezione scoppiata a Parigi nel febbraio 1848 rovescia il regime monarchico-costituzionale instaurato nel luglio 1830 (la cosiddetta Monarchia di luglio) e porta alla nascita di una repubblica, la Seconda (dopo quella del 1792). La situazione però cambia rapidamente: nel giugno 1848 una rivolta operaia scoppiata a Parigi viene soppressa nel sangue e da allora il governo repubblicano e una parte del paese si spostano su posizioni sempre più conservatrici. Nel dicembre dello stesso anno questa tendenza viene consacrata dall’elezione a presidente della Repubblica di Luigi Napoleone Bonaparte, nipote dell’imperatore Napoleone. Tre anni dopo, egli prende il potere con un colpo di Stato (dicembre 1851) e instaura il Secondo Impero.
In queste vicende, i cattolici francesi mantengono un atteggiamento ondivago. Essi accolgono con favore la caduta della Monarchia di luglio e l’instaurazione della repubblica. Le paure sociali e i vecchi pregiudizi antidemocratici, però, prendono ben presto il sopravvento e tra le masse cattoliche hanno facile presa le narrazioni di quanti denunciano le presunte trame dei “rossi” per trasformare la Francia in una repubblica socialista. Così, la maggior parte dei cattolici e del clero accoglie con sollievo e favore il colpo di Stato di Luigi Napoleone (alcuni vescovi lo definiscono addirittura un “miracolo della Provvidenza”), tanto più che il nuovo regime, benché illiberale e autoritario, si dimostra per tutti gli anni Cinquanta estremamente benevolo nei confronti della Chiesa francese, alla quale non lesina elargizioni economiche e riconoscimenti pubblici.
Dal canto suo, anche il papato esce piuttosto malconcio dagli eventi del Quarantotto. Pio IX, che fin dalla sua elezione (1846) è stato presentato - e si è lasciato presentare - come un papa tollerante e “liberale”, è rimasto travolto dalle sue stesse ambiguità e nel novembre 1848 è dovuto fuggire da Roma, lasciando lo Stato pontificio in preda alla rivoluzione. Riportato sul trono grazie all’intervento delle forze austriache e francesi, dal 1850 cambia completamente registro e inaugura una politica reazionaria, rifiutando ogni compromesso con le istanze della modernità socio-politica.
Al tempo stesso - come ha mostrato Giovanni Miccoli nel suo saggio Il mito della cristianità (1985) - è proprio a partire da questi anni, e in conseguenza della disillusione post-1848, che Pio IX comincia ad avallare, recependola anche a livello magisteriale, quella visione intransigente della storia e degli eventi contemporanei, elaborata nel corso del Settecento in risposta alla polemica illuministica e alle distruzioni rivoluzionarie, secondo la quale le società e gli Stati possono curare i loro mali solo tornando a sottomettersi alla superiore direzione della Chiesa, come ai tempi della “mitica” societas christiana medievale. In parallelo e funzionalmente a questo progetto di restaurazione teocratica, Pio IX opera tenacemente per favorire l’accentramento della Chiesa sul suo vertice romano e la “romanizzazione” dei culti e dei costumi ecclesiastici, processo che troverà il suo culmine nella proclamazione del dogma dell’infallibilità papale durante il Concilio Vaticano I (1870).
Quali diverse letture della Rivoluzione si affiancavano alle tradizionali posizioni contro-rivoluzionarie degli ambienti cattolici ottocenteschi?
Negli anni del Secondo Impero i tentativi cattolici di ridefinire l’interpretazione della Rivoluzione possono essere ricondotti a due filoni principali. Il primo riguarda la variegata “galassia” del cattolicesimo liberale. Questo gruppo di cattolici, minoritario ma allora piuttosto influente, ritiene che i cambiamenti sociali e politici causati dalla Rivoluzione siano irreversibili e che la Chiesa debba rinunciare a ogni nostalgia confessionale e servirsi lealmente delle libertà messe a disposizione di tutti dalle moderne costituzioni per svincolarsi dall’abbraccio compromettente con il potere secolare e dare nuovo slancio al suo apostolato. Se per alcuni cattolici liberali questa constatazione si accompagna ancora a un giudizio negativo sulla Rivoluzione francese, altri (come Louis de Carné, Albert de Broglie, Augustin Cochin) rivalutano sul piano dell’analisi storica l’operato dell’Assemblea costituente del 1789 e sono disposti a riconoscere nei «principes de 1789» una più compiuta realizzazione dei valori evangelici.
Una delle tesi più ardite, in questo senso, è quella avanzata da un’opera del 1861, Les principes de 89 et la doctrine catholique, destinata a suscitare grandi polemiche. Per provare che i cosiddetti principî del 1789 sono del tutto compatibili con l’insegnamento della Chiesa, l’autore - il sacerdote Léon Godard - sceglie di identificarli testualmente con i diciassette articoli della Déclaration des droits de l’homme et du citoyen del 1789 e confronta poi quest’ultimi con i testi di alcuni dei principali teologi scolastici (Tommaso d’Aquino, Roberto Bellarmino, Francisco Suárez), dimostrandone l’ortodossia. L’iniziativa è rischiosa ed è oggetto di molte critiche, ma contribuisce a rendere meno astratto il dibattito sui principî del 1789, spostandolo sul piano dell’analisi testuale.
Il secondo filone interpretativo proviene dagli ambienti del cosiddetto neogallicanesimo, ossia quel gruppo di ecclesiastici che reagiscono contro l’eccessivo accentramento e la deriva intransigente della Curia romana rivendicando le tradizionali libertà della Chiesa francese (o gallicana). Nel farlo essi da una parte cercano l’appoggio del governo imperiale, il quale, a partire dal 1859, entra sempre più in collisione con la S. Sede a causa della questione romana; dall’altra difendono le conquiste liberali della Rivoluzione come un tratto specifico dell’identità francese.
Principale esponente di questa linea è senza dubbio Henri Maret, decano della Facoltà teologica della Sorbona. Attraverso una densa e ricca attività di riflessione egli sostiene la necessità di superare definitivamente il regime confessionale inaugurato dai tempi di Costantino e di sostituirlo con uno fondato solo sulla libertà generale, dove la coscienza sia libera da ogni coercizione e la fede possa essere diffusa solo con la persuasione. La Rivoluzione francese ha segnato l’inizio di questo nuovo regime di libertà e Maret riconosce ai principî del 1789 un valore genuinamente evangelico. Le sue tesi sono quindi molto vicine a quelle dei cattolici liberali, ma ciò che separa i due gruppi è la scelta tutta politica dei neogallicani di cercare il sostegno del governo imperiale per lottare contro lo strapotere di Roma, mentre i cattolici liberali si tengono sempre su posizioni di netta opposizione al Secondo Impero, di cui condannano la demagogia e la politica antiliberale.
Quale atteggiamento tennero la S. Sede e in generale le autorità ecclesiastiche francesi di fronte a posizioni di questo tipo?
Pio IX, come si è detto, non è disposto ad accettare alcun compromesso con i valori della Rivoluzione. Eppure per diverso tempo adotta un atteggiamento interlocutorio nei confronti dei tentativi di “cattolicizzare” i principî del 1789: dal 1848 in poi, la Francia mantiene un corpo di occupazione a Roma, per proteggere la S. Sede da nuovi attacchi, per cui il papa preferisce evitare prese di posizione dottrinali che possano urtare i suoi protettori. Queste cautele si affievoliscono a partire dal 1859, con l’acuirsi della questione romana.
Il primo intervento formale di Roma in merito ai principî del 1789 si verifica nel 1862, quando viene messa all’Indice dei libri proibiti l’opera di Godard ricordata poc’anzi. Si tratta di un provvedimento di portata limitata, ma che scatena un vespaio di polemiche, sollecitando perfino l’intervento della diplomazia francese. La S. Sede cerca di gettare acqua sul fuoco e consente a Godard di correggere e ripubblicare l’opera. La nuova edizione è pesantemente modificata e l’intento iniziale stravolto, ma l’esito della vicenda permette comunque ai fautori dei principî del 1789 di sostenere che Roma non li ha apertamente condannati.
Si tratta però solo di una tregua. Pio IX sta preparando da tempo un atto dottrinale di condanna contro gli errori moderni e quest’atto vede la luce l’8 dicembre 1864 sotto forma di un’enciclica (la Quanta cura) e di un elenco di errori condannati (il Sillabo). In Francia questi due documenti scatenano un putiferio. Il governo imperiale vieta la loro pubblicazione, in virtù del concordato, sostenendo che contengono principî contrari alla costituzione del paese, mentre la gran parte dell’episcopato francese si sforza di dimostrare che non sussiste alcuna incompatibilità. Al di là delle distinzioni dialettiche messe in opera in questo frangente, i tentativi cattolici di scendere a compromessi con l’eredità della Rivoluzione ne escono pesantemente delegittimati e molti cattolici liberali si votano al silenzio piuttosto che contraddire apertamente il magistero papale.
Un ultimo momento di scontro si ha cinque anni dopo, in occasione del Concilio Vaticano I. Cattolici liberali e neogallicani cercano di sfruttare questa occasione di discussione collegiale per porre un freno all’egemonia delle tesi intransigenti e antiliberali, facendo leva sul fatto che molti padri conciliari provengono da parti del mondo in cui il cattolicesimo prospera e si diffonde solo grazie alle libertà moderne. I loro avversari, però, li attaccano duramente e li accusano di voler fare una rivoluzione dentro la Chiesa e di voler imporre al suo interno i principî del 1789. Alla fine il Concilio non affronterà esplicitamente il tema delle libertà moderne, venendo interrotto anzitempo dallo scoppio della guerra franco-prussiana, ma con l’approvazione del dogma dell’infallibilità contribuirà a rafforzare la portata delle condanne papali del Sillabo.
Luca Sandoni (1988) è attualmente ricercatore presso il Centro interdipartimentale di ricerca sulle digital humanities dell’Università di Modena e Reggio Emilia, dove collabora a diversi progetti su digitalizzazione e archivi digitali. Formatosi alla Scuola Normale Superiore di Pisa, si occupa soprattutto di storia politica e culturale del cattolicesimo in età contemporanea. Nel 2012 ha curato l’edizione critica del Sillabo di Pio IX (Bologna, Clueb).
* Fonte: Letture.org.
Il discorso più bello
Macron ha indicato una direzione ai francesi (e a noi che cos’è la leadership)
Il presidente non è un politico empatico e ha commesso molti errori di sottovalutazione del virus, ma ieri sera con parole magnifiche ha ammesso le sue mancanze, si è identificato con i sacrifici dei suoi connazionali e ha mostrato a tutti una visione per il futuro
di Sofia Ventura (Linkiesta, 14 aprile 2020)
Emmanuel Macron non è un leader dotato di grande empatia. Quella poca che è sino ad oggi riuscito a trasmettere è stata spesso abilmente costruita. Eppure nel discorso rivolto ai francesi ieri sera (il terzo dall’inizio della crisi del coronavirus) è parso diverso. O la situazione ha fatto maturare qualcosa in lui, o le sue doti di attore sono davvero mirabili. Forse entrambe le cose.
Come insegna il metodo Stanislavskij, la comunicazione degli stati d’animo passa attraverso l’attivazione di esperienze emotive riposte nella propria memoria esistenziale. Quindi, anche se abile attore - con una gestualità particolarmente marcata rispetto al consueto e una espressività del volto, dello sguardo, anch’essa più capace di muovere reazioni in chi lo segue - è parso in grado di mettere in gioco un coinvolgimento di particolare profondità. Comunque sia, si è avvicinato a quella dimensione del tragico che sta attraversando le nostre società e che le classi dirigenti occidentali sembrano non essere più in grado di cogliere e quindi di rappresentare.
Poi vi sono i contenuti. Gli studiosi della gestione della crisi ci hanno spiegato che nella comunicazione di crisi, anzi, ancor di più, nel processo di meaning-making, ovvero il tentativo di «ridurre l’incertezza pubblica e politica e ispirare fiducia nei leader che devono gestire la crisi attraverso l’elaborazione e l’imposizione di una narrativa convincente», i leader sono impegnati nello sforzo di «formulare un messaggio che offra una definizione autorevole della situazione, fornisca speranza, mostri empatia per le vittime e assicuri che le autorità stanno facendo del loro meglio per minimizzare le conseguenze della minaccia» (Boin, t’Hart, Stein, Sundelius, The Politics of Crisis Management, 2017).
Tutto questo ha informato il messaggio di Macron ai suoi concittadini. Partiamo dalla notizia. Le restrizioni proseguiranno sino a lunedì 11 maggio, ovvero ancora per un mese. La riapertura sarà però condizionata al proseguire del rallentamento della propagazione del virus. All’ulteriore sforzo chiesto ai francesi («mi rendo pienamente conto, nel momento stesso in cui ve lo chiedo, dello sforzo che vi chiedo») corrispondono però nuovo impegno per alleggerire il peso economico della crisi e ogni settore, ogni problema, è accuratamente citato.
Al tempo stesso, per la progressiva ripartenza prevista dall’11 maggio, che contempla la riapertura di diversi settori produttivi e commerciali, il governo francese si impegna con una tabella di marcia, sempre restando fondamentale il corrispettivo miglioramento della situazione sanitaria. Le scuole riapriranno, ma non l’insegnamento universitario, secondo rigide regole di sicurezza, i luoghi come bar, ristoranti e teatri in questa fase rimarranno ancora chiusi, i grandi eventi non potranno tenersi almeno sino a metà luglio. La situazione sarà monitorata ogni settimana per adattare le misure e tenere informati i francesi.
Agli anziani e a persone con problemi di salute sarà chiesto di rimanere, almeno in un primo tempo, ancora confinati nelle loro abitazioni. Accanto a tutto questo dal momento della progressiva riapertura l’impegno del governo è quello di procedere a un uso intensivo di test (coinvolgendo tutti i laboratori pubblici e privati e con l’obiettivo di essere in grado di testare dall’11 maggio tutti coloro che presentano anche un solo sintomo) e al tracciamento, così come alla distribuzione di mascherine per i cittadini, differenziate a seconda dei ruoli e il cui uso in talune situazioni, come sui trasporti pubblici, diverrà ‘sistematico’ (immaginiamo obbligatorio). Il piano, nei dettagli e basato su questi principi, sarà presentato dal governo tra quindici giorni.
Ammettendo che non è possibile dare risposta al quesito su quando si potrà tornare alla vita di prima, Macron ha comunque finalmente indicato una direzione e le tappe sulle quali per ora è sensato ragionare, insistendo sulla necessità di monitoraggio e adattamento continui. Un leader che non traccia una direzione, d’altro canto, non è un leader e nel tempo una tale mancanza rischia di sottrargli credibilità e conseguentemente i mezzi per mobilitare il Paese.
Ma c’è stato anche dell’altro. Un altro non scontato. Innanzitutto, accanto alle rivendicazioni per ciò che è stato fatto, l’ammissione di ritardi ed errori. Forse non all’altezza di clamorosi errori come l’aver tenuto il primo turno delle municipali (errore del quale porta una responsabilità in realtà ancora non ammessa), ma non banale: «Eravamo preparati a questa crisi? L’evidenza mostra che non lo eravamo abbastanza», «Il momento ha rivelato delle lacune, delle insufficienze... come voi ho visto delle carenze, delle lentezze, delle procedure inutili, anche delle debolezze nella nostra logistica».
Macron ha raccontato dei passi per adattarsi a una crisi alla quale si era giunti impreparati: prendere decisioni difficili a partire da informazioni parziali, spesso mutevoli, adeguandosi di continuo a una realtà che ancora presenta molti lati sconosciuti. In sintesi, ha voluto coinvolgere i francesi in un processo in fieri dalle tante incognite, senza negarle. E ha evitato di colpevolizzarli, come en passant, ma non troppo implicitamente, aveva invece fatto nel suo secondo discorso del 16 marzo, quando si era riferito a comportamenti non responsabili che lo avrebbero costretto a rafforzare le misure restrittive.
Questa volta ha parlato di «nostri sforzi» che stanno dando i primi risultati positivi, ma quel «nostri» non è riferito alla Presidenza o al Governo, bensì alla Francia e ai francesi. Quelli in prima linea, medici, infermieri, pompieri, funzionari, soccorritori, chi lavora negli ospedali; in seconda linea, agricoltori, insegnanti, giornalisti, assistenti sociali, eletti locali, ovvero tutti coloro che continuano a lavorare per permettere al Paese di andare avanti; in terza linea, ogni cittadino col proprio senso civico. Con un ringraziamento a quelle autorità locali - più volte chiamate in causa - e a quei corpi della società civile che stanno rendendo la vita meno difficile ai più deboli.
Come la capacità di indicare una direzione, anche quella di far sentire ognuno parte essenziale di una impresa complessiva, di uno sforzo collettivo per salvaguardare una comunità e i suoi membri, costituisce una premessa fondamentale per mobilitare e farsi seguire. Anche mostrando di comprendere le sofferenze che il male che incombe e le risposte necessarie a combatterlo producono: «La paura per i nostri congiunti, per noi stessi ... la fatica e la stanchezza per alcuni, il lutto e il dolore per altri».
In particolare per chi vive con maggiori difficoltà: «Un periodo ancora più difficile per coloro che vivono in tanti in un piccolo appartamento, quando non si posseggono i mezzi di comunicazione necessari per imparare, distrarsi, avere degli scambi», per coloro che nel proprio contesto domestico vivono tensioni, e subiscono il rischio quotidiano di violenze; la solitudine e la tristezza dei nostri anziani. La parola speranza è più volte ripetuta, come è ripetuto il riferimento alla capacità di reagire, combattere e riuscire della Francia. Ma senza sfuggire alla gravitas del momento.
Emmanuel Macron ha agito tardi, ha assunto tardi la piena responsabilità della situazione, preceduta da marchiani errori e comportamenti a dir poco stupidi (come la serata a teatro alla fine di febbraio). Vedremo se e come saranno mantenuti gli impegni. Ma ieri ha parlato come un leader deve parlare in una situazione di crisi. Ha cercato di infondere fiducia fornendo alcune indicazioni certe nell’incertezza inevitabile del momento, tracciando una strada e mostrandosi aperto alla costruzione di soluzioni complesse. Con un coinvolgimento che non gli è consueto, ha mostrato di crederci. Della sua presidenza certamente il discorso più bello.
Chiesa Francia apre a riconoscimento figli sacerdoti
Le Monde, incontro segreto a febbraio, a giugno vedranno vescovi
di Redazione ANSA *
PARIGI. Apertura senza precedenti della Chiesa cattolica francese verso il riconoscimento dei figli di sacerdoti, secondo quanto annuncia oggi Le Monde. Stando a informazioni del quotidiano, alcuni figli di preti sono stati ricevuti per la prima volta da un responsabile ecclesiastico francese e a giugno testimonieranno davanti ad alcuni vescovi.
Tre figli di sacerdoti, membri dell’associazione francese Les Enfants du silence (in tutto una cinquantina di figli di preti) sono stati ricevuti per la prima volta - su loro domanda - da un responsabile ecclesiastico.
L’incontro, fin qui segreto, si è svolto il 4 febbraio a Parigi, nella sede della Conferenza episcopale di Francia (CEF). Per un’ora e mezzo, ad ascoltare la loro testimonianza, finora un tabù per la Chiesa, è stato il segretario generale, Olivier Ribadeau-Dumas. Una discussione "cordiale e costruttiva" secondo quanto spiegato dall’interessato, che ha ascoltato le "sofferenze" di questi uomini e donne abituati ad essere educati in una sorta di sentimento di vergogna e nel segreto, come "figli del peccato". Sempre secondo il quotidiano, gli esponenti di Les Enfants du Silence, "testimonieranno a giugno davanti ad alcuni vescovi".
Intervista a Christophe Guilluy
"Negli Scontri di Parigi è nata la secessione sociale"
di Anais Ginori (la Repubblica, 03.12.2018)
PARIGI Il geografo Christophe Guilluy ha inventato quattro anni fa il termine "France Périphérique" mappando sul territorio le classi popolari escluse dalla globalizzazione. «Per molto tempo non sono stato ascoltato», ricorda Guilluy, citato oggi come uno dei primi intellettuali ad aver avviato una riflessione sul divorzio tra popolo ed élite. I suoi libri - l’ultimo "No Society" che sarà tradotto in Italia - sono al centro dell’analisi sui gilet gialli, la grande rivolta della Francia Periferica. «È in corso una secessione interna all’Occidente», spiega Guilluy.
La Francia è l’epicentro di questa crisi?
«Da anni spiego che c’è un elefante malato in mezzo al negozio di porcellana. Molti rispondevano: ma no, è solo una tazza scheggiata. E invece l’elefante eccolo qui: è la classe media. Sono agricoltori e operai, famiglie delle zone semiurbane, piccoli commercianti e imprenditori che non arrivano a fine mese. Dopo Brexit, elezione di Trump, cambio di governo in Italia, tutti vedono il problema ma siamo ormai arrivati a un punto di insurrezione» . Quando è cominciata la "secessione" tra popolo ed élite?
«Io prendo come inizio la famosa frase di Margaret Thatcher del 1987: "There is no society". Il suo messaggio è stato ripreso non solo dai conservatori ma dall’insieme delle classi dominanti occidentali. Tutte hanno abbandonato la nozione di bene comune in favore della privatizzazione dello Stato.
Siamo così entrati in quella che definisco "a-società", con la crisi della rappresentanza politica, l’atomizzazione dei movimenti sociali, l’arroccamento delle borghesie, l’indebolimento del welfare».
Tutte le statistiche dimostrano che la Francia è oggi più ricca di qualche decennio fa. Non è un paradosso?
«È un andamento che giova solo al ceto medio alto: sono i vincenti della globalizzazione ormai asserragliati tra Parigi e le altre grandi metropoli. Il modello economico non sa integrare la maggioranza dei lavoratori».
C’è una specificità francese?
«Esiste una Francia periferica come esiste un’Italia periferica, tra Mezzogiorno e altre zone remote.
Mentre la sinistra pensa sia solo una questione sociale, la destra riduce tutto a una crisi identitaria.
Sbagliano entrambi. E a complicare le cose in Francia c’è un sistema di fabbricazione delle élite che produce un pensiero conformista».
Dove porterà questa crisi?
«È solo l’inizio. La buona notizia è che ormai i perdenti non sono più invisibili. Quel che succede in Francia ne è una straordinaria dimostrazione».
Ovvero?
«Non è un caso che il movimento abbia preso come simbolo il gilet giallo usato dagli automobilisti per essere avvistati sulle strade. È un modo rudimentale di combattere contro l’invisibilità sociale. I gilet gialli hanno già vinto la loro battaglia culturale come direbbe Gramsci. Finalmente si parla di loro».
L’unico collante della protesta è l’opposizione a Macron?
«Molti hanno pensato che potesse affrancarsi dall’ideologia dominante. Invece Macron si è allineato, come già avevano fatto Hollande, Sarkozy. Adesso l’unica soluzione per il presidente è prendere sul serio le rivendicazioni del popolo».
Alla fine sono i populisti che cavalcano la rabbia e ci guadagnano.
«I populisti si adattano alla domanda politica. Un buon esempio è Salvini, che viene dalla sinistra, è stato neoliberista, secessionista e oggi invece è in un governo che fa votare il reddito di cittadinanza e si fa applaudire nel sud Italia. Nel medio periodo però il voto populista non risolve nulla».
Perché?
«Le classi popolari non vogliono mendicare, non si accontentano di un nuovo sussidio o del reddito di cittadinanza. Quel che vogliono è poter vivere dignitosamente con un lavoro e una giusta remunerazione».
La Francia Periferica è orfana della sinistra?
«La gauche ha compiuto una doppia cesura: con la sua base popolare e con la sua visione teorica. Il partito comunista è stato forte perché rappresentava il proletariato, ma aveva una classe intellettuale capace di elaborare strumenti di trasformazione sociale. Solo ristabilendo un legame di fiducia tra l’alto e il basso si potranno ricostruire le società occidentali».
MAGGIO 68. LA BRECCIA. E. Morin: «una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro ... una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo...» *
Edgar Morin
Torno a raccontare il Sessantotto. La rivoluzione non è finita
dii Mario Baudino (La Stampa, 13.05.2018)
Edgar Morin pubblica per Cortina una raccolta di scritti sul ’68 e la intitola La breccia. È la metafora che il grande sociologo francese usò fin da subito, cronista in diretta del Maggio, antropologo della rivolta studiata dall’interno, in due lunghi articoli su Le Monde. Ora, a distanza di cinquant’anni, lui che nato Edgard Nahoum nel 1921 ha vissuto adolescente il ’36 e la esaltante vittoria delle sinistre nella Francia pre-bellica, ha combattuto nella Resistenza (trasformano il suo nome di battaglia in cognome anagrafico), ha partecipato ai movimenti che contestavano la guerra d’Algeria e soprattutto non ha mai smesso di studiare le dinamiche sociali e culturali, è convinto che quella breccia non si è ancora chiusa.
In che senso, professore?
«Nel senso che il Maggio francese non fece certo crollare la società borghese e forse non la cambiò di molto, ma aprì una breccia sotto la linea di galleggiamento di quel transatlantico magnifico che sembrava avviato verso un radioso futuro. La nave della società pareva solidissima, e invece scoppiò una rivolta generazionale. Gli adolescenti rivendicarono un’utopia libertaria, che contagiò tutti, gli operai, i borghesi, gli intellettuali. Finì presto, con la ricomposizione del vecchio sistema sociale e la deriva marxista leninista, ma quel che accadde fra il 3 e il 13 maggio rappresenta una delle rare estasi della storia, in cui tutti improvvisamente stanno benissimo, nessuno va da più dallo psicanalista o dal medico, nessuno ha più problemi nervosi».
Una sospensione improvvisa, ludica e fragilissima, del freudiano disagio della civiltà?
«Le cui tracce, oggi, si vedono però nel volontariato, nel mondo dell’economia solidale, nella volontà di una vita migliore senza inquinamento e senza sopraffazione. Questa è la breccia ancora aperta, la vera eredità, anche se la società è cambiata da allora. Pensi al mito del progresso».
In quel momento, non solo in Francia ma un po’ in tutto il mondo, una generazione di giovanissimi cominciò a dubitarne.
«Negli Anni Sessanta si era formata una bio-classe, con una cultura comune, valori condivisi, persino un certo modo di vestire. La loro fu una rivolta contro gli adulti, che coinvolse e trascinò con sé gli adulti. Il fenomeno non si è più ripetuto. E oggi, in tutti i Paesi, sappiamo che la legge del progresso non è più vera. Il futuro non significa automaticamente un miglioramento, ma semmai incertezza e angoscia. Le conquiste sociali di un tempo non esistono più, il dubbio coinvolge persino l’idea di democrazia e dei suoi valori. Tutto questo, senza che i più ne avessero la percezione, è cominciato allora».
Nostalgia?
«No, nostalgia mai. Ma ricordo la prima delle giornate del Maggio, il clima di festa, di libertà, di originalità. Il Super-Io dello Stato e della società si erano paralizzai, erano spariti. Sono momenti speciali, rarissimi. Ne ho vissuti anche altri: la liberazione di Parigi nel ’44, la rivoluzione dei garofani in Portogallo nel ’74, la caduta del Muro nell’89»
Le primavere arabe?
«Nei primi giorni, anche se poi, a differenza di questi altri momenti storici, si sono drammaticamente trasformate nel loro contrario».
Una lettura in prospettiva dal ’68 a oggi sembra dirci che l’utopia libertaria è destinata a essere sconfitta dal ritorno della politica e dell’ideologia.
«Oggi c’è la necessità di ripensare la politica, di lavorare alla ricostruzione di un pensiero politico: guardi i nostri due Paesi. Macron, con la sua avventura personale, ha decomposto la vecchia politica, ma non è riuscito nella ricomposizione di un pensiero nuovo. In Italia siete alla compiuta decomposizione dei partiti storici, e anche qui la necessità di una ricomposizione è evidente, anche se al momento non se ne vede la prospettiva. In gran parte dell’Europa trionfano forze di destra, revansciste, nazionaliste, populiste».
Nel suo Insegnare a vivere (uscito due anni fa sempre per Cortina) lei punta sull’insegnamento. Non su una ennesima riforma della scuola o dell’Università, ma su un nuovo orizzonte che superi la barriera tra saperi tecnologico-scientifici e formazione umanistica.
«Ci sono molte vie d’uscita dalla nostra attuale situazione, ma questa resta per me la principale».
Anche contro chi rivendica la propria ignoranza come un valore?
«Viviamo in una società di illusioni, come quella che ha appena citato. Un solo fatto è certo: la vera educazione per vivere non esiste ancora. Neppure io so quale sia. Ho scritto un libro. Spero che la si scopra insieme».
*
SCHEDA-libro
I finanziamenti dalla Libia
Sarkozy e il fantasma di Gheddafi
di Bernardo Valli (la Repubblica, 21.03.2018)
I protagonisti della vicenda sono un dittatore morto ammazzato e un ex capo dello Stato scaduto a conferenziere, ma sempre sulla cresta della cronaca mondano- politica. Lui, Gheddafi, il fantasma, e Sarkozy, l’attore sopravvissuto, sono avvolti da un vortice di denaro. Una pioggia di milioni. È la storia di un illecito connubio tra i soldi del petrolio e la democrazia. I primi li elargiva il rais defunto, la seconda era rappresentata dall’ex presidente. Un abbraccio degradante, innaturale ma vantaggioso per entrambi. Gheddafi pagava la riabilitazione e gli onori annessi, Sarkozy otteneva il denaro necessario alla sua campagna elettorale.
La giustizia, partendo da una coraggiosa inchiesta giornalistica di Mediapart, un sito di informazione specializzato in inchieste politiche e giudiziarie, sta conducendo da cinque anni indagini su questo accoppiamento che raggiunge i vertici della corruzione. Non tanto per le somme in gioco, quanto per la sua natura. Ed è avendo acquisito indizi importanti - i denari in contanti e in nero distribuiti ai collaboratori di Sarkozy durante la campagna elettorale - che ha deciso di dichiarare in stato di fermo l’ex presidente, e di interrogarlo sulle origini di quel denaro, al fine di decidere se mandarlo davanti a un tribunale. Lui nega tutto. Nega di essere al corrente di quanto accadde nei mesi che precedettero il suo ingresso all’Eliseo. Lui era impegnato a conquistare la massima carica dello Stato. Non si occupava della sussistenza.
Nel caso di un rinvio a giudizio le imputazioni sarebbero le più gravi, in campo politico finanziario, formulate durante la Quinta Repubblica, che compie sessant’anni. Alcuni dicono che dai tempi del maresciallo Pétain, che tradì la Francia collaborando con l’invasore nazista, non accade nulla del genere. C’è un po’ di esagerazione in questo paragone storico, ma la notizia del fermo, e forse del processo, di un ex presidente della Repubblica accende le fantasie.
Tutto comincia quando Muhammar Gheddafi, a lungo considerato ispiratore del terrorismo anti- occidentale, diventa uno degli uomini più adulati da chi voleva distruggere ma che è attirato dai suoi petrodollari. Abdallah Senoussi, capo dei servizi segreti interni libici, era stato condannato nel 1999 dalla giustizia francese all’ergastolo come il principale organizzatore dell’attentato contro l’aereo di linea, un Dc- 10 dell’Uta ( 170 morti, dei quali 54 francesi nel 1989), eppure egli è ricomparso molto presto come intermediario tra Parigi e Tripoli. Collaborerà ai rapporti che culmineranno con la visita di Gheddafi sulle rive della Senna. Dove monta la sua tenda beduina, come ha fatto del resto a Roma, dove Silvio Berlusconi, pure lui affascinato dai petrodollari, arriverà a organizzare in suo onore qualcosa di simile a un concorso di bellezza. Una lotteria di ragazze.
A stabilire il commercio canagliesco tra Tripoli e le capitali europee, naturale all’epoca in cui pochi resistono al fascino dei petrodollari e dei rais che li posseggono ed elargiscono, è il franco- libanese, Ziad Takieddine. È lui, grande mediatore, che mette in contatto Parigi e Tripoli. E sarà poi sempre lui, Takieddine, a raccontare davanti alle telecamere delle valigie gonfie di denaro che partivano dalla Libia dirette sulle rive della Senna. Ma le sue non erano denunce dettate dal pentimento, né dal desiderio di collaborare con la giustizia. Lo animava la voglia di vendetta per gli sgarbi subiti.
E non fu creduto. Le sue testimonianze richiedevano conferme. Si è cercato invano per anni un collegamento tra il traffico di denaro e il finanziamento della campagna elettorale di Sarkozy. Fino al momento in cui il personale che vi aveva lavorato ha cominciato a dichiarare di avere ricevuto denaro in contanti, che non risultava nelle contabilità ufficiali. Ma Nicolas Sarkozy ha continuato a negare tutto. Lui non si interessava ai particolari. I giudici vogliono trasformare gli indizi in prove.
La guerra civile, all’inizio tra la Tripolitania e la Cirenaica, è iniziata dopo la rottura tra la Francia di Sarkozy e la Libia di Gheddafi. Sarkozy, colto all’improvviso da scrupoli umanitari e democratici, mise la sua aviazione al servizio dei ribelli della Cirenaica. Al suo fianco gli inglesi. Vista a distanza la decisione del presidente francese appare come un tentativo non solo di appoggiare i ribelli in lotta contro il dittatore, ma anche come l’intenzione di eliminarlo, in quanto suo finanziatore, quindi imbarazzante per il presidente di un Paese democratico come la Francia.
Ero a Bengasi la sera del primo bombardamento anglo- francese. I carri armati di Gheddafi avanzavano appoggiati dall’aviazione e gli abitanti di Bengasi lasciarono in massa la città, convinti che i soldati arrivati dalla Tripolitania li avrebbero puniti per essersi ribellati al rais. Per sfuggire alla temuta repressione si rifugiarono nel deserto. Io con loro. Soltanto la mattina seguente scoprimmo che i carri armati di Gheddafi erano stati distrutti dall’aviazione anglo- francese proprio alle porte della città. Gheddafi si rifugiò a Sirte, ed è fuggendo da quella città che fu raggiunto dagli aerei francesi. Qualcuno, a terra, l’ha ucciso. Così non ha potuto testimoniare.
Francia
La fascista non ha vinto. Ma il sonno della memoria produce mostri
di Paolo Flores d’Arcais *
L’orrore è stato evitato, il candidato fascista non salirà i gradini dell’Eliseo. Un grande sospiro di sollievo dunque, ma da entusiasmarsi c’è poco. Se nel cuore storico della democrazia europea, la Francia di “liberté, égalité, fraternité” che deve la legittimità delle sue istituzioni ai sanculotti del 1789 e ai resistenti del maquis e del governo in esilio contro il tradimento di Vichy, il candidato di un partito intasato di negazionisti in nostalgia di Petain e di cattolici vandeani, prende un terzo dei consensi, sarebbe più serio mantenere un certo timore, oltre che qualche oncia di vergogna. E capire come sia stato possibile arrivare a tanto, andando alle radici per poter reagire. Prima che sia troppo tardi.
Perché è già molto tardi. Lo dice la noncuranza di massa (e anche di élite) che ha minimizzato o negato, in realtà rimosso, il carattere fascista del partito Fn, nella continuità tra Le Pen padre, figlia e nipotina Marion. E che ancor più lo farà, ora che “Marine la Patriota” cercherà di accreditarsi tale addirittura “rifondando” con nuovo nome e nuovi apporti il Fn.
Noncuranza che si lascia imbambolare da qualche frase ad effetto, belletto e botulino ideologici, e sarebbe il meno, ma che si radica soprattutto per affatturazione della sirena sociale e collasso dello spessore storico, massime nella generazioni più giovani. Circolano massicciamente posizioni del tipo “il nazi-fascismo - salvo frange minoritarie di nostalgiche macchiette - è un fenomeno del secolo scorso”, oggi esistono solo “destre sociali”, “il revisionismo storico è una posizione culturale, all’operaio che vede ridursi i suoi diritti non importa niente di cosa Le Pen pensi di Giulio Cesare”.
Destra sociale? I fascismi si sono sempre dichiarati sociali, dalla parte dei lavoratori e dei disoccupati. Hitler aveva chiamato il suo partito “nazional-socialista” (nazismo è la contrazione). Abbindolate le masse, hanno sistematicamente e regolarmente distrutto ogni organizzazione di lavoratori, intrecciato valzer e amorosi sensi con i più biechi poteri finanziari e industriali, distrutto ogni possibilità legale di lotta per i non privilegiati.
È evidente e sacrosanto che prima viene la pancia piena e poi la morale (citazioni di Brecht a bizzeffe, volendo), e che anzi il grande capitale e la grande finanza, quando messi alle strette, tra un’avanzata democratica di oppressi ed emarginati e la soluzione fascista hanno troppo spesso preferito quest’ultima. E allora? E’ un buon motivo per fare harakiri e immaginare che il DNA della Resistenza antifascista non sia più necessario? La pancia vuota che si lascia affatturare da un fascista resterà vuota, e non potrà neppure lottare, se non a rischio di carcere tortura e vita.
Ma ogni generazione sente il prepotente bisogno di ripetere gli errori delle generazioni precedenti. Anche Mussolini, e Hitler, e i loro scherani, a molte personalità e persone comuni dell’epoca apparivano delle “macchiette”: in pochi anni hanno ridotto l’Europa in macerie e fame.
Oggi queste consapevolezza storica minima si è perduta, e il sonno della memoria, come quello della ragione, produce mostri. Purtroppo, in Francia, come in Italia, come in Europa tutta, si sconta un peccato originale, non aver dato vita nel dopoguerra alla necessaria epurazione antifascista in tutti gli apparati dello Stato (ma anche nel giornalismo e nella cultura). Non aver realizzato quella damnatio memoriae tassativamente ineludibile, che non garantisce contro ritorni di fascismo (la pulsione di servitù volontaria possiede circuiti neuronal-ormonali più antichi e radicati di quelli illuministico-democratici, ahimè), ma ne riduce le probabilità per il possibile.
Invece, nei decenni, con lenta ma infine inesorabile crescita, si è tollerato che partiti e movimenti fascisti si ricostruissero, si legittimassero per partecipazione elettorale, divenissero per mitridatizzazione parte del panorama ordinario del nostro habitat politico e sociale.
È stata questa l’altra faccia di una politica di establishment che per guerra fredda prima e liberismo selvaggio poi ha impedito che venissero realizzate nelle leggi e nella pratica di governo le solenni promesse contenute nelle Costituzioni nate dalla vittoria contro i fascismi.
In Italia fu chiaro da quasi subito, purtroppo. Il 2 giugno 1951 Piero Calamandrei, che della Costituente era stato uno dei massimi protagonisti, già doveva stigmatizzare che mentre nella Costituzione “è scritta a chiare lettere la condanna dell’ordinamento sociale in cui viviamo”, la politica del governo andava in direzione opposta, e il vero nome della festa della Repubblica era perciò “La festa dell’Incompiuta”.
E rivolgendosi ai giovani nel 1955, a Milano, ribadiva: “La nostra Costituzione è in parte una realtà, ma solo in parte. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di lavoro da compiere”. In Italia, come in Francia, come in Europa, siamo più che mai a questo, e la convinzione ormai dilagante che i fascismi siano lontani dal nostro orizzonte possibile quanto Giulio Cesare, fornisce ai reazionari e conservatori un’ulteriore arma di narcolessia di massa.
Macron non è la soluzione, a meno che da Presidente non diventi un Macron inedito, perché la finanza (e più in generale la politica economica) liberista è il motore della crisi sociale e della deriva politica che, per hybris di diseguaglianze, infesta e mina le democrazie. Rispetto ai lepenismi (in Europa si sono ormai moltiplicati sotto le più diverse e accattivanti fogge, ma sempre humus fascista veicolano), la vittoria di Macron potrebbe confermarsi solo il laccio emostatico che tampona l’emorragia in attesa dell’intervento chirurgico. Ora si tratta di realizzarne gli strumenti, quella sinistra illuminista egualitaria e libertaria oggi purtroppo introvabile in forma politica organizzata, ma diffusa in forma sommersa o carsica nelle società civili di molti paesi d’Europa.
Tentazione neocentrista e nazionalsocialismo lepenista
di Alessandro Casiccia (Alfabeta2, 04 marzo 2017)
Con l’esito della corsa alla Casa Bianca e l’avvicinarsi delle elezioni in Francia, era naturale che l’opinione pubblica focalizzasse la propria attenzione sull’emergere di movimenti comunemente detti “populisti”, ma meglio denominabili “neo-nazionalisti”. Entro questo scenario, assume in Francia un ruolo rilevante, il Front National. Il caso deve essere tuttavia considerato nella sua specificità. Occorre non dimenticare i tratti peculiari del nazionalismo nelle vicende della Repubblica francese. E riflettere, al tempo stesso, sul tanto dibattuto distacco dell’attuale leader dal proprio padre. Se per alcuni osservatori quel distacco costituisce una frattura reale e profonda, per altri invece non rappresenta che un temporaneo camuffamento. E questa seconda ipotesi parrebbe trovare riscontro nelle dichiarazioni di Marine Le Pen a favore dei poliziotti dopo l’odiosa violenza da essi compiuta a danno di un giovane di colore nei primi giorni di febbraio. Resta fermo comunque che occorrerà tener conto anche del carattere molto particolare che nella storia francese ha più volte assunto il rapporto fra destra e sinistra (dal tardo ottocento, al periodo dell’occupazione, fin poi ai giorni nostri). Guardando a quel rapporto però i punti di contatto parvero spesso presentarsi non tanto nelle posizioni moderate di entrambi in fronti, quanto piuttosto in quelle radicali. E ciò parrebbe riproporsi ai nostri giorni in forme nuove. E non solo in Francia. Il che, considerando anche l’attuale rovina delle classi medie, potrebbe contribuire a rendere vieppiù discutibile il classico tema della “corsa al centro” come tattica vincente nei confronti elettorali. Tale “corsa” viene ora lanciata dal concorrente centrista Macron, facendo leva su un superamento delle opposte tensioni. Ma non si dimentichi che per un curioso paradosso proprio nella tradizione francese la prospettiva “né destra né sinistra” caratterizzò a suo tempo movimenti tendenzialmente fascisti.
Il partito oggi guidato da Marine Le Pen sembra confrontarsi con alcune questioni cruciali. L’immigrazione è una di queste: non solo perché non facile da gestire in assenza, al riguardo, di programmi europei coerenti, ma anche perché il fenomeno viene messo in rapporto, da una parte considerevole dell’opinione pubblica, con l’irruzione del terrorismo marcato “stato islamico”; irruzione particolarmente tragica proprio in Francia, come appare guardando agli eventi degli ultimi due anni.
Ma sarebbe assurdo ignorare quanto il fenomeno migratorio sia percepibile da una parte considerevole dell’elettorato tradizionalmente di sinistra come pressione competitiva nel mercato del lavoro. Non manca la possibile lettura del fenomeno quale “esercito industriale di riserva” utilizzabile programmaticamente da parte della classe capitalistica, grazie allo sgretolamento dei confini nazionali. Giustificabile o meno, una certa drammatizzazione del fenomeno migratorio pare presentarsi anche in altre linee politiche. Ad esempio, con la candidatura alle primarie di François Fillon, ora messa nuovamente in difficoltà per l’emergere dei noti scandali.
Un altro punto che appare oggetto di discussione è il ruolo dell’Unione Europea. Le cui politiche vengono in genere percepite, da un lato come un tentativo di limitare o controllare taluni effetti della globalizzazione, d’altro lato invece (e qui già si erano manifestate posizioni radicali di opposti segni) come un aspetto del processo globalizzante stesso, perlomeno in quanto la sua azione riduce i poteri sovrani degli stati membri; e accentua, almeno fra essi, la liberalizzazione degli scambi.
Anche sotto questo aspetto, la linea di Marine Le Pen merita attenzione in quanto, pur dichiarandosi europeista sotto il profilo culturale, esprime scetticismo e critica riguardo all’azione politica dell’Unione. Nell’ indirizzo da lei impresso al Fronte, emerge una riaffermazione dello stato-nazione, accompagnata dal progetto di un forte controllo pubblico sull’economia: aspetto, quest’ultimo, che segna una differenza marcata rispetto alle posizioni del padre. E così pure rispetto ad apparentemente simili posizioni neo-nazionaliste in altri paesi a sviluppo maturo; compresa quella rappresentata ora dalla Casa Bianca, nonostante il plauso formale di Marine Le Pen all’inaspettato successo di Trump.
A ciò si aggiunge, nella linea della leader del Fronte, una dichiarata sfiducia riguardo alle attuali élites della politica; e ancor più a quelle dell’economia finanziaria. A completare il profilo “socialista” che la nuova leader mostra (quasi a riempire il vuoto della sinistra politica), potrebbero ricordarsi le sue dichiarazioni a favore dei diritti dei lavoratori, di un fisco progressivo, del Welfare State, e contro il libero mercato globalizzato. Un atteggiamento critico nei confronti del grande capitale privato, e della crescente diseguaglianza parrebbe insomma delineare l’attuale indirizzo del Fronte. E non manca chi ritiene che un analogo atteggiamento avrebbe potuto (se assunto tempestivamente) ridare vita e seguito a molte linee politiche di sinistra, oggi in declino. L’entrata in scena, sia pur tardiva, di un candidato socialista radicale come Hamon potrebbe forse ridisegnare la scena, pur senza mutare il corso delle prossime elezioni.
È pure da tener presente che la dichiarata sfiducia nelle élites genericamente intese costituisce un tratto caratterizzante di molte posizioni demagogiche oggi presenti nel mondo; non esclusa quella espressa da Trump con frettolosa e paradossale demagogia durante la sua campagna per la Casa Bianca. In quella campagna erano oggetto di denuncia anche i poteri dell’alta finanza; rappresentanti della quale però, una volta ottenuto il successo elettorale da parte del tycoon, sono stati da lui chiamati a far parte della compagine governativa in posizioni strategicamente decisive. Del resto andrebbe sempre tenuto presente lo stretto rapporto fra il grande patrimonialismo immobiliare (di cui Trump è un rilevante esponente) e il mondo bancario.
In linea generale, la convinzione che lo sgretolarsi dei confini e delle barriere sia imputabile in buona misura alle élites cosmopolite del potere economico-finanziario, alimenta diversi movimenti neo-nazionalisti. Che tali movimenti poi si ergano anche a difesa di un’identità (linguistica, religiosa, “etnica”) e che soprattutto oggi tale difesa possa esprimersi attraverso la drammatizzazione sopra accennata delle ondate migratorie, tutto ciò acuisce la differenza rispetto a orientamenti propriamente definibili “di sinistra radicale”, pur non meno critici nei riguardi delle élite del potere, oltre che dell’attuale assetto economico-politico mondiale e dell’incontrollabilità del libero mercato senza confini e senza regole.
Laicismo, l’anti-religione contraria alla laicità
di Fabrice Hadjadj (Avvenire, 04.12.2016)
La parola "laico" è un segno ostensibile nella lingua francese e anche in quella italiana. È vero che l’udibile spicca meno del visibile; ecco perché il suono della parola "laico" ci colpisce meno della visione di un crocifisso. Tuttavia, a chi sa ascoltare quel suono, a chi sa ricollocarlo nella sua prospettiva storica, si offre la visione di uno strano spettacolo: alcune persone brandiscono un crocifisso garantendo che si tratta invece di un martello - o del segno più dell’addizione; si esprimono con il tono degno dei migliori predicatori e ci spiegano che è per sottolineare una neutralità quando non una distanza dalle religioni; ripetono infine senza sosta un versetto del vangelo ma sono persuasi di intonare un ritornello del loro repertorio.
Essi infatti dicono e ridicono che bisogna «dare a Cesare ciò che è di Cesare e a Dio ciò che è di Dio», si fanno promotori di carte della laicità, senza accorgersi che questa promozione è stata resa possibile dall’eredità cristiana. Perché è in primo luogo la teologia cattolica che distingue il laico dal chierico. Ed è sempre la teologia cattolica che pone quella «separazione dei poteri» ben più fondamentale di quella di Montesquieu, la separazione del potere temporale e del potere spirituale.
A dire il vero, anche la capacità di bestemmiare è ancora un segno ostensibile del cristianesimo. Un pensiero di Pascal lo dice con chiarezza: «Vi è campo aperto per la bestemmia, anche su verità quanto meno assai visibili». Il vero teologo non può essere fondamentalista: egli sa che, se Dio è trascendente, non fa parte delle evidenze mondane (la verità «erra coperta da un velo» dice ancora Pascal, immagine molto interessante che mostra il rifiuto dei sostenitori del burqa di una trascendenza trascendente e dunque velata: nascondendo la donna, il velo integrale pretende di esibire la verità islamica, affermarla come un’evidenza di quaggiù). Allora, l’accesso a tale trascendenza non può avvenire attraverso seduzioni o coercizioni: esso esige un movimento intimo del cuore, che impegni liberamente la persona, un atto di fede. Ora, questa esigenza stessa implica la pazienza davanti al rifiuto.
Ecco perché il campo della fede è «aperto alla bestemmia». Si può dirlo in un altro modo prendendo il punto di vista del bestemmiatore. Che cosa c’è dietro al piacere di bestemmiare? Da una parte ci vuole che l’idea di Dio sia ancora abbastanza viva nella società. Se Dio - ahimè! - non c’è, che divertimento ci sarebbe a coprirlo di ingiurie?
Di questo si lamenta il Marchese de Sade nella sua Storia di Juliette: «Il mio più grande dolore è che in realtà non esiste un Dio, e quindi mi vedo privato del piacere di insultarlo più positivamente». Ma per godere della bestemmia, non occorre solamente che Dio esista, almeno nel pensiero, è anche necessario non incappare subito nella pena di morte. Così, in una società completamente atea la bestemmia è impossibile; nello stato islamico è vietata. L’unica configurazione perfetta per il blasfemo è quella di una società ancora cristiana.
In una tale società, Dio è ancora presente; ma, dato che il suo stesso Figlio fu condannato come blasfemo dai grandi sacerdoti della sua epoca, si fa attenzione a non condannare troppo rapidamente uno che bestemmia. Ecco il paradosso implacabile con cui siamo confrontati noi francesi e noi europei: affermare un «principio di separazione della società civile e della società religiosa» nello stato presuppone ancora un legame privilegiato con la fede cristiana (e alla fede cristiana aggiungo l’esistenza ebraica che le è legata intimamente - la permanenza del popolo ebraico è un principio di pluralità irriducibile all’interno del pensiero stesso della Chiesa).
O, per dirlo in altro modo, la neutralità dello stato a riguardo delle confessioni religiose presuppone una predilezione per l’eredità culturale giudaico-cristiana. Senza tale predilezione, o quella neutralità diventa impotente, perché il neutro in sé non può produrre una qualsiasi determinazione; o si trasforma in neutralizzazione e diventa la religione dell’anti-religione, il laicismo.
Il laicismo è il contrario della laicità. La laicità non può affermarsi che distinguendosi da un clero di cui riconosce l’esistenza. Può essere anticlericale, nel senso di una diffidenza critica nei confronti dei chierici, delle loro prediche e dei loro comportamenti, come nel Decamerone di Boccaccio; ma non oserebbe escluderli dal dibattito pubblico, perché, in questo caso, tradirebbe se stessa costituendosi come un nuovo e supremo clero.
Quanti sedicenti difensori della laicità salgono in tribuna, più che in cattedra, per pronunciare scomuniche e imporre un catechismo molto più rigido e riduttore del dogma cattolico? Il laicista corrisponde molto precisamente al curato di fantasia che vuole denunciare. Riprende il discorso preliminare dell’enciclopedia, nel quale D’Alembert deplora l’«abuso dell’autorità spirituale riunita a quella temporale» ma commette egli stesso quell’abuso nel senso opposto.
La laicità francese alla prova della Storia
Un lavoro magistrale di Philippe Portier, uscito per Presses Universitaires de Rennes e ancora non tradotto in Italia, che ricostruisce le relazioni tra Stato e fede, dalla Rivoluzione ai tempi presenti
di Alessandro Santagata (il manifesto, 16.11.2016)
Patria della laicità moderna durante la Terza Repubblica, la Francia è ancora oggi un terreno d’osservazione fondamentale per investigare le dinamiche politico-religiose europee. Ha compiuto dunque un lavoro magistrale Philippe Portier con questa ricostruzione dettagliata della storia delle relazioni tra lo Stato e le religioni dalla Rivoluzione al tempo presente (L’État et le religions en France. Une sociologie historique de la laïcité, Presses Universitaires de Rennes).
Professore all’«École pratique des hautes études» di Parigi, Portier è uno dei più stimati sociologi delle religioni in Francia. Da anni impegnato nel Groupe société, religion, laïcité a sondare lo stato di salute della laicità, l’autore ha scelto di sottoporre al vaglio della storia le posizioni correnti circa la natura del sistema francese. Del resto, come emerge chiaramente dalla lettura, solo in una prospettiva di lungo periodo è possibile comprendere che la laicità non è mai stata, neppure in Francia, una categoria rigida e che l’impostazione data dalla legge 1905 sulla separazione necessita di essere storicizzata e analizzata nel suo percorso evolutivo.
Portier illustra efficacemente come la laicità francese abbia vissuto fasi alterne, passando dal modello giurisdizionalista a quello separatista di inizio Novecento all’attuale stagione della laicità ricognitiva, ovverossia che riconosce alle organizzazioni religiose uno spazio d’espressione in quello dello Stato. Quest’ultimo aspetto costituisce il punto più problematico alla luce di una certa tradizione post-rivoluzionaria, ancora molto forte nell’opinione pubblica, e soprattutto dopo che l’emergenza terroristica ha trasformato la laicità in un «paradigma securitario».
Già le leggi del 2004 sul divieto di esporre simboli religiosi nelle scuole e del 2010 sulla «dissimulazione del viso» avevano segnato un cambiamento di fase e, per certi aspetti, il ritorno allo spirito della separazione. Tuttavia, Portier evidenzia come si debba parlare invece di una correzione in senso restrittivo del sistema ricognitivo, un processo di lungo corso avviato negli anni Sessanta dall’Mrp e dai gollisti (in un primo tempo soprattutto a vantaggio delle scuole cattoliche e poi estesosi alle relazioni con gli imam) che sta spingendo oggi verso un nuovo «modello d’integrazione civica» che mira a riconoscere le identità religiose al fine di inserirle nelle vita nazionale.
Portier invita a leggere il presente nella storia del sistema francese e delle sue oscillazioni nel rapporto con i cristianesimi e le minoranze religiose. Si scoprirà allora che il sistema attuale di divieti, riconoscimenti e controlli realizzato dalle presidenze Chirac e Sarkozy - e accettato nella sostanza dalla sinistra socialista - presenta affinità con il progetto concordatario di Napoleone finalizzato a inglobare il cattolicesimo subordinandolo alle esigenze del potere politico.
Nello stesso tempo, la trasformazione del tessuto culturale impressa dalla secolarizzazione e dalla valorizzazione delle differenze ha sottratto allo Stato l’ambizione di forgiare una cittadinanza universale offrendo così nuove possibilità alle religioni e ai loro progetti di aggregazione identitaria in una società multireligiosa e attraversata da movimenti di politicizzazione del sacro di varia matrice.
Quella di oggi è quindi una laicità spuria e debole nella sua pretesa di sorvegliare quello spazio pubblico che la politica istituzionale ha contribuito a riaprire senza però sposare una visione davvero multiculturalista. La sinistra, a sua volta, si è mostrata incapace di ripensare la laicità in maniera non dogmatica o, al contrario, non completamente subalterna agli avversari. In una società sconvolta dal terrorismo e lacerata da conflitti che toccano direttamente i nodi dell’appartenenza culturale e religiosa è urgente dare sostanza all’idea (che fu di Mitterrand) di una «laicità positiva e plurale». Anche su questo campo si gioca con le due destre la partita delle prossime presidenziali.
L’ANALISI
La guerra civile della Francia
di Bernardo Valli (la Repubblica, 16.07.2016)
DIETRO la brutalità dell’azione terroristica, manifestatasi ancora una volta poche ore fa a Nizza, si nasconde una manovra che sta portando la Francia sull’orlo di una guerra civile. Sarebbe azzardato usare di propria iniziativa quest’ultima, catastrofica espressione - guerra civile - se a servirsene non fosse stato un qualificato esperto nella materia.
PATRICK Calvar, capo dei servizi segreti interni (Dgsi), ha dichiarato di recente davanti alla commissione di inchiesta parlamentare sul 13 novembre a Parigi (la strage del Bataclan) che per lui ulteriori attentati avrebbero condotto a un confronto tra comunità. A sua conoscenza, alcuni gruppi (di estrema destra) erano pronti a rispondere al terrorismo islamista con un’identica violenza rivolta contro la comunità musulmana. La quale conta in Francia tra i sette e gli otto milioni di uomini e donne. La cifra non è ufficiale perché i censimenti per religione o per origine etnica sono proibiti.
Patrick Calvar aveva già detto con chiarezza, in una precedente occasione davanti alla commissione difesa dell’Assemblea Nazionale, che se ci fossero stati ancora uno o due attentati l’urto sarebbe stato inevitabile. La Francia avrebbe conosciuto in tal caso una situazione simile a quella degli anni di piombo italiani. «Noi siamo sull’orlo di una guerra civile», ha ribadito, sicuro di sé, il capo dei servizi segreti francesi.
La strage di Nizza potrebbe realizzare il non rassicurante pronostico di Patrick Calvar. Ma abbiamo imparato che gli 007 non sono infallibili e benché dotati di strumenti efficaci e di colleghi super specializzati, a volte, per nostra fortuna, si sbagliano. Anche se sono sinceri quando formulano le loro diagnosi. La nostra è una strana e rischiosa epoca, affidata alla finanza e all’intelligence. Per le quali spesso il virtuale e il reale si confondono. Anche a questo è dovuto il nostro quasi perpetuo stato di ipertensione o di isterismo. A volte capita di sognare il sesterzo e le legioni romane con i calzari e le catapulte. L’intelligence, come la finanza, ci raffigura delle ombre.
La strage di Nizza ha aggiunto un nuovo orrore: e, se non sfocerà in una guerra civile, sta già sconvolgendo il panorama politico francese. E di riflesso gran parte di quello europeo. Il terrorismo instilla nella società fratture che rischiano di essere irreversibili.
Non di rado compiute da giovani psicopatici o piccoli pregiudicati convinti di trovare nella morte, nella propria e in quella degli altri, quel che hanno cercato invano nella vita, le azioni dei kamikaze provocano le estreme destre islamofobe affinché reagiscano: sconvolgano le società democratiche e accendano guerre civili mortali per i crociati, gli ebrei e gli infedeli in generale. Ma non è detto che la loro manovra, compiuta o tentata spesso inconsciamente, riesca e che si arrivi a un conflitto tra comunità, come dice il capo dei servizi segreti. Quel che adesso si profila è invece il già annunciato successo del Front National di Marine Le Pen. La quale rappresenta la crescente massa di estrema destra, non quella violenta ma quella populista destinata a fare da ammortizzatore.
I terroristi danno così obiettivamente il loro voto al Front National. E la comunità musulmana rischia di essere governata domani da un partito islamofobo. Quella convivenza assomiglierebbe a una guerra civile. Prima di Nizza si intravedeva, per le presidenziali francesi di primavera, un successo di Marine Le Pen al primo turno e una sua sconfitta al ballottaggio di fronte al moderato Alain Juppé, preferito anche dalla folta schiera dei delusi dal socialista François Hollande. La figura fino a poche ore fa rassicurante di Alain Juppé, sindaco di Bordeaux dai modi garbati e dalle dichiarazioni sensate, è all’improvviso impallidita. Col montare della collera, della paura, dell’incertezza, Juppé è entrato nell’ombra ed è rispuntato Sarkozy che in fatto di populismo non sfigura troppo davanti a Marine Le Pen. Il duello presidenziale di primavera potrebbe essere riservato a loro, grazie anche al massacro della Promenade des Anglais.
L’autore della strage non è ancora classificabile se ci si affida alla forte polemica che oppone due studiosi dell’Islam, Gilles Kepel e Olivier Roy. Il primo, Kepel, professore a Scienze Politiche, punta sul carattere religioso del movimento islamista. Roy, professore all’Università internazionale di Firenze, sostiene che la religione sia un pretesto. Uno parla di islamizzazione del radicalismo. L’altro di radicalizzazione dell’islamismo. E si affrontano, a volte insultandosi, creando due scuole di pensiero, anche se le loro posizioni appaiono spesso complementari.
Secondo gli amici, il terrorista tunisino di Nizza non recitava le preghiere quotidiane, non andava alla moschea e beveva alcol. Ma ha ucciso ed è morto seguendo gli insegnamenti promulgati il 9 giugno 2014 dal portavoce del “califfato”, Abu Mohammed Al-Adnani.
I quali dicono: «Colpite la sua testa con una pietra, sgozzatelo col suo coltello, schiacciatelo con la sua automobile, gettatelo da un burrone, strangolatelo o avvelenatelo ». Il tunisino di Nizza ha ottemperato a uno di quei precetti: ha schiacciato gli infedeli, uomini, donne, bambini in festa, con il suo camion. E ha ubbidito ai consigli che dicono « strappa il tuo biglietto per la Turchia, il firdaws (ultima tappa prima del paradiso) è davanti a te, convinci qualche mascalzone e trova un’arma in qualche sobborgo». È un invito ad agire nel paese in cui ti trovi, senza raggiungere lo “stato islamico”. E lui, il tunisino di Nizza ha seguito anche questa direttiva, impartita dall’Islam jihadista. Alcune sue caratteristiche corrispondevano al modello indicato da Kepel, altre a quello di Roy. Il quale vede il jihadismo come una rivolta generazionale e nichilista, che si è ammantata di islamismo.
La paura non deve sopraffare l’intelligenza
di Alberto Negri (Il Sole-24 Ore, 15.07.2016)
La paura non deve sopraffare l’intelligenza, la razionalità, diceva l’ambasciatrice francese Catherine Colonna poche ore prima dell’attentato di Nizza. Nel cortile di palazzo Farnese storica sede dell’ambasciata francese, la banda dei carabinieri suonava l’Inno di Mameli e la Marsigliese per la festa della Bastiglia. Fuori i controlli di sicurezza francesi con la polizia e i militari italiani schierati a protezione dell’ingresso.
Che la Francia sia nel mirino è un’ossessione quotidiana, fuori e dentro il Paese.
Chi sono gli attentatori di Nizza? Lupi solitari, esponenti di un terrorismo che si è radicalizzato in solitario sul web, oppure membri addestrati di cellule jihadiste legate all’Isis come quelli che hanno già colpito a Parigi con la strage del Bataclan? E’ questa la polemica scoppiata da qualche tempo tra due eminenti studiosi ed esperti francesi, Gilles Kepel e Olivier Roy: il primo sostiene che siamo di fronte a una deriva generale dell’islamismo estremista, il secondo afferma che la religione non è determinante ma che conta assai di più la diffusione di una radicalizzazione individuale e sociale della violenza.
Come si vede anche gli esperti sono disarmanti e forse disarmati nelle chiavi di interpretazione di questi tragici eventi. Una riposta affidabile davanti a questa strage spaventosa di Nizza non è ancora possibile ma la Francia non è l’America: il terrorismo di matrice islamista su questo territorio è radicato da anni, centinaia di cittadini francesi si sono arruolati nell’Isis per combattere contro il regime di Bashar Assad e proprio il ritorno dei jihadisti dalla Siria è uno dei fenomeni più temuti dai servizi di sicurezza di Parigi. La Francia è il Paese che produce più jihadisti in Europa. Un rapporto parlamentare afferma che nel 2015 erano già più di 1.500 i giovani legati al network islamista radicale.
Ricordiamoci che dopo le stragi di Parigi dell’anno scorso la Francia reagì con i bombardamenti su Raqqa, capitale del Califfato. Ma la stessa Francia non aveva visto con dispiacere l’arrivo dei jihadisti in Siria dalla Turchia per abbattere il regime di Assad e poi, dopo gli attentati in casa, non ha esitato a contattare Damasco per esercitare la sua rappresaglia.
Quello che vivono i francesi e gli occidentali è anche il risultato di politiche assai contradditorie nei confronti del mondo musulmano, le stesse che hanno condotto prima all’intervento di Putin in Siria a fianco di Assad e ora alla trattativa tra Mosca e Washington per coordinare gli sforzi per combattere il Califfato. Le potenze occidentali cinque anni fa puntavano su una rapida caduta del regime di Damasco ora si rendono di conto insieme ai loro alleati mediorientali come la Turchia e l’Arabia Saudita di avere commesso un clamoroso errore di calcolo che ha aperto le porte al terrorismo in Europa, alle migrazioni incontrollate e alla destabilizzazione.
La Francia vive un allerta continuo, dentro e fuori le frontiere dell’Esagono. Pochi giorni fa è stato chiuso il consolato francese di Istanbul, proprio di fronte a quello italiano, dove l’Isis ha appena colpito con un commando l’aereoporto internazionale Kemal Ataturk. La Francia ogni giorno di più percepisce una minaccia alla sua sicurezza.
A cento anni di Sykes-Picot, l’accordo franco-britannico che spartì il Medio Oriente, a quasi 60 anni dalle avventure coloniali terminate nel sangue con la guerra d’Algeria, la Francia in realtà non è mai uscita dal Medio Oriente e dal Nordafrica come dimostrano anche le sue iniziative politiche e militari di cui quella più clamorosa, e che ci riguarda da vicino, è stata nel 2011 il bombardamento del raìs libico Muhammar Gheddafi.
Forse non stupisce neppure che sia stata colpita la Promenade des Anglais mentre esplodevano i fuochi di artificio del 14 luglio. I servizi francesi per la sicurezza interna, DGSI, si erano appena detti convinti che lo Stato Islamico sarebbe passato “alla fase delle autobomba” anche in Francia, come a Baghdad o Damasco. Ma qui, come sappiamo bene, nessuno è al sicuro: l’attentato di Dacca con i suoi morti italiani ha chiaramente indicato che il terrorismo può colpire ovunque e chiunque, americani, francesi, europei e musulmani, che vivono questa tragedia del terrore sulla loro pelle da qualche decennio. E’ fondamentale, come dice l’ambasciatrice francese, che l’intelligenza non sia sopraffatta dalla paura.
FRANCIA
Prego, s’accomodi: l’intellettuale non è impegnato
di Lorenzo Fazzini (Avvenire, 19.06.2016)
L’intellettuale francese, engagé in mille e una battaglia civile dall’alto della sua competenza culturale? Icona finita, anzi evaporata. Da realtà costruita a tavolino (tanto che la stessa parola ’intellettuale’ venne coniata nel 1898 da un giornalista poi divenuto primo ministro, Georges Clemenceau, sul giornale L’Aurore per sostenere il J’accuse di Emile Zola sull’affaire Dreyfus), oggi, almeno in Francia, tale espressione indica soprattuto chi appartiene a quel circuito editorial-mediatico che si autoalimenta tra ospitate in televisioni, appelli e contro-appelli, voltafaccia ideologici e autoproduzioni commerciali.
L’accusa, molto circostanziata, ha fatto naturalmente molto discutere negli ultimi mesi in Francia ed è uscita dalla penna di Shlomo Sand, storico israeliano, già autore di un libro altrettanto provocatorio, L’invenzione del popolo ebraico, uscito in Italia per Rizzoli nel 2010.
La tesi di Sand è la seguente, sostenuta lungo le 274 dense pagine di La fin de l’intellectuel français? De Zola à Houellebecq (La Découverte): tra fine Ottocento e inizio Novecento era nata la figura dell’intellettuale ’critico’, ovvero personaggi che «davano l’impressione che la gente di lettere con grande talento lottasse contro l’ingiustizia e l’arbitrio. Sapendo che le persone istruite giocano un importante ruolo nella formazione dell’immaginario collettivo, la reputazione dell’intellettuale critico si è ampiamente diffusa».
Sand fa risalire al celebre J’accuse di Emile Zola sulla vicenda antisemita del generale Dreyfus la nascita dell’intellettuale impegnato: «Questa vittoria è stata resa possibile dall’alleanza creata tra gli intellettuali dreyfusardi e la forza crescente in seno alle élites politiche: radicali e socialisti». Gli altri nomi che Sand offre come esempi di uomini di lettere impegnati sono Romain Rolland, Jean-Paul Sartre, Albert Camus, Pierre Bourdieu, Jacques Derrida, Michel Foucault, Jean-François Lyotard, Edgar Morin.
En passant, Sand individua come la caratteristica francese, anzi, per lo più parigina, di intellettuale critico non sia esclusiva del panorama transalpino, visto che «anche le isole britanniche non hanno mancato di avere intellettuali critici nel fustigare i governi e nel contestare le basi dell’ordine esistente». E fa i nomi di George Bernard Shaw, di Herbert George Wells, di Wystan H. Auden, di Bertrand Russell e Harold Pinter.
Tutta a sinistra dunque la cultura impegnata? Sand rintraccia in terra transalpina anche una linea che, risalendo da Alexandre Tocqueville, arriva a Raymond Aron e non ha sposato il marxismo ormai dominante nella Francia degli anni post-seconda guerra mondiale. È’ stata di Aron la celebre seguente affermazione: «Il comunismo è la prima religione di intellettuali che è riuscita ad imporsi».
Ciò nonostante Sand non ha timore di mostrare come, sia in Francia sia in Germania, l’esperienza intellettuale engagé non è stata aliena da simpatie fasciste quando il nazismo è arrivato al potere e in ambito francese il regime di Vichy si schierò con Hitler: Hubert Beuve-Méry, uno dei fondatori e futuro direttore di Le Monde, da giovane aveva militato in movimenti di destra, mentre Paul Nizan ha fatto parte di compagini fasciste.
Sand rintraccia il momento storico in cui l’essere ’critico’ non è più stata una questione di essere di sinistra: siamo negli anni Settanta, lo tsunami Solgenitzin apre gli occhi a molti su cosa sia realmente l’Unione sovietica, i nouveaux philosophes si convertono dal maoismo alla difesa dei diritti umani (André Glucksmann, Bernard Henry Levy, e altri), nasce la Fondazione Saint Simon - capitanata da François Furet, con al suo interno persone come Jean Daniel - con un obiettivo: «Attaccare la sinistra marxista, che senza esserne cosciente aveva già iniziato il suo declino storico».
Infine Sand diagnostica la caduta definitiva della figura, per lui onorevole, dell’intellettuale critico: la fase attuale in cui i mass media fagocitano e rendono gli uomini di cultura (eccetto qualche bordata polemica contro Julia Kristeva, Sand parla quasi esclusivamente di intellettuali al maschile...) degli strumenti per la propria auto-alimentazione commerciale. Ecco allora Michel Houellebecq diventare turiferaio di un’islamofobia pericolosa, secondo Sand (israeliano ma tutt’altro che sionista); critiche ce ne sono anche per Alain Finkelkraut il quale - insieme a Levy e Pascal Bruckner - secondo Sand «incarna perfettamente il nuovo apporto di forza tra i padroni della comunicazione e i firmatari della parola».
Per poi giungere all’epitaffio definitivo: il J’accuse di Houellebecq contro Hollande sulla questione-immigrazione araba, se paragonato a quello di Zola sulla vicenda Dreyfus, fa dire a Sand: «Tutto quello che aveva fatto la nobiltà dell’intellettuale francese sembra essere definitivamente evaporato».
Orbene, se la cavalcata storica lungo le vicende della cultura francese compiuta da Sand ha certamente il pregio di non avere timori reverenziali per nessuno, va però segnalata una mancanza colossale nella diagnosi della cultura francese dall’Ottocento ai giorni nostri: Sand tralascia completamente la presenza della cultura cattolica e dei suoi esponenti in quella che, non a caso, per secoli è stata definita la «figlia maggiore della Chiesa».
Trascurare cosa hanno apportato alla società francese (e di rimando a quella europea) figure come Charles Péguy, Paul Claudel, George Bernanos, François Mauriac, Jacques Maritain (suo fu uno ’zampino’ importante nella Dichiarazione dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite), ma anche uomini di teologia come Henri De Lubac, Yves Congar, Michel De Certeau, uomini del dialogo con l’islam come Louis Massignon... è veramente grave.
Forse in ciò gioca una certa ignoranza di questo filone cattolico da parte di uno storico affermato come Sand, docente di storia contemporanea all’Università di Tel Aviv. Forse la tanto praticata laicité fa prendere abbagli del genere: non si vedono le cose che non si vogliono vedere.
Eppure qualche anno fa in Francia uscì un tomo molto significativo, La conversione des intellectuels au catholicisme en France (1885-1935), per le edizioni del Cnrs (non editoria cattolica, dunque), a firma del storico Frédéric Gugelot. Sarebbe bastato dargli un’occhiata per vedere che proprio negli anni in cui nasce la figura dell’intellettuale critico, si afferma in Francia «un fenomeno collettivo senza precedenti che sconvolge il mondo dell’arte e del pensiero: la conversione di intellettuali al cattolicesimo». Diverse decine sono queste conversioni, tra poeti (Max Jacob e Jean Cocteau), letterati ( Jacques Rivière), romanzieri (Paul Bourget), il già citato Maritain, solo per fare qualche esempio.
E nei nostri giorni quella tradizione è tutt’altro che scomparsa se si pensa a figure come (defunti da poco) René Remond, René Girard, e poi ancora Jean D’Ormesson, Jean Dulumeau, Jean-Claude Guillebaud, Jean-Louis Chrétien, Philippe Nemo, Marcel Bellet, Fabrice Hadjadj, Maurice Dantec, François Taillandier, Sylvie Germain. Tutti nomi che Sand nemmeno prende in considerazione. Insomma, in riva alla Senna l’intellettuale non è proprio finito...
Intervista all’algerino Boualem Sansal: “L’islam non teme la guerra”
Istruzioni per evitare la prossima Apocalisse
di Gloria Origgi (la Repubblica, 18.12.2015)
Boualem Sansal è un uomo mite, ironico e ispirato al tempo stesso. L’intervista avviene nella sede dell’editore Gallimard, nel cuore di Saint-Germain a Parigi. Sansal ha i capelli lunghi grigi raccolti in una coda di cavallo e un profilo da santone indiano. -Il suo ultimo romanzo, “2084”, un successo planetario, di prossima pubblicazione in Italia per Neri Pozza, è ambientato in un futuro prossimo in cui il mondo libero è stato soggiogato da uno stato totalitario, l’Abistan, che controlla le menti, ha cancellato il passato e ha reso tutti schiavi.
In che modo il suo libro visionario,“2084”, esprime una sua visione buia del futuro?
«Sono anni che penso che attacchi del genere di quelli che si sono prodotti a Parigi a gennaio e novembre sarebbero accaduti. Penso che l’islamismo sia ormai un fenomeno anche europeo. Ed ero sicuro che sarebbe passato in fretta alla fase violenta, ossia alla fase di guerra dichiarata. Dunque la cosa non mi ha sorpreso: come molti altri ero convinto che un giorno o l’altro questo sarebbe avvenuto. E da qualche parte l’Europa non ha voluto vedere, ha sottovalutato il rischio».
Cosa dobbiamo sapere che non sappiamo? Che cos’è l’islamismo?
«La gente pensa che l’islamismo sia qualcosa di recente. Come il fascismo. Invece è nato insieme all’islam. L’islam viene fondato e poi comincia a dividersi. Nasce allora il sunnismo, lo sciismo, il sufismo. L’islamismo è una visione apocalittica della religione. Come in tutte le religioni ci sono movimenti apocalittici che pensano che la fine del mondo sia vicina e stravolgono tutte le credenze orientandole alla fine del mondo».
E perché oggi assistiamo al trionfo di questa visione apocalittica? Anche il suo libro è in fondo apocalittico.
«Le visioni apocalittiche hanno sempre accompagnato le religioni. In tutte le religioni ritroviamo una corrente puramente religiosa, una corrente puramente mistica e una corrente apocalittica il cui pensiero dominante è che raggiungere la fine dell’umanità significa andare incontro a Dio. È un modo di esistenza: è come portare dentro di sé una tentazione suicida che ci fa vivere in modo più “forte”, sempre all’orlo del precipizio».
Se capisco la sua visione, l’islamismo contemporaneo non solo trae la sua forza dall’atteggiamento apocalittico, ma anche dalla dimensione globale.
«Come il cristianesimo, l’islam ha un progetto planetario. I cristiani volevano cristianizzare tutti, compresi i cosiddetti “selvaggi”, quelli che non erano nemmeno considerati esseri umani, che abitavano nelle foreste... Popolazioni che i missionari consideravano come “scimmie” eppure volevano evangelizzarli lo stesso. Per farli diventare umani. L’islam ha la stessa ambizione planetaria di fare regnare Allah sulla terra. L’unico monoteismo che non ha questa tendenza planetaria è la religione ebraica. L’ebraismo è la storia di un popolo eletto, non dell’umanità».
Lei è un laico...
«Io non sono credente, sono ateo. E dunque ovviamente sono laico, nel senso che non voglio vedere la religione interferire con le questioni di Stato».
Lei dice cose indicibili anche in Europa, per esempio contro il “politically correct” o contro le moschee e i musulmani...
«Ci sono troppe moschee, ci sono troppi “barbuti”, c’è troppo rispetto ovunque per la religione. Non dirlo è il segno di una civiltà che muore, che si proibisce da sola di dire quello che pensa. Eccesso di prudenza. In Europa, nel trattato di Lisbona, si è pure inserito un principio di precauzione, come per istituzionalizzare la paura che ormai abbiamo di tutto. Gli europei si sentono circondati, minacciati, e non sono disposti a cambiare, a rinunciare a nulla».
Ha scritto cose che le hanno causato grandi problemi, ha perso il suo posto di alto funzionario a causa dei suoi libri, è stato minacciato più volte. Eppure va avanti.
«Perché non posso pensare e dire tutto ciò senza fare nulla, anche se so che non serve a niente. È una questione di coerenza personale. Poi è la mia natura. Io non posso non parlare. E non parlo mai in modo aggressivo. Però dico sempre quel che penso. Io lo posso fare perché non ho paura di perdere nulla. I politici non possono parlare liberamente perché hanno paura di perdere il potere, sono ostaggio dei loro elettori».
Non è paradossale? Sembra quasi che nelle società cosiddette liberali sia più rischioso parlare che in Algeria...
«Perché sono società terrorizzate, che hanno paura di tutto, di dire quello che pensano, e non sanno nemmeno più cosa pensare. Io che vivo in Algeria, che sono stato minacciato un sacco di volte, non mi sento in pericolo. Avrei potuto ottenere il premio Goncourt quest’anno e molti altri premi se non avessi detto le cose che dico in tivù che mi fanno passare per un islamofobo... ma gli editori hanno avuto paura di dare un premio del genere a qualcuno che dice che l’islam è una vergogna. Ma io me ne infischio dei premi. Se vogliono darmeli va benissimo. Se non vogliono il problema è loro».
Dove si trovava venerdì 13 novembre al momento degli attentati di Parigi?
«Quel fatidico venerdì, mi trovavo nella magnifica città di Uzès per presentare il mio romanzo 2084... Di fronte al nostro tavolo c’era una televisione accesa senza volume. Mentre cenavamo, guardavamo distratti i poliziotti che correvano, le ambulanze, la confusione, senza capire veramente di che si trattasse. Poi sono cominciati i sottotitoli sullo schermo: 5 morti al Bataclan, 2 allo stadio... Il mio libro, il mio racconto apocalittico diventava realtà. Mi vergognavo quasi di averlo immaginato. Come se avessi dato sostanza a quel fantasma».
La laicità francese ha fallito serve un nuovo modello
Errori Il terrorismo ha sfruttato una globalizzazione che elude il controllo degli Stati nazione
Pesca nello scontento cronico di una situazione economica e sociale non più sostenibile L’unica soluzione è coordinarsi a livello europeo sui migranti
Coltivare un’identità esterna a quella del Paese di residenza crea problemi
di Mauro Magatti (Corriere della Sera, 18.12.2015)
Le vicende di questi ultimi tempi mettono a nudo le gravi difficoltà nelle quali si ritrova il modello della laicità francese. Ci sono infatti almeno tre aspetti che appaiono oggi problematici.
Il primo riguarda la possibilità di coltivare un’identità esterna a quella del Paese di residenza. È uno degli effetti della globalizzazione: a prescindere da dove ci si trovi a vivere è molto facile oggi comunicare, fare affari, raggiungere il proprio Paese d’origine. I terroristi di Parigi sono stati probabilmente addestrati in Siria e hanno comunque sfruttato una rete organizzativa sovranazionale. Ciò costituisce un evidente problema per il modello della laicità che presuppone invece uno Stato nazionale in grado di esercitare il monopolio identitario. Specie in Europa dove le frontiere sono state aperte con estrema disinvoltura.
Il secondo aspetto problematico ha a che fare con i cronici fallimenti nei processi di integrazione sociale e economica. La laicità alla francese fallisce poiché non ha più le risorse né le capacità per sostenersi. Oltre alle inefficienze, sono le risorse che in un contesto di economia aperta vengono a mancare. Come dimostrano chiaramente le tante banlieue dove la promessa di cittadinanza viene nei fatti sistematicamente negata. Non ci vuole molto per capire, come si è peraltro ripetuto mille volte, che i ragazzi abbandonati dallo Stato, dall’economia e dalla società sono le prede ideali dei gruppi estremisti.
Il terzo aspetto ha a che fare con il deterioramento, nella sfera pubblica, dei canoni di rispetto reciproco. In nome di una male interpretata idea di libertà di espressione, il positivo superamento di ogni censura è stato inteso come licenza di ingiuria e offesa. Formando una spirale che finisce per alimentare risentimento e odio sociale. In un mondo in cui tutto può essere detto e fatto, l’onere della sopportazione non viene abolito: semplicemente si sposta sulle spalle di chi è reso bersaglio.
La situazione storica nella quale ci troviamo a vivere - con interi Paesi islamici in pieno subbuglio politico e religioso e la contemporanea presenza di una consistente minoranza di cittadini di quella stessa religione nelle nostre città - pone il problema (non solo alla Francia) di quale modello di integrazione si possa e si debba seguire.
Tornare indietro, cioè ricreare le condizioni di plausibilità per il modello della laicità, comporta superare i tre aspetti sopra ricordati. Cosa molto difficile. Soprattutto per Paesi come la Francia, la Germania e l’Italia che oggi avrebbero difficoltà a invertire il processo di integrazione europea.
Si tratta allora di ridiscutere, con maggiore adeguatezza, alcuni capisaldi comuni di un modello sostenibile di integrazione. Muoversi per questa via, che allo stato in cui siamo sarebbe quella più ragionevole, comporta affrontare almeno due temi. Il primo è quello di cui si sta parlando da mesi: una politica europea seria e coordinata per i profughi e un controllo più accurato delle frontiere. Facile a dirsi, difficile, pare, a farsi.
Una tale questione, per quanto urgente, non è però la più importante. La società europea nel suo insieme - e le diverse società nazionali al suo interno - ha bisogno di chiarirsi le idee attorno al rapporto da tenersi con la popolazione islamica.
Anche su questo punto il modello della laicità francese ha mostrato limiti evidenti: negare persino la visibilità della fede religiosa nella sfera pubblica, nelle condizioni sopra ricordate, non è una buona idea. Ciò che va piuttosto chiarito, come ha scritto Claudio Magris sul Corriere della Sera , sono i diritti e i doveri delle comunità di fede musulmana. Sia dentro i confini europei che fuori.
A questo proposito si possono avanzare due considerazioni. La prima riguarda l’urgenza di rilanciare, con le dovute chiarificazioni, il principio della libertà religiosa, affermato da tutte le istituzioni internazionali. In un’epoca di migrazioni, la libertà religiosa va resa una priorità sul piano concreto dei rapporti internazionali, vincolandola al principio di reciprocità. Una linea d’azione che deve arrivare a responsabilizzare le stesse comunità religiose qui residenti, che di norma mantengono stretti legami etnici o nazionali: il riconoscimento in Europa non può essere indipendente da quello che accade nei Paesi di origine.
La seconda considerazione nasce dalla riflessione sul modello italiano, specialmente sullo strumento del concordato. Trattandosi di soggetti che hanno un importante ruolo sociale, le chiese devono essere disposte ad assumere una esplicita riconoscibilità pubblica, con precisi diritti e doveri, che le renda responsabili e leali nei confronti delle istituzioni. L’idea che i gruppi religiosi costituiscano un affare esclusivamente privato finisce per creare enclave semiclandestine. Cosa oggi del tutto inaccettabile.
Dopo il voto.
Il Front National si infrange sul muro di Parigi. Patto elettorale Ps-Verdi-Gauche
Nella capitale il partito della Le Pen si è fermato al 9,65%. Ancora più giù nell’XI arrondissement ferito dalla strage.
L’elettorato borghese urbano rimane a sinistra. Ma le élites cominciano a convertirsi al populismo
di Bernardo Valli (la Repubblica, 9.12.2015)
PARIGI L’ONDATA di estrema destra non si è abbattuta sulla capitale come sul resto del paese. Si è quasi infranta contro le mura di Parigi, come un fiume in piena contro un argine. I voti al Front National sono stati infatti espressi con parsimonia nei venti arrondissements (distretti municipali) della metropoli, la quale conta due milioni e mezzo di abitanti. Nell’insieme della Francia il partito di Marine Le Pen ha ottenuto il 28% al primo turno delle regionali di domenica scorsa. Sulle rive della Senna si è dovuto accontentare di un terzo: 9,65%. Un quoziente modesto che figura al quarto posto, dopo quello del centro destra, dei socialisti e dei Verdi. Parigi ha deluso la famiglia Le Pen. E ha rassicurato molti francesi.
Alcuni miei vicini di casa, in un arrondissement dove il risultato del FN è stato ancora più misero (7,32%) rispetto a quello nazionale, dicono che «i barbari sono stati respinti ». Altri sostengono invece che la metà dei parigini «ha snobbato le urne». E aggiungono «meglio così, potevano fare dei danni». Altri ancora paventano che «l’estrema destra riservi l’ultimo assalto a Parigi, detestato centro del potere». C’è anche chi è fiero: «Parigi ha resistito».
Sono pareri in cui si alternano humor e inquietudine. Ai quali va aggiunta una precisazione. La Parigi intra muros è un’isola urbana in cui vive una ristretta popolazione privilegiata, oltre a quella addetta ai servizi dei quartieri popolari, per lo più magrebini. E in essa affluiscono ogni mattina e se ne vanno ogni sera milioni di uomini e donne residenti nell’ampia regione circostante, l’Ile de France. La società parigina, come quella di altri grandi centri urbani (Lione o Bordeaux), con la no- tevole eccezione di Marsiglia, si è puntualmente espressa in favore dell’Europa e si è rivelata meno sensibile ai richiami populisti. Anzi li ha respinti. Anche in questa occasione.
Un tempo popolare e amante delle barricate, la capitale si è soprattutto imborghesita, e vi risiede un campione abbastanza significativo dell’attuale elettorato di sinistra, composto da una classe media professionale. Non a caso il sindaco attuale è una socialista, come il suo predecessore. Insomma questa è un’importante porzione di Francia che non si lascia sedurre da Marine e da Marion, le due Le Pen, la zia e la nipote. Anche l’11° arrondissement, dove sono avvenuti i massacri di gennaio a Charlie Hebdo e di novembre al Bataclan, ha lesinato i voti al Front National. Non gli ha dato più del 7,49%. Neppure un terzo del risultato nazionale che traumatizza la società democratica. Le emozioni per il sangue versato dai terroristi non hanno favorito il partito islamofobo.
Questa seconda Francia riequilibra la situazione che l’attualità, attizzata da due voti, quello negativo espresso domenica scorsa e quello incerto dei ballottaggi di domenica prossima, rende inquietante. Marine Le Pen non può contare su questa Francia, in larga parte urbana. Per alimentare il suo sogno di diventare un giorno la prima donna presidente della Quinta Repubblica. Per ora la sua Francia è l’altra: quella in cui l’estrema destra raccoglie i voti di molti operai un tempo comunisti e socialisti, e di parte della classe media impoverita e impaurita dall’immigrazione. E tuttavia le élites che un tempo respingevano in blocco il Front National bussano alla sua porta. Alti funzionari, laureati della Scuola Nazionale dell’Amministrazione (l’Ena), dalla quale escono ministri e dirigenti d’azienda, e delle Grandes écoles, fabbriche di tecnici e di insegnanti, sono sempre più attirati da una forza politica dinamica che ai loro occhi sembra ormai in grado di offrire buone occasioni.
Per non parlare degli intellettuali “non più universali ma sovranisti”, in definitiva provinciali, in compunta osservazione del fenomeno Le Pen, che potrebbe salvare l’identità nazionale dal detestato multiculturalismo. Ho scoperto in una rivista di filosofia che Antonio Gramsci è stato adottato dagli intellettuali “sovranisti” che apprezzano le pagine in cui parla di come si raggiunge l’egemonia culturale.
Sono tutti sintomi che annunciano l’ingresso imminente del Front National nella società democratica che finora lo respingeva? E’ quel che temono i partiti in queste ore indaffarati nel preparare la controffensiva destinata a limitare l’avanzata del Front National, dal 6 dicembre prima formazione politica di Francia in seguito ai voti ottenuti al primo turno delle elezioni regionali.
Dalle 18 di ieri le liste dei candidati ai ballottaggi di domenica sono ufficiali. Il capo del centro destra, Nicolas Sarkozy, ha ribadito il suo rifiuto di unirsi ai socialisti per decidere quali candidati, dei due partiti, siano i più adatti ad affrontare, nelle varie situazioni, il Front National. I socialisti hanno allora deciso di propria iniziativa di ritirare i loro uomini in tre regioni, nel Nord, nell’Est e in Provenza, e hanno invitato gli elettori a esprimersi in favore del rappresentante del centro destra per sconfiggere il Front National. E’ stata un’iniziativa generosa di cui resta incerto l’esito, poiché chi ha votato a sinistra al primo turno potrebbe rifiutare l’appoggio all’esponente di destra, sia pure democratico.
La sinistra ha nel frattempo deciso di unirsi: gli esponenti del partito socialista, del Front de Gauche (la sinistra della sinistra, di cui fanno parte i comunisti) e dei Verdi hanno raggiunto faticosamente un accordo per affrontare insieme il voto in otto regioni. Soltanto per la Bretagna non è stata trovata un’intesa. L’unità della sinistra dovrebbe favorire i socialisti in regioni che sembravano fuori dalla loro portata.
La Francia "si scopre" di destra. L’affermazione del Front National è incontestabile: con il 28% è il primo partito di Francia.
Certo, si è votato per elezioni regionali e circa un francese su due si è astenuto, ma la partecipazione è comunque salita rispetto alle regionali del 2010 di circa tre punti.
di Michele Marchi (il Mulino, 7/12/2015])
Parigi. Le possibilità di vittoria finale di Marine Le Pen nella regione Nord-Pas-de-Calais-Picardie sono più che reali. Con oltre il 40%, stacca di quasi sedici punti il candidato repubblicano (l’ex ministro di Sarkozy Xavier Bertrand) e anche in caso di ritiro della lista socialista, giunta terza con appena il 18%, dovrebbe riuscire nella storica impresa di portare una regione a guida frontista. Situazione simile per la nipote di Marine, Marion Maréchal-Le Pen, nella regione mediterranea Provence-Alpes-Côte d’Azur. Anche in questo caso il Partito socialista ha già annunciato il barrage républicain a favore del repubblicano Estrosi, ma potrebbe non essere sufficiente, visto il 40,55% della candidata frontista (ancora quindici punti avanti rispetto alla destra repubblicana) e il pessimo 16,5% della lista socialista.
Se all’estremo Nord e all’estremo Sud gli ottimi risultati del Fn erano attesi, a stupire di più sono il 35% della lista Fn guidata da Florian Philippot, numero due del partito, nella grande regione dell’Est Alsace-Lorraine-Champagne-Ardenne, storico feudo della destra repubblicana. Qui il candidato del centrodestra arriva staccato di oltre dieci punti da quello frontista e solo il ritiro di quello socialista (annunciato ma non certo) potrebbe evitare la terza regione a guida Fn. Infine, se in Bourgogne-Franche-Comté e Centre-Val de Loire ci si attendavano buoni risultati e le due liste frontiste arrivano al primo posto rispettivamente con 32% e 30,5%, l’ultima sorpresa è il 31% di Louis Alliot, compagno di Marine Le Pen e capolista nella regione Languedoc-Roussillon-Midi-Pyrénées, storico feudo della sinistra radicale e socialista. In questo caso determinante sarà la scelta dei repubblicani. Se dovessero optare per ritirare il proprio candidato, fermo al 18%, il candidato Ps (al 25,5%) potrebbe conquistare la regione; altrimenti si prospetta un triangolare che potrebbe essere “letale” per la lista di sinistra.
Non ci sono dunque dubbi sul vincitore di questo primo turno. Il Fn ha saputo mantenere intatto il trend positivo degli ultimi anni, passando indenne le delicate settimane del post-13 novembre: da una parte sfruttando l’attualità delle sue parole d’ordine classiche - sicurezza, lotta all’immigrazione incontrollata, critica all’Ue e alla sua inefficacia, contrasto all’islamismo radicale -, dall’altra amministrando sapientemente lo spirito di Union sacrée che aleggia sul Paese ferito, mantenendosi lontano da reazioni umorali e posizioni bellicose e accentuando così la dédiabolisation del partito e il rafforzamento della sua immagine di soggetto di governo. Accreditare l’opzione Fn solo come voto di protesta e di rigetto è oggi riduttivo: l’elettore del Fn manda un segnale all’establishment ufficiale e ribadisce la sua insurrection, ma vuole anche mandare i candidati frontisti alla guida delle istituzioni. Un monito da non trascurare in vista delle presidenziali del 2017.
Altrettanto certo è lo sconfitto, il Ps: in otto regioni su tredici è arrivato in terza posizione, con pochissime possibilità di vittoria al secondo turno. Del Languedoc-Roussillon si è detto; quasi certamente il Ps manterrà il feudo storico della Bretagna (anche grazie al capolista Jean-Yves Le Drian, stimato ministro della Difesa) e quello dell’Aquitaine-Limousin-Poitou-Charentes, mentre in Ile-de-France Claude Bartolone (attuale presidente dell’Assemblée nationale) se la giocherà con Valérie Pecresse (a lungo ministro durante la presidenza Sarkozy), sperando nei voti dell’elettorato ecologista e dell’estrema sinistra, che hanno totalizzato rispettivamente l’8 e il 6%. Se il Ps dovesse ottenere la guida di quattro regioni, cui potrebbe aggiungersi la Corsica, che resta però un laboratorio politico sui generis, si potrebbe parlare di sconfitta onorevole, anche se nel 2010 (con la vecchia carta regionale) ne controllava 21 su 22 (solo l’Alsazia andò al centrodestra).
All’interno di un trend che dopo l’arrivo di Hollande all’Eliseo ha visto la sconfitta del Ps in tutte le elezioni, in questo caso il cammino verso la sconfitta è partito quando è mancato l’accordo per le varie liste regionali tanto con gli ecologisti (peraltro in netto calo quasi ovunque), quanto con il Front de Gauche. La frammentazione a sinistra è un dato da non trascurare. Al di là delle ultime settimane con Hollande a suo agio nei panni di comandante in capo, il Ps e l’inquilino dell’Eliseo nel corso degli ultimi anni si sono vicendevolmente trascinati verso il baratro, mostrando tra le altre cose una schizofrenia ideologica che li ha condotti, ad esempio sul piano economico, a passare da posizioni stile progetto comune della gauche anni Settanta (la tassazione sui ricchi di inizio mandato), al patto di responsabilità di chiara impronta neoliberale e all’esaltazione nel governo Valls del super-ministro dell’Economia Emmanuel Macron. Nell’immediato il segretario del partito Cambadélis ha dato indicazione per il ritiro delle liste Ps nelle tre regioni di maggior successo del Fn, chiamando dunque l’elettorato socialista al barrage républicain. Una scelta “palliativa”, che lascerà il partito senza consiglieri per cinque anni nelle regioni nella quale sarà applicata e che finirà, per forza di cose, per avallare la lettura frontista dell’alleanza di potere Umps (come richiamato dallo slogan polemico del Fn).
C’è poi un altro sconfitto. Nonostante un discreto 26,8% su scala nazionale (giova ricordare che in tutte le regioni Les républicains - Lr - erano alleati con i centristi), il partito di Nicolas Sarkozy ha senza dubbio tradito le attese. E un giudizio di questo genere trova fondate ragioni sia analizzando il voto da un punto di vista locale, sia passando a considerazione di politica nazionale.
Primo posto solo in quattro regioni, con solo due di queste praticamente già conquistate (si tratta di Pays-de-la Loire e di Auvergne-Rhone-Alpes). Il candidato centrista Hervé Morin in Normandia è giunto primo con un solo un punto di vantaggio da quello frontista e, con il Ps al 23%, lo attende un triangolare complicato. Stessa situazione per Valérie Pécresse in Ile-de-France, dato che il candidato socialista dovrebbe raccogliere una parte consistente del voto ecologista e di estrema sinistra, mentre la riserva di voti della destra repubblicana appare esigua. I pessimi risultati nel Nord e in Provence-Alpes-Côte d’Azur mettono davvero a rischio il secondo turno, ma il vero emblema della sconfitta dell’alleanza tra centro e destra repubblicana si raggiunge nel Grand Est, la regione Alsace-Lorraine-Champagne-Ardenne. Se in questo caso la vittoria finale del Fn non è scontata, gli undici punti di vantaggio della lista frontista in una zona del Paese di forte tradizione gollista e democristiana, sono davvero un campanello d’allarme che l’attuale dirigenza Lr non dovrebbe trascurare. In definitiva se il Front dovesse eleggere due, o addirittura tre presidenti di regione, la sconfitta sarebbe prima di tutto cocente per Les Républicains e avrebbe chiare ricadute a livello nazionale.
Il primo turno è dunque già una evidente bocciatura della strategia di Sarkozy, il quale non si configura come vera e credibile opposizione al governo socialista, tanto da consentire a Marine Le Pen di indicare il suo partito come il primo partito di opposizione. Inoltre, esce sconfitta la condotta tattica di Sarkozy nel post 13 novembre, in bilico tra la critica alle autorità politiche (socialiste) non in grado di garantire la sicurezza dei cittadini, la necessità di non alzare troppo i toni e mantenere saldo il fronte repubblicano contro la minaccia terroristica, salvo poi passare a utilizzare, nell’ultima settimana di campagna, toni duri e parole d’ordine sul modello di quelle già usate nel 2012, nel tentativo di contrastare l’avanzata frontista.
In attesa del ballottaggio, bisogna ricordare che sull’esito finale un certo peso avranno le decisioni delle segreterie del Ps e dei Lr relativamente al ritiro della proprie liste giunte in terza posizione. Se Cambadélis ha già dato alcune indicazioni perlomeno per tre regioni, Sarkozy ha annunciato che il suo partito manterrà sempre i suoi candidati al secondo turno (è la linea del ni fusion, ni retrait). Una linea contestata da personalità di primo piano di centro (i leader dell’Udi Lagarde e del Modem Bayrou), ma anche di destra (come l’ex primo ministro Jean-Pierre Raffarin e l’ex ministro Nathalie Kosciusko-Morizet). Viene ora da chiedersi se a questo punto sia possibile parlare di quadro tripolare nel contesto politico francese. Per dare una risposta definitiva bisognerà naturalmente attendere le presidenziali del 2017 e forse ancora di più le successive legislative. Un voto insomma “nazionale”, di “prim’ordine” e con una partecipazione elettorale più consistente. Tuttavia si tratta di una tendenza in atto, che ha mostrato già segnali evidenti a partire almeno dal voto presidenziale del 2012.
A questo si deve aggiungere l’oramai costante radicamento locale del Fn - che si concretizza nella guida di amministrazioni comunali, dipartimentali e, eventualmente, regionali - contribuendo così a creare una “classe dirigente” frontista e ad accreditare una sua dimensione “governativa”. Parlare di fine della Francia bipolare e bipartitica può essere eccessivo. Ma cominciare a pensare che questo si possa realizzare è ormai più che lecito.
L’Islam e la laicità della République
Francia. Da Sarkozy a Hollande, i tentativi di ammorbidire la legge del 1905 sul non riconoscimento delle religioni. Le stragi terroriste ora chiudono anche quelle parziali aperture
di Tommaso Basevi (il manifesto, 2.12.2015)
Rendere l’Islam compatibile con i principi universalistici e la laicità. E’ la scommessa con cui, al di là dei proclami islamofobi e delle misure emergenziali decise in questi giorni, si sono cimentati tutti i governi e i presidenti francesi. A partire dai primi anni ’90 e fino ad oggi. E la strage a Charlie Hebdo e gli attentati del 13 novembre non spostano la questione, anzi la rendono ancora più attuale.
Naturalmente, dopo l’attacco al cuore di Parigi, la pressione esercitata dalla schiera di maitres a penser neo-conservatori che agitano lo spettro dello scontro di civiltà e l’appeal del Front National diventato, secondo il sociologo Emmanuel Todd, «portabandiera di un neolaicismo rigorista che punta a costruire una repubblica dell’esclusione», rischiano di aumentare ancora.
L’incandescente sfida tra chi crede possibile un compromesso, un possibile “patto di cittadinanza” con la più grande comunità musulmana d’Europa e chi, invece, ritiene che ogni passo in questa direzione sia un cedimento e un segno del declino della Nazione è ancora aperta.
Chi ha ruoli istituzionali, come il premier francese Manuel Valls, minaccia la chiusura delle moschee radicali, ordina perquisizioni senza mandato nelle periferie a rischio salvo poi proclamare solennemente che «dialogare con i musulmani di Francia è il miglior modo per restare fedeli agli ideali della République».
Proprio Valls, nel recente passato, ha più volte incontrato i rappresentanti del Conseil francais du culte musulman, l’organismo creato nel 2003 da Nicolas Sarkozy per permettere alle istituzioni di avere un interlocutore affidabile e capace di rappresentare la seconda comunità religiosa di Francia.
Ad inizio estate il governo socialista aveva promosso una grande consultazione con le federazioni musulmane per dare il via all’ennesima riforma del cosiddetto Islam de France e aprire il dialogo su questioni molto concrete come la sicurezza dei luoghi di culto e la formazione degli imam.
La riunione era allargata a diverse correnti compresa quella che si ispira ai Fratelli Musulmani. Un’apertura resa necessaria dalla crisi di legittimità che, negli anni scorsi, ha investito un Cfcm lacerato da guerre intestine e incapace di rappresentare la propria base e in particolare le generazioni più giovani.
Oltre alla radicalizzazione di una frangia ultraminoritaria ma comunque significativa della popolazione musulmana a preoccupare è soprattutto l’ingerenza di paesi stranieri (Marocco, Turchia, Arabia Saudita) che finanziano la costruzione di moschee e formano gli imam (l’80% dei quali non è francese).
Proprio per questo l’esecutivo aveva pensato di estendere il numero delle facoltà universitarie abilitate a rilasciare diplomi di educazione civica e culturale agli imam che normalmente sono obbligati a recarsi all’estero per seguire corsi di teologia musulmana inesistenti in Francia (ad eccezione di un corso all’Università Paris VIII).
A complicare ogni intervento diretto dello Stato in questo campo, contribuisce però proprio una delle leggi-faro della Francia repubblicana, la legge di separazione tra lo Stato e le Chiese. Promulgata nel 1905 questa legge nega un riconoscimento ufficiale delle diverse religioni e vieta ogni intervento finanziario a loro favore. Di fatto quindi impedisce l’emersione di un Islam “istituzionalizzato”, più trasparente e meno permeabile a possibili derive fondamentaliste.
L’ex presidente Sarkozy che oggi, nei suoi meeting da leader dell’opposizione, invita «le religioni ad adattarsi alla République» spiegando che «chi viene qui deve assimilarsi e adottare la nostra cultura», si era mostrato in passato molto più attento e possibilista oltreché opportunista. Nel 2004, poco prima che scoppiasse la rivolta nelle banlieues, era stato proprio lui a farsi paladino di una «laicità positiva»: «L’Islam - spiegava - ha un ruolo da svolgere in particolare nelle periferie difficili dove è preferibile che i giovani possano avere speranze spirituali piuttosto che adottare come religione la violenza, la droga o il denaro».
Attaccato dai laici duri e puri, Sarkozy aveva poi dovuto abbandonare il suo piano che prevedeva, tra l’altro, proprio alcune, timide ma significative, modifiche alla legge di separazione, promulgata in un’epoca in cui la presenza dell’Islam in Francia era inesistente.
Il suo successore François Hollande non sembra volersi spingersi così in là. «Oggi il clima è cambiato e si vuole relegare la religione esclusivamente nell’ambito privato» spiega il sociologo dell’Istituto Universitario Europeo di Firenze Olivier Roy. «A far paura - aggiunge il ricercatore del Cnrs Marwan Mohammed - è la visibilità stessa dell’Islam che è immediatamente associata all’islamismo o addirittura al terrorismo. In questo contesto ogni domanda religiosa anche la più banale provoca inquietudine e viene equiparata a una deriva integralista».
Trasformata nell’ultimo baluardo contro il dilagare del fondamentalismo religioso la legge di separazione, architrave della République, contribuisce alla discriminazione di un Islam alla costante ricerca di un riconoscimento. Modificarla è un rischio che, nel contesto attuale, nessuno oggi in Francia sembra voler correre.
Intervista a Pascal Blanchard, uno dei massimi studiosi della storia coloniale e francese
Lo spirito bastardo della République
L’ostilità verso l’«altro» anche se nato e cresciuto in Francia e l’idea di una nazione di razza bianca si sovrappongono e convivono con i valori di libertà, uguaglianza e fraternità.
di Guido Caldiron (il manifesto, 19.11.2015)
La strage di Parigi avviene in un clima particolare per la Francia. Il paese è attraversato da anni da una angoscia identitaria e da nuove fratture, sia sociali che culturali, che sembrano aver finito per mettere in discussione gli stessi valori della République. Dopo aver lavorato a lungo sulla memoria coloniale e sull’ombra che qul passato mai veramente elaborato proietta ancora oggi sulla società transalpina, lo storico Pascal Blanchard, ricercatore del «Laboratoire Communication et Politique» del Cnrs di Parigi e uno tra i maggiori specialisti della storia dell’immigrazione nel paese, ha curato opere ed esposizioni dedicate alla presenza araba, africana e asiatica nella Ville Lumiere, ha pubblicato recentemente un’opera, Le grand repli che intende rispondere sul piano dell’analisi come quello della proposta politico-culturale al progressivo richiudersi su se stesso del paese.
Molti dei temi che sono al centro del suo lavoro, dalla mancata assunzione del passato coloniale fino alla ricerca di una nuova identità da parte dei giovani francesi figli o nipoti degli immigrati arabi o africani, sembrano rappresentare lo scenario che fa da sfondo ai fatti di questi giorni. La strage compiuta dagli jihadisti non potrà che rendere tutto ancora più difficile. Quale è la situazione nel suo paese?
Penso che la crisi che attraversa la Francia vada al di là della tragedia che ha colpito Parigi. Piuttosto, proprio questi fatti rappresentano uno degli aspetti più visibili e drammatici della situazione del paese: il fatto stesso che dei giovani francesi abbiano scelto di raggiungere le fila degli jihadisti per poi decidere di portare la morte e il terrorismo laddove sono nati, la dice lunga di quanto grave sia la crisi. Solo che in questi casi si rischia sempre di non guardare al modo in cui i fenomeni hanno preso piede.
La Francia della paura e dell’odio, del sospetto e del pregiudizio ha infatti preso da tempo il posto di quella del vivere insieme. Stiamo dimenticando ogni giorno di più gli ideali e le idee che abbiamo appreso dalla Rivoluzione francese, come i diritti dell’uomo e il fatto di aprire le nostre porte agli stranieri. E questo si avverte anche sul piano culturale. Da un lato, gli intellettuali di destra, i «neoreazionari» hanno inaugurato tutto un vocabolario per descrivere quello che considerano come «il declino» della Francia e la perdita della sua grandeur. Evocano «il paese dei bei tempi andati», in cui tutti stavano al loro posto, le donne in cucina e gli indigeni nelle colonie, quando non parlano apertamente, l’ha fatto di recente un’esponente del centro-destra, del fatto che questo sarebbe un paese «di razza bianca». Dall’altro, gli intellettuali di sinistra che hanno affrontato per primi e in modo utile il tema del meticciato e della contaminazione tra le culture, non sembrano più in grado di farsi sentire e forse anche di comprendere ciò che sta accadendo, fino a pensare che l’integrazione dei giovani delle ultime generazioni dell’emigrazione postcoloniale sia fallita, quando in realtà è proprio il passato coloniale che struttura ancora oggi i rapporti umani, sociali, territoriali. Il radicalismo jihadista partecipa a questa etnicizzazione dei rapporti sociali, dando voce all’odio per la Francia e per l’Occidente di una parte dei giovani figli dell’immigrazione.
Lei ha spiegato come i simboli e il profilo della République non rappresentino più tutti i suoi cittadini. Anche a causa dell’estendersi delle diseguaglianze sociali, che hanno reso ancora più marcate le differenze culturali che attraversano la società francese, per i giovani maghrebini, neri e musulmani è sempre più difficile identificarsi con Marianne. Dunque, cosa fare?
Il problema è proprio questo: l’identità dell’«altro», di colui che non risponde ai canoni tradizionali della cultura, dell’origine, oggi perfino della religione, non sembra trovare spazio nel modo in cui la République si pensa e si rappresenta. Credo siano due i fattori decisivi che hanno caratterizzato il processo che ha portato a questo stato di cose.
Il primo riguarda il fatto che non si è mai davvero superato il passato coloniale del paese che ha finito per mescolarsi con il profilo stesso delle sue istituzioni. Penso al refrain sui «nostri avi Galli» che viene impartito anche agli studenti le cui famiglie sono originarie proprio di quello che fu il vasto impero di Parigi o all’accento sulle politiche di assimilazione che hanno guidato il sistema educativo e culturale. A questo si deve aggiungere che la Francia, in quanto culla dei diritti dell’uomo, dei valori di libertà, uguaglianza e fraternità che dai tempi della rivoluzione non hanno mai cessato di essere diffusi ai quattro angoli del mondo, ha sempre avuto un rapporto contraddittorio con tutto ciò.
I valori della République nata dalla presa della Bastiglia hanno infatti convissuto per più di due secoli con l’idea dell’inferiorità dell’«altro» che dominava il suo spazio coloniale, con l’idea che quel dominio fosse giustificato anche dal colore della pelle e che, a differenza di quanto accaduto ad esempio negli imperi britannico o giapponese, Parigi inseguiva l’utopia della piena assimilazione culturale dei cittadini dei paesi colonizzati. Così, ancora oggi se si parla con un giovane che appartiene alla seconda o alla terza generazione dell’immigrazione senegalese o algerina, ci si rende conto che essere il discendente di un indigeno delle colonie, significa per molti versi, anche se si è nati e cresciuti in Francia, non avere la stessa storia del resto dei cittadini francesi. In altre parole, non si è mai voluto costruire una memoria comune, scrivere una storia che fosse il «frutto di storie», intese in senso plurale come rappresentanza della diverse componenti del paese, in modo da impedire che la narrazione pubblica della République non si discostasse troppo dal suo volto quotidiano, soggettivo e privato. È questo il lavoro decisivo che resta ancora da fare.
Nel frattempo che i valori repubblicani attuino, per così dire, la loro riforma, non sarebbe sufficiente che si prendesse atto dell’esistenza di una dinamica comunitaria, se non di una prospettiva multiculturalista, in seno alla società francese?
Lei ha ragione, ma affermare questo in Francia equivale a riconoscere quella crisi dei valori della République che in molti, specie tra i rappresentanti politici e nel mondo intellettuale, si ostinano a negare. Personalmente credo che la Francia sia una società multiculturale a cui il sistema del multiculturalismo, per come lo conosciamo oggi, vada però stretto. Il punto non è però quello di cercare il «modello» sociale adatto per il paese, ma di affrontare i problemi che sono già sul terreno. Ho qualche dubbio a contrapporre le forme di multiculturalismo che regolano la vita collettiva negli Stati Uniti o in Gran Bretagna e il cosiddetto modello repubblicano francese, il cui vero limite è che ha smesso di funzionare perché non ha preso atto delle trasformazioni e delle modifiche profonde che sono intervenute nella nostra società.
Paradossalmente in Francia si parla di comunità si fa riferimento alla Bretagna o alla Corsica, ma si esita a farlo per descrivere le molteplici identità fiorite nel paese con il passare del tempo. A questo si deve aggiungere che il nostro è l’unico paese al mondo che continua a promuovere, almeno sulla carta, l’integrazione di chi viene da altre realtà culturali. Da ciò la difficoltà che si registra in modo sempre più drammatico nel definire un nuovo percorso che assicuri allo stesso tempo, da un lato, l’espressione della diversità come di un pieno diritto di cittadinanza di ciascuno e, dall’altro, l’unità nazionale di un paese e di un popolo. In questo momento, nel paese si fronteggiano coloro che sembrano rifarsi ancora all’esperienza coloniale e che ritengono che in base al colore della pelle o alla fede religiosa un individuo possa o meno essere considerato a tutti gli effetti francese e chi ritiene invece che l’idea stessa di cittadinanza non abbia nulla a che fare con le nozioni di razza o cultura. Oggi, queste due prospettive si contrappongono in modo radicale perché, per alcuni, il fatto stesso che la società francese possa aprirsi alle differenze significa che si sta avviando verso il declino e, in ultima istanza, verso la sua fine.
A scorrere le biografie degli assalitori del Bataclan viene da pensare che dieci anni sopo la grande rivolta delle banlieue il sogno di trasformazione di alcuni giovani delle periferie si è trasformato in un incubo di morte e autodistruzione. È così?
Proprio perché ho studiato a lungo l’immagine stereotipata dell’indigeno delle colonie che si è imposta in Francia, praticamente fino ad oggi, rifuggo dalla generalizzazioni anche quando riguardano i giovani delle attuali periferie urbane. Non esiste uno solo «giovane delle banlieue», ma milioni di ragazzi che nascono e crescono in questi quartieri e che seguono diverse traiettorie scolastiche, lavorative, politiche e culturali.
Non si può racchiudere questa molteplicità nelle scelte di qualche migliaia di giovani che si sono avvicinati al radicalismo islamico e al terrorismo, andando a combattere in Siria o compiendo attentati in Europa. È una parte ultraminoritaria del mondo giovanile dei quartieri popolari, come della comunità dei fedeli musulmani - che per altro segnalo essere composta in Francia al 30% da convertiti che non provengono da famiglie di tradizione islamica. La stragrande maggioranza ha continuato a vivere la propria vita e sono moltissimi coloro che sono ancora impegnati in attività sociali nei loro quartieri. Piuttosto, ciò che colpisce nelle vicende di questi giovani jihadisti è come sia spesso la ricerca spasmodica di un’identità a caratterizzare il loro percorso: qualcosa che ha che fare con un profondo malessere interiore, con il rapporto non risolto con la Francia come con se stessi. Molti di costoro sembrano non saper più chi sono e non a caso la scelta di integrare lo Stato islamico o altre simili organizzazione terroriste equivale in molti casi ad annullare la propria individualità nel contesto di una guerra dove la ricerca della morte è considerata come il bene supremo.
Gli scaffali di Pascal Blanchard
Storico, documentarista e ricercatore del Cnrs, Pascal Blanchard è uno dei maggiori studiosi dell’epoca coloniale. Responsabile scientifico della mostra «Exhibitions. L’invention du sauvage», ha realizzato i documentari «Paris couleurs» (France 3) e «Noirs de France» (France 5). Co-direttore della raccolta «Un siècle d’immigration des Suds en France» (Gra), ha dedicato diverse opere alla storia delle comunità immigrate, realizzando opere considerate già dei classici come «Le Paris arabe. Deux siècles de présence des Orientaux et des Maghrébins en France», «Le Paris asie» e «La France noire. Trois siècles de présences», tutti pubblicati da La Découverte. Per lo stesso editore parigino sono usciti «La fracture colonial» e «Le grand repli», scritto insieme ai colleghi Nicolas Bancel e Ahmed Boubeker, un volume che affronta la grande crisi sociale e culturale che attraversa la Francia.
Se il concetto di umanità cambia tra Parigi e Beirut
di Donatella Di Cesare (Corriere della Sera, 17.11.2015)
«Un attacco all’umanità e ai nostri valori universali». Così Obama ha commentato l’attentato di Parigi. Ma le sue parole sono stata aspramente criticate in un articolo del New York Times molto cliccato nei social media. Non sono forse esseri umani quelli sterminati qualche giorno prima nella strage di Beirut? E che dire delle tante stragi che trovano spazio marginale nei media? Viene da pensare che ci siano ranghi diversi di umanità. Quel concetto, che prometteva di essere universale, sembra disgregarsi. I corpi mutilati, che un’impietosa telecamera ci mostra sul selciato di Beirut, o per le vie di una sconosciuta città della Siria, non ci inquietano come i feriti e i morti intravisti nel buio della notte di Parigi.
Per giustificarci potremmo dire che dove riconosciamo un volto, l’umanità ferita suscita in noi compassione e sdegno. In quelle strade di Parigi avremmo potuto trovarci anche noi; ci immaginiamo al posto dell’altro, vittima inerme. E l’immaginazione diventa la spinta per l’etica. Se invece l’umanità ci appare lontana, anonima, senza volto, il nostro sentire si inceppa. Diventiamo quasi analfabeti emotivi, mentre quelle persone scadono a nonpersone. Ecco perché è così importante il ruolo dei media.
Tuttavia dobbiamo ammettere che continuiamo a dividere l’umanità per ranghi (non sta forse qui la fonte del razzismo?) e che anche dove razionalmente riconduciamo gli essere umani a un concetto universale, riguardiamo l’«umanità» di quegli «estranei» come se fosse diversa dalla nostra, non dello stesso rango.
L’umanità, così spesso invocata nel discorso pubblico, si rivela un concetto troppo astratto, quasi vuoto, che richiede di essere ripensato. A partire dal volto di ciascuno.
Dopo Parigi. Bisogna rimettere la pace, e non la vittoria, al centro della nostra agenda politica
di Etienne Balibar (il manifesto, 17.11.2015)
Sì, siamo in guerra. O meglio, siamo ormai tutti dentro la guerra. Colpiamo e ci colpiscono. Dopo altri, e purtroppo prevedibilmente prima di altri, paghiamo il prezzo e portiamo il lutto. Ogni persona morta, certo, è insostituibile. Ma di quale guerra si tratta?
Non è semplice definirla, perché è fatta di diversi tipi, stratificatisi con il tempo e che paiono ormai inestricabili. Guerre fra Stato e Stato (o meglio, pseudo-Stato, come «Daesh»). Guerre civili nazionali e transnazionali.
Guerre fra «civiltà», o che comunque si ritengono tali. Guerre di interessi e di clientele imperialiste. Guerre di religione e settarie, o giustificate come tali. È la grande stasis del XXI secolo, che in futuro - ammesso che se ne esca vivi - sarà paragonata a modelli antichi, la Guerra del Peloponneso, la Guerra dei Trent’anni, o più recenti: la «guerra civile europea» fra il 1914 e il 1945.
Questa guerra, in parte provocata dagli interventi militari statunitensi in Medioriente, prima e dopo l’11 settembre 2001, si è intensificata con gli interventi successivi, ai quali partecipano ormai Russia e Francia, ciascun paese con i propri obiettivi. Ma le sue radici affondano anche nella feroce rivalità fra Stati che aspirano tutti all’egemonia regionale: Iran, Arabia saudita, Turchia, Egitto, e in un certo senso Israele - finora l’unica potenza nucleare.
In una violenta reazione collettiva, la guerra precipita tutti i conti non saldati delle colonizzazioni e degli imperi: minoranze oppresse, frontiere tracciate arbitrariamente, risorse minerarie espropriate, zone di influenza oggetto di disputa, giganteschi contratti di fornitura di armamenti. La guerra cerca e trova all’occorrenza appoggi fra le popolazioni avverse.
Il peggio, forse, è che essa riattiva «odi teologici» millenari: gli scismi dell’Islam, lo scontro fra i monoteismi e i loro succedanei laici. Nessuna guerra di religione, diciamolo chiaramente, ha le sue cause nella religione stessa: c’è sempre un «substrato» di oppressioni, conflitti di potere, strategie economiche. E ricchezze troppo grandi, e troppo grandi miserie. Ma quando il «codice» della religione (o della «controreligione») se ne appropria, la crudeltà può eccedere ogni limite, perché il nemico diventa anatema. Sono nati mostri di barbarie, che si rafforzano con la follia della loro stessa violenza - come Daesh con le decapitazioni, gli stupri delle donne ridotte in schiavitù, le distruzioni di tesori culturali dell’umanità.
Ma proliferano ugualmente altre barbarie, apparentemente più «razionali», come la «guerra dei droni» del presidente Obama (premio Nobel per la pace) la quale, ormai è assodato, uccide nove civili per ogni terrorista eliminato.
In questa guerra nomade, indefinita, polimorfa, dissimmetrica, le popolazioni delle «due sponde» del Mediterraneo diventano ostaggi. Le vittime degli attentati di Parigi, dopo Madrid, Londra, Mosca, Tunisi, Ankara ecc., con i loro vicini, sono ostaggi.
I rifugiati che cercano asilo o trovano la morte a migliaia a poca distanza dalle coste dell’Europa sono ostaggi. I kurdi presi di mira dall’esercito turco sono ostaggi. Tutti i cittadini dei paesi arabi sono ostaggi, nella tenaglia di ferro forgiata con questi elementi: terrore di Stato, jihadismo fanatico, bombardamenti di potenze straniere.
Che fare, dunque? Prima di tutto, e assolutamente, riflettere, resistere alla paura, alle generalizzazioni, alle pulsioni di vendetta. Naturalmente, prendere tutte le misure di protezione civile e militare, di intelligence e di sicurezza, necessarie per prevenire le azioni terroristiche o contrastarle, e se possibile anche giudicare e punire i loro autori e complici. Ma, ciò facendo, esigere dagli Stati «democratici» la vigilanza massima contro gli atti di odio nei confronti dei cittadini e dei residenti che, a causa della loro origine, religione o anche abitudini di vita, sono indicati come il «nemico interno» dagli autoproclamatisi patrioti. E poi: esigere dagli stessi Stati che, nel momento in cui rafforzano i propri dispositivi di sicurezza, rispettino i diritti individuali e collettivi che fondano la loro legittimità. Gli esempi del «Patriot Act» e di Guantanamo mostrano che non è scontato.
Ma soprattutto: rimettere la pace al centro dell’agenda, anche se raggiungerla sembra così difficile. Dico la pace, non la «vittoria»: la pace duratura, giusta, fatta non di vigliaccheria e compromessi, o di controterrore, ma di coraggio e intransigenza. La pace per tutti coloro i quali vi hanno interesse, sulle due sponde di questo mare comune che ha visto nascere la nostra civiltà, ma anche i nostri conflitti nazionali, religiosi, coloniali, neocoloniali e postcoloniali. Non mi faccio illusioni circa le probabilità di realizzazione di quest’obiettivo. Ma non vedo in quale altro modo, al di là dello slancio morale che può ispirare, le iniziative politiche di resistenza alla catastrofe possano precisarsi e articolarsi. Farò tre esempi.
Da una parte, il ripristino dell’effettività del diritto internazionale, e dunque dell’autorità delle Nazioni unite, ridotte al nulla dalle pretese di sovranità unilaterale, dalla confusione fra umanitario e securitario, dall’assoggettamento alla «governance» del capitalismo globalizzato, dalla politica delle clientele che si è sostituita a quella dei blocchi. Occorre dunque resuscitare le idee di sicurezza collettiva e di prevenzione dei conflitti, il che presuppone una rifondazione dell’Organizzazione - certamente a partire dall’Assemblea generale e dalle «coalizioni regionali» di Stati, invece della dittatura di alcune potenze che si neutralizzano reciprocamente o si alleano solo per il peggio.
Dall’altra parte, l’iniziativa dei cittadini di attraversare le frontiere, superare le contrapposizioni fra le fedi e quelle fra gli interessi delle comunità, il che presuppone in primo luogo poterle esprimere pubblicamente. Niente deve essere tabù, niente deve essere imposto come punto di vista unico, perché per definizione la verità non preesiste all’argomentazione e al conflitto.
Occorre dunque che gli europei di cultura laica e cristiana sappiano quel che i musulmani pensano circa l’uso della jihad per legittimare avventure totalitarie e azioni terroristiche, e quali mezzi hanno per resistervi dall’interno. Allo stesso modo, i musulmani (e i non musulmani) del Sud del Mediterraneo devono sapere a che punto sono le nazioni del «Nord», un tempo dominanti, rispetto al razzismo, all’islamofobia, al neocolonialismo. E soprattutto, occorre che gli «occidentali» e gli «orientali» costruiscano insieme il linguaggio di un nuovo universalismo, assumendosi il rischio di parlare gli uni per gli altri. La chiusura delle frontiere, la loro imposizione a scapito del multiculturalismo delle società di tutta la regione, questa è già la guerra civile.
Ma in questa prospettiva, l’Europa ha virtualmente una funzione insostituibile, che deve onorare malgrado tutti i sintomi della sua attuale decomposizione, o piuttosto per porvi rimedio, nell’urgenza. Ogni paese ha la capacità di trascinare tutti gli altri nell’impasse, ma tutti insieme i paesi potrebbero costruire vie d’uscita e costruire argini.
Dopo la «crisi finanziaria» e la «crisi dei rifugiati», la guerra potrebbe uccidere l’Europa, a meno che l’Europa non dia segno di esistere, di fronte alla guerra.
E’ questo continente che può lavorare alla rifondazione del diritto internazionale, vegliare affinché la sicurezza delle democrazie non sia pagata con la fine dello Stato di diritto, e cercare nella diversità delle comunità presenti sul proprio territorio la materia per una nuova forma di opinione pubblica.
Esigere dai cittadini, cioè tutti noi, di essere all’altezza dei loro compiti, è chiedere l’impossibile? Forse; ma è anche affermare che abbiamo la responsabilità di far accadere quel che è ancora possibile, o che può tornare a esserlo.
Il lutto diventa legge
di Judith Butler *
Sono a Parigi. Ieri sera mi trovavo vicino al luogo dell’attentato, in rue Beaumarchais. Ho cenato in un ristorante che dista dieci minuti da un altro obiettivo degli attentati. Le persone che conosco stanno tutte bene, ma ci sono molte altre persone che non conosco, che sono traumatizzate, o in lutto. È scioccante, e terribile. Oggi le strade erano abbastanza movimentate, durante il giorno, ma vuote di notte. Stamattina era tutto completamente fermo.
Appare chiaro, dai dibattiti televisivi, che lo “stato di emergenza”, anche se temporaneo, crea in realtà un precedente per un’intensificazione dello “stato di polizia”. Si parla di militarizzazione (o meglio, del modo in cui “portarne a compimento” il processo), di libertà e di guerra all’“Islam”, quest’ultimo inteso come un’entità amorfa. Hollande, nel dichiarare “guerra” ha tentato di darsi un tono virile, ma a colpire, in realtà, era l’aspetto imitativo della sua performance - al punto da rendere difficile seguirlo seriamente. Proprio questo buffone, in ogni caso, assumerà ora il ruolo di capo dell’esercito.
Lo stato di emergenza dissolve la distinzione tra Stato ed esercito. La gente vuole vedere la polizia, una polizia militarizzata a proteggerla. Un desiderio pericoloso, per quanto comprensibile. Molti sono attratti dagli aspetti caritatevoli dei poteri speciali concessi al sovrano in uno stato di emergenza, come ad esempio le corse in taxi gratuite, la scorsa notte, per chiunque avesse bisogno di tornare a casa, o l’apertura degli ospedali per i feriti. Non è stato dichiarato il coprifuoco, ma i servizi pubblici sono stati comunque ridotti e le manifestazioni pubbliche vietate - ad esempio i rassemblements (“assembramenti”) per piangere i morti sono stati considerati illegali. Ho partecipato a uno di questi, a Place de la République: la polizia continuava a dire a tutti i presenti di separarsi, ma in pochi obbedivano. Per un attimo, ho visto in questo un po’ di speranza.
Quanti commentano i fatti, cercando di distinguere tra le diverse comunità musulmane, con i loro diversi posizionamenti politici, sono accusati di badare troppo alle “sfumature”: sembra che il nemico debba essere al contempo indefinito e singolarizzato, per essere annientato, e le differenze tra musulmani, jihadisti e Stato islamico, nei discorsi pubblici, si fanno via via più labili. Tutti puntavano il dito, con assoluta certezza, contro lo Stato islamico ancora prima che l’ISIS rivendicasse gli attentati.
Trovo significativo, personalmente, che Hollande abbia dichiarato tre giorni di lutto ufficiale, nello stesso momento in cui intensificava i controlli di sicurezza. Si tratta di un modo nuovo di leggere il titolo del libro di Gillian Rose, Mourning Becomes the Law (“Il lutto diventa legge”). Stiamo partecipando a un momento di lutto? O stiamo legittimando la militarizzazione del potere statale, o forse la sospensione della democrazia...? In che modo questa sospensione accade con più facilità, quando viene venduta in nome del lutto? Ci saranno tre giorni di lutto pubblico, ma lo stato di emergenza può essere prorogato fino a dodici giorni, anche senza approvazione dell’Assemblea nazionale.
La voce dello Stato dice che abbiamo bisogno di limitare le libertà, al fine di difendere la libertà - paradosso che non sembra affatto disturbare i commentatori in tv. Gli attacchi, in effetti, erano chiaramente rivolti a luoghi emblematici della libertà quotidiana in Francia: il bar, il locale da concerti, lo stadio. Nel locale, a quanto pare, uno dei responsabili delle 89 morti violente lanciava un’invettiva contro la Francia per non essere intervenuta contro la Siria (contro il regime di Assad), e contro l’Occidente per i suoi interventi in Iraq (contro il regime baathista). Non è, quindi, un posizionamento (se così si può definire) totalmente in contrasto con l’intervento occidentale in sé.
C’è, poi, una politica dei nomi: ISIS, ISIL, Daesh. La Francia rifiuta di dire “etat islamique”, in quanto ciò significherebbe riconoscerlo come Stato, ma vuole tenere “Daesh” come termine, in modo da non doverlo tradurre in francese. Nel frattempo, è questa l’organizzazione che ha rivendicato gli attentati, come rappresaglia per tutti i bombardamenti aerei che hanno ucciso i musulmani sul suolo del Califfato. La scelta del concerto rock come obiettivo - come scenario per gli omicidi, in realtà - è stata così argomentata: ospitava “idolatria” e “un festival della perversione”. Mi domando dove abbiano trovato il termine “perversione”. Suona quasi come uno sconfinamento da un altro contesto.
Tutti i candidati alla presidenza della Repubblica non hanno lesinato le loro opinioni: Sarkozy propone i campi di detenzione, affermando la necessità di arrestare chiunque sia sospettato di avere legami con jihadisti. Le Pen parla invece di “espulsioni”, dopo aver definito “batteri” i nuovi immigrati. E non è da escludere che la Francia decida di consolidare la sua guerra nazionalista contro gli immigrati dal momento che uno degli assassini è arrivato in Francia passando per la Grecia.
La mia scommessa è che sarà importante monitorare il discorso sulla libertà nei prossimi giorni e nelle prossime settimane, poiché ciò avrà implicazioni per lo stato di polizia e per l’affievolimento delle precedenti versioni della democrazia. Una libertà viene attaccata dal nemico; un’altra viene attaccata dallo Stato, proprio mentre difende il discorso dell’”attacco alla libertà” da parte del nemico come un attacco contro ciò che si ritiene costituisca l’essenza della Francia, ma sospende la libertà di assembrare (la “libertà di espressione”) nel bel mezzo del lutto, e si prepara per una ancora maggiore militarizzazione dei corpi di polizia. La questione politica centrale è questa: quale versione dell’estrema destra vincerà le prossime elezioni? E quale diventa la prossima “destra tollerabile” se Marine Le Pen è considerata di “centro”? È un tempo spaventoso, triste, di oscuri presagi; ma noi siamo ancora in grado di pensare, spero, di parlare, e di agire, in mezzo a tutto ciò.
Il lutto sembra essere stato completamente circoscritto all’interno del territorio nazionale. Difficilmente si parla dei quasi 50 morti a Beirut il giorno prima, o dei 111 uccisi in Palestina solo nelle ultime settimane, o degli attacchi ad Ankara. La maggior parte delle persone che conosco dicono di trovarsi in una “situazione di stallo”, nella più totale incapacità di inquadrare lucidamente la situazione. Un modo per farlo potrebbe forse consistere nell’abbracciare una concezione trasversale del dolore, cercando di comprendere in che modo lavorino le metriche del lutto, cercando ad esempio di comprendere perché il bar mi colpisca al cuore in un modo che gli altri obiettivi sembrano invece non fare. La paura e la rabbia possono gettare con assoluta fierezza tra le braccia dello stato di polizia. Suppongo che sia questo il motivo per cui mi trovo meglio con chi si trova invece nella situazione di stallo. Ciò significa che si prendono del tempo per pensare. Ed è difficile pensare quando si è paralizzate dallo spavento. Ci vuole tempo per farlo, e qualcuno che sia disposto a farlo insieme a te - qualcosa che ha la possibilità di accadere, forse, in un rassemblement non autorizzato.
Apparso su Revista Cult, 13 novembre 2015
* FONTE: EFFIMERA - 17.11.2015. Tradotto da Federico Zappino, con la collaborazione di Marco Liberatore
Tanti autori folgorati dal tema dell’identità francese Scelta politica? No,solo mediatica
Se gli intellettuali svoltano a destra per puro marketing
Siamo lontani anni luce da un Sartre schierato con gli operai o da un Foucault che denunciava le condizioni carcerarie
di Christian Salmon (la Repubblica, 17.10.2015)
Un nuovo «caso» sta scuotendo la Francia: gli “intellettuali” sarebbero ormai schierati a destra, o in altri termini, passati dalla parte del nemico. Tradimento? Eresia? Il caso merita una riflessione, poiché segna una nuova tappa della mutazione iniziata più di trent’anni fa con i “nuovi filosofi”. E’ da allora che la figura dell’intellettuale, nata al tempo dell’”affaire Dreyfus”, si decompone sempre più sotto le bordate della globalizzazione, della rivoluzione neoliberista e della terza rivoluzione industriale.
Al centro di questo nuovo caso figurano quattro personaggi che a prima vista non hanno nulla in comune. Houellebecq, romanziere navigato, ha l’abilità di situare le tematiche dei suoi romanzi al centro dei dibattiti in atto nella società.Eric Zemmour è un polemista nostalgico di una Francia senza stranieri. Alain Finkielkraut, autore di saggi declinisti, si scaglia contro un’immigrazione snaturante, una scuola squalificante e l’assuefazione alle nuove tecnologie.
Quanto a Michel Onfray, è autore di successo di una controstoria della filosofia, demolitore di tutte le idolatrie, compresi Freud e la psicanalisi. Sono tutti accusati di deriva a destra, e di fare il gioco del Front National. Siamo lontani da un Sartre schierato con gli operai della Renault in sciopero (francesi e immigrati), da un Foucault che denunciava le condizioni di vita dei carcerati (francesi e immigrati).
Questo gruppo di intellettuali preoccupati per l’identità francese, minacciata dalle ondate di immigrazione, non denuncia più il razzismo ma l’antirazzismo, e si schiera in difesa del “popolino” disprezzato, a tutto vantaggio dei rifugiati, e del “français de souche” (il francese d’origine). Non si può comprendere un simile voltafaccia senza entrare nella logica dell’universo mediatico. In un mondo saturato di informazioni, l’attenzione è la più rara delle risorse: solo un messaggio shock, più clamoroso di quello che l’ha preceduto, può avere qualche probabilità di captare l’attenzione. I comportamenti da adottare nell’universo concorrenziale dei canali tv sono tutti calcolati per ottenere, come scrive George Steiner, «il massimo impatto e un’istantanea obsolescenza». E questa duplice esigenza favorisce il generalizzarsi di comportamenti trasgressivi.
È il caso di Michel Onfray, quando in piena crisi dei profughi denuncia le «messe catodiche » in favore degli immigrati, anteposti al «popolo francese disprezzato». Onfray si fa avvocato di «questo popolo old school», il «nostro popolo », il «mio popolo», non senza precisare che chi parla a questo popolo è Marine Le Pen. Successo garantito. Ma già la breccia era stata aperta da Alain Finkielkraut all’epoca delle rivolte delle banlieue, quando si era scagliato violentemente contro i «neri», gli «arabi» e l’islam. Michel Houellebecq tocca le stesse corde, dichiarando che «la religione più cretina resta comunque l’islam». Quanto a Eric Zemmour, cavaliere dell’Apocalisse identitaria, né romanziere né filosofo ma polemista di professione, dichiara, all’indomani del naufragio costato la vita a varie centinaia di persone, che «i naufraghi di Lampedusa non sono profughi ma invasori».
Analizzando l’irruzione dei nuovi filosofi nel mondo intellettuale, alla fine dei Settanta, Gilles Deleuze si guarda bene dal discutere i contenuti delle loro posizioni, ma mette a nudo le leggi delle loro performance mediatiche, e quella che definisce «la trovata del marketing». E rileva due indizi che strutturano tuttora gli interventi degli intellettuali mediatici. Innanzitutto, procedono per concetti grossolani, tagliati con l’accetta.
Ieri c’era la Legge, il Potere, il Gulag. Oggi c’è l’Identità, il Popolo, la Nazione, lo Straniero, la Razza, la Scuola, la Laicità. Secondo indizio: la personalizzazione del pensiero. «Quanto più debole è il contenuto di un pensiero, tanto maggiore è l’importanza che acquista il pensatore ». Anche in questo caso, l’efficacia è garantita dai talk show, che hanno bisogno di personalizzare il pensiero e la politica.
Ma solo in Francia questa farsa è arrivata a livelli così estremi. In quest’autunno 2015 sta assumendo le proporzioni un vero carnevale delle streghe, una notte di Walpurga in cui l’intellettuale mediatico getta alle fiamme ciò che aveva adorato e si assoggetta alla temperie dominante, facendo proprie le icone dell’identità, della nazione e del popolo.
Sono anni che i media, con una perseveranza che sconfina nell’ossessione, fanno da palcoscenico all’enfasi identitaria. Gli intellettuali mediatici non sono altro che i loro portavoce, senza neppure il privilegio di essere stati i primi. La deriva a destra degli intellettuali è la forma che assume il loro allineamento alla doxa mediatica, la loro sottomissione al clima dominante, all’aria che tira. Se vanno a destra, non è per una loro inclinazione, ma perché seguono la china delle idee preconcette.
Sono assorbiti dal buco nero dei media, che inghiotte e divora ogni esperienza reale di creazione o di pensiero. Ma l’intellettuale non è il solo a cedere al fascino del lupo che avanza, dissimulato dietro le sembianze della Notorietà. A soccombere sono tutte le figure del potere: quella del politico, dell’intellettuale, del giornalista (il quarto potere). L’uomo politico ha perso la sua capacità di agire, il giornalista la sua indipendenza. L’intellettuale è inoperoso - privato dell’opera. Queste tre figure spogliate del loro potere si fondono per dar vita all’istrione, al polemista, che è la forma terminale dell’intellettuale mediatico - un intellettuale addomesticato.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
Da Onfray a Sapir, tanti hanno idee vicine a Marine Le Pen
Se la destra seduce i filosofi francesi
di Bernardo Valli (la Repubblica, 25.09.2015)
PARIGI E’ una breccia. Niente di più. Gli intellettuali l’hanno aperta, senza superarla. Ma per il Front National è un varco che può annunciare la fine di un lungo isolamento. Marine Le Pen esulta. Nomi di rilievo del mondo culturale esprimono idee simili o addirittura identiche alle sue. Poco importa che si tengano a distanza. L’essenziale è che la pensino come lei e lo facciano sapere. Il Front National guadagna elettori (25-30 per cento) e sotto banco non manca di alleati nella destra democratica, ma ufficialmente nella società politica è come se fosse in quarantena. E in particolare lo è per gli intellettuali. La breccia aperta di fatto da alcuni di loro, sia pur fermi nel rifiuto di servirsene, fa intravedere a molti il futuro abbattimento delle barriere tra il movimento di estrema destra, con vecchie tendenze razziste, e l’arco costituzionale, come chiamavamo in Italia lo spazio dei partiti democratici dal quale era escluso l’Msi neofascista.
Un’intervista e la polemica che ne è seguita hanno sottolineato quella che può essere considerata, tenendo conto del ruolo tradizionale degli intellettuali in Francia, una svolta cultural-politica. Ne è stato il protagonista Michel Onfray, 56 anni, fondatore dell’Università popolare di Caen,in Normandia. Autore di successo, almeno sessanta pubblicazioni, in cui propone tra l’altro una teoria dell’edonismo, analizza il rapporto tra edonismo etico e anarchia politica, e tocca tanti altri temi. Dai quali, come si legge nel suo sito, scaturiscono risposte in cui si intravede un percorso con tante deviazioni: il vitalismo libertino, l’etica immanente, l’individualismo libertario, il filosofo artista, il nietzschismo di sinistra, l’estetica generalizzata, il materialismo sensualista, il libertinaggio solare, la soggettività pagana, il corpo faustiano... Per i suoi scritti, la sua erudizione, le sue polemiche, la vivacità del suo linguaggio, costellato di provocazioni e a volte di insulti (ha dato del cretino al primo ministro Manuel Valls), Michel Onfray è considerato il filosofo più popolare di Francia, che non significa il più autorevole.
Nell’intervista sul Figaro dell’11 settembre, Onfray ha invocato “il popolo francese disprezzato” da chi governa, mentre “le popolazioni straniere” sono accolte nei telegiornali delle 20. L’accenno ai profughi era evidente; e quando ha aggiunto che la presidente del Front National “parla” al popolo, al contrario delle élites socialiste al potere, è apparso un omaggio a Marine Le Pen. All’accusa di essere un alleato oggettivo del Front National perché è al tempo stesso contro l’euro e l’Europa e apparentemente anche contro l’immigrazione araba, il filosofo si è infuriato. Ha proclamato il suo ateismo, la sua avversione alla pena di morte, la sua difesa dell’aborto e dei matrimoni gay, la sua difesa del socialismo libertario, e il suo contributo per aiutare i profughi, tutte posizioni escluse dal movimento di estrema destra. Dunque Marine Le Pen può esprimere soddisfazione per i suoi propositi, ma lui, Onfray, non ha nulla a che fare con il Front National.
L’ economista Jacques Sapir, sempre in un’intervista al Figaro , il mese precedente, il 21 agosto, è andato oltre. Lui si è infilato a metà strada nella breccia. Ritenuto vicino al Front de Gauche (estrema sinistra) Sapir ha lanciato l’idea di formare un “ fronte di liberazione nazionale” contro l’euro, al quale l’FN di Marine Le Pen avrebbe il diritto di partecipare. Infine un intellettuale di rilievo, qual è Sapir, sdoganava apertamente il movimento d’estrema destra. Ed è stata rispolverata l’idea di un’alleanza obiettiva tra i due estremismi della società politica francese. Entrambi sono infatti contro l’euro e l’Europa, ma l’estrema sinistra non è contro gli immigrati. Una differenza essenziale. Michel Onfray non si è spinto lontano come Sapir, ma come Sapir si richiama al “souverainisme de gauche”: vale a dire che sostiene, lui dice da sinistra, la piena sovranità della nazione, fuori dai vincoli europei che impedirebbero la giustizia sociale.
Affiancando giustizia sociale e nazionalismo, Onfray non arriva a prospettare un’alleanza tattica col FN come fa Sapir, ma nonostante i dinieghi che seguono le dichiarazioni dà a molti l’impressione che si muova di fatto nella stessa direzione. La figura dell’intellettuale nasce in Francia con Emile Zola, al momento dell’affare Dreyfus, sulle radici dell’Illuminismo. Voltaire, ad esempio, che si batte per la riabilitazione di Jean Calas, mercante protestante giudicato e giustiziato perché ritenuto colpevole a torto di avere assassinato il figlio per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo. La tradizionale figura dell’intellettuale era l’espressione della ragione repubblicana opposta ai pregiudizi razziali e al nazionalismo. O era immaginata in questo ruolo. Julien Benda ( La trahison des clercs , 1927) descrive il tradimento degli intellettuali che tra le due guerre, dopo quella del ’14-‘18 e nell’attesa di quella del ’39-’45, in preda alle passioni abbracciano le cause più disparate, dalla monarchia al nazionalismo, dal pacifismo al comunismo.
La figura dell’intellettuale universale che affronta tutti i problemi ed emette giudizi, trionfa poi nel dopoguerra a sinistra con l’utopista Jean-Paul Sartre ma anche in campo liberale con lo scettico Raymond Aron e con François Furet, cultore di Tocqueville. Questi due ultimi con meno clamore di Sartre. La complessa società d’oggi ha amputato l’intellettuale dell’aggettivo universale. Michel Foucault lo aveva capito e si è impegnato su temi precisi: la giustizia, la sessualità, la linguistica... Negli ultimi anni si è precisata una corrente intellettuale che difende la coesione nazionale, che vede nelle minoranze culturali (in particolare quella musulmana) una minaccia a quell’integrità che considera essenziale l’identità francese ed è animata dal sentimento che essa sia una nozione fissa e immutabile.
Capita che questa corrente si appropri con disinvoltura di Albert Camus opponendolo a Sartre, con il quale l’autore de Lo Straniero ebbe in vita una polemica, dopo essere stato un amico. Régis Debray, ex compagno di Che Guevara e per un breve periodo consigliere di François Mitterrand, è il personaggio simbolo di quella che viene definita dai critici più severi “retroguardia conservatrice”. Michel Onfray si dice invece l’espressione di una sinistra libertaria. E questa sinistra si riunirà il 20 ottobre alla Mutualité per difenderlo dalle accuse che gli sono state rivolte. E alla riunione dovrebbero essere presenti: Régis Debray, Alain Finkielkraut, Jean François Kahn, Jean-Pierre Le Goff. L’ Europa sarà sul banco degli imputati. E con l’Europa l’immigrazione che la deturpa.
di Stefano Montefiori (Corriere della Sera, 03.10.2015)
PARIGI Il sacro totem della Memoria come pigrizia intellettuale. I rituali moniti «contro l’oblio» e «il ritorno degli anni Trenta» come una giacca blu sdrucita, ma confortevole e buona per tutte le occasioni, specie se non si ha nient’altro da indossare.
Alain Finkielkraut torna con un nuovo libro, e tra tutte le idee che un tempo si sarebbero dette controcorrente - sulle nozze gay, il femminismo, l’immigrazione, la società multiculturale, la scuola, pure il film Django Unchained di Tarantino, che non gli è piaciuto - quella sul dovere della memoria che sfocia in paralisi del pensiero è forse la più stimolante. Specie se si considera che il filosofo francese è nato a Parigi nel 1949 da un padre ebreo sopravvissuto ad Auschwitz e una madre ebrea a cui i nazisti sterminarono tutta la famiglia in Polonia.
La seule exactitude si intitola il libro appena uscito in Francia per le edizioni Stock, che si basa sugli interventi tenuti da Finkielkraut dal 2013 al 2015 su Rcj (Radio della comunità ebraica), sul mensil e «Causeur» e sul «Figaro». Il titolo è una citazione di Charles Péguy: «Essere in anticipo, essere in ritardo, che inesattezza. Essere puntuali è la sola esattezza possibile».
Finkielkraut si mette alla prova del presente, convinto che molti suoi contemporanei abbiano perso la capacità di vedere le cose come stanno. Interpretano il mondo o con la griglia della memoria, del «passato-che-minaccia-di-ritornare», o con quella del futuro, inteso come realizzazione ineluttabile e progressista: «Su qualsiasi tema tutti dicono “La Francia è in ritardo”, “siamo in ritardo”. Ma ritardo rispetto a chi, a che cosa?».
Proprio in questi giorni, alla vigilia dell’uscita del libro, Finkielkraut è stato accusato assieme ad altri intellettuali - Michel Onfray, Éric Zemmour, Michel Houellebecq tra gli altri - di «fare il gioco del Front national», di essere un «lepenista oggettivo», con le sue idee antimoderne e «reazionarie». Lui sostiene di non condividere affatto la visione di Marine Le Pen, però protesta perché la si combatte non sul terreno delle idee, ma su quello ideologico e sclerotizzato della «lotta antifascista».
Marine Le Pen ha litigato con il padre, ne ha preso le distanze, lo ha espulso dal partito da lui fondato nel lontano 1972 dopo l’ennesimo scivolone negazionista. «L’odio antisemita - scrive Finkielkraut nel suo libro - quindi non si trasmette più in famiglia. Questa disattivazione del virus, che dovrebbe rallegrare gli antifascisti, li getta al contrario nel furore e nello spavento. Scandiscono, con nuova determinazione, “il fascismo non passerà!” ma è “il fascismo non trapasserà, non morirà!” che bisogna intendere. Se questo pericolo supremo venisse a mancare, sarebbero come dei bambini perduti, vagherebbero senza punti di riferimento in un mondo indecifrabile.
A terrorizzarli, più che il fascismo, è l’eventualità della sua scomparsa. Si dicono progressisti, ma sono dei devoti dell’immutabile: odiano il nuovo e credono con tenacia di ferro nell’eterno ritorno delle ore-più-oscure-della-nostra storia». Ecco perché, secondo Finkielkraut, Marine Le Pen continua ad avanzare: le questioni che lei pone vengono ignorate, e ci si concentra sulla lotta antifascista in assenza di fascismo.
Come gli altri pensatori che anni fa venivano definiti politicamente scorretti, e che ormai in Francia hanno conquistato una nuova egemonia culturale, Finkielkraut è diventato l’ospite più ambito di radio e tv, che se lo contendono sicuri di fare ottimi ascolti. Ieri mattina il filosofo presentava il suo libro alla radio France Inter, dove è intervenuto a favore di Nadine Morano: esponente della destra, nota per gli scivoloni poco diplomatici, l’eurodeputata giorni fa ha contrapposto ai fautori dell’immigrazione la Francia come Paese in maggioranza «giudaico-cristiano, come diceva il generale de Gaulle, di razza bianca», ed è stata sepolta dalle critiche. La formula «razza bianca», pur attribuita a De Gaulle, non le viene perdonata. Con l’aggravarsi della crisi dei migranti, dice Finkielkraut, «c’è un razzista da denunciare ogni settimana, l’antirazzismo è sempre alla caccia di una nuova preda. È assurdo». L’evidenza non si può riconoscere, secondo Finkielkraut: la Memoria impedisce di vedere il mondo così com’è.
“Basta leader risolleviamoci ma da soli” Intervista a Jacques Attali che con il nuovo saggio invita a riscoprire la responsabilità individuale
“La crisi economica ha provocato un’attesa sproporzionata nei confronti della politica”
“Un paese non sopravvive se non ispira nei suoi abitanti il desiderio di autonomia”
di Anais Ginori (la Repubblica, 27.05.2015)
PARIGI «IL mondo è pericoloso e lo sarà sempre di più». Nel preambolo al nuovo saggio, Jacques Attali profetizza una “somalizzazione” del mondo, con Stati in fase di smantellamento a causa del debito, di burocrazie sclerotizzate e di leader senza coraggio. «Imprese e nazioni, mercato e democrazia - scrive Attali - arretreranno progressivamente davanti al dissenso, alle spinte secessionistiche, all’iniziativa di gruppi militari e terroristici». Uno scenario di anarchia, continua l’intellettuale francese, nel quale non resterebbe che scegliere tra rassegnazione e ribellione.
L’alternativa esiste ed è sintetizzata nel sorprendente invito - Scegli la tua vita! - che Attali lancia ai suoi numerosi lettori che hanno imparato ad apprezzare la sua opera eclettica, dai saggi di macroeconomia ai romanzi d’amore. Un libro-manifesto (Ponte alle Grazie, traduzione di Manuela Maddamma) per una nuova emancipazione che, forse non a caso, è stato pubblicato in uno dei paesi più assistenzialisti del mondo, dove la spesa pubblica supera il 56% del Pil. Dopo aver consigliato tanti presidenti, da François Mitterrand a Nicolas Sarkozy, con Scegli la tua vita! Attali ha deciso di rivolgersi ai cittadini, deluso da leader che anziché governare, temporeggiano. «Sono stufo di ripetere che è urgente una governance del mondo, che bisogna adottare misure urgenti per ritrovare una crescita più equa edi lunga durata» scrive ancora l’intellettuale francese, 71 anni, che oltre a una frenetica attività editoriale, spazia dall’interesse umanitario, con la sua Ong Planet Finance, alla direzione di orchestre sinfoniche.
Un saggio sorprendente: com’è nata l’idea?
«Sono partito da una constatazione. La crisi economica ha provocato un atteggiamento di attesa sproporzionata nei confronti della politica e dello Stato, mentre scarseggia lo spirito di iniziativa e responsabilità individuale. All’inizio il mio invito quasi provocatorio era: “Arrangiatevi!”. Ovvero non delegate più ad altri quello che potete fare da soli. Poi ho voluto approfondire, mostrando come sia possibile e necessario non rimanere passivi rispetto al destino, e così ho coniato l’espressione: diventare sé stessi, che ha dato il titolo all’edizione francese».
È un ampio programma, su cui s’interrogano intellettuali da secoli. Cosa aggiunge il suo libro?
«La grande rivendicazione dei tempi passati è stata la conquista della libertà. Nella società di oggi, dobbiamo inseguire un traguardo successivo: utilizzare appieno questa libertà. Pascal proponeva di scommettere sull’esistenza di Dio anche senza prove e rivelazioni. Propongo di fare un azzardo simile, ma sulla nostra vita: credere in se stessi, senza aspettare l’aiuto degli altri. È quella che definisco “democrazia potenziale”, che permette a tutti i cittadini di esprimere il proprio potenziale. Si tratta di una tappa ulteriore rispetto alla vasta letteratura sull’emancipazione che già conosciamo».
Lei è stato a lungo nel cuore del potere, e ancora sussurra all’orecchio di tanti leader. Non crede più alla politica?
«La principale preoccupazione dei politici è gestire il presente, procrastinando decisioni di lungo termine, temporeggiando come re oziosi mentre i paesi scivolano in un declino che potrebbe diventare mortale. Stati e imprese non hanno più prospettive di crescita, vivono a credito sulle spalle di generazioni passate e future. Nel vuoto lasciato dagli Usa e dalle istituzioni internazionali, si afferma l’egemonia delle imprese. Agli Stati rimarranno poche prerogative: fissare la lingua, omologare i diplomi, autorizzare medicinali, fissare le regole, amministrare eserciti».
La riposta non può essere un maggiore impegno politico per cambiare e rafforzare le istituzioni democratiche?
«Non è sufficiente. Nell’attuale situazione non si può reagire solo aspettando una soluzione dalle istituzioni, elemosinando ormai poche briciole, come fanno quelli che chiamo i “rassegnati-reclamanti”. Non ci si può più limitare a indignarsi o a proferire vaghe denunce. È questa deriva che porta alcuni elettori a ripiegarsi su un totalitarismo paternalista e xenofobo, mentre la viltà degli uomini politici impedisce di attuare riforme impopolari, ma necessarie. La risposta al sentimento di delusione, impotenza rispetto alla politica, è la ricerca del potere personale. Scegli la tua vita! non è l’ennesimo manuale di resilienza che propone consigli per sopravvivere alla crisi. Attraverso alcune tappe, spiego com’è possibile affrancarsi da determinismi».
Ha scritto un’ode all’individualismo?
«Scegliere la propria vita non significa essere egoista, anzi passa attraverso il rapporto con gli altri. Inoltre, se tutti i cittadini combattessero per realizzare se stessi, anche la società andrebbe meglio. Può sembrare un’ambizione personale, ma in realtà c’è un vantaggio collettivo. Un paese non può sopravvivere se non ispira nei suoi abitanti il desiderio di autonomia. La libertà non è solo votare, consumare, e non si limita nemmeno al diritto di manifestare o alla libera espressione. Dobbiamo conquistare il diritto a essere noi stessi. I “rassegnati-reclamanti” sono gli schiavi del passato. C’è stato un progresso nell’emancipazione ma non è sufficiente ».
Perché fa un parallelo storico con il Rinascimento?
«All’epoca c’erano guerre di religione, epidemie, intolleranza e miseria. Eppure, proprio in un momento così buio, c’è stato un risveglio delle idee, di scoperte scientifiche, di liberazione dalle potenze feudali, cominciato in Lombardia, in Veneto, nelle Fiandre. Siamo in un periodo storico che assomiglia al Rinascimento. Non esiste più una potenza dominante, l’esplosione delle conoscenze e delle nuove tecnologie, l’aspirazione alla democrazia di nuovi popoli crea molte opportunità, con una profonda rimessa in discussione di abitudini e convinzioni. Nonostante la mia diagnosi sia preoccupante, non sono pessimista. Penso davvero che un nuovo Rinascimento sia possibile».
E lei, ha scelto la sua vita?
«È una scelta che si rinnova continuamente. Ho fatto politica, sono scrittore, guido un’istituzione internazionale, mi capita spesso di dirigere orchestre sinfoniche nel mondo. Dal momento che non sono sicuro di essere reincarnato, mi sembra legittimo provare a vivere sette vite in una sola esistenza ».
Una ricerca personale che continua?
«Si rinnova quotidianamente, anche attraverso la meditazione, che mi permette di liberarmi dallo sguardo degli altri per capire le mie profonde aspirazioni. In ogni istante, mi interrogo su come posso rendermi utile. Nel mio caso scegliere la vita significa sentirmi utile».
La Francia sfida il sessismo
“Diritti umani non dell’uomo”
La campagna di un gruppo femminista per cambiare nome alla Dichiarazione del 1789
di Anais Ginori (la Repubblica, 22.05.2015)
PARIGI DOVREBBE essere un testo universale e invece esclude metà dell’umanità. Nella famosa Dichiarazione dei Diritti d’Uomo e del Cittadino scritta del 1789 le donne non compaiono. E’ lo specchio fedele di una società che, nonostante la rivoluzione in corso, non accordava ancora i diritti civili al genere femminile. All’epoca la scrittrice Olympe de Gouges aveva anche pubblicato, in polemica, una Dichiarazione dei Diritti della Donna e della Cittadina: il testo è finito nel cestino e lei sulla ghigliottina.
Nel frattempo sono passati più di due secoli e la Dichiarazione che ha ispirato numerose carte costituzionali ed è considerato un fondamento delle democrazie moderne viene ancora citata in Francia con la formula originale, come se i diritti fossero solo riservati agli uomini. Un dettaglio simbolico che ora gruppi della società civile chiedono di correggere in nome della parità.
Un nuovo appello lanciato a François Hollande propone di eliminare l’espressione “ droits de l’homme” considerata sessista e discriminatoria, a vantaggio di un più politicamente corretto “ droits humains ”, diritti umani, la stessa usata in italiano e in tante altre lingue. Per l’occasione, i firmatari della proposta hanno anche lanciato una petizione on-line destinata al governo.
Tra le richieste, quella di abbandonare «immediatamente» la terminologia ufficiale non solo nei manuali scolastici, ma anche in tutti i testi delle istituzioni repubblicane che includono il termine “ droits de l’homme”. Secondo Noé le Blanc, del collettivo “ Droits humains” che promuove la petizione, la Francia è sempre più isolata in questa visione discriminante. Nei paesi anglosassoni la Dichiarazione del 1789 è già stata tradotta come “ human rights” anziché “ rights of man”, ma anche altri paesi hanno adottato “diritti umani” (Italia), “ derechos umanos” (Spagna) “ menschenrechte ” (Germania).
Nella patria dei “Diritti dell’Uomo”, pardon dei “diritti umani”, si fa invece fatica a cambiare. «E’ una definizione che rende invisibili le donne, i loro interessi e le loro lotte» spiega le Blanc. Secondo i promotori dell’appello a Hollande bisogna al più presto mettere quel testo fondativo della democrazia al passo con i tempi. La Francia ha ostinatamente mantenuto la dicitura iniziale per rispetto alla Storia. Alcuni storici sostengono che cambiare sarebbe un anacronismo e che i diritti sono “dell’Uomo”, con la maiuscola, con un riferimento dunque universale. Ma è anche vero che si tratta di una sfumatura invisibile nei discorsi pubblici e che stenta a essere colta dalle nuove generazioni.
L’aggiornamento è sempre stato rimandato. Anche nel 1948, quando bisognava tradurre la dichiarazione dell’Onu sugli “ human rights ”, si è scelto comunque di usare “ droits de l’homme”. Ancora oggi esiste una commissione parlamentare che si occupa dei “diritti dell’uomo”. La deputata Catherine Coutelle ha proposto il 30 marzo un emendamento per sostituire finalmente il termine, proposta respinta dall’Assemblée Nationale, anche in nome di una presunta “incostituzionalità” della modifica.
La battaglia si collega al movimento che chiede di usare il genere femminile per le alte cariche dello Stato, un’altra trasformazione linguistica che si fa fatica ad accettare. «Abbandonare l’espressione ‘diritti dell’uomo’ permetterebbe di cancellare una logica discriminatoria nella lingua francese» spiega Coutelle. Ora la parola passa al Presidente che la settimana prossima farà entrare nel Panthéon due donne e due uomini: Germaine Tillion, Geneviève De Gaulle-Anthonioz, Pierre Brossolette et Jean Zay. Sono simboli della Resistenza durante l’Occupazione, ma sono stati scelti in nome della parità.
Finora nel mausoleo repubblicano c’erano soltanto due donne, Marie Curie e Sophie Berthelot. Sulla facciata del Panthéon è scritto a lettere cubitali “ Aux grands hommes la patrie reconnaissante ”. Ristabilire una parità a posteriori su una Storia fatta essenzialmente di “grandi uomini” sembra davvero un’impresa difficile.
“Padre Nostro”: ci sono voluti 50 anni perché il Vaticano non bestemmiasse più Dio di Henri Tincq
in “www.slate.fr” del 30 ottobre 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Rivoluzione nelle fila cattoliche. Ad una scadenza ancora incerta - 2014? 2015? - i fedeli francofoni non reciteranno più la loro preghiera quotidiana favorita, il Padre Nostro, secondo la formulazione in uso da subito dopo il Concilio Vaticano II, quasi cinquanta anni fa (1966). La sesta “domanda” di questa celebre preghiera in forma di suppliche successive fatte a Dio - “Et ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione) - sarà soppressa e sostituita da “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Non si tratta di un dettaglio o di una disputa bizantina. È l’epilogo di una battaglia di esperti che dura da mezzo secolo.
La Chiesa pensa di avere l’eternità davanti a sé. Le sono stati necessari 17 anni di lavoro e la collaborazione di 70 traduttori - esegeti, biblisti, innografi - per giungere a questo risultato. 17 anni, è il tempo che è stato necessario per la nuova traduzione integrale della Bibbia liturgica, che, per la Francia, sarà adottata l’8 novembre dai vescovi e che sarà in vendita nelle librerie a partire dal 22 novembre.
Quegli eminenti traduttori sono partiti dai testi originali in aramaico, in greco, in ebraico, e non più dalle traduzioni già esistenti. Ed è questo aggiornamento radicale che ha permesso a questi studiosi, con l’accordo del Vaticano, di giungere alla redazione di un nuovo Padre Nostro, più soddisfacente e più corretto teologicamente.
Il Padre Nostro è la preghiera di base di tutti i cristiani, indipendentemente dalla loro confessione, cattolica, protestante, ortodossa o anglicana. Essa è tanto più sacra in quanto, secondo i vangeli di Luca e di Matteo, è stata insegnata direttamente da Cristo stesso. “Signore, insegnaci a pregare”, gli chiedevano gli apostoli. La risposta di Gesù si trova nelle parole del Padre Nostro, preziosamente riprodotte - “Padre Nostro che sei nei cieli...” - che risalgono così a due millenni fa. Ritrascritta dal greco al latino, è stata poi tradotta nelle lingue parlate del mondo intero.
Questa preghiera, la più comune dei cristiani, può essere recitata o cantata in qualsiasi momento della giornata. Non è codificata come la preghiera dell’islam (cinque volte al giorno e ad ore fisse). Compare in ogni celebrazione della messa dopo la preghiera eucaristica. È anche recitata in tutte le assemblee ecumeniche. È il segno di una volontà di riconciliazione e di unità di tutte le confessioni cristiane, nate dallo stesso vangelo, ma separate dalle loro istituzioni.
Ma perché cambiare oggi un simile monumento della spiritualità cristiana, sul punto preciso della tentazione? Un punto centrale nell’antropologia cristiana. Secondo i vangeli, Cristo ha trascorso quaranta giorni nel deserto ed è stato tentato da Satana: tentazione dell’orgoglio, del potere, del possesso (Matteo 4,11). Gesù stesso ha detto ai suoi apostoli nel giardino del Getzemani, la sera della sua passione, proprio prima del suo processo e della sua morte in croce: “Pregate per non entrare in tentazione”.
Precisamente, cinquant’anni fa, un errore di traduzione è stato commesso a partire dal verbo greco eisphérô che significa letteralmente “portar dentro”, “far entrare”.Questo verbo avrebbe dovuto essere tradotto con: “Ne nous induis pas en tentation” (non indurci in tentazione) o con “Ne nous fais pas entrer en tentation” (non farci entrare in tentazione). I traduttori del 1966 hanno preferito la formula “Ne nous soumets pas à la tentation” (non sottoporci alla tentazione). Formula contestata. Controsenso, se non addirittura bestemmia, si protesta in seguito. Come è possibile che Dio, che nell’immaginario cristiano è “infinitamente buono”, possa “sottoporre” l’uomo alla tentazione del peccato e del male? È insostenibile.
Tale forma equivoca è stata tuttavia letta dal pulpito in tutte le chiese del mondo francofono, pregata pubblicamente o intimamente da milioni e milioni di cristiani, inducendo, in menti non competenti, l’idea di una sorta di perversità di Dio, che chiede ai suoi sudditi di supplicarlo per sfuggire al male che lui stesso susciterebbe!
Oggi si torna quindi ad una formulazione più corretta: “Et ne nous laisse pas entrer en tentation” (non lasciarci entrare in tentazione). Così il ruolo di Dio è compreso meglio, riabilitato. Dio non può tentare l’uomo. La tentazione è opera del diavolo. È Dio, invece, che può impedire all’uomo di soccombere alla tentazione.
Ora occorre che i protestanti, gli ortodossi, gli anglicani si allineino su questa nuova formulazione cattolica. Nel 1966, i teologi cattolici, protestanti, ortodossi si erano alleati per riflettere su una traduzione veramente ecumenica (con gli stessi termini) del Padre Nostro, che non esisteva prima della rivoluzione del Concilio Vaticano II. Avevano proposto un testo comune alle loro Chiese, che lo avevano adottato. Senza dubbio oggi si metteranno nuovamente d’accordo per ratificare la nuova preghiera nei termini già definiti dai cattolici. Anche solo per smentire coloro che si lamentano dello stato di avvicinamento ecumenico che avrebbe perso vigore e si preoccupano del risveglio di riflessi comunitari.
Esce una nuova traduzione a cura dei vescovi francofoni
La Bibbia nella liturgia parla il linguaggio dell’uomo di oggi *
Se ne è parlato solo per il cambiamento di una frase del Padre nostro (da ne nous soumets pas à la tentation a et ne nous laisse pas entrer en tentation), che deve fra l’altro ancora ricevere la recognitio vaticana, facendo quasi passare in secondo piano l’intera opera, frutto di diciassette anni di complesso lavoro. La Bible. Traduction officielle liturgique, che per le edizioni Mame uscirà nelle librerie francesi il prossimo 22 novembre, rappresenta un’opera eminentemente ecclesiale in virtù della molteplicità degli esperti che vi hanno partecipato, tra esegeti, linguisti, innografi, liturgisti, vescovi.
Cinquant’anni dopo l’apertura del concilio Vaticano ii, la traduzione ufficiale liturgica della Bibbia pubblicata dall’Associazione episcopale liturgica per i Paesi francofoni è, per padre Jacques Rideau, direttore del Servizio nazionale della pastorale liturgica e sacramentale, «un frutto della Sacrosanctum Concilium e della Dei Verbum; essa segna questo legame intimo che la Scrittura e la liturgia mantengono l’una con l’altra». Sempre in Francia, intanto, si è aperta l’assemblea plenaria della Conferenza episcopale, per la prima volta presieduta dall’arcivescovo Georges Pontier.
*
© L’Osservatore Romano 4-5 novembre 2013
Usa, la Corte Suprema spiana
la strada ai matrimoni omosessuali
maurizio molinari
corrispondente da new york
E’ incostituzionale la legge che definisce il matrimonio come l’unione fra un uomo e una donna, e il bando delle nozze gay in California deve essere abolito: con queste due sentenze, emesse a pochi minuti di distanza l’una dall’altra, la Corte Suprema di Washington consegna altrettante vittorie alla campagna per la parità dei diritty fra gay e etero negli Stati Uniti.
La prima sentenza riguarda la legge “Defense of Marriage Act” del 1996. Con un verdetto di 5 a 4, scritto dal giudice Anthony Kennedy, viene definita “incostituzionale” perché affermare che il matrimonio è solo l’unione fra un uomo e una donna “viola la pari tutela davanti alla legge di tutti i cittadini che il governo deve garantire”. Inoltre, secondo il testo scritto da Kennedy e sostenuto dai quattro giudici liberal della Corte Suprema, “il Defense of Marriage Act viola il diritto degli Stati di legiferare sul tema del matrimonio”.
L’altra sentenza, scritta dal giudice John Roberts che è anche il presidente della Corte Suprema, riflette un’opinione bipartisan su “Proposition 8” ovvero il bando delle nozze gay approvato con un referendum in California nel 2008. La tesi espressa da Roberts è che a decidere su “Propotision 8” deve essere una Corte della California ma l’indicazione data è a favore dell’abolizione, destinata a consentire il ritorno alla legalità delle nozze gay. Su questa posizione, che accomuna la difesa del diritto degli Stati a legiferare sul matrimonio e il sostegno alle nozze gay, si è ritrovata una maggioranza di 5 giudici che include oltre al presidente il conservatore Antonin Scalia e i liberal Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer, Elena Kagan.
Fuori dalla sede della Corte Suprema i militanti per i diritti gay hanno reagito alle sentenze con espressioni di giubilo. Il presidente americano Barack Obama ha saputo delle sentenze della Corte Suprema mentre era a bordo dell’Air Force One in volo verso il Senegal. “Applaudo la decisione della Corte Suprema di abolire il Defense of Marriage Act perché si tratta di una legge che discrimina - dichiara Obama - trattando le coppie gay e lesbiche come se fossero di una classe inferiore. La Corte Suprema ha corretto quanto era sbagliato ed ora l’America è un posto migliore”. Da qui l’omaggio alle “coppie che si sono battute a lungo per ottenere il riconoscimento della parità dei diritti” e la disposizione al ministero della Giustizia per “mettere in atto legalmente” il pronunciamento della Corte Suprema.
* La Stampa, 26.06.2013
“In Francia c’è un clima isterico i reazionari cercano un martire”
intervista a Jean-Yves Camus,
a cura di Anais Ginori (la Repubblica, 22 maggio 2013)
«E’ un gesto eccezionale che non si era mai visto nella storia politica francese contemporanea». Per uno studioso dell’estrema destra come Jean-Yves Camus, il nome di Dominique Venner non è certo nuovo. «Veniva considerato una figura mitica dentro a certi ambienti. E’ diventato il riferimento ideologico di molti gruppi della ‘nuova destra’ negli anni Ottanta. Negli ultimi tempi aveva saputo anche costruirsi un seguito tra i giovani grazie al web» racconta Camus, che ha firmato diversi saggi sul Front National ed è tra gli autori del “Dizionario critico del razzismo” appena pubblicato in Francia.
La battaglia contro il matrimonio delle coppie gay è davvero la causa di questo gesto estremo?
«Seguivo Venner sul suo blog, aveva anche una pagina Facebook molto frequentata. E’ vero che nelle ultime settimane i suoi toni contro la riforma del governo erano diventati più virulenti. Era favorevolmente colpito da questa ‘primavera’ di mobilitazione in difesa di valori che lui ovviamente condivideva».
Una Francia reazionaria che si è improvvisamente risvegliata?
«Non credo che si possa dire con certezza che la riforma del governo sia stata l’unica motivazione di Venner. Bisognerebbe essere prudenti prima di trarre facili conclusioni perché, come dicevo, si tratta di un gesto eccezionale, qualcosa di mai visto prima nel nostro paese. Ogni paragone è fuorviante. Anche i suoi amici e il suo editore sono stati colti di sorpresa. Tutti quelli che gli erano vicini ora rilasciano dichiarazioni contraddittorie».
Ha letto il suo ultimo post?
«Il matrimonio gay è uno dei suoi tanti bersagli. Ma non si limita a questo. Parla anche molto di immigrazione, della cosiddetta identità nazionale. Di sicuro, Venner si era convinto che la Francia era ormai entrata in una fase di decadenza irreversibile. Una situazione che lui, avendo alle spalle un certo tipo di passato, considerava intollerabile. Ma era anche un uomo malato e molto orgoglioso, non escluderei che abbia compiuto il suicidio anche per ragioni personali».
Non era comunque un folle.
«Nella lettera che ha lasciato, avrebbe rivendicato di agire nel pieno delle sue facoltà. Su questo non possiamo speculare. I contenuti di una o più missive sono ancora segreti. Ci sarà un’inchiesta e ne sapremo di più nelle prossime ore. Intanto, però, molti gruppi dell’estrema destra cercano di farne un martire. Non mi stupisce: fa parte del clima di isteria dentro al quale la Francia è precipitata negli ultimi mesi».
Marine Le Pen ha subito elogiato Venner.
«E’ una dichiarazione grave e tra l’altro inesatta. Venner disprezzava l’attuale Front National, dal quale si era da tempo allontanato. Non apparteneva a nessun partito. Era un tipico esponente della generazione formata politicamente negli anni Sessanta per la difesa dell’Algeria francese, e poi ha elaborato la ‘nuova destra’ che ha i suoi riferimenti culturali non solo in Francia, ma anche in Italia. Per come l’ho conosciuto e per quello che scriveva nei suoi libri, si riteneva intellettualmente superiore agli attuali dirigenti del Front National».
I suoi appelli sono un tentativo di fomentare un clima d’odio?
«Venner era un punto di riferimento per una vecchia guardia dell’estrema destra francese. Ma nonostante i suoi 78 anni era tutt’altro che marginale, come ora sostengono alcuni. Attraverso Internet, era riuscito a far circolare le sue idee anche tra i più giovani, che compravano persino i suoi libri».
La contestazione rischia di radicalizzarsi?
«Purtroppo, durante le ultime manifestazioni contro i matrimoni gay abbiamo assistito a scontri sempre più frequenti con la polizia. Non è una buona immagine per una destra che, almeno a parole, dovrebbe essere ‘legge e ordine’».
François Hollande non aveva previsto questa escalation?
«Più che per la sinistra, ritengo sia scattata una trappola per la destra che ha irresponsabilmente lasciato campo libero ad alcuni gruppi radicali. Ora la situazione rischia di sfuggire di mano. Il segretario dell’Ump, Jean-François Copé, è stato costretto ad annullare la sua partecipazione alla nuova manifestazione contro i matrimoni gay, prevista domenica. E’ quel che succede quando si innesca un ingranaggio, senza preoccuparsi di come sarà possibile poi fermarlo».
L’addio nel suo blog “Servono gesti eclatanti”
Dominique Venner ha scritto nel suo blog:
“I manifestanti che il 26 maggio sono scesi in piazza contro la legalizzazione del matrimonio omosessuale, avranno ragione di gridare la loro impazienza e la loro collera. Una legge infame, una volta votata, può sempre essere abrogata. Ho appena letto un blogger algerino: «In ogni caso», scriveva, «fra quindici anni in Francia saranno al potere gli islamisti e sopprimeranno questa legge». Non per farci piacere, sospetto, ma perché contraria alla shari‘a. È l’unico, superficiale punto in comune fra la tradizione europea (che rispetta la donna) e l’islam (che non la rispetta). Ma l’affermazione perentoria di questo algerino fa venire i brividi. Serviranno certamente gesti nuovi, spettacolari e simbolici per smuovere i dormienti, scuotere le coscienze anestetizzate e risvegliare la memoria delle nostre origini. Entriamo in un’epoca in cui le parole devono essere autenticate dai fatti.
Dobbiamo ricordarci anche, come scrisse genialmente Heidegger in
Essere e tempo
, che l’essenza
dell’uomo è nella sua esistenza e non in un «altro mondo». È qui e ora che si gioca il nostro destino,
fino all’ultimo secondo. E quest’ultimo secondo ha tanta importanza quanto il resto di una vita.
Ecco perché dobbiamo essere noi stessi fino all’ultimo istante. È decidendo noi stessi, è volendo
veramente il nostro destino che sconfiggiamo il nulla. E non ci sono scappatoie a questa necessità,
perché abbiamo soltanto questa vita, in cui siamo chiamati a essere interamente noi stessi o a non
essere nulla.”
(Traduzione di Fabio Galimberti)
Francia, sì a nozze e adozioni per coppie gay:
il Senato dà il via libera alla legge
Parigi entra a far parte del gruppo dei paesi che hanno riconosciuto in pieno le unioni omosessuali. La riforma considerata la più importante dai tempi dell’abolizione della pena di morte, nel 1981. Il testo passa solo grazie al voto di senatori di destra e del centro. Il presidente della Consulta: "Il Parlamento affronti la questione" *
PARIGI - Il progetto di legge che apre alle nozze e all’adozione da parte di coppie gay è stato approvato definitivamente dal Senato francese. La Francia diventa così il 12° paese che ’legalizza’ i matrimoni fra persone dello stesso sesso; tra gli altri ci sono Belgio, Portogallo, Olanda, Spagna, Svezia, Norvegia, Islanda, Argentina, Uruguay (ultimo in ordine di tempo) e Sud Africa. In Messico sono possibili solo nella capitale,mentre negli Stati Uniti solo in 9 Stati e a Washington Dc. La legge era già stata approvata dall’Assemblea nazionale, la Camera bassa del Parlamento, il 12 febbraio scorso. Una settimana prima, il 5 febbraio, anche la Camera Bassa del parlamento britannico aveva detto sì alle nozze omosessuali. Il provvedimento deve ancora passare l’esame della Camera dei Lords.
E proprio nel giorno in cui arriva la notizia dalla Francia, il presidente della Consulta, Franco Gallo chiede al Parlamento di affrontare il nodo delle unioni gay, sollecitando una "regolamentazione della materia nei modi e nei limiti più opportuni". "C’è un problema rispetto ai diritti, ma l’opzione legislativa non la fa la Corte, è il Parlamento che deve fare le sue scelte", ha detto Gallo, rispondendo ai ai cronisti.
La decisione presa in Francia, su un tema che era stato uno dei cavalli di battaglia della campagna elettorale di François Hollande, è considerata la più importante riforma sociale dai tempi dell’abolizione della pena di morte, nel 1981. Su di essa il Paese si è spaccato. A Parigi e in altre città c’erano state imponenti manifestazioni contro il disegno di legge. In prima fila, oltre alle formazioni politiche della destra, anche la Chiesa cattolica, i musulmani e gli evangelici. Il cardinale Bagnasco, presidente della Conferenza episcopale, aveva parlato di "baratro imminente", invitando l’Italia a non seguire l’esempio dei francesi.
"Se non ci saranno sorprese - ha detto il minisro della Famiglia Dominique Bertinotti - le prime nozze fra omosessuali potranno essere celebrate già dall’estate".
Oggi il testo è stato adottato dai senatori con pochissime modifiche, nessuna delle quali ha riguardato gli articoli principali della legge che consentirà il matrimonio e l’adozione di figli alle coppie omosessuali. Per queste modifiche minori, il testo dovrà tornare ora all’Assemblea nazionale per il via libera definitivo. La legge è stata votata da tutti i gruppi della sinistra in Senato, che ha però dovuto far fronte a qualche defezione che ha messo in dubbio l’esito finale, dal momento che sulla carta la maggioranza della gauche in questo ramo del Parlamento è di soli 6 voti. Hanno compensato diversi senatori della destra e del centro che hanno votato in favore del testo.
“Il Pontefice prenda esempio dal Dalai Lama”
intervista a Jean Baubérot,
a cura di Alberto Mattioli (La Stampa, 17 febbraio 2013)
«La vera riforma da fare in Vaticano? Separare lo Stato dalla Chiesa». Là: dopo le dimissioni più clamorose della storia recente, finalmente un’analisi originale fino al paradosso. Arriva da Jean Baubérot, celebre storico delle religioni e fondatore della sociologia della laicità.
Professor Baubérot, si spieghi.
«E’ molto semplice. Mi sembra che sia un problema, per la Chiesa cattolica e per come il mondo guarda alla Chiesa, che il Pontefice abbia una doppia funzione, sia insieme un capo spirituale e un capo di Stato. Certo, il Vaticano è uno Stato piccolissimo, ma il suo peso politico è tutt’altro che piccolo, anche su scala internazionale. Ora, quest’ambivalenza genera inevitabilmente ambiguità e malintesi, come si è visto anche di recente».
Quindi cosa dovrebbe fare il nuovo Papa?
«Quello che ha fatto il Dalai Lama, che ha rinunciato a ogni ruolo politico per consacrarsi interamente a quello religioso».
Ma il Tibet è occupato militarmente dai cinesi. Invece i cosacchi non sono mai riusciti ad arrivare in piazza San Pietro...
«Sì, ma per decenni il Dalai Lama ha conservato e rivendicato le sue prerogative politiche. Quando ci ha rinunciato, e lo ha fatto solo nel 2011, quando era già in esilio da decenni, è stato certamente un atto simbolico. Ma dal valore, sempre simbolico, molto grande».
Intanto, a proposito di peso politico, in Francia ci sono polemiche per il ruolo della Chiesa nell’opposizione al matrimonio per tutti...
«Questa è l’altra grande riforma che la Chiesa cattolica dovrebbe fare, e lo dico beninteso da
osservatore esterno e non cattolico. Io trovo che la Chiesa abbia tutto il diritto di pronunciarsi su
temi politici o di società.
Trovo però sbagliato che lo faccia in nome di una morale “naturale” che
sarebbe valida per tutti, anche per chi non ha le stesse convinzioni religiose. No: è soltanto la
morale cattolica. Le due riforme sono connesse».
L’Islam, però, è pieno di capi insieme religiosi e politici.
«Sì, ma nell’Islam non c’è un’autorità unica che parla a nome di tutti i musulmani. Aggiungerei anche che questa confusione fra spirituale e temporale indebolisce entrambi i poteri e non ha buoni effetti sulla società. Basta dare un’occhiata a quel che succede in Iran».
«Sì, lo voglio»
Parigi approva le nozze gay
329 voti a favore, 229 contrari: passa la riforma di Hollande
Ora il testo all’esame del Senato
di Marco Mongiello (l’Unità, 13.02.2013)
BRUXELLES Dopo più di dieci giorni di intensa battaglia parlamentare l’Assemblea nazionale francese ha approvato il progetto di legge «matrimonio per tutti» che introduce le nozze e le adozioni per gli omosessuali. Il 2 aprile il testo della normativa passerà al vaglio del Senato. Il voto finale è arrivato alle cinque di pomeriggio di ieri. Con 329 «sì» e 229 «no» l’Assemblea nazionale ha concluso la lunga maratona parlamentare iniziata il 29 gennaio.
I conservatori dell’Ump, il partito dell’ex presidente francese Nicolas Sarkozy, hanno utilizzato tutti i cavilli delle regole parlamentari per fare ostruzionismo. I deputati della sinistra però sono rimasti compatti restando in aula fino a notte per diversi giorni e ieri hanno potuto celebrare la vittoria, anche se non definitiva, della prima grande riforma sociale introdotta dal presidente francese François Hollande dalle sue elezioni a maggio dell’anno scorso.
«Questo è il voto dell’orgoglio», ha dichiarato il portavoce dei deputati socialisti Thierry Mandon, «orgoglio di permettere alla Repubblica di fare un passo da gigante verso l’uguaglianza dei diritti e di portare a termine una battaglia di 30 anni, orgoglio di aver partecipato pienamente al dibattito, di giorno come di notte, senza aver utilizzato alcun artificio di procedura».
IL 24 MARZO DESTRA IN CORTEO
Per il 24 marzo, poco prima dell’inizio dell’esame del progetto di legge al Senato il 2 aprile, l’opposizione conservatrice ha indetto un’altra manifestazione contro le nozze gay. Tra i deputati dell’Ump però iniziano a contarsi le prime defezioni per una battaglia che risulta sempre più inutile e antistorica. Due parlamentari conservatori, Franck Riester e Benoist Apparu, sono apertamente favorevoli al progetto «matrimonio per tutti». Altri tre, Nathalie Kosciusko-Morizet, candidata potenziale a sindaco di Parigi, Edouard Philippe, deputato e sindaco di Havre, e Pierre Lellouche, deputato di Parigi, hanno scelto di astenersi dal voto. In realtà i conservatori che si sono astenuti o che hanno votato a favore sono di più.
Fin dall’inizio del dibattito il partito di Sarkozy, oggi guidato da Jean-François Copé, aveva esitato a lanciarsi in una battaglia non condivisa dalla maggioranza dei francesi, che secondo i sondaggi sono in larga parte favorevoli alle nozze gay. Già nel 1999 la battaglia conservatrice contro i Pacs (Pacte civil de solidarité), che hanno rappresentato un primo riconoscimento giuridico delle unioni fra omosessuali, si è conclusa con una sonora batosta.
Quando lo scorso 7 novembre il ministro della Giustizia Christiane Taubira ha presentato il progetto di legge «matrimonio per tutti» è stato il clero francese a mobilitarsi per primo, incoraggiato anche da Papa Ratzinger. Il 17 novembre in occasione della visita dei vescovi francesi Benedetto XVI aveva esplicitamente invitato a «prestare attenzione ai progetti di leggi civili che possono attentare alla tutela del matrimonio tra un uomo e una donna». Quello stesso giorno la destra francese dell’Ump ha tenuto la sua prima manifestazione contro i matrimoni omosessuali, unendosi agli integralisti cattolici e all’estrema destra. La mobilitazione è stata poi ripetuta il 13 gennaio, quando a Parigi sono arrivati quasi un milione di manifestanti. Visti i sondaggi a favore delle nozze gay però la battaglia dei conservatori ha puntato soprattutto sulla contrarietà alle adozioni, sulle quali la società francese è divisa a metà.
In Europa però i Paesi in cui i matrimoni gay sono riconosciuti continuano ad aumentare. Oltre alle unioni civili, che esistono in dieci Paesi della Ue, i matrimoni omosessuali sono oramai legge in sei Paesi europei: Belgio, Olanda, Svezia, Danimarca, Spagna e Portogallo. Lo scorso 5 febbraio inoltre la Camera dei Comuni britannica, a maggioranza conservatrice, ha approvato con 400 voti a favore e 175 contrari il progetto di legge per introdurre entro l’anno i matrimoni tra persone dello stesso sesso.
IL NOME PERDUTO. La Grazia ("Charis") di Dio ("Charitas") o il "caro (prezzo)" del Dio Mammona (latino:"Caritas")?!
Il nome perduto della condivisione
di Jean-Luc Marion (il manifesto, 30 gennaio 2013)
L’economia che, letteralmente significa la «legge che regna in casa», è interpretata come scambio economico. Ma quest’ultimo dev’essere considerato come un aspetto dell’economia che si può discutere, e non come sinonimo di economia.
Che cosa, all’interno dell’economia, può contrapporsi allo scambio? Non l’abolizione del sistema di mercato, non l’opposizione del capitalismo al socialismo, ma il dono. Quando si oppone il dono allo scambio, apparentemente si va contro la più celebre definizione di scambio, quella formulata da Marcel Mauss negli anni Venti, e sulla quale continua a basarsi la maggioranza degli studi sul dono. Secondo Mauss, il dono è un caso particolare di scambio, vale a dire uno scambio gratuito. Se guardiamo alla storia di certi gruppi etnici rimasti estranei alla rivoluzione economica, troviamo un sistema di scambio in cui una tribù che ne incontra un’altra le fa un dono in segno di benevolenza, costringendo così l’altra tribù, per mantenere la pace, a uno scambio reciproco che è uguale al precedente +1.
In nome di Mauss
Grazie allo scambio gratuito, ma che comporta una logica di reciprocità, è mantenuta la pace. È il sistema del dono di potlatch. Il dono è di fatto uno scambio, senza la mediazione della moneta. Si dirà che vi sono scambi gratuiti, il dono, e scambi non gratuiti, il commercio, mediato dal valore di scambio e dalla moneta.
Vorrei mostrare che le cose non stanno così: la gratuità e il dono non sono un caso particolare dello scambio; la logica del dono è irriducibile alla logica dello scambio e del commercio.
Per stabilire questo punto, bisogna capire che c’è anche una difficoltà del dono, sottolineata da Jacques Derrida il quale, per rafforzare la riduzione da parte di Marcel Mauss del dono alla gratuità, diceva che il dono è sempre un’illusione e che la realtà del dono è sempre implicitamente la logica dello scambio. Se faccio un dono a qualcuno, egli mi deve qualcosa, anche se io non gli chiedo nulla. In uno scambio economico, è chiarissimo che devo qualcosa. Nel dono, apparentemente, non ho nient’altro da fare.
In verità, colui al quale è stato fatto il dono, anche se glie è stato fatto per niente, deve qualcosa, almeno la riconoscenza dalla quale cercherà di sbarazzarsi facendo un giorno un contro-dono. Se non dona niente in cambio, lo riterranno tutti un ingrato, avrà perso la reputazione di uomo generoso perché gli è stato fatto un regalo che lui non avrà reso.
Apparirà come un uomo roso dall’ingratitudine, dall’avarizia, si sentirà colpevole. Colui che riceve dovrà dunque pagare, in termini reali o simbolici.
Chi entra nel deficit simbolico, pagherà con gli interessi. Il dono è sempre sospetto, non solo di ipocrisia, ma prosegue implicitamente in uno scambio tanto più radicale in quanto sarà fatto in modo sotterraneo e forse morboso. Il dono è sempre solo uno scambio taciuto - e di fatto non taciuto poi così tanto.
È questo un modo per conservare la posizione di Mauss.
È possibile avere un dono pur riducendone il beneficiario, il donatario. È un’esperienza che facciamo spesso - donare non sapendo a chi doniamo - ad esempio alle Ong: è proprio perché non sappiamo a chi doniamo che possiamo donare in modo efficace. La scomparsa del donatario non impedisce il dono. Proviamo a essere cinici: a volte preferiamo non doverci occupare del fine della distribuzione, che lasciamo a professionisti. L’anonimato del donatario può essere una soluzione comoda. Ma ci sono doni più degni di ammirazione che si basano sulla scomparsa del donatario.
Quando doniamo a qualcuno che non ci ha chiesto niente o di cui sappiamo che conserverà la sua ingratitudine e la sua incapacità di ringraziarci, quando sappiamo che ci faremo rimproverare di aver fatto un dono e lo facciamo comunque: in queste situazioni il nostro dono diviene ancor più chiaro.
Ma si può anche fare un dono senza che nessuno lo doni e senza che appaia come un dono. L’esempio più evidente del dono che nessuno dona è quello fatto da chi è morto. Il morto dona nel momento in cui nessuno dona: è la questione dell’eredità. Diventa il prototipo del dono anonimo.
Come nel romanzo dove il capitano Nemo fa ai naufraghi dell’isola misteriosa il dono di cui hanno un bisogno vitale; o nei romanzi popolari, dove un misterioso donatore si nasconde e veglia sulla salvezza della povera orfana. Il donatore migliore è il donatore assente. Nel caso dell’eredità, è necessario che il donatore sia assente perché essa abbia luogo; qui l’assenza è la condizione stessa del dono; e non ci sarà scambio perché non ci sarà un ritorno in vita del donatore.
L’eredità è un dono perfettamente ingiusto: può capitare a qualcuno che non ne ha bisogno o a qualcuno che il defunto detestava o viceversa. Non è legato all’interesse, è senza interesse in tutti i sensi del termine. Viene in mente l’immagine biblica di Dio che dispensa i suoi benefici tanto sul cattivo quanto sul buono.
In altri termini, il dono non è legato all’interesse e una delle forme del disinteresse è che non c’è donatore. È questo il motivo per cui gli antichi dicevano che gli dèi non provano invidia, formula ripresa dai primi cristiani: Dio dona senza invidia, senza fare calcoli, in perdita. Di fatto, il donatore deve sparire, nel senso che egli dona sempre in perdita, e più dona in perdita più il suo è un dono.
Arriviamo alla terza riduzione. Sant’Agostino, per spiegarla, fa l’ipotesi di una donna che riceve dal suo futuro sposo un anello e dice: «Grazie, mi tengo il gioiello e non ci sposeremo». Ragionando così, ella si comporta come se il giovane le avesse donato l’anello e niente di più; ma non è così che la pensava il giovane: egli pensava che, mettendole l’anello al dito, si sarebbe dato a lei e, reciprocamente, lei a lui. Per quanto il gioiello abbia un valore, ciò che ne costituisce il valore profondo è ciò che procede con la persona amata. Nella maggior parte dei doni che facciamo, non è mai ciò che doniamo effettivamente a costituire il dono, ma è ciò che «procede con».
Quando volete far piacere a qualcuno, gli donate qualcosa, ma il regalo è solo il portavoce, l’accessorio dell’affetto che così gli testimoniate. E più quel che si dona è importante, più il dono deve essere irreale, irrealizzato e simbolico.
Pensiamo a quando si prende possesso di un immobile o di una società che si è acquistata. Per farlo, si va da un notaio e si firmano dei documenti. Ma la presa di possesso non ha alcun rapporto con l’effettività di quello che si sta per possedere.
Quando viene eletto, il presidente degli Usa riceve i codici nucleari, ma non qualcosa come «il potere», che resta invisibile. Ciò che si dona non è mai proporzionale a ciò che accompagna il dono. Più il dono è considerevole, più diviene immateriale.
Quando c’è gente che muore di fame e noi diamo loro da mangiare, da bere, un alloggio, doniamo certo qualcosa, ma è la vita che diamo, al di là di pane, acqua e coperte. Non doniamo medicinali, ma la possibilità di sopravvivere a una malattia; non prodotti agricoli, ma la possibilità di mangiare, insomma la vita. La vita si dona donando qualcos’altro insieme ad essa, e quest’altra cosa non avrebbe alcun valore se non ne avessimo bisogno per restare in vita. Quando donate il vostro tempo, la vostra vita, il vostro amore, in senso stretto, non donate niente.
Compite un gesto o un altro, ma i gesti non sono oggetti. Donate ciò che non è una cosa, perché la differenza tra la vita e la morte non è reale, il morto è reale tanto quanto il vivo. Il tempo che donate non è reale, è anzi la sola cosa che il denaro non possa comprare. Con il tempo si fa denaro, ma con il denaro nessuno ha mai comprato del tempo. Quindi, quando si perde il proprio tempo a fare denaro, non è affatto sicuro che ci si guadagni nel cambio. Più quel che donate è essenziale, meno è reale. Dire che più il dono è fondamentale meno è reale, significa dire la verità. Sono soltanto i doni di pochissimo valore a essere reali, come offrire una sigaretta a qualcuno per la strada.
Il contratto erotico
La questione del dono è davvero paradossale, poiché esso non ha bisogno dei termini dello scambio per apparire come un dono; al contrario, appare come tale solo se si fa a meno dei termini dello scambio. Cosa si produce nel dono? Si produce una logica dell’avanzo - in senso economico - che io ho chiamato altrove la logica dell’esperienza erotica.
Anche nell’esperienza erotica, infatti, si può ragionare secondo la logica dell’economia e dello scambio, seguendo il principio: «Io ti amo solo se tu hai iniziato ad amarmi, ti amerò solo in cambio del primo investimento che tu avrai fatto per amarmi, e non sperare che sia il primo a giocare le mie carte». È un’interpretazione economica dell’amore.
Ma ce n’è un’altra: l’interpretazione erotica dell’amore. In questo caso si tratta di donare senza aspettarsi in risposta lo scambio, persino senza sperarlo, né desiderarlo. È ciò che fa la grandezza di Dio, quando crea cose che non sono in condizione di amarlo, poiché non esistono ancora; o il fascino di don Giovanni che dice a una donna «Sei bella, ti amo» e che, di colpo, fa sì che lei lo diventi, bella.
Chi è primo ad amare si assume il rischio dell’assenza di reciprocità, è questa la logica del dono. Egli crea le condizioni eventuali della risposta, ma non è orientato sulla possibilità dello scambio e della risposta. Ha un potere creatore, come non accade per lo scambio. Lo scambio mira alla giustizia, alla reciprocità e si accorda sulla crescita o sull’interesse del rimborso del debito. Lo scambio segue l’uguaglianza in senso matematico e politico. Quel che è proprio del dono, invece, è di essere sempre nel principio dell’anticipo senza risposta, quindi nella logica della crescita.
A Parigi ieri hanno sfilato i partigiani del «matrimonio per tutti»
Dalla Francia una lezione di civiltà
di Alberto Mattioli (la Stampa, 28.01.2013)
A Parigi ieri hanno sfilato i partigiani del «matrimonio per tutti», leggi anche per coniugi dello stesso sesso. La legge che l’istituisce approda domani all’Assemblée nationale e i favorevoli sono andati in piazza per darle una spinta: 400 mila secondo gli organizzatori, 125 mila per la Prefettura. Replicavano alla «manifestazione per tutti» dei contrari, che il 13 gennaio ha portato nelle strade della capitale un’altra folla, un milione di persone oppure 340 mila, a seconda di chi l’ha contata.
Come al solito, ognuno dà i suoi numeri. Però in entrambi i casi sono stati cortei affollati, colorati, allegri, civili e tolleranti, pieni di cani e di bambini, di canti e di cartelli, di sfottò e di slogan, ma senza incidenti, senza violenza, senza provocazioni inutili. Chi la pensa diversamente è sempre stato trattato non come un nemico, ma come un avversario.
Così, gli anti sono stati attentissimi a evitare scivolate omofobe o strumentalizzazioni politiche; i pro si sono astenuti da trasformare il loro corteo nel gay pride o dall’infierire contro le Chiese. Il dibattito, nelle piazze e sui giornali, in tivù e in Parlamento, è vivacissimo ma senza toni apocalittici. François Hollande ha ripetuto che quella di istituire il matrimonio per tutti era la trentunesima delle sue sessanta promesse elettorali e che quindi intende mantenerla. Però ha ricevuto i portaparola degli «anti» perché anche quelli che non la pensano come lui hanno il diritto di farglielo sapere e lui il dovere di ascoltarli.
Insomma, torna la Francia che ci piace: la Francia delle battaglie civili, la Francia dei diritti dell’uomo, la Francia che si batte per i principi. Questa Francia riscopre la bella politica, quella che non si occupa soltanto del potere, ma soprattutto degli ideali che dovrebbero ispirarlo.
Si pensava che la Francia fosse anestetizzata dalla crisi, troppo ipnotizzata dalle fabbriche che chiudono e dai disoccupati che aumentano per potersi appassionare per un diritto contestato. E invece eccola qui, in strada con passione e allegria in nome di un principio. Pro o contro, poco importa, anche perché la legge si discuterà com’è giusto in Parlamento e non c’è il minimo dubbio che il Parlamento l’approverà. Importa invece, e molto, che ci sia un’opinione pubblica che ha ancora voglia di appassionarsi a una questione di civiltà. Ognuno con le sue ragioni, ma rispettando quelle dell’altro.
La lezione che arriva da Parigi è che oggi la politica può essere anche questo. Può essere un dibattito di idee e una battaglia di principio, non solo il desolante rinfacciare i Cosentini propri ai Mussari altrui e viceversa, e poi sono Scilipoti per tutti. La politica, quella vera, è provare a volare alto, a confrontarsi sulle grandi questioni, a guardare un po’ più in là del proprio naso e dei propri piccoli interessi di bottega. E anche scendere in piazza in nome dei diritti di qualcuno che poi, in una democrazia, diventano subito i diritti di tutti.
La religione ritorna ma è sempre più spiazzata
intervista a Frédéric Lenoir,
a cura di Luca Rolandi (La Stampa, 25 gennaio 2013)
«Dio? Non ho una risposta, riconosco il mistero. Certamente valorizzare la nostra spiritualità ci aiuta a superare gli ostacoli»: è una delle affermazioni più note e intense di Frédéric Lenoir, direttore di Le Monde des Religions, al quale è assegnato oggi il premio «Carlo Arturo Jemolo».
Il filosofo francese affronta nella lectio all’Università di Torino il rapporto tra fenomeno religioso e dimensione civile, concentrando l’attenzione sul concetto di laicità, «intesa come separazione della sfera politica da quella religiosa, elemento fondamentale della modernità occidentale che tende a internazionalizzarsi in virtù della pretesa degli individui alla propria libertà di coscienza, religione ed espressione».
Quali sono oggi le forme della laicità? Lenoir distingue due modelli: «Il regime di separazione che confina la religione alla sfera privata, perfettamente rappresentato dalla Francia, e il “caso” Stati Uniti che legittima l’espressione religiosa all’interno della dimensione pubblica. In questo secondo modello sono coinvolte società che hanno un’identità collettiva profondamente legata a un riferimento religioso; ed è a questo tipo di laicità, in cui la fede dominante continua a essere il contrassegno identitario collettivo, che si stanno orientando i Paesi arabi teatro delle rivoluzioni democratiche». Al contrario i Paesi europei decristianizzati (Spagna, Germania, Paesi Bassi) si avvicinano al modello francese, nel quale, spiega Lenoir, «le rivendicazioni di religioni, che reclamano maggiore visibilità o influenza, sono osteggiate da una parte rilevante della popolazione».
Pensa che sia fondata la teoria della desecolarizzazione, secondo la quale la religione tornerebbe ad applicare le proprie norme collettive alle comunità?
«La globalizzazione ha determinato nella società occidentale un ritorno alla religione per ragioni di natura spirituale, perché la realtà disorienta e il mondo è percepito come eccessivamente materialista. La perdita dei punti di riferimento morali e la presenza di una mescolanza culturale fanno paura e provocano il ritorno a identità forti e difensive».
Nello stesso tempo, però, «cresce l’affermazione delle libertà individuali che certificano l’incapacità delle chiese, nonostante tutti i loro sforzi, di opporsi alla banalizzazione delle relazioni sessuali fuori del matrimonio e alla contraccezione, al divorzio, alla legalizzazione dell’aborto, e adesso al matrimonio omosessuale, e l’impossibilità della religione di influire sull’evoluzione dei costumi e sulle leggi civili».
Il 13 gennaio si è tenuta a Parigi una grande manifestazione contro l’ampliamento dei diritti individuali e il riconoscimento civile delle unioni omosessuali, alla quale hanno aderito cattolici, ma anche ebrei, musulmani e alcuni rappresentanti laici.
«È la dimostrazione della spaccatura presente nella società francese. Il governo ha compreso il senso di questa protesta, e per ora si appresta a far votare una legge che riconosce gli stessi diritti alle persone omosessuali ed eterosessuali in materia di unione civile, rimandando al futuro le questioni più spinose in tema di riproduzione».
Ma il riconoscimento del matrimonio omosessuale non mette in discussione la concezione stessa di coppia?
«Ciò che prima era scontato nell’idea di coppia, ossia che un uomo sposi una donna per avere dei figli, oggi non ha più un consenso unanime. C’è stato un cambiamento di mentalità, punto d’arrivo della rivoluzione dei diritti individuali avviata nell’Europa del XVIII secolo, che ha portato ad anteporre l’aspirazione dei singoli alle leggi di natura. Le religioni, che si fondano tutte sulla legge di natura, non possono che essere sempre più spiazzate».
Nozze gay, 300.000 no a Parigi
di Marco Mongiello (l’Unità, 14 gennaio 2013)
Il progetto di legge del Governo socialista di Francois Hollande su matrimoni e adozioni omosessuali scatena la protesta della destra e della chiesa francese. Ieri centinaia di migliaia di persone hanno sfilato per le strade di Parigi dietro un grande striscione con scritto «tutti nati da un uomo e una donna».Tra i manifestanti, 340.000 per la polizia, 800.000 per gli organizzatori, diversi rappresentanti della chiesa francese, della destra dell’Ump, tra cui il neopresidente Jean-François Copé, e dell’estrema destra del Front National, anche se mancava la leader Marine Le Pen. In un corteo separato hanno sfilato anche gli integralisti cattolici dell’associazione Civitas. «Un padre e una madre, è elementare» recitavano alcuni cartelli. Già prima di vincere le elezioni presidenziali a maggio Hollande aveva promesso una legge su matrimoni gay e adozioni. In Francia dal 1999 esistono le unioni civili, i cosiddetti Pacs (Pacte civil de solidarité), che però non garantiscono gli stessi diritti dei matrimoni e soprattutto non permettono le adozioni. Per questo lo scorso 7 novembre il Governo ha varato il disegno di legge «Matrimonio per tutti», preparato dal ministro della giustizia Christiane Taubira, che dovrà iniziare ad essere discusso dal Parlamento a maggioranza socialista il prossimo 29 gennaio. Alcuni deputati socialisti avrebbero voluto inserire anche delle misure sulla procreazione assistita, ma alla fine l’esecu tivo ha deciso di rimandare la questione. Contro la legge però si è levata l’opposizione della chiesa, che considera il progetto di legge «un attentato alla famiglia». Anche ieri l’arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese, il cardinale André Vingt-Trois, ha dato il suo «sostegno e incoraggiamento» ai manifestanti. Alla sua battaglia si sono uniti il gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim, il rettore della grande moschea di Parigi, Dalil Boubakeur, e il presidente della federazione protestante di Francia, Claude Baty. La destra dell’Ump, dopo un primo momento di esitazione, ha deciso di cavalcare il movimento. La manifestazione è «un test per Hollande perché si vede chiaramente che in Francia di sono milioni di francesi che probabilmente sono preoccupati per questa riforma - ha dichiarato ieri il presidente dell’Ump Jean-François Copé - non si può imporre dall’alto senza alcun dibattito un progetto che sconvolge profondamente l’organizzazione della famiglia in Francia da un punto di vista giuridico».
«LA MANIF POUR TOUS»
A rispondere è stata la ministra degli Affari sociali, Marisol Touraine, secondo la qualei «indubbiamente ci sono stati meno manifestanti di quanto speravano gli organizzatori». Quanto alla legge sui matrimoni omosessuali, ha aggiunto il ministro, «è un impegno del presidente della Repubblica. Si tratta di far fare un progresso molto significativo alla nostra società riconoscendo l’uguaglianza di tutti». In serata un comunicato dell’Eliseo ha fatto sapere che nonostante la manifestazione «consistente» il Governo non modifica la sua volontà di avere un dibattito al Parlamento per permettere il voto sul progetto di legge. Il17 novembre il movimento contrario alle nozze gay aveva tenuto una prima manifestazione con 70.000 persone a Parigi e altre 30.000 in altre città della Francia.
L’associazione che tiene le fila dell’organizzazione si chiama «La Manif Pour Tous», la manifestazione per tutti, parafrasando il nome della legge di Hollande. A guidarla è un personaggio televisivo cattolico, conosciuta con il nome d’arte Frigide Barjot, un giovane omosessuale ateo fondatore dell’associazione «Plus Gay Sans Mariage», Xavier Bongibault, e un’insegnante che dice di aver votato per Hollande e di essere di sinistra, Laurence Tcheng, che ha dato vita al suo movimento «La Gauche Pour Le Mariage Républicain».
Gli organizzatori ci tengono a prendere le distanze dall’estrema destra dei cattolici integralisti. «Avevamo chiesto alle autorità di farli sfilare dall’altra parte della Senna ma non ci hanno ascoltato», ha precisato all’Unità Caroline Bernot, una portavoce dell’associazione. «Noi chiediamo al governo un vero dibattito o un referendum - ha spiegato - nel diritto francese la famiglia è un’istituzione e non ha senso sposare due persone dello stesso sesso».
di Sandrine Morel
in “Le Monde” del 13 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Sette anni e 23 000 matrimonio omosessuali dopo, che cosa resta del dibattito sulle unioni tra persone dello stesso sesso che aveva scosso la Spagna, al tempo del voto sulla legge, nel 2005? “Nulla”, dichiara decisamente la presidentessa della Federazione lesbiche, gay, transessuali e bisessuali (FELGTB), Boti Garcia, che parla oggi di “normalizzazione assoluta”.
Circa il 70% degli spagnoli sono oggi favorevoli al matrimonio gay rispetto al 60% in occasione del voto sulla legge. Le unioni si celebrano in pace, come le adozioni di figli da parte di coppie omo. E la battaglia giudiziaria è stata richiusa con la risoluzione del Tribunale costituzionale, il 6 novembre 2012, a favore del “matrimonio egualitario”. Ma il percorso fu seminato di trappole. Nel 2003 le organizzazioni gay e lesbiche cominciano la lotta presentando delle richieste di matrimonio gay nei comuni. Per parlare ad una sola vice, si uniscono in seno ad una stessa piattaforma, la FELGTB.
Nei mesi precedenti le elezioni del marzo 2004, fanno pressione sul partito socialista, allora all’opposizione, per “trasmettere l’idea che non eravamo cittadini differenti e che di conseguenza non dovevamo avere diritti differenti”, spiega la signora Garcia. Ottengono che il provvedimento figuri nel programma elettorale di José Luis Rodriguez Zapatero.
Una volta eletto, il giovane presidente si affretta a mantenere la promessa fatta in campagna elettorale: uno schema di progetto di legge viene redatto alla fine del 2004. L’idea è di effettuare una semplice sostituzione nel codice civile dei termini che definiscono il matrimonio come l’unione di un uomo e di una donna con la parola “coniugi”. “La cosa più bella di questa legge è che è esattamente la stessa del resto della società”, assicura la signora Garcia. Nel marzo 2005, il testo comincia, tra vive polemiche, il suo percorso legislativo.
La Chiesa, che gode ancora di un potere e di un’influenza considerevole, utilizza tutti gli strumenti in suo possesso per impedirne l’approvazione. Ma il governo socialista non si lascia impressionare. Né dai volantini distribuiti durante le messe o dalle petizioni firmate all’uscita dalle scuole cattoliche. Né da certi giudici che paragonano pubblicamente il matrimonio gay ad un’unione tra un uomo e un animale. E neanche dalla manifestazione massiccia del 18 giugno 2005 che riunisce a Madrid 1,5 milioni di persone secondo gli organizzatori, 180 000 secondo la polizia.
Convocata dall’associazione ultraconservatrice e cattolica Forum delle famiglie, vi partecipano anche vescovi accanto a rappresentanti di peso del Partito popolare (oggi al potere), tra cui gli attuali ministri dell’agricoltura, Miguel Angel Arias Canete o delle infrastrutture, Ana Pastor. La signora Garcia se ne ricorda come se fosse ieri. “I vescovi con la loro tonaca nera e la croce che brillava al sole, traspiravano omofobia, racconta ancora scossa. In piazza Colon, hanno fatto salire sul palco anche dei bambini, contro i nostri diritti...”
Nonostante queste pressioni, il 30 giugno 2005, la Spagna diventa il terzo paese europeo a legalizzare il matrimonio gay, dopo i Paesi Bassi e il Belgio. La legge viene votata con 187 voti a favore e 147 contrari. L’11 luglio viene celebrato il primo matrimonio tra due uomini. Tuttavia gli attacchi continuano. La Conferenza episcopale spagnola moltiplica le critiche e dal Vaticano l’ex presidente del Pontificio Consiglio per la famiglia, il cardinale colombiano Alfonso Lopez Trujillo, invita i funzionari municipali a non sposare le coppie omosessuali. Mentre diversi giudici, invocando una “impossibilità morale” o mettendo in discussione la costituzionalità del testo, rifiutano di scrivere i matrimoni gay nel registro civile.
Una cinquantina di deputati del Partito Popolare decidono in settembre di deporre un ricorso davanti al Tribunale costituzionale, facendo planare sulle unioni già celebrate una spada di Damocle. “Per sei anni, abbiamo vissuto in un’insicurezza immensa, non solo delle nostre coppie, ma dei nostri figli”, sottolinea la signora Garcia. Nel novembre 2012, il tribunale ha chiuso il dibattito.
PREMESSA SUL TEMA:
La dignità necessaria alle unioni gay
di Bernard-Henri Lévy (Corriere della Sera, 11 gennaio 2013)
Il dibattito sul matrimonio gay ha preso una piega strana e talvolta inquietante. Sorvolo sugli ipocriti che fingono di rimpiangere i bei tempi dell’omosessualità deviante, ribelle, e refrattaria a «entrare nella norma». Sorvolo sulla condiscendenza delle anime belle secondo cui «il popolo», in tempi di crisi, avrebbe altre gatte da pelare piuttosto che queste storie di borghesi bohémien (non si osa dire di pederasti). Sorvolo infine sul comico panico di chi ritiene che il matrimonio gay (ribattezzato a torto matrimonio «per tutti» dai suoi sostenitori troppo prudenti, e privi del coraggio di dire pane al pane, vino al vino) sia una porta aperta alla pedofilia, all’incesto, alla poligamia.
Non si può invece sorvolare su quanto segue.
1) Sul modo in cui è percepito l’intervento delle religioni in tale baruffa. Che le religioni debbano dire il loro parere su una vicenda che è sempre stata, e lo è ancora, al centro della loro dottrina, è normale.
Ma che questo parere si faccia legge, che la voce del gran rabbino di Francia o quella dell’arcivescovo di Parigi sia più di una voce fra tante altre, che ci si nasconda dietro alla loro grande ed eminente autorità per chiudere la discussione e mettere a tacere una legittima domanda di diritti, non è compatibile con i principi di neutralità sui quali, da almeno un secolo, si suppone sia edificata la nostra società. Il matrimonio, in Francia, non è un sacramento, è un contratto.
E se è sempre possibile aggiungere il secondo al primo, e ciascuno può stringere, se lo desidera, un’unione supplementare davanti al prete, non è di questo che tratta la legge sul matrimonio gay.
Nessuno chiede ai religiosi di cedere sulla loro dottrina. Ma nessuno può esigere dal cittadino di regolare il proprio comportamento sui dogmi della fede. Si crede di andare in guerra contro il comunitarismo ed è la laicità ad essere discreditata: che cosa ridicola!
2) Sulla mobilitazione degli psicoanalisti o, in ogni caso, di alcuni di loro, che si ritiene dovrebbero fornire agli avversari della legge argomentazioni scientifiche e, forti della loro autorità, provare che questo progetto causerebbe un altro malessere, stavolta mortale, nella civiltà contemporanea.
Leggete la letteratura sull’argomento. Non ci sono indicazioni, per esempio, che suggeriscano una predisposizione all’omosessualità in caso di adozione da parte di una coppia gay. Non ci sono effetti perversi particolari quando si strappa un bambino da un sordido orfanotrofio e lo si trasferisce in una famiglia con un solo genitore o con genitori omosessuali amorevoli. E se pure questo dovesse provocare un turbamento, lo sguardo che la società impregnata di omofobia porta sul bambino sembra sia infinitamente più sconvolgente della apparente indistinzione dei ruoli nella famiglia così composta...
3) Sulla famiglia, appunto. La sacrosanta famiglia che ci viene presentata, a scelta, come la base o il cemento delle società.
Come se «la» famiglia non avesse già tutta una sua storia! Come se ci fosse un solo modello, e non invece molti modelli di famiglia, quasi omonimi, che si succedono dall’antichità ai nostri giorni, dai secoli classici ai secoli borghesi, dall’età delle grandi discipline (quando la cellula familiare funzionava, in effetti, come ingranaggio del macchinario del controllo sociale) a quella del «diritto alla ricerca della felicità» di cui parlava Hannah Arendt in un testo del 1959 sulle «unioni interrazziali» (in cui il matrimonio diventa un luogo di pienezza e di libertà per il soggetto)!
Come se la banalizzazione del divorzio, la generalizzazione della contraccezione o dell’interruzione volontaria di gravidanza, la moltiplicazione delle adozioni e delle famiglie single, il fatto che oggi siano più numerosi i bambini nati fuori dal matrimonio che da coppie sposate, come se la disgiunzione, infine, del sessuale dal coniugale, non avessero fatto vacillare il modello tradizionale ben al di là di quello che mai farà una legge sul matrimonio gay che, per definizione, riguarderà solo una minoranza della società!
La verità è che gli avversari della legge sempre più difficilmente riescono a dissimulare il fondo di omofobia che governa i loro discorsi.
Preferiamo una posizione di dignità (perché fondata sul principio di universalità della regola di diritto), di saggezza (talvolta il diritto serve a prendere atto di una evoluzione che il Paese ha già voluto e compiuto) e di fiducia nell’avvenire (chissà se non toccherà ai gay sposati, non di impoverire, ma di arricchire le arti di amare e di vivere di una società alla quale, da mezzo secolo, hanno già dato tanto?).
Possa il legislatore decidere serenamente e senza cedere alla pressione delle piazze né all’intimidazione dei falsi sapienti: è in gioco, in effetti, ma non nel senso che ci viene detto, l’avvenire di quella bella illusione che è la convivenza democratica.
(traduzione di Daniela Maggioni)
La battaglia perduta della Chiesa
di Danièle Hervieu-Léger*
in “Le Monde” del 13 gennaio 2013 (traduzione: www.finesettimana.org)
Il discorso ostile della Chiesa sul “matrimonio per tutti” conferma la sua incapacità di adattamento alle nuove vie della famiglia
Nel dibattito sul matrimonio per tutti, non sorprende che la Chiesa cattolica faccia sentire la sua voce. Sorprende di più che eviti con cura ogni riferimento ad una proibizione religiosa. Per rifiutare l’idea del matrimonio omosessuale, la Chiesa invoca infatti una “antropologia” che la sua “esperienza in umanità” le dà titolo di riferire a tutti gli uomini, e non solo ai suoi fedeli.
Il nocciolo di questo messaggio universale è l’affermazione secondo la quale la famiglia coniugale - costituita da un padre (maschio) e da una madre (femmina) e da figli che essi procreano insieme - è la sola istituzione naturale suscettibile di fornire al rapporto tra coniugi e tra genitori e figli, le condizioni della sua realizzazione.
Assegnando a questa definizione della famiglia una validità “antropologica” invariante, la Chiesa difende in realtà un modello di famiglia che essa stessa ha prodotto. Ha cominciato a dare forma a questo modello fin dai primi tempi del cristianesimo, combattendo il modello romano di famiglia che si opponeva allo sviluppo delle sue imprese spirituali e materiali, e facendo del consenso dei due sposi il fondamento stesso del matrimonio.
Nel modello cristiano del matrimonio - stabilizzato tra il XII e il XIII secolo -, si presuppone che il volere divino si esprima in un ordine della natura, assegnando all’unione il ruolo della procreazione e mantenendo il principio di sottomissione della donna all’uomo. Significherebbe far torto alla Chiesa non riconoscere l’importanza che questo modello ha avuto nella protezione dei diritti delle persone e dello sviluppo di un ideale di coppia fondato sulla qualità affettiva della relazione tra i coniugi. Ma la distorsione operata facendone il riferimento insuperabile di ogni coniugalità umana è così resa solo più palpabile.
Infatti questa antropologia prodotta dalla Chiesa entra in conflitto con tutto ciò che gli antropologi descrivono invece della variabilità dei modelli di organizzazione della famiglia e della genitorialità nel tempo e nello spazio. Nel suo sforzo per tenere a distanza la relativizzazione del modello familiare europeo indotto da questa constatazione, la Chiesa non ricorre solo all’aiuto di un sapere psicanalitico esso stesso costituito in riferimento a quel modello.
Trova anche, nell’omaggio insistente reso al codice civile, un mezzo per dare un sovrappiù di legittimazione secolare alla sua opposizione ad ogni evoluzione della definizione giuridica di matrimonio. La cosa è inaspettata, se si pensa all’ostilità che essa manifestò a suo tempo all’istituzione del matrimonio civile. Ma questa grande adesione si spiega se ci si ricorda che il codice napoleonico, che ha eliminato il riferimento diretto a Dio, ha però fermato la secolarizzazione alla soglia della famiglia: sostituendo all’ordine fondato in Dio l’ordine non meno sacro della “natura”, il diritto si è fatto esso stesso il garante dell’ordine immutabile che assegna agli uomini e alle donne dei ruoli diversi ed ineguali per natura.
Il riferimento preservato all’ordine non istituito della natura ha permesso di affermare il carattere “perpetuo per destinazione” del matrimonio e di proibire il divorzio. Questa estensione secolare del matrimonio cristiano operata dal diritto ha contribuito a preservare, al di là della laicizzazione delle istituzioni e della secolarizzazione delle coscienze, l’ancoraggio culturale della Chiesa in una società nella quale non le era concesso dire la legge in nome di Dio nell’ambito politico: l’ambito della famiglia restava infatti l’unico sul quale poteva continuare a combattere la problematica moderna dell’autonomia dell’individuo-soggetto.
Se la questione del matrimonio omosessuale può essere considerata come il luogo geometrico dell’esculturazione della Chiesa cattolica nella società francese, è dovuto al fatto che tre movimenti convergono in questo punto per dissolvere i residui di affinità elettiva tra la problematica cattolica e quella secolare del matrimonio e della famiglia.
Il primo di questi movimenti è l’estensione della rivendicazione democratica al di fuori della sola sfera politica: una rivendicazione che raggiunge la sfera dell’intimità coniugale e della famiglia, che fa valere i diritti imprescrittibili dell’individuo rispetto ad ogni legge data dall’alto (quella di Dio o quella della natura) e rifiuta tutte le disuguaglianze fondate in natura tra i sessi.
Da questo punto di vista, il riconoscimento giuridico della coppia omosessuale si inserisce nel movimento che - dalla riforma del divorzio alla liberalizzazione della contraccezione e dell’aborto, dalla ridefinizione dell’autorità genitoriale all’apertura dell’adozione alle persone celibi/ nubili - ha fatto entrare la problematica dell’autonomia e dell’uguaglianza degli individui nella sfera privata.
Questa espulsione progressiva della natura fuori dalla sfera del diritto è essa stessa resa irreversibile da un secondo movimento, che è la rimessa in discussione dell’assimilazione, acquisita nel XIX secolo, tra l’ordine della natura e l’ordine biologico. Questa assimilazione della “famiglia naturale” alla “famiglia biologica” si è iscritta nella pratica amministrativa e nel diritto.
Da parte della Chiesa, lo stesso processo di biologizzazione è sfociato, in funzione dell’equivalenza stabilita tra ordine della natura e volere divino, nel far coincidere, in maniera molto sorprendente, la problematica teologica antica della “legge naturale” con l’ordine delle “leggi della natura” scoperte dalla scienza. Questo schiacciamento rimane al principio della sacralizzazione della fisiologia che segna le argomentazioni pontificie in materia di proibizione della contraccezione o della procreazione medicalmente assistita. Ma, all’inizio del XXI secolo, è la scienza stessa che contesta l’oggettività di tali “leggi della natura”.
La natura non è più un “ordine”: è un sistema complesso che unisce azioni e retroazioni, regolarità e incognite. Questo nuovo approccio fa andare in frantumi i giochi di equivalenza tra naturalità e sacralità di cui la Chiesa ha armato il suo discorso normativo su tutte le questioni riguardanti la sessualità e la procreazione. Le resta quindi, come sola legittimazione esogena e “scientifica” di un sistema di proibizioni che ha sempre meno senso nella cultura contemporanea, il ricorso intensivo e disperato alla scienza degli psicanalisti, ricorso più precario e soggetto a contraddizioni, ce ne rendiamo conto, delle “leggi” dell’antica biologia.
La fragilità dei nuovi montaggi sotto cauzione psicanalitica attraverso i quali la Chiesa fonda in assolutezza la sua disciplina dei corpi viene messa in luce dalle evoluzioni della famiglia coniugale stessa. Perché l’avvento della “famiglia relazionale” ha, in poco più di mezzo secolo, fatto prevalere il primato della relazione tra gli individui sul sistema di posizioni sociali fondate sulle differenze “naturali” tra i sessi e le età.
Il cuore di questa rivoluzione, nella quale il controllo della fecondità ha una parte immensa, è la separazione del matrimonio dalla filiazione, e la correlativa pluralizzazione dei modelli familiari composti e ricomposti. Il diritto di famiglia ha omologato questo fatto importante e ineluttabile: ormai non è più il matrimonio che fa la coppia, è la coppia che fa il matrimonio.
Questi tre movimenti - uguaglianza dei diritti fin nell’ambito intimo, decostruzione del supposto ordine della natura, legittimità dell’istituzione ormai fondata sulla relazione degli individui - si cristallizzano insieme in una esigenza irreprimibile: quella del riconoscimento del matrimonio tra persone dello stesso sesso, e del loro diritto, tramite l’adozione, di formare una famiglia.
Di fronte a questa esigenza, le argomentazioni sostenute dalla Chiesa - fine della civiltà, perdita di punti di riferimento fondativi dell’umano, minaccia di dissoluzione della cellula familiare, indifferenziazione dei sessi, ecc. - sono le stesse che furono usate, a suo tempo, per criticare l’impegno professionale delle donne al di fuori del focolare domestico o per combattere l’instaurazione del divorzio consensuale.
È poco probabile che la Chiesa possa, con questo tipo di armi, arginare il corso delle evoluzioni. Oggi, o domani, l’evidenza del matrimonio omosessuale finirà per imporsi, in Francia come in tutte le società democratiche. Il problema non è sapere se la Chiesa “perderà”: essa ha già perduto - molto al suo interno, e anche nella gerarchia lo sanno.
Il problema più cruciale che essa deve affrontare è quello della propria capacità di produrre un discorso che possa essere ascoltato sul terreno stesso degli interrogativi che si pongono sulla scena rivoluzionata della relazione coniugale, della genitorialità e del rapporto familiare. Quello, ad esempio, del riconoscimento dovuto alla singolarità irriducibile di ogni individuo, al di là della configurazione amorosa - eterosessuale o omosessuale - nella quale è impegnato.
E ancora quello dell’adozione, che, da parente povero della filiazione qual era, potrebbe diventare al contrario il paradigma di ogni genitorialità, in una società, in cui, indipendentemente dal modo in cui lo si fa, la scelta di “adottare il proprio figlio”, e quindi di impegnarsi nei suoi confronti, costituisce la sola difesa contro le perversioni possibili del “diritto ad avere un figlio”, che minacciano le coppie eterosessuali non meno delle coppie omosessuali. In questi diversi ambiti, ci aspettiamo una parola rivolta a persone libere. Il matrimonio omosessuale non è certo la fine della civiltà. Ma potrebbe costituire una pietra miliare drammatica quanto lo fu l’enciclica Humanae Vitae nel 1968 nel cammino verso la fine del cattolicesimo in Francia, se il discorso della Chiesa rimane solo quello della proibizione. E questa non è un’ipotesi solo teorica.
*Danièle Hervieu-Léger
Sociologa, Directrice d’études alla EHESS (Ecole des hautes études en sciences sociales).
Ha diretto dal 1993 al 2004 il Centro di studi interdisciplinari dei fatti religiosi (CNRS/EHESS) e
ha presieduto l’EHESS dal 2004 al 2009.
Ha pubblicato, tra l’altro: "Vers un nouveau christianisme" (éd. Cerf, 2008), "Le Retour à la nature"
(éd. de l’Aube, 2005) e "Catholicisme, la fin d’un monde" (Bayard, 2003)
Papa benedice promotrice legge che prevede pena di morte per gay in Uganda
di Redazione *
Una legge contro l’omosessualità - da approvare - che tra le ipotesi prevede la pena di morte. Succede in Uganda, uno dei 37 paesi nel mondo che considerano nel loro codice penale l’essere gay un reato. Il presidente del parlamento ugandese, Rebecca Kadaga, lo scorso 12 novembre aveva annunciato che questa norma sarebbe stata un ”regalo di Natale” per tutti gli ugandesi anti gay. La signora, come si legge sul sito del parlamento del paese africano, è stata ricevuta e benedetta ieri dal Papa che oggi, nel suo messaggio per la Giornata mondiale della pace, ha definito i tentativi di accomunare i matrimoni gay a quelli fra uomo e donna “un’offesa contro la verità della persona umana” e “una ferita grave inflitta alla giustizia e alla pace”. Nella foto si vede Benedetto XVI accanto alla speaker.
La legge anti-gay, “The Kill gay bill” duramente contestata, potrebbe essere approvata nei prossimi giorni e per questo sta crescendo la pressione del popolo del web. L’ultimo dato relativo alla petizione on line è che oltre un milione di persone hanno firmato l’appello promosso dalla web community Avaaz.org; “Ultime ore per fermare l’orribile legge anti-gay in Uganda” si legge sulla home page. “Chiediamo ai leader dell’Uganda e ai suoi maggiori paesi partner di unirsi a noi nel condannare ogni persecuzione e difendere i valori della giustizia e della tolleranza”, si legge nel testo della petizione.
Il disegno di legge, presentato dal deputato David Bahati, propone pene detentive più lunghe per gli atti omosessuali rispetto a quelle attualmente in vigore, tra cui l’ergastolo, ma nella sua bozza originale era prevista anche la pena di morte nei casi di omosessualità aggravata; se a commettere il reato per esempio è un malato di Hiv o se si hanno rapporti con minorenni. Nel presentare la legge la Kadaga, lo scorso 12 novembre aveva annunciato che sarebbe stata un ”regalo di Natale”. Il testo, definito lo scorso anno ”odioso” dal presidente americano Barack Obama, ha già scatenato una serie di proteste da parte di alcuni leader mondiali che hanno minacciato di sospendere gli aiuti in favore di Kampala. Chi dovesse vivere con una persona del suo stesso sesso, in caso di approvazione della legge, rischierebbe 14 anni di galera.
“Quello che oggi papa Benedetto XVI ha anticipato quale messaggio per la Giornata Mondiale della Pace che si celebrerà l’1 gennaio 2013 è probabilmente il peggiore di sempre: arma infatti gli omofobi di tutti i paesi con un invito ad una crociata senza quartiere contro il matrimonio tra persone dello stesso sesso” commenta Flavio Romani, presidente nazionale Arcigay, secondo il quale “leggere pero’ nelle altisonanti parole del pontefice che il matrimonio tra persone dello stesso sesso è una minaccia per la giustizia e per la pace, oltre a qualificare da sé il messaggio, testimonia l’assenza di argomentazioni realistiche e sensate da parte della Chiesa Cattolica sull’argomento”.
Per Romani “il matrimonio anche per gay e lesbiche ha vinto e si sta affermando in tutto il mondo, in paesi governati sia da conservatori che da progressisti, e arriverà anche in Italia, al di la’ di questo canto del cigno. Certo, dopo il laico pronunciamento di ieri del Parlamento europeo a favore di unioni civili e matrimonio per persone dello stesso sesso votato democraticamente a maggioranza, non ci attendevamo di meglio da una teocrazia che rincorre su questi temi il peggior integralismo.
Il messaggio anticipato oggi è tristemente coerente con la benedizione data ieri in Vaticano alla delegazione parlamentare ugandese guidata dalla portavoce Rebecca Kadaga, una delle più forti promotrici della ‘Kill the Gay Bill’, la legge che il parlamento ugandese si appresta ad approvare e che prevede la pena di morte per ‘omosessualità aggravata’. Con queste due azioni - conclude - Benedetto XVI continua a rappresentarsi come un apostolo di ingiustizia, divisione e discriminazione ai danni delle persone omosessuali, lesbiche e transessuali. E’ necessario che la società civile e i rappresentanti politici, a tutti i livelli, facciano sentire le loro parole di condanna di fronte ad atti e parole così gravi”.
*Il Fatto Quotidiano 14 dicembre 2012
Intollerabile intolleranza sessuale della Chiesa
di Olivier Py
“Le Monde” del 5 dicembre 2012
(traduzione: www.finesettimana.org)
I cattolici che si oppongono al matrimonio omosessuale e all’omosessualità possono citare le fonti vetero e neo-testamentarie che condannano l’amore tra due uomini (Genesi 19, 1-13: Levitico 18,22; Romani 1, 26-27; 1Corinti 6,9). Precisiamo semplicemente che un cristiano cattolico si rifiuta di prendere l’Antico Testamento e il Nuovo alla lettera, sa che l’antica legge deve essere secondo le parole di Cristo “compiuta”, e non seguita per i secoli dei secoli. In altri termini, che un cristiano deve interpretare le scritture tenendo conto dell’epoca della loro redazione.
Nessun catechismo cattolico ha mai richiesto che si seguissero alla lettera le leggi della Bibbia. Coloro che vogliono condannare l’omosessualità lo fanno più a partire da un moralismo loro che per rispetto della legge biblica, passano evidentemente sotto silenzio l’amore di Saul per Davide, l’amore di Davide per Jonathan, e usano la Bibbia per servire un’omofobia non dissimulata.
Quanto alla lettera di Paolo ai Romani, 1,26-27, si potrà subito constatare che non definisce i rapporti sessuali tra uomini come un peccato, né nel quadro di una stretta proibizione. Parla di infamia perché quei rapporti fanno parte dei riti e dei culti del paganesimo che, in quel brano, egli condanna assolutamente. Ma è l’idolatria che condanna. L’ideale di vita paolino resta casto, e quindi non difende nessuna pratica sessuale, pratiche che spesso sono legate al paganesimo, al culto della fecondità in particolare.
I cattolici invocano la difesa della famiglia, è loro diritto. Ma obiettiamo che gli omosessuali non vogliono distruggere il matrimonio, visto che, al contrario, chiedono più matrimonio e più famiglia, famiglia atipica ma famiglia comunque. In che senso il fatto che gli omosessuali abbiano il diritto al matrimonio sia una cosa che distruggerebbe il matrimonio per gli eterosessuali, resta un’affermazione poco documentata. Ma la cosa più grave è che i cattolici, un certo numero dei quali in buona fede, dimenticano quanto i loro valori familiari siano poco cattolici.
Cattolico vuol dire universale, la cattolicità ci comanda sempre di considerare il nostro fratello come fratello in Cristo e non fratello per legami del sangue o della nazione. È il senso della parabola.
L’ideale cristiano in Paolo non è un ideale di vita familiare, al contrario è l’ideale del santo, di colui che fa dell’insieme dell’umanità la sua famiglia. I valori familiari sono valori della società borghese del XIX secolo, sono valori della società protestante anglosassone, ma certamente non valori cristiani.
Cristo non ha fondato una famiglia, ai preti è proibito formare una famiglia in nome dell’imitazione di Cristo. Si diceva anche che l’abolizione della pena di morte (la Chiesa stessa ha aspettato gli anni ’90 per ritirare senza riserve l’approvazione della pena di morte dal suo catechismo) avrebbe distrutto il sistema penale e quindi tutta la giustizia.
Il papa è arrivato a dire che la sopravvivenza dell’umanità era minacciata dal matrimonio gay, ci sarebbe da ridere, se non ci fosse da piangere. Com’è possibile enunciare ragionevolmente una tale idea? Il matrimonio omosessuale rimetterebbe in discussione la curva demografica terrificante che ci fa superare la soglia dei 7 miliardi? Ci sarebbero più omosessuali se potessero amarsi in un quadro legale? E nel giro di poco tempo tutta l’umanità potrebbe essere convertita all’omosessualità e dimenticherebbe di riprodursi? È una fantasia delirante, un’omofobia appena dissimulata, che continua ad allontanare dal messaggio della Chiesa migliaia di uomini e di donne.
Il problema dell’adozione sarebbe più delicato? Ma il fatto di avere dei genitori oppure un padre e una madre non è una questione teologica. Ci si può e ci si deve preoccupare della felicità del bambino che sarà adottato, ed è quello che fanno i genitori che adottano e che desiderano quei bambini che non hanno concepito geneticamente.
Quale destino si preferisce per quelle migliaia di orfani? Un orfanatrofio a Mogadiscio o due genitori dello stesso sesso, amorevoli ed attenti? Chi può impedire che ci siano meno bambini del terzo mondo che accedano alle nostre cure, alla nostra educazione, alla nostra pace?
Perché rifiutare ad un bambino di avere due genitori se si accetta legalmente che ne abbia anche uno solo?
E infine, quale status dare a tutti quei bambini che sono stati allevati da due genitori dello stesso sesso, si deve negare la loro esistenza, la loro storia, la loro identità, senza neppure aver chiesto il loro parere?
Si fa fatica a comprendere come e perché la Chiesa voglia intervenire in un dibattito giuridico laico che è un dibattito della Repubblica. Sembra che dispiaccia la separazione Stato-Chiesa. Possiamo immaginare i musulmani chiedere la proibizione del prosciutto in nome della loro fede?
Semplicemente perché i vescovi che condannano l’omosessualità confondono facilmente il peccato e l’errore, il peccato non riguarda la Repubblica.
Infine, siamo disperati in quanto cristiani nel vedere da più di vent’anni la frangia più reazionaria della Chiesa prendere la parola su problemi secolari e di morale sessuale.
Che perdita di tempo, mentre bisognerebbe impiegare tutta la propria energia a servire la parola di Cristo. Quando i vescovi parleranno della Trinità più spesso che del preservativo, della bellezza dell’eucaristia più spesso che degli omosessuali, della resurrezione più che della contraccezione? Quando rinuncerà la Chiesa a interferire nelle cose secolari ed essere solo la fiamma della parola vivente, per essere quella verticalità nel tempo di cui abbiamo talmente sete, per essere definitivamente con coloro che soffrono e non con coloro che condannano?
*Olivier PY, regista, drammaturgo e attore, ex direttore del Théâtre de l’Odéon
Baubérot: «Matrimonio per tutti: finalmente un vero tema di laicità!»
di Jean-Jeacques Peyronel
A proposito del «matrimonio per tutti» di cui si è parlato anche al sinodo della Regione Provenza- Alpi-Corsica-Costa Azzurra, il sociologo francese Jean Baubérot, che è membro attivo della Chiesa riformata di Francia, ha scritto sul suo blog (http: //blogs. mediapart. fr/ blog/ jeanbauberot/ 051112) un articolo intitolato «Matrimonio per tutti: finalmente un vero tema di laicità! », in cui scrive tra l’altro:
«Dietro alle opposizioni - ieri al divorzio, oggi al matrimonio per tutti - sta un problema fondamentale: che cos’è un essere umano? Un essere umano nella sua “dignità”, nella sua umanità? Si può definire a priori, una volta per tutte e in modo immutabile, le caratteristiche fondamentali di un essere umano e del comportamento umano? Oppure l’umanità è un’avventura che si svolge nella storia, che comporta una storicità? In breve, per dire le cose in modo un po’ sapiente, esistono o no delle invarianti antropologiche, dei limiti antropologici che sfuggono alla storicità? Alcuni accettano questa domanda e sostengono che, siccome esistono le due posizioni, la società non deve scegliere tra una e l’altra. Ora, da un lato non scegliere vuol dire semplicemente far prevalere la prima posizione; dall’altro lato, tutte le società democratiche hanno già scelto e si basano sull’idea che, a ogni periodo storico, spetta alla società politica definire la frontiera tra l’umano e l’inumano, porre i limiti antropologici da non superare. Del resto è proprio in questo che le società democratiche, anche se sono generalmente incompletamente laiche (e la Francia non sfugge a questa generalità), sono però fondamentalmente delle società laiche... Mi si dirà che il rifiuto del matrimonio tra persone dello stesso sesso fa l’unanimità fra le religioni. Direi più esattamente «fra le autorità religiose», il che non è esattamente la stessa cosa... Le “religioni” si oppongono: è loro diritto e, in regime di laicità, esse possono esprimere pubblicamente tale diritto finché vogliono. Non solo il “matrimonio per tutti” è un vero tema di laicità ma è un tema per il quale la laicità funziona bene dato che l’espressione della religione nello spazio pubblico non è contestata, che non si pretende che la religione sia unicamente “faccenda intima” che non avrebbe il diritto di manifestarsi pubblicamente. Una laicità morbida, quindi, il che non impedisce di ricordare alcune regole. Prima di tutto, che le autorità politiche (e mediatiche) la smettano di parlare de “la Chiesa”, come se ne esistesse solo una, come se fossimo ancora al Medio Evo con un “potere temporale” e un “potere spirituale”. Chiamare la Chiesa cattolica “la Chiesa” (e il progetto di legge socialista commette questo grave errore!), vuol dire ratificare implicitamente la pretesa di un certo cattolicesimo di costituire la sola e unica Chiesa, vuol dire disprezzare la situazione di grande pluralità religiosa, cristiana compresa. Bisogna ricordare che la legge del 1905 è la legge di separazione “tra le Chiese e lo Stato” e non “tra la Chiesa e lo Stato” come pretende un manuale di storia! Se tutte le convinzioni, religioni incluse, hanno diritto alla libera espressione, nessuna prevale di fronte al suffragio universale... Esiste una differenza tra diritto d’espressione e volontà di dominio... Una laicità di libertà perché dare il diritto del matrimonio agli omosessuali non toglie nulla agli eterosessuali, e non obbliga in nulla un omosessuale. Ciò non toglie nulla alle chiese e alle altre religioni: separate dallo Stato, esse fanno ciò che vogliono e nessuno, in Francia, pensa di costringerle a organizzare una cerimonia religiosa per celebrare un matrimonio tra persone dello stesso sesso. Anche qui, la laicità viene rimessa sui propri piedi: è sul terreno della libertà (e non su quello della repressione) che la laicità si impone alle religioni». (jjp)
Il Vaticano sostiene la strategia scelta dai vescovi francesi
di Frédéric Mounier
in “La Croix” del 19 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con parole scelte Benedetto XVI ha espresso sabato il suo sostegno alla strategia messa in atto dall’episcopato francese per opporsi al “matrimonio per tutti”. Esprimendosi davanti a 39 vescovi venuti dalla Francia settentrionale ed orientale in visita ad limina in Vaticano, Benedetto XVI ha ricordato che “nei dibattiti importanti di società, la voce della Chiesa deve farsi sentire senza posa e con determinazione nel rispetto della tradizione francese in materia di distinzione tra le sfere di competenza dello Stato e quelle della Chiesa”.
Sottolineando che quest’ultima non può essere “ridicolizzata o emarginata nella sola sfera privata” il papa ha esortato i fedeli “impegnati nella vita pubblica” a “manifestare le loro convinzioni cristiane, senza arroganza ma con rispetto” e in particolare ad “essere attenti ai progetti di leggi civili che possono arrecare pregiudizio alla protezione del matrimonio tra uomo e donna,al la salvaguardia della vita dal concepimento fino alla morte, e al giusto orientamento della bioetica in fedeltà ai documenti del magistero”.
Alcuni minuti prima, Benedetto XVI aveva attentamente ascoltato il cardinale André Vingt-Trois, arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese, che aveva spiegato i principi della strategia confermata durante l’ultima Assemblea generale a Lourdes: “Nei dibattiti di società a cui ci troviamo confrontati, cerchiamo di suscitare e di unirci agli interrogativi degli uomini di buona volontà. Radicati nella tradizione ebraico-cristiana, ci sforziamo di formulare, alla luce della fede, gli imperativi della morale universale di modo che coloro che cercano il bene possano aderirvi, ancorché non cristiani.”
Questo atteggiamento di reciproca comprensione tra Roma e la Francia era già stato notato giovedì, quando i vescovi si sono recati, nel quadro della loro visita ad limina, al Pontificio Consiglio per la famiglia. Erano stati allora calorosamente accolti da Mons. Vincenzo Paglia, nuovo presidente di questo consiglio dal giugno 2012, che ha “espresso apprezzamento per il coraggio della preghiera del 15 agosto”, “un modo esemplare di porre interrogativi alla società”, secondo lui, più feconda delle “manifestazioni di forza inefficaci”.
Il giorno dopo, alla Congregazione per la dottrina della fede, guardiana del dogma, non si è parlato del “matrimonio per tutti”. E non lo si era fatto neanche in occasione dell’incontro, sabato 20 ottobre, tra il ministro dell’interno francese per i culti, Manuel Valls, e il “ministro degli esteri” di Benedetto XVI, Mons. Dominique Mamberti. Questa relativa discrezione è un modo di rispettare l’autonomia dell’episcopato francese, dato che Roma si limita a ripetere, quando è pubblicamente necessario, la posizione classica della Chiesa sul matrimonio.
UNO SLOGAN PERICOLOSO, CHE NON DEVE AFFATTO "FAR SORRIDERE" ... MA FAR PENSARE AGLI EFFETTI.
di Gloria Origgi (Il Fatto, 19 novembre 2012)
Abituata all’atmosfera un po’ sessantottina e festosa della maggior parte delle manifestazioni parigine cui mi capita di assistere, o a volte di partecipare, quando ieri pomeriggio mi sono trovata con mio figlio in passeggino tra i manifestanti in rue du Bac, nel pieno centro di Parigi, mi sono guardata intorno con una certa eccitazione...ma i manifestanti avevano un look molto diverso dal solito: famiglie di madri, padri, nonni, bambini, tutti ben vestiti e dell’aria severa, scandivano slogan contro l’‘omofollia’, un neologismo che sta a indicare la follia del nuovo governo francese che ha messo in cantiere l’approvazione del matrimonio gay. “Siamo tutti figli di eterosessuali, prima seconda terza generazione!”.
Fa sorridere sentire questo slogan nella bocca dei militanti delle organizzazioni cattoliche di estrema destra (come l’Istitiuto Civitas e altri gruppi integralisti all’origine della manifestazione) che è una riformulazione di un famoso slogan del maggio 1968 in difesa di Daniel Cohn Bendit, che era stato attaccato per le sue origini ebree e tedesche: “Siamo tutti ebrei tedeschi, prima, seconda terza generazione!” urlavano i sessantottini per le strade. E da allora è diventato lo slogan della solidarietà e della tolleranza per eccellenza.
Lo si sente nelle manifestazioni per difendere gli immigrati: “Nous sommes tous des immigrés !”, o per difendere qualsiasi altra comunità a rischio di discriminazione. E qui, sentirlo strillare da padri in cappotto scuro e sguardo corrucciato, da membri del Front National venuti ‘a titolo personale’, in difesa della famiglia tradizionale e contro gli omosessuali, faceva davvero l’effetto dell’ossimoro! Più allucinante ancora, lo striscione tenuto da ragazzini tra gli otto e i quindici anni, che recitava: “Secondo le Sacre Scritture, che le presenta come delle gravi depravazioni, la Tradizione ha sempre dichiarato che gli atti omosessuali sono atti ‘intrinsecamente disordinati’”.
Non ho resistito a estrarre il mio iPhone e fotografare la scritta, sorridendo ai manifestanti, i quali mi hanno restituito il sorriso felicissimi di farsi fotografare con il loro manifesto (photogallery) ! L’altro slogan che ha invaso le strade di molte città francesi ieri (più di centomila manifestanti in tutta la Francia) è: “Sì alla famiglia, no alla ‘omofollia’”. L’omofollia è davvero una parola antipatica, perché vuole far eco all’omofilia, che è un modo neutro per descrivere la preferenza per il simile, e invece rimanda a un’associazione tra omosessualità e patologia (follia). Insomma, nella patria di Michel Foucault, fa un certo effetto...
Certo, ognuno ha il diritto di esprimere il proprio dissenso e meno male che la democrazia garantisce questo diritto, ma è davvero possibile pensare all’omosessualità come una ‘grave depravazione’ e andarlo a urlare per le strade, nella Francia socialista del 2012?
Sono rimasta stupefatta, e anche lievemente intimidita da quell’orda compatta di famiglie francesi, io, straniera, che camminavo con mio figlio piccolo per andare a fare merenda con il suo ‘fratellastro’ a casa del mio ex-partner insomma, ho avuto la sensazione che se fossi rimasta qualche minuto di più, mi avrebbero trascinata nella Chiesa più vicina per rovesciarmi in testa un po’ di acqua santa e liberarmi da tutti i miei peccati!
Matrimonio gay: no alla collusione dell’odio
Contro una “Santa Alleanza” retrograda
di Collettivo *
“Le Monde” del 18 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Non passa giorno senza che i gay e le lesbiche francesi siano pubblicamente insultati. Si potrebbe datare l’apparizione di questa aggressione permanente dal 4 febbraio 2005, quando un deputato UMP ha osato dichiarare a loro riguardo: “Dico che sono inferiori moralmente”. È stato l’inizio di una litania astiosa proseguita con una dichiarazione parallela a proposito del matrimonio gay: “E perché non delle unioni con animali?”, nel pieno dei lavori della commissione per le leggi dell’Assemblée Nationale (25 febbraio 2011).
Queste frasi hanno potuto essere pronunciate perché certe persone sono “senza complessi”. Si ritengono autorizzate a dire tutto ciò che pensano, se questo si può definire pensare. Il responsabile di questa degradazione del modo di esprimersi in pubblico è l’ex presidente della Repubblica, la cui campagna elettorale è stata caratterizzata dall’omofobia. Fin dalla sua dichiarazione di candidatura, in piena crisi mondiale, non ha parlato prima di tutto di economia, no, il primo punto da lui presentato è stato il rifiuto del matrimonio gay (11 febbraio).
Alcuni giorni dopo (19 febbraio) dichiarava che i gay “non amano la Francia”. L’idiozia di simile affermazione, considerando la storia, da Luigi XIII al maresciallo Lyautey, non ha trattenuto dal parlare un uomo che, per finire, ha schernito i gay, dicendo che sono in contraddizione nel volere il matrimonio, visto che rivendicano il “diritto alla differenza” (17 aprile). Somiglianza, differenza, qualunque cosa i gay e le lesbiche dicano, hanno torto. Peggio, non ne hanno il diritto. Visto che glielo si rifiuta.
Non bisogna quindi sorprendersi del fatto che i discendenti politici del “sarkozysmo” si siano scatenati all’annuncio del progetto di legge timidamente definito “matrimonio per tutti”, come se le parole gay e lesbica fossero vergognose. Durante il dibattito per la presidenza dell’UMP, Fillon ha dichiarato la sua “opposizione totale al matrimonio omosessuale”,seguito da Copé che ha affermato che “non celebrerà nessun matrimonio omosessuale” (25 ottobre). Tre giorni dopo, lo stesso Copé ha pensato di organizzare delle manifestazioni contro il matrimonio gay.
Si è unita a lui su questo punto quella che alcuni hanno soprannominato sua sorella di latte, Marine Le Pen (1° novembre), che ha poi chiesto un referendum sulla questione (4 novembre); la prossima proposta sarà la gogna? L’offesa è non solo quotidiana, ma pluriquotidiana: lo stesso 4 novembre il deputato Laurent Wauquiez prometteva l’abrogazione se la destra tornasse al potere. Il 5, la deputata Valérie Pécresse prevedeva l’annullamento dei matrimoni. La crescente forza dell’insulto politico è manifestata molto bene dal numero dei deputati e dei senatori UMP che hanno firmato una petizione contro il matrimonio gay: erano 82 nel gennaio 2012, e 180 in ottobre.
Da dove arriva l’idea che il matrimonio gay metterebbe in pericolo la Francia? I dieci paesi del mondo in cui esiste hanno forse visto orde di gay e di lesbiche dipingere di rosa le statue de grandi? David Cameron che dice: “Sono a favore del matrimonio gay perché sono conservatore” (10 ottobre) è forse un cattivo britannico? Un cattivo conservatore? Un cattivo uomo? Barack Obama, che, nel suo discorso di elezione, ha dichiarato: “Che voi siate (...) gay o eterosessuali, potete realizzarvi in America” (7 novembre), vuole forse la distruzione della civiltà occidentale?
I politici francesi che fanno quelle dichiarazioni demagogiche, solleticano un elettorato che dovrebbero invece educare. François Mitterrand ha ottenuto il suo status di statista affermando, mentre era candidato alla presidenza e sapeva che la maggioranza dei francesi era contraria, che avrebbe chiesto l’abrogazione della pena di morte se fosse stato eletto. Nel caso del matrimonio gay, la maggioranza della popolazione lo approva.
I rappresentanti di tutte le religioni si sono uniti nella corsa all’insulto. Il 14 settembre, il cardinale di Lione associava il matrimonio gay alla poligamia e all’incesto. Il 3 novembre era l’arcivescovo di Parigi e cardinale che, in nome della democrazia partecipativa, approvava manifestazioni contro questo matrimonio che “distruggerebbe le basi della nostra società”. Lascio a ciascuno di voi qualificare come vuole un uomo che chiama democrazia partecipativa delle manifestazioni di piazza e invita a parteciparvi, mentre il papa viene eletto da 120 cardinali che non rendono assolutamente conto ad un miliardo di fedeli.
Non insisteremo sul silenzio non partecipativo del clero quando di trattava di impedire i torrenti di pedofilia che hanno portato quasi all’annientamento delle Chiese irlandesi e statunitensi, per non parlare solo dei paesi in cui gli scandali sono diventati pubblici. Usando in maniera molto dubbia la parola “lobby”, il cardinale e arcivescovo di Parigi sa di che cosa parla, poiché, in questo caso come in molti altri, la sua Chiesa fa “lobby” in maniera accanita. Sembrerebbe che per lui “lobby” sia un gruppo che difende interessi che non gli piacciono.
Il cardinale è stato preceduto, il 19 ottobre, da venticinque pagine scritte contro il matrimonio gay dal grande rabbino di Francia e seguìto, il 6 novembre, da una dichiarazione nello stesso senso fatta dal presidente del Consiglio francese del culto musulmano (CFCM). La collusione dell’odio è così patente che il Consiglio francese del culto musulmano, che non sapevamo essere così ecumenico, rinvia, sul suo sito, agli attacchi degli altri culti. La Federazione protestante di Francia assicura che il matrimonio gay “non è un regalo da fare alle generazioni future” in una petizione firmata anche dai ministri delle Chiese luterana, greca, anglicana e armena. Occupandosi di faccende di diritto civile che non le riguardano in considerazione della separazione di Chiesa e Stato, questi culti desidererebbero forse l’unione delle Chiese e dello Stato per un migliore ostracismo dei gay e delle lesbiche?
I media riproducono questi attacchi con una premura che sembra rasentare la compiacenza. Anche qui, attacchi quotidiani contro i gay e le lesbiche, e rarissime pubblicazioni di interventi che presentano il punto di vista opposto. Il 3 ottobre, Le Figaro ha pubblicato diverse pagine contro il matrimonio gay basate sui “psi” [ndr.: psicanalisti, psicologi, ecc.], di cui invita di solito a diffidare. Ogni giorno è tornato alla carica, pubblicando ad esempio un appello di sindaci che intenderebbero “scioperare” contro una legge che non è neppure ancora stata votata. Dov’è il rispetto della legalità giustamente sostenuto da un giornale conservatore?
Il 28 ottobre, Le Monde pubblicava l’intervista di un teologo cattolico membro del Comitato consultivo nazionale di etica, diretta contro i gay: “Gli omosessuali vogliono entrare nella norma sovvertendola”. Che l’autore di un’asserzione di tale disprezzo possa essere membro di un comitato di etica è motivo di stupore. Avrà senza dubbio dimenticato le pratiche dei primi cristiani che hanno sovvertito le istituzioni dell’Impero romano fino ad impadronirsene. Tutti questi insulti non avrebbero potuto essere espressi cinque anni fa. Gli indugi del governo e il rinvio della votazione della legge fanno sì che, fino al momento del voto, gli insulti continueranno. Abbiamo deciso di non sopportarli più pazientemente. Non firmiamo petizioni di professione.
Tra noi ci sono gay, lesbiche, eterosessuali. Alcuni di sinistra, altri di destra, alcuni cristiani, altri ebrei, altri agnostici. Indipendentemente dal loro orientamento sessuale, alcuni hanno figli. Alcuni sono celibi o nubili, altri sposati. Nessuno deve render conto a nessuno sul proprio modo di vivere. La maggior parte ha avuto genitori eterosessuali e, tra loro, alcuni hanno avuto un’infanzia infelice. Non accusano di questo l’eterosessualità. Alcuni hanno genitori omosessuali e hanno avuto un’infanzia felice. Non ne attribuiscono il merito all’omosessualità. Non abbiamo i pregiudizi dei nostri nemici.
I gay e le lesbiche rendono servizi alla Francia non meno di strani teologi o politici senza idee. I populisti omofobi si rendono conto che le loro diatribe facilitano il passaggio all’azione? Che, se delle persone, che si presuppone siano responsabili, parlano in maniera irresponsabile, la brutalità si sentirà giustificata? In tutto questo, il matrimonio è un pretesto. Una volta che sarà acquisito, l’omofobia non cesserà, ed è quella che bisogna criminalizzare. Se c’è qualcosa di pericoloso in una società è la lobby della stupidità e dell’odio.
*
Collettivo
Charles Dantzig, scrittore;
Dominique Fernandez, scrittore;
Christophe Honoré, regista;
Olivier Poivre d’Arvor, direttore di France Culture;
Ludivine Sagnier, attrice;
Danièle Sallenave, scrittrice
Altri sottoscrittori del testo:
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Una riforma legittima, necessaria e progressista
Editoriale
“Le Monde” del 18 novembre 2012
(traduzione: www.finesettimana.org)
Fin d’ora, una cosa è certa: nel gennaio 2013, quando arriverà in discussione davanti al Parlamento, il progetto di legge che allarga a “due persone dello stesso sesso” il diritto di sposarsi, sarà stato oggetto di un dibattito pubblico molto approfondito.
È una cosa positiva. Infatti, al di là del codice civile, questa riforma riguarda ciascuno in ciò che ha di più intimo: la sua concezione dell’amore, della coppia, della genitorialità e della famiglia; ma anche le sue convinzioni filosofiche, morali e religiose.
Di fatto, fin dall’estate, dibattiti e scontri sono incessanti. I rappresentanti delle religioni, a cominciare dall’episcopato francese, hanno espresso con molto vigore la loro opposizione a questa riforma, che minaccerebbe, poco o tanto, i fondamenti stessi della famiglia e della società.
Altri, soprattutto psicanalisti, hanno contestato, nel diritto all’adozione, la cancellazione simbolica del padre e un “diritto al figlio” che dimenticherebbe pericolosamente i diritti del figlio. La destra, infine, non ha mancato di infiammare la polemica, nella speranza di mettere in difficoltà il governo, se non addirittura di costringerlo a rinunciare, come è successo nel 1984 per la scuola privata.
Mentre i contrari al progetto si mobilitano in questo fine settimana in tutta la Francia, è venuto il momento di ripeterlo: questa riforma - tutta questa riforma e, a questo stadio, solo questa riforma - è legittima, necessaria e progressista. Essa obbedisce, innanzitutto, ad una logica storica. Da una trentina d’anni, gli omosessuali sono passati dall’ostracismo (essendo l’omosessualità considerata nei casi migliori una malattia, nei peggiore un crimine) alla tolleranza, poi al riconoscimento, quasi all’indifferenza. In tutti i paesi occidentali, l’evoluzione dei costumi e delle mentalità è stata spettacolare.
Aggiungiamo che la famiglia non si conforma più ad un modello unico o dominante. Meno della metà delle coppie francesi sono “legali”, sposate o unite dal “pacs”. Il matrimonio stesso non obbedisce più ai motivi tradizionali di lignaggio o di religione, ma piuttosto alle esigenze e alle scelte della vita affettiva, che sono simili tra persone dello stesso sesso o di sessi diversi. La riforma risponde poi ad una necessità democratica: quella dell’uguaglianza dei diritti.
L’instaurazione dei pacs, nel 1999, ha riconosciuto legalmente la coppia omosessuale, ma l’ha esclusa dal diritto all’adozione e alla famiglia. Il progetto di legge del governo mette fine a questa discriminazione e assicura, inoltre, una migliore sicurezza per il coniuge. Come già accade in paesi diversi tra loro come la Svezia, la Spagna, la Norvegia, i Paesi-Bassi o il Belgio.
Infine, aprendo alle coppie omosessuali il diritto all’adozione (in particolare del figlio di uno dei coniugi), il progetto di legge permetterà di regolarizzare molte situazioni, raffazzonate ed incerte, che già esistono. Permetterà ai figli che hanno un solo genitore biologico ed un genitore “sociale” di avere una doppia filiazione, come gli altri bambini.
Questo dibattito è tutt’altro che anodino. È opportuno, anche per il governo, che sia portato avanti con convinzione e serenità.
Baubérot: “I veri laici non vietano il burqa”
I matrimoni omosessuali: “Non capisco il no delle Chiese: dovrebbero solo chiedere di non essere obbligate a benedirli"
Nelle scuole francesi si insegnerà la morale repubblicana
Parla il sociologo incaricato di fare proposte su come insegnarla
di Alberto Mattioli (La Stampa, 14.11.2012)
Matrimonio «per tutti» (leggi: anche per le coppie dello stesso sesso). Eutanasia. E lezioni di «morale laica» nelle scuole della République. La Francia di François Hollande si vuole di nuovo all’avanguardia nella ridefinizione di diritti e doveri del cittadino, sempre nel nome di quella «laicità» che resta uno dei grandi totem nazionali. Nella Commissione che dovrà fare proposte su come insegnare la morale repubblicana c’è anche Jean Baubérot, il fondatore della sociologia della laicità.
Professor Baubérot, i professori di «morale laica» ricordano gli istitutori di inizio Novecento, gli «ussari della Repubblica».
«È ovvio che la morale non si insegna, né si impara, come la storia o la geografia. La scuola francese è caratterizzata da un approccio troppo magistrale, con uno che parla e gli altri che ascoltano. Credo che il professore dovrà guidare la riflessione più che imporla. Insegnare a pensare, non dei dogmi».
Ammetterà che l’idea sa un po’ di Stato etico.
«Sì, il rischio c’è. Ma è appunto quel che bisogna evitare. La Commissione ci sta lavorando. E tuttavia, se siamo contrari al fatto che possa esistere un sistema morale di Stato, siamo anche contro l’idea che il legame sociale non abbia una dimensione etica. I francesi non stanno insieme per caso e nemmeno per coercizione. Si riconoscono in una serie di valori che sono poi quelli elencati nel Preambolo della Costituzione».
Cosa critica del concetto francese di laicità?
«Dal 1905, da quando cioè la legge sancì la separazione dello Stato dalla Chiesa, la laicità è stata eccessivamente intesa come una separazione netta tra il fenomeno sociale e quello spirituale. Ma lo Stato è solo un arbitro e non deve chiedere alla gente di essere neutrale come lui, né nelle sue convinzioni né nei suoi vestiti. La legge che vieta il burqa è discutibile perché è una legge che vieta il velo integrale sempre e comunque. Per lo Stato, invece, che una musulmana giri velata non è un problema. È un problema, e dev’essere vietato, se pretende di riscuotere un assegno velata. Ma questo è un problema pratico, non metafisico».
La legge sul matrimonio per tutti le piace?
«Trovo che sia un vero provvedimento laico. E non capisco l’obiezione delle Chiese. Dovrebbero prendere esempio da quel che ha detto l’arcivescovo di Canterbury, a capo, noti bene, di una Chiesa di Stato: io ammetto che esistano le nozze gay, solo chiedo che lo Stato non mi obblighi a benedirle. Se uno aderisce a una religione, ne accetta le regole. In altri termini, lo Stato garantisce a tutti la libertà esterna, non quella interna. Se una donna si converte all’Islam in piena libertà, senza coercizione e senza violenza, accetta delle regole. Se è una sua libera scelta, lo Stato non deve entrarci. Ha solo il diritto, e il dovere, di promuovere l’eguaglianza. Ma nessuno può essere “emancipato” contro la sua volontà».
Molti sindaci fanno sapere che si rifiuteranno di celebrare i matrimoni gay. Che ne pensa?
«Penso che vada riconosciuto loro il diritto all’obiezione di coscienza, esattamente come ai medici per l’aborto. Ma devono delegare i loro poteri a un assessore, perché esiste, anzi esisterà presto, anche il diritto di tutti a sposarsi».
In nessun Paese del mondo come la Francia la laicità appassiona tanto l’opinione pubblica. Perché? «Per due ragioni. La prima è storica: qui il conflitto politico-religioso è durato secoli. Pensi al Medioevo con le crociate contro gli eretici, Filippo il Bello e il suo conflitto con Roma, il Papa ad Avignone, il gallicanesimo. Poi: quarant’anni di guerre di religione, la persecuzione dei protestanti e dei giansenisti, la Rivoluzione che prima riconosce la libertà religiosa e poi perseguita le religioni, eccetera».
E l’altra?
«L’altra è che anche oggi i temi religiosi hanno un significato politico. Come la grande paura dell’Islam e la strumentalizzazione della laicità per mascherarla. Ma l’Islam radicale è assolutamente minoritario. E, ad esempio, non è vero, come uno studio recente ha dimostrato, che i musulmani siano più prolifici che gli altri francesi. Io vorrei una “laicità del sangue freddo”, come la definiva già Aristide Briand».
L’ITALIA INFLUENZATA DAL VATICANO
«Sulle nozze per tutti e i diritti dei gay è più indietro di altri Paesi cattolici come Spagna o Belgio». Ultima domanda sull’Italia: lo definirebbe un Paese laico?
«Credo che in Italia ci siano degli elementi di laicità diffusi, come si è visto quando si è votato sul divorzio e sull’aborto. Ma certo l’Italia deve fare i conti con la sua storia e sulla sua posizione geopolitica. È chiaro che il fatto di avere il Vaticano “in casa” influenzi le scelte politiche. E infatti in materie come il matrimonio per tutti o i diritti degli omosessuali l’Italia è molto più indietro di altri Paesi pure cattolici come la Spagna, l’Argentina o il Belgio. Quindi a domanda risponderei: l’Italia è un Paese semilaico».
L’alterità sessuale sopravviverà
di Irène Théry, direttrice di studi a EHESS (École des Hautes Études en Sciences Sociales)
in “Le Monde” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Impegnandosi a trasformare due istituzioni fondamentali come il matrimonio e la filiazione, la nuova maggioranza ha alzato di molto la posta in gioco. Lo ha fatto pensando che l’essenziale si gioca attorno ad una certa idea non più solo di ciò che riguarda “loro”, gli omosessuali (la loro situazione, le loro aspirazioni, i loro diritti), ma proprio di ciò che riguarda “noi”, che facciamo società comune al di là delle pluralità dei nostri orientamenti sessuali.
Ma forse non aveva valutato il grande spostamento di prospettiva che stava introducendo: dal problema della sessualità al problema dei sessi. Ancora ieri, si poteva credere che “l’uguaglianza delle sessualità”, opponendo gli eterosessuali agli omosessuali secondo il vecchio schema dominanti/dominati, sarebbe stato sufficiente per introdurre la retorica ben rodata della lotta alle discriminazioni.
Oggi, non si tratta certo di negare che esiste una fortissima sensazione di disuguaglianza nelle coppie dello stesso sesso. Ma per comprenderne le ragioni profonde, occorre riconoscere che opporre eterosessuali e omosessuali non permette appunto di pensare ciò che trascende queste categorie identitarie: la nostra condizione comune di esseri sessuati e mortali.
Per questo, ormai, il cuore del dibattito è il grande problema dei sessi. È al centro dell’interrogativo di coloro che si preoccupano: ci stanno dicendo che non c’è più né padre né madre, ma un “genitore” in qualche modo asessuato? Polarizza gli anatemi di coloro che stigmatizzano l’omogenitorialità: “Si vuole distruggere la differenza dei sessi! È un crimine contro la nostra condizione antropologica!”. Ma rode anche coloro che, impegnati a promuovere i diritti delle famiglie omogenitoriali, scoprono che esse interrogano necessariamente quelle categorie che si credevano così semplici: il padre e la madre.
È qui che il dibattito degli esperti “psi” (psicologi, psicanalisti, psichiatri) assume tutta la sua importanza. Dieci anni fa sono stati loro a porre per primi il problema dei sessi, a rischio di non essere compresi, o di essere trattati da omofobi. Oggi, questo dibattito ha conquistato la sua legittimità, ed è chiaro che le divisioni dei clinici esprimono in realtà quelle della società intera. L’interesse per il loro dibattito deriva dal fatto che mette in scena in maniera radicale l’opposizione tra le due vie tra le quali dobbiamo scegliere. Riguarda due casi precisi: l’adozione e l’assistenza medica alla procreazione (AMP) con un terzo come donatore, ossia i casi in cui, per ipotesi, la coppia dei genitori non è quella di coloro che hanno procreato.
La prima via riconduce all’opposizione radicale tra “noi” e “loro” con una messa sotto accusa senza precedenti dei genitori omosessuali. Che cosa abbiamo potuto leggere in queste ultime settimane in testi scritti da coloro (esperti “psi”, ma anche rappresentanti religiosi) che denunciano il “delirio” della “omogenitorialità”? Sempre la stessa idea. Le coppie dello stesso sesso che rivendicano l’adizione o AMP vogliono soddisfare una loro fantasia: far credere al figlio che è “nato” dalla loro unione sessuale. Sottolineiamo l’uso ripetuto di questo termine, “nato”: è la parola chiave.
Certo, gli esperti “psi” non vogliono dire che gli omosessuali nasconderebbero al figlio il modo in cui è avvenuto il concepimento. Ma ciò che scrivono nero su bianco è proprio che questa pretesa “onestà” rende solo più perversa (nel senso freudiano del termine) la loro fantasia segreta: sconvolgere l’istituto della filiazione per abolire simbolicamente la natura, e cancellare l’alterità sessuale al punto da negare che un terzo dell’altro sesso sia stato necessario nel concepimento del loro figlio.
Il tono virulento di coloro che ci predicono la distruzione del soggetto occidentale se la nostra società cedesse a tale richiesta “folle” è all’altezza dell’accusa rivolta: niente di meno che la “negazione del reale” e la volontà feroce e ingenua di privare i figli dell’iscrizione simbolica nella distinzione maschile/femminile, fino ad ora incarnata dalla coppia immemorabile del padre e della madre.
Ma il dibattito degli esperti “psi” testimonia anche che è possibile un’analisi completamente diversa. Quella che comincia col riconoscere che sono proprio le coppie dello stesso sesso a non avere la tentazione di fare come se avessero procreato insieme il loro figlio adottato o nato da AMP. Invece, questa tentazione esiste nelle coppie genitoriali tradizionali, tanto più che subiscono una vera ingiunzione sociale del “fare come se”. In effetti, l’adozione fu costruita all’inizio come una “seconda nascita” che aboliva la prima.
Per molto tempo, si è trovato normale nascondere l’adozione al bambino, a cui era negato l’accesso al suo “dossier”. E solo recentemente alcuni bambini adottati hanno osato esprimere la sofferenza prodotta dalla cancellazione delle loro origini.
Quanto al modello francese di AMP con terzo donatore, va ancora più in là nella falsificazione della realtà: il principio legale di questo sistema infatti è quello di “far sparire” il dono e far passare la coppia dei genitori riceventi per una coppia procreatrice... Con il rischio di dire in seguito ai figli nati dal dono: “Le cose stanno così, non c’è che accettarle”.
Rifiutare di fare delle coppie dello stesso sesso i capri espiatori di queste contraddizioni e saper tornare al “noi” del nostro mondo comune: è questa la via che difendono coloro che - esperti “psi” o no - sono attenti alle grandi evoluzioni della famiglia.
Essa presuppone di vedere qual è la grossa posta in gioco. L’istituzione di un’adozione o di una AMP omogenitoriale, con un figlio con due padri o due madri, non priverà questo figlio né della simbolizzazione dell’alterità sessuale né dell’iscrizione comune nella distinzione maschile/femminile, se la nostra società sarà capace di trasformare queste istituzione a favore di tutti.
Ciò che noi dobbiamo infatti a tutti i bambini adottati o nati da AMP, indipendentemente dalla coppia dei loro genitori, è rispettare in priorità ciò che Paul Ricoeur chiamava l’identità narrativa: “Rispondere alla domanda chi, significa raccontare una storia.” Quando il nostro sistema di genitorialità farà spazio, accanto alla filiazione e senza alcuna rivalità con essa, alla possibilità - per ogni figlio maggiorenne che lo desideri - di accedere alla propria origine personale, si cesserà infine di pretendere che si può essere pienamente “genitori” solo se si può passare per “procreatori”. Si vedrà allora che il problema dei sessi si è fatto più complesso, valorizzando come non mai l’impegno genitoriale, base della filiazione, senza negare comunque la storia del bambino. Ma si comprenderà soprattutto che la nostra condizione comune, sessuata e mortale, ha trovato con questa metamorfosi un nuovo senso e un nuovo prezzo. Per tutti.
“Gli psicanalisti devono ascoltare i loro pazienti e non dire la norma”
intervista a Caroline Thompson,
a cura di Nicolas Truong
in “Le Monde” del 9 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Gli esperti “psi” (psicologi, psichiatri, psicanalisti...) si sono trovati un po’ intrappolati dalla mania di concepire i problemi di società in termini di “a favore o contro”. Ora, una delle forze degli psicanalisti è di avere una posizione più arretrata rispetto all’alternativa del “a favore o contro”. Quando ascoltiamo ciò che ci dice un paziente, non siamo a favore o contro, ma in una neutralità rispetto al contenuto di ciò che può dire. Possiamo sentire cose molto scioccanti, affermazioni razziste, sessiste, fantasie di grande violenza... Non siamo lì per dire “Questo è bene” o “ Questo non è bene”.
È la specificità del nostro mestiere: non essere espressione di una norma. Gli esperti “psi” sono stati attirati come calamite verso ciò che ritenevano di loro competenza, ossia il benessere del bambino e la struttura della famiglia, e il modo in cui questa struttura realizzava l’universo psichico e l’universo del bambino. Ma questo ha immediatamente creato un discorso normativo e paternalista.
È così a causa di una storia complicata tra la psicanalisi e l’omosessualità?
L’omosessualità era considerata come una perversione da Freud, in un senso più medico, certo, della
perversione come la si può intendere oggi quando si dice di un individuo: “È un perverso”. Ma è
comunque per lui una devianza, nel senso etimologico del termine, cioè che la sessualità “normale”
perché per Freud c’è una sessualità normale - è deviata dal suo oggetto e si dirige verso lo stesso
sesso, cioè un oggetto diverso dall’oggetto “normale”, che dovrebbe essere la persona di sesso
opposto. Per Freud, l’omosessualità è una devianza di uno sviluppo normale.
Quindi una forma di patologia?
Freud ritiene che l’omosessualità crea delle personalità più infantili o più narcisistiche. E occorre ricordare che fino agli inizi degli anno 80 - anche se non lo si diceva in questo modo - non si era analisti se si era omosessuali. Si nascondeva la propria omosessualità se si voleva diventare analisti, perché si riteneva che un analista omosessuale non avrebbe potuto analizzare bene il transfert. Non si tratta di incriminare Freud, che è stato un geniale esploratore dell’animo umano. Ma non per questo tutto quello che ha fatto è geniale.
C’è un corpus freudiano molto interessante per gli psicanalisti che possono servirsene come un riferimento, ma non certo come delle tavole della legge. Con Freud, si ha la realizzazione di un corpus clinico ancora utile. Ma certi psicanalisti fanno fatica a far entrare la nuova famiglia nel corpus freudiano (sulla genitorialità o sul complesso di Edipo, in particolare). Ne traggono le conclusioni che si debba bloccare il cambiamento familiare e sociale. Ma dimenticano che Freud ha cominciato osservando ciò che c’era attorno a lui, lasciando da parte il giudizio morale. Ma certi psicanalisti dicono che l’omogenitorialità cancellerebbe l’alterità, farebbe scomparire il ruolo del padre e della madre e costituirebbe un attacco all’equilibrio psichico dei bambini.
Questi argomenti sono accettabili?
È vero che il problema della differenza è fondamentale per lo sviluppo dello psichismo del bambino. Nella psicanalisi, questa differenza si fa su quella dei sessi e delle generazioni. La differenza delle generazioni esiste nell’omogenitorialità: non sono persone di 5 anni che adottano persone di 4 anni, sono degli adulti che adottano dei bambini. È evidente che un uomo e una donna sono differenti. Ma Freud ha anche parlato molto della bisessualità psichica - ogni essere è maschile e femminile - spiegando che c’era una differenza tra il maschile e il femminile biologici, esteriori, e il maschile e il femminile psichici, che sono di ordine diverso.
Si riduce il complesso di Edipo ad una realtà esteriore e sociale: un uomo, una donna, papà, mamma... Ora, spesso, i padri che vengono immaginati non sono i padri della realtà biologica. Quindi, quando si dice che occorre avere un padre e una madre per fare un Edipo, penso che questo non corrisponda alla realtà e che, del resto, non è buon freudismo.
Ci potrebbero quindi essere dei “padri” e delle “madri” all’interno delle coppie dello stesso sesso?
In una coppia in cui ci sono due uomini, penso che ci sia in effetti uno dei due che può rappresentare una parte femminile, ma che la femminilità e la mascolinità non si ritrovano necessariamente nella donna biologica e nell’uomo biologico. Quindi due uomini possono offrire ad un bambino quella variazione. Non è perché sono due uomini che ogni differenza viene cancellata. Non si può legare tutto al genere. Nelle coppie di omosessuali, c’è anche una divisione dei compiti: non è perché si è due uomini o due donne che si è identici e a specchio. Anche se è una visione caricaturale dei generi, si vede bene, per esempio, che una si occuperà di portare fuori la spazzatura, mentre l’altra laverà i piatti! Il principio di differenziazione che struttura un bambino può realizzarsi senza fondarsi sulla differenza dei sessi dei genitori.
L’omogenitorialità può turbare lo sviluppo psichico del bambino?
Per definizione, vediamo bambini in difficoltà, indipendentemente dal fatto che siano figlie o figli di eterosessuali o di omosessuali. Non ho visto per il momento una patologia specifica di figli di omosessuali. Ma penso di non essere io più abilitata dei miei colleghi a farne una regola generale per il momento. E sfido chiunque a farlo. Sì, stiamo vivendo un vero cambiamento antropologico, che si inscrive nella continuità della costruzione dell’individuo contemporaneo, che può decidere di tutto da solo, anche della propria sessualità.
Penso quindi che l’argomento che consiste nel dire “Ma quei bambini saranno traumatizzati perché saranno disprezzati dalla società quando andranno a scuola”, è poco accettabile, perché c’è un cambiamento di mentalità nei confronti dell’omosessualità. E il ruolo degli psicanalisti è di accompagnarlo.
Caroline Thompson, psicanalista e terapeuta familiare, servizio di psichiatria del bambino e dell’adolescente della Pitié-Salpêtrière
No ad una Chiesa che agisce come una lobby contro il matrimonio omosessuale!
di William Marx e Gilles Philippe*
in “Le Monde” del 7 novembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Poiché il cardinale André Vingt-Trois invita i fedeli cattolici a scrivere agli eletti per partecipare al dibattito sull’apertura del matrimonio alle coppie dello stesso sesso, noi abbiamo il dovere di metterli in allerta sulle vere intenzioni della Chiesa. Anche se infatti è legittimo che un’istituzione religiosa intervenga in questa discussione, bisognerebbe però sapere ciò che chiede veramente e chi rappresenta.
A voler credere ai vescovi, si tratterebbe solo di opporsi ad una deriva demagogica riguardante il solo matrimonio, ed ogni accusa di omofobia è rifiutata con indignazione: non si tratterebbe affatto di colpire i diritti esistenti degli omosessuali.
Ma ne siamo proprio certi? Se si vuole veramente sapere ciò che vogliono i vescovi, non bisogna concentrarsi sui loro appelli alle Scritture e ad una argomentazione di ordine antropologico non pertinente. La Bibbia è del tutto priva di autorità in una repubblica laica, e inoltre ignora totalmente l’amore omosessuale, conosce solo degli atti carnali che punisce con la morte. Se bisogna ispirarsi ad essa per condannare l’omosessualità, castighiamo anche chiunque “giaccia con una donna che ha le mestruazioni”, e facciamo della donna un semplice “aiuto” per l’uomo, come proclama la Genesi. Nelle Scritture non c’è alcun modello familiare valido per noi oggi. Quanto agli argomenti antropologici, la famiglia come la conosciamo esiste solo da due secoli al massimo, e la Chiesa l’ha messa al centro del suo messaggio da meno tempo ancora.
Per sapere ciò che i vescovi vogliono veramente, basta leggere ciò che hanno già scritto sull’argomento.
Non dimentichiamo che nel 1999 avevano dichiarato guerra al progetto di unione civile e avevano seguito strettamente una istruzione vaticana del 1992 che condannava l’omosessualità come “comportamento per il quale nessuno può rivendicare un qualsiasi diritto” né qualsiasi “legislazione civile” tale da proteggerla. Non dimentichiamo che nel 2003 questa condanna è stata ripetuta dalla Santa Sede.
“gruppo di oppressione”
Non dimentichiamo che l’istruzione del 1992, ancora in vigore, vuole proibire agli omosessuali di occupare posti di insegnante, di allenatore sportivo o di militare. Non dimentichiamo che nel 1991 il catechismo dei vescovi francesi ha dichiarato “malata” una società “che pretende di riconoscere l’omosessualità come una cosa normale”. Non dimentichiamo che nel 2005, in totale contraddizione con il precetto pastorale che distingue gli atti dalle persone, il Vaticano ha rifiutato il sacerdozio agli omosessuali, anche se vergini e casti.
Non dimentichiamo che nel 2008 lo stesso Vaticano è stato il solo Stato occidentale a non firmare la dichiarazione sottoposta all’ONU dalla Francia, che chiedeva “che i diritti umani fossero applicati allo stesso modo ad ogni essere umano, indipendentemente dall’orientamento sessuale o dell’identità di genere”.
Non dimentichiamo che nel 2011 i vescovi americani si sono levati contro la soppressione della regola che obbligava i militari a nascondere il loro orientamento omosessuale sotto pena di espulsione. Non dimentichiamo che in Camerun, dove l’omosessualità è ancora considerata un reato, l’episcopato continua con l’accordo tacito della Santa Sede ad opporsi alla sua depenalizzazione, nonostante i crimini e gli arresti sordidi di cui in quello Stato sono vittime gli omosessuali.
È forse il Camerun che i vescovi francesi vogliono proporre come modello legislativo al nostro paese? Purtroppo, tutto lo fa pensare: ecco gli annessi e connessi del dibattito richiesto dalla Chiesa. Nella migliore delle ipotesi, nel mondo ideale da lei sognato, gli omosessuali, condannati alla continenza, non si dichiarerebbero mai pubblicamente e vivrebbero nella più totale solitudine e nella menzogna più completa.
Certo, la maggior parte dei fedeli fa una lettura diversa del Vangelo e non seguiranno la gerarchia su questa strada. Poco importa alla Chiesa, tuttavia, poiché chiede un dibattito all’esterno, ma lo rifiuta all’interno: è un mese che chiediamo di incontrare il parroco della nostra gentile parrocchia parigina per discutere di questi temi - invano. Come se gli omosessuali non fossero fedeli degni di questo nome e come se la Chiesa, che nega loro ogni esistenza al suo interno, preferisse parlare di loro piuttosto che parlare loro direttamente.
Invece, invita i cattolici a scrivere ai loro eletti per esprimere la posizione della gerarchia. Ma questa democrazia da cui i vescovi vogliono trarre profitto, non la vogliono per loro stessi: non dimenticate che loro non vengono eletti. Allora, è legittimo accordare la minima importanza ad un simile “gruppo di oppressione”?
*William Marx è saggista, professore l’università Paris-Ouest-Nanterre-la Défense;
Gilles Philippe è linguista, professore all’università di Losanna
di Franca Giansoldati *
CITTA’ DEL VATICANO - I vescovi francesi sono sul piede di guerra. L’idillio con il governo socialista di Hollande sembra finito tanto che all’orizzonte si profila una battaglia piuttosto aspra. Il 24 ottobre verrà presentato in Consiglio dei Ministri un progetto di legge che permetterà alle coppie omosessuali di sposarsi e adottare bambini a partire dal «primo semestre 2013», come spiegato anche il primo ministro Ayrault alcune settimane fa in Parlamento, confermando così una delle grandi promesse elettorali del presidente socialista Hollande. La reazione dell’episcopato non si è fatta attendere. E la bordata è durissima.
A scendere in campo per primo è stato il presidente dei vescovi, il cardinale di Lione, Barbarin che ha tuonato contro quella che ha definito «una rottura per la società». Una vera disgrazia anche perché potrebbe addirittura condurre i legislatori ad ammettere la «poligamia» e, forse, a bandire il divieto «all’incesto». I cattolici si stanno mobilitando seriamente per fermare una legge che, secondo loro, «annienterà in un colpo solo le culture e i secoli». A distanza di poco un altro vescovo, Dominique Rey ha fatto capire che la Chiesa non starà di certo a guardare lo scempio ma, anzi, inizierà a lavorare per un referendum. «Un referendum deve essere predisposto per permettere in Francia un dibattito vero, affinché il governo non resti alla mercé delle lobbies», aggiungendo che la maggioranza dei francesi a tal proposito mantiene una visione tradizionale e sicura. L’errore per i vescovi è di restare zitti. Perché, ha spiegato il prelato, i matrimoni gay porterebbero ad una «mutazione antropologica tale da mettere in discussione l’ordine naturale delle cose».
L’argomento è scottante. Già due anni fa i vescovi d’Oltralpe, piuttosto preoccupati per l’avanzata del progetto legislativo, avevano mandato alle stampe un documento per dire ’no’ all’adozione di bambini da parte delle coppie dello stesso sesso. «Lo sviluppo e la maturazione di un bambino richiede la presenza di un padre e di una madre» e che nella prospettiva di far crescere un bambino in una coppia omosessuale «bisognerebbe almeno applicare il principio di precauzione». Nella nota, i vescovi criticavano anche il tentativo di sostituire in un testo di legge i termini «padre e madre» con un più generico «genitori». Il vescovo di Rouen, Jean-Charles Descubes ribadiva che «l’interesse superiore dei bambini dovrebbe guidare le decisioni politiche e amministrative».
Carlo Maria Martini
di Henri Tincq
in “Le Monde” del 6 settembre 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Con il cardinale Carlo Maria Martini, morto venerdì 31 agosto a Gallarate (Lombardia) all’età di 85 anni, scompare una delle figure più brillanti e stimate della Chiesa cattolica. Esegeta di fama mondiale, rettore a Roma dell’Istituto biblico e in seguito della prestigiosa università gregoriana, questo gesuita, nato a Torno il 15 febbraio del 1927, entrato nella Compagnia di Gesù nel 1944, ordinato prete nel 1952, era stato nominato da Giovanni Paolo II, nel 1979, arcivescovo di Milano, la più grande diocesi del mondo, dalla quale diede le dimissioni nel 2002, per ragioni di età e di salute.
Il carisma singolare di quest’uomo non si riduceva all’immagine di capo dell’ala “progressista”. Personalità di spiritualità profonda, autore di una sessantina di opere (commentari biblici e meditazioni), di predicazioni e di conferenze che sono risuonate a Milano e nel mondo, esigerà sempre dalla sua Chiesa “il coraggio della riforma”.
Moltiplicherà i gesti di riconciliazione tra “fratelli” cristiani separati, e intraprenderà una relazione filiale con il popolo ebraico. Aveva espresso la volontà di essere sepolto a Gerusalemme, dove si era ritirato dopo le dimissioni. Sollecitato dai media italiani, l’arcivescovo di Milano diventa un protagonista sulla scena politica. Isolato nell’episcopato, contribuisce all’apertura, negli anni 80, di un cattolicesimo sino ad allora identificato in Italia con la sola Democrazia Cristiana.
Sostiene il pluralismo, evitando qualunque forma di riaffermazione identitaria, qualsiasi iniziativa tendente ad una riconquista di influenza cattolica: “Vogliamo essere solo noi stessi, al servizio di una società, e senza fare torti a nessuno”. Da quel momento, incarnerà un’alternativa riformatrice ai vertici della Chiesa. Non cesserà più di portare come un fardello una reputazione, abbondantemente sopravvalutata, di oppositore numero 1 a Giovanni Paolo II e di potenziale successore. Se le sue relazioni con il papa polacco sono eccellenti, Carlo Maria Martini non manca però di solidi avversari. L’Opus Dei, Comunione e liberazione e altri gruppi, italiani e stranieri, che premono per una riaffermazione autoritaria del cattolicesimo, a lungo hanno paventato che potesse succedere a Giovanni Paolo II.
Dal 1987 al 1993 presiede la Conferenza dei vescovi europei, divenendo uno dei protagonisti della reintegrazione delle Chiese dei paesi dell’Est ex-comunista e animando, nel 1988, il primo incontro ecumenico di Basilea. Ed è durante il sinodo europeo del 1999 in Vaticano che esprime il “sogno” di “un confronto universale di tutti i vescovi” - la parola “concilio” non è pronunciata, ma tutti la pensano - per ridar vigore alla Chiesa del XXI secolo e “sciogliere certi nodi disciplinari e dottrinali che riappaiono continuamente come punti caldi” di contestazione e intralciano il cammino della Chiesa.
Il cardinal Martini pensa al posto limitato delle donne, alla crisi del clero, alla distribuzione dei compiti tra preti e laici, alla proibizione di accedere ai sacramenti per i divorziati risposati. Nel 1997, aveva auspicato che “un futuro concilio riveda tutta la questione” dell’accesso delle donne al sacerdozio. L’obbligo del celibato dei preti non è per lui “un dogma di diritto divino”. L’ordinazione di uomini sposati può essere anche “ una possibile risposta per delle regioni in profonda crisi”, affermava in un’intervista a Le Monde nel 1994.
La voce del cardinal Martini è dunque quella di un uomo libero che chiede che siano dibattuti collettivamente temi ritenuti tabù, che la Chiesa restauri una vera pratica della “collegialità” (equilibrio di poteri tra sede romana e vescovi locali). Se la chiesa è rispettata per la sua lotta a favore dei diritti umani, spiega, il fossato che la separa dalla cultura moderna è dovuto al suo funzionamento, ancora segnato dall’ “intransigentismo” del XIX secolo, che lascia poco spazio al dibattito interno.
In un intervista postuma, pubblicata sabato 1 settembre dal Corriere della Sera, afferma: “La Chiesa è stanca. La nostra cultura è invecchiata, le nostre case religiose sono vuote e l’apparato burocratico della Chiesa lievita. I nostri riti e i nostri abiti sono pomposi. La Chiesa è rimasta indietro di 200 anni. Abbiamo paura?” Il cardinale lascia in eredità questo ultimo consiglio: “La Chiesa deve riconoscere i propri errori e deve percorrere un cammino radicale di cambiamento, cominciando dal papa e dai vescovi. A cominciare dalle domande poste dalla sessualità e dal corpo”.
Una chiesa povera e umile
Carlo Maria Martini deplorava infatti da molto tempo la rottura, sulle questioni di etica sessuale, tra la chiesa da un lato e scienziati e coppie dall’altro. “Se le nostre posizioni vengono percepite come minacce, proibizioni, condanne, è perché noi non facciamo sforzi sufficienti per far comprendere ciò che è veramente in gioco e sostanziale”, affermava ancora nel 1994 a Le Monde. Sottolineava volentieri “gli sviluppi negativi e infelici” dell’enciclica Humanae vitae sulla regolazione delle nascite, pubblicata nel 1968 da Paolo VI. “Decidere in solitudine su temi come la sessualità e la famiglia” non è mai una cosa buona, faceva osservare, e auspicava una nuova enciclica su quel tema. Nel suo libro del 2008 Conversazioni notturne a Gerusalemme il tono è calmo e lucido. “Ho sognato”, confessa in una sorta di testamento spirituale, “una Chiesa povera e umile che non dipende dalle potenze di questo mondo. Una Chiesa che dona coraggio a coloro che si sentono piccoli e peccatori”.
Durante il conclave dell’aprile 2005 che segue la morte di Giovanni Paolo II, il cardinal Martini incarna le speranze degli ambienti progressisti. Le possibilità di essere eletto sono minime, a motivo dell’età e del morbo di Parkinson, ma anche perché i cardinali elettori che, come lui, non si rassegnano all’opzione conservatrice, sono fortemente minoritari. Il cardinale Ratzinger, sul cui nome il cardinal Martini chiede alla fine del conclave di far convergere i voti, è eletto con il nome di Benedetto XVI. Quest’ultimo gli renderà visita a giugno.
Durante i funerali del cardinal Martini, celebrato lunedì 3 settembre a Milano, il papa, in un messaggio letto all’inizio della messa, ha reso omaggio a un “servitore infaticabile del Vangelo e della Chiesa”, che “che non ha solo studiato le Sacre Scritture ma le ha amate intensamente”.
Chi ha paura dei corsi di morale laica?
di Michela Marzano (la Repubblica, 4 settembre 2012)
Si può insegnare la morale come si insegna la grammatica o l’aritmetica? Spetta alla scuola pubblica spiegare ai cittadini di domani “cosa è giusto”, oppure uno stato liberale non dovrebbe permettersi di intervenire nell’ambito del “bene” e del “male”?
In Francia, in questi ultimi giorni, il dibattito sulla morale a scuola è estremamente vivo. Visto che, prima dell’inizio del nuovo anno scolastico, il ministro dell’Educazione Vincent Peillon ha detto che il compito della scuola non può più essere solo quello di trasmettere una serie di nozioni, ma anche quello di educare all’etica, per permettere ai più giovani di capire che «alcuni valori sono più importanti di altri: la conoscenza, l’abnegazione, la solidarietà, piuttosto che i valori del denaro, della concorrenza e dell’egoismo».
E così il linguaggio dei valori, rifiutato per anni dalla sinistra in quanto sinonimo di un ritorno all’ordine morale, fa la sua comparsa “scandalosa”. Provocando polemiche. Rilanciate, all’indomani delle dichiarazioni di Peillon, dall’ex-ministro del governo sarkozista Luc Chatel, che accusa il socialista di utilizzare argomenti “ pétainistes”. Chiedere alla scuola di inculcare nei giovani la morale, perché il risanamento di una nazione non può essere solo materiale, ma anche spirituale, significa, per Chatel, fare un passo indietro nella storia: solo il Maresciallo Pétain, negli anni 1940, aveva osato fare dichiarazioni di questo genere.
Come se parlare di decadenza spirituale fosse all’appannaggio della destra. Oppure della Chiesa. Visto che anche da parte del mondo cattolico si sono sollevate alcune obiezioni, per paura che questi famosi valori da insegnare non siano in conformità con il magistero della Chiesa. Ma di quale morale stiamo allora parlando?
Per Peillon, la sola morale che la scuola può insegnare è una “morale laica”. Non si tratta di tornare alle nozioni tradizionali di “patria” e di “famiglia”, né ai concetti di “ordine” e di “disciplina”, ma solo di stimolate la capacità di ragionare, di dubitare e di criticare dei più giovani. È per questo che a scuola si dovrebbe tornare a parlare di libertà, di rispetto, di dignità e di giustizia. Come non dar ragione al ministro dell’educazione, quando si sa che anche solo per formulare correttamente un giudizio critico si devono avere alcune basi? Certo, all’era dell’autonomia individuale, qualunque forma di ritorno al paternalismo sarebbe incongrua. Non si tratta di dare agli studenti un breviario delle azioni da compiere e di quelle da evitare, né di insegnare cosa si debba o meno pensare della vita, della morte, o della sessualità. Si tratta solo di spiegare il significato preciso dei valori che giustificano l’agire umano. Nozioni come il rispetto, la dignità, la responsabilità o la libertà, che sono alla base di ogni etica pubblica contemporanea, non possono essere utilizzate a casaccio. Ognuna di loro ha una propria “grammatica”; per utilizzarle correttamente si devono conoscere le regole del gioco linguistico.
Ecco quale è lo scopo della scuola oggi: insegnare di nuovo ad utilizzare correttamente le parole della morale per permettere l’organizzazione del “vivere-insieme”; evitare che alcuni radicalismi religiosi interferiscano nella sfera pubblica; alimentare il dibattito democratico, senza che la violenza prenda il posto della critica. Esattamente il contrario di ciò che voleva fare Pétain. Ma anche l’opposto di quello che sognerebbero oggi i nuovi integralisti della morale.
La Chiesa resta troppo rigida rispetto al matrimonio gay
Editoriale ("Le Monde”, 16 agosto 2012 -traduzione: www.finesettimana.org)
Quando l’episcopato cattolico, due anni fa, si è espresso con forza contro il discorso di Grenoble del presidente Sarlozy sui rom, tutti o quasi hanno ritenuto che la Chiesa fosse fedele alla propria vocazione. Quando i vescovi francesi, a più riprese, hanno espresso la loro preoccupazione per le minacce che la crisi fa pesare sui poveri e sui diseredati, nessuno l’ha accusata di andare oltre la sua missione.
Sembrerebbe quindi un atteggiamento ipocrita, oggi, indignarsi per il fatto che il cardinale André Vingt-Trois chieda ai cattolici, nel giorno della festa dell’Assunta, di elevare una preghiera nazionale in cui si esortano i responsabili politici ad operare per il “bene comune”. E ci sarebbe anche una certa leggerezza nell’offendersi sentendo il presidente della Conferenza episcopale francese dichiarare che la Francia è stata “posta sotto il patronato della Vergine Maria”, visto che è ciò che egli pensa. E ci sarebbe ipocrisia, anche, nel negargli la libertà di difendere la sua concezione di matrimonio e di famiglia, poiché sono in gioco i suoi valori.
Dopo tutto, se la Chiesa francese vuol fare battaglie di retroguardia, ne ha tutto il diritto ed è affar suo. Piuttosto che levare alte grida, è meglio opporle delle argomentazioni. Tanto appare difficile giustificare il rifiuto categorico del matrimonio omosessuale - ed il suo corollario, cioè il diritto all’omogenitorialità.
Infatti, la rivendicazione delle coppie omosessuali di godere degli stessi diritti e doveri delle coppie eterosessuali - sostenuta dalla promessa di François Hollande di legiferare in tal senso entro la primavera 2013 - risponde ad una triplice logica.
Innanzitutto di tipo storico. In una trentina d’anni, gli omosessuali sono passati dall’ostracismo (nel migliore dei casi considerato una malattia, nel peggiore un crimine) alla tolleranza, poi al riconoscimento, e addirittura ormai all’indifferenza. In tutti i paesi occidentali, l’evoluzione dei costumi e delle mentalità è stata spettacolare, come testimoniato da tutti gli studi sull’argomento.
C’è poi una logica antropologica. Anche se la famiglia resta, secondo l’espressione consacrata, la cellula base della società, essa non obbedisce più a un modello unico e neppure dominante: meno della metà delle coppie francesi sono “legali” (solo il 44% sposate e il 2% coppie di fatto regolarizzate secondo i “pacs”). Il matrimonio stesso non obbedisce praticamente più ai motivi tradizionali dell’origine e della religione, ma alle esigenze della vita affettiva, che sono simili tra persone dello stesso sesso o di sesso diverso.
C’è infine la logica democratica, già operante in paesi estremamente vari, come la Svezia, la Spagna, la Norvegia, i Paesi Bassi e il Belgio. L’introduzione [in Francia, ndr.] dei “pacs” nel 1999, ha riconosciuto legalmente la coppia omosessuale, ma l’ha esclusa dal diritto alla famiglia (tramite adozione o procreazione medicalmente assistita). In nome di che cosa, se non di un postulato implicito poiché indifendibile - due donne o due uomini sarebbero meno capaci di un uomo e una donna di educare dei figli?
È questo principio di uguaglianza che consacrerebbe, che consacrerà, il matrimonio gay. Il dibattito è tutt’altro che anodino. Porta a ripensare la famiglia e la genitorialità. Una ragione in più per non affrontarlo irrigiditi sulle proprie posizioni.
Parigi “Una sola famiglia”
Notre-Dame lancia la crociata anti-gay
di Anais Ginori (la Repubblica, 17 agosto 2012)
Preghiere blasfeme e video omofobi. È un piccolo assaggio di quella che sarà la battaglia dell’autunno francese. Dopo la messa a Notre-Dame contro i matrimoni omosessuali, si è scatenato in rete un gay pride improvvisato, che ha alimentato altri proclami a tinte omofobe. Tutto è cominciato a Ferragosto quando André Vingt-Trois, il cardinale di Parigi e presidente della conferenza episcopale, ha dedicato la preghiera dell’Ascensione alla difesa della “famiglia tradizionale”.
Un riferimento non casuale. Secondo il cardinale di Parigi è il primo atto di «una mobilitazione spirituale in difesa degli interessi cristiani». Dopo l’estate infatti il governo dovrebbe cominciare a discutere la legge che autorizzerà il matrimonio gay e l’adozione da parte di coppie omosessuali. È uno dei punti del programma con il quale François Hollande si è fatto eleggere presidente nel maggio scorso.
Com’era prevedibile, la Chiesa francese ha incominciato a esprimere il proprio disappunto per quella proposta. Ma il normale conflitto di posizioni, solitamente pacato, si è trasformato negli ultimi giorni in una battaglia di simboli e parole. Il presidente della conferenza episcopale ha infatti voluto invitare i francesi a pregare affinché i bambini «possano godere appieno dell’amore di un padre e di una madre».
In vista della Festa dell’Ascensione, il testo è stato distribuito a tutte le diocesi francesi qualche giorno prima. I toni e l’occasione sono stati definiti da alcuni osservatori “senza precedenti” e rappresentano comunque una rottura rispetto alle relazioni che si erano instaurate con il precedente presidente. È rimasto famoso il discorso di Nicolas Sarkozy sulla “laicità positiva” pronunciato nella basilica di San Giovanni in Laterano nel dicembre 2008.
Si riaccende uno scontro tra politica e religione che si credeva insomma archiviato. Non tutte le parrocchie hanno seguito la direttiva di Vingt-Trois, allievo spirituale di Jean-Marie Lustiger, storico cardinale di Parigi. Nella chiesa di Saint-Merri, ad esempio, il parroco non ha sfiorato il tema della famiglia e ha puntato invece su crisi e nuova povertà. La parrocchia del quartiere Marais ha una tradizione di apertura e tolleranza. Organizza periodicamente incontri con l’associazione omosessuale David e Jonathan che ha definito «pericolosa » l’iniziativa di Vingt-Trois perché «incoraggia i timori dei parrocchiani e conforterà certi cattolici nella loro omofobia».
L’associazione ha presentato preghiere alternative per incitare i preti “coraggiosi” a leggerle. Altri gruppi hanno invece confezionato parodie discutibili delle parole di Vingt-Trois. «Preghiamo affinché, preti e suore possano dimenticarsi di noi» recita un video del gruppo Act-Up, considerato da alcuni troppo irriverente. È vero però che, all’altro estremo, circolano immagini e proclami contro i gay, altrettanto sgradevoli, firmati dai cattolici più integralisti. L’associazione Civitas, che in passato ha organizzato la contestazione allo spettacolo di Romeo Castellucci, ha promesso di intensificare le azioni per combattere «con ogni mezzo» il progetto di legge socialista.
In un’intervista al Figaro, il cardinale di Lione Philippe Barbarin ha definito il matrimonio gay «uno shock di civiltà». La legge sui matrimoni gay dovrebbe essere presentata dal governo dopo l’estate e discussa dal parlamento entro la primavera del 2013. Secondo un sondaggio, 65% dei francesi sono favorevoli, con un aumento di due punti rispetto all’anno scorso.
Al di là delle polemiche, Hollande sa di poter contare su una solida maggioranza per far approvare la normativa. Anche la destra ha iniziato a dividersi. Alcuni ex membri del precedente governo, come Chantal Jouanno, Nadine Morano, Roselyne Bachelot, sono d’accordo con l’idea di dare pari diritti alle coppie omosessuali. Nel paese che ha inventato i Pacs, le unioni civili, nell’ormai lontano 1999, si apre insomma un nuovo fronte.
“Non abbiate paura” dell’omosessualità
di Jean-Pierre Mignard*
in “Le Monde” del 22 agosto 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Difendere la famiglia e invitare a pregare per questo in un paese con una buona progressione demografica sottintende il fatto che essa sia minacciata. Il matrimonio di coppie gay è davvero tale da sconvolgere la famiglia e il diritto dei bambini?
La Chiesa ha il diritto di intromettersi in questo dibattito legislativo. Si tratta di una libertà di espressione indiscutibile che non può essere considerata in nessun modo un attacco alla laicità. La sua opinione è tanto più utile in quanto il matrimonio figura nella lista dei suoi sacramenti. Il cardinale arcivescovo, in qualità di presidente della Conferenza episcopale, può far leggere una preghiera che esprime un minimo di riserva sul matrimonio gay, ma quale opinione riflette, al di là di quella della gerarchia?
Secondo un sondaggio IFOP, il 65% dei francesi sarebbe favorevole al matrimonio omosessuale e il 53% all’omogenitorialità. L’indicazione, nello stesso sondaggio, che il 45% dei cattolici non sarebbe contrario al matrimonio omosessuale colpisce di più. Allora, dispiace che non sia stato organizzata una discussione tra cattolici, invitati a pregare, certo, ma non a “discernere” tra loro e ad alta voce. Ma non è troppo tardi.
È infatti opportuno risolvere una vecchia disputa prima di buttarsi nella faccenda del matrimonio. L’omosessualità è o no una declinazione naturale della sessualità? Il matrimonio gay, sul quale le divergenze sono concepibili, giustifica il fatto che venga tolta l’ambiguità. La tesi ufficiale designa questa sessualità con il vocabolo di “disordine”.
Allineare gli omosessuali, con altri, tra le “vittime di incidenti della vita” esprime un sentimento compassionevole, ma non li considera come soggetti di diritto. Più preoccupante, un’istruzione del 2005 del Vaticano esclude gli omosessuali dal ministero ordinato, salvo se tale sessualità è “transitoria”. La Santa Sede mantiene una posizione ostile alla depenalizzazione dell’omosessualità nei dibattiti alle Nazioni Unite. Questo la pone in compagnia di regimi alcuni dei quali continuano ad infliggere la pena di morte agli omosessuali. Si tratta di una “vera tragedia per le persone coinvolte e di un’offesa alla coscienza collettiva”, secondo le parole del segretario generale Ban Kimoon. Tale umiliazione era proprio necessaria?
In quanto cattolico e cittadino della Repubblica [francese], auspico che la Chiesa francese si esprima su questo punto preciso. Siamo in molti ad auspicarlo, dentro e fuori la Chiesa. Se essa vuole intervenire nel dibattito pubblico, e personalmente ritengo che ne abbia il diritto, deve accettare il verdetto dell’opinione pubblica. Del resto è un omaggio che le è reso, perché dalla Chiesa ci si aspetta dei messaggi in favore della dignità umana.
Poco tempo fa, il cardinale arcivescovo di Lione, Mons. Philippe Barbarin, evocava, con un (altezza?) a lui familiare, due grandi figure omosessuali e cristiane, Michelangelo e Max Jacob. A questi artisti esprimeva la gratitudine della Chiesa, ma soprattutto diceva che la loro omosessualità era un fatto, ponendola così al di fuori di ogni giudizio di valore. Questo non lo ha condotto a dichiararsi favorevole al matrimonio gay, ma almeno è stato reso possibile il fondamento di una discussione liberata dalle sue paure e dal suo immaginario.
L’ex cardinale-arcivescovo di Milano, Carlo Maria Martini, andava oltre e ingiungeva agli Stati di aiutare gli omosessuali a stabilizzare le loro unioni civili. Sull’argomento e con tutta evidenza ci sono diverse dimore nella casa del Padre...
Si capisce molto bene che la Chiesa cattolica difenda il sacramento del matrimonio e la sua destinazione primaria. La soluzione teologica infatti non è semplice. Ma bisogna incidere l’ascesso. Al tavolo delle discussioni sono ammesse tutte le riserve del mondo cattolico, tuttavia esse saranno accettate solo a condizione di un riconoscimento pubblico e franco del fatto che l’omosessualità è una sessualità come un’altra che sfugge alla sfera del giudizio morale e penale o del trattamento psichiatrico, altrettanto legittima e degna di riconoscimento dell’eterosessualità.
Non è ancora giunto il momento, e ce ne dispiace, di una pastorale per gli omosessuali. Ma è venuto quello di affrontare questo problema all’interno della Chiesa e di liberarsi dei propri timori, che hanno condotto, ad esempio, a separare nel piccolo cimitero di Ebnal (Inghilterra) per le esigenze della sua beatificazione, nel 2010, ma contro la sua volontà testamentaria, il corpo del cardinale britannico John Newman (1801-1890) da quello del suo amico, il reverendo Ambrose St. John, “che amava di un amore forte come quello di un uomo per una donna”. Nulla dice che questo grande prelato fosse gay, nulla, ma persino questa grande amicizia preoccupava.
I cattolici devono poterne discutere all’interno della loro comunità, in assemblee parrocchiali, diocesane, nelle loro associazioni, là dove è possibile, là dove è necessario, là dove lo si desidera. Che cosa abbiamo da temere dalle parole, visto che facciamo riferimento alla teologia della Parola? Non saremmo tutti d’accordo? E allora?
È così che ci si apre al mondo, il che non significa sottomettersi ad esso. La Chiesa, esemplare nel dialogo interreligioso, si mostrerebbe incapace di qualsiasi dialogo intrareligioso? I vescovi, che non sono dei despoti, dovrebbero osare questo dibattito. Lo storico Michel de Certeau diceva con un’espressione folgorante che “era in fondo al rischio che si trovava il senso.” E se c’è un’ingiunzione biblica ed evangelica come un leitmotiv, è: “Non abbiate paura.”
*Jean-Pierre Mignard, professore in diritti dei media all’Institut d’études politiques di Parigi, avvocato.
Un’anima da “duro” per Hollande
di Cesare Martinetti (La Stampa, 17.05.2012)
E se questo Hollande, definito un «molle», soprannominato «budino» e come tale raccontato con un po’ troppa leggerezza prima della sfida con il «bulletto» Sarkozy, fosse in realtà un «duro»? La prima mossa non è stata tenera: trentaquattro ministri, 17 donne ma non la più importante: Martine Aubry, segretaria socialista e sua rabbiosa sfidante nelle primarie, non fa parte del governo. Madame Aubry, a giudicare dalle acide dichiarazioni rilasciate ieri sera a Le Monde, non l’ha presa benissimo. Ha detto: si sapeva che avrebbe scelto tra i suoi fedelissimi, io ho fatto la numero due del governo (con Jospin, tra il ‘97 e il 2000) non mi metto certo a negoziare un posto qualunque da ministro. Ma intanto, racconta il sito del Nouvel Observateur, si sarebbe già vendicata silurando due candidati hollandisti alle prossime legislative.
L’esclusione di Martine Aubry non è però soltanto la manifestazione di una rivalità personale, è soprattutto uno scontro politico e diventa una specie di manifesto. Aubry (che è figlia naturale di Jacques Delors, il più illustre ex presidente della Commissione europea ed anche il più importante maestro di politica di Hollande) era ed è la sinistra della sinistra del Ps, ministra del Lavoro del governo Jospin e autrice della legge sulle 35 ore che hanno segnato un’epoca. Sconfitta alle primarie, ma leale supporter nella campagna elettorale, sembrava naturalmente destinata a Matignon come primo ministro, dove invece è andato Jean-Marc Ayrault, un super riformista, un «socialdemocratico», parola che nel Ps francese non è tuttora percepita senza qualche sussulto.
Trentasei ore non sono niente, ma François Hollande le ha a tal punto infarcite di parole, simboli e gesti da aver già rovesciato quella sua immagine caricaturale di «molle». È chiaro che il neo presidente ha studiato con attenzione ogni passaggio facendo tesoro del disastro di Sarkò che, al di là di altri meriti o demeriti, si è giocato il tono della sua presidenza nelle primissime ore all’Eliseo: la festa nel locale dei miliardari, la vacanza relax sullo yacht del finanziere amico, l’esibizione sguaiata di una vita famigliare esagerata, con una moglie che tutti sapevano che lo stava mollando e la passerella dei figli di primo, secondo e altrui letto. Il resto, la politica e le sue incertezze, sono venute dopo.
François Hollande ha fatto esattamente il contrario esibendo modestia e misura. Viaggia su un’auto normale ed ecologica, ha chiesto all’autista e alla scorta di rispettare i semafori nel tragitto che lo portava all’investitura al palazzo dell’Eliseo. Ma poi, qui, ha tirato fuori la grinta. Inappuntabile formalismo con il suo avversario che lasciava la carica sconfitto, ma niente di più: non lo ha accompagnato (come aveva fatto per esempio Chirac con Mitterrand) sul tappeto rosso fino all’auto. E poi, quando si è trattato di citare i predecessori, Hollande ha avuto una parola buona per tutti (compresi gli avversari Giscard e Chirac), per Sarkò invece semplicemente un gelido augurio per «la sua nuova vita».
E non si può dire che sia arrivato impreparato a quel discorso. Nel libretto pubblicato all’inizio di quest’anno («Changer de destin», editore Robert Laffont) si imparano un sacco di cose su François Hollande. Mentre giornalisti un po’ sbrigativi si chiedevano come avrebbe potuto affrontare, lui così «molle» il ciclone Sarkozy, il candidato presidente raccontava che nulla di casuale c’era in quell’appuntamento: «Tutta la mia vita mi ha preparato a questa scadenza... È stata una lunga strada, intrapresa molto tempo fa e che arriva oggi alla sua destinazione... ».
Una determinazione e una sicurezza che si sono subito viste all’opera. Anche nell’omaggio a Jules Ferry, il «padre» della scuola pubblica e gratuita, ma anche controverso sostenitore del colonialismo. Hollande non l’ha nascosto, ma ha voluto ribadire che l’Éducation Nationale è uno degli obiettivi principali della sua presidenza.
Esclusa la Aubry, nel governo sono rappresentate le varie anime della sinistra, ma nei posti chiave ci sono i suoi fedelissimi, riformatori dichiarati. Ayrault primo ministro, Manuel Valls all’Interno, Michel Sapin al Lavoro, Pierre Moscovici (che era l’uomo di Strauss-Kahn) all’Economia, Laurent Fabius (ora il più anziano ma che fu il più giovane primo ministro della storia francese con Mitterrand) agli Esteri. Eta media dei ministri 52 anni.
Il villano che da avvocato si conquistò il paradiso.
Un racconto francese medievale (Il testo originale è costituito da ottosillabi a rima baciata) *
Troviamo messa per iscritto
una meravigliosa avventura
capitata un tempo a un villano.
Morì un venerdì mattina,
e gli toccò quest’avventura:
né un angelo né un diavolo andò
da lui nell’ora della morte;
quando l’anima usci dal corpo
non trovò nessuno
che le facesse domande.
Ne fu molto angosciata, sappiatelo,
quell’anima che era così paurosa!
Guardò in alto, a destra, verso il cielo
e vide I’angelo san Michele
che guidava un’anima a gran festa.
S’incamminò da quella parte.
Era paurosa, ma tuttavia andò
dove lei voleva andare.
Seguì tanto I’angelo, sta scritto,
che entrò in Paradiso.
Seguendo quello entrò Iì dentro.
San Pietro, che aveva le chiavi in custodia,
accolse l’anima che I’angelo guidava,
poi tornò di nuovo alla porta
incontrò I’anima che era sola.
Le domandò con chi era venuta:
“Qui diamo ospitalità solo a chi
I’ottiene per giudizio divino,
e soprattutto, per sant’Alano,
noi non ci curiamo di un villano:
è un villano, allora qui non entra”.
“Più villani di voi non ce ne sono,
mio caro Pietro, - risponde I’anima, -
voi eravate più duro di una pietra!
Per il santo Padre Nostro,
fu uno stolto chi vi fece suo apostolo!
Ne ricavò ben poco onore!
Quando Nostro Signore fu tradito
ben poca fede aveste voi!
Lo avete rinnegato tre volte,
e sì che eravate suo discepolo!
Non siete degno di questa casa, vi odia
anzi, voi e la vostra sete di potere!
Non dovete averne le chiavi:
sei un falso e un traditore!
Io invece sono un galantuomo e leale
e ho diritto di essere ospitato”.
Strano, ma san Pietro provò onta
tornò indietro vergognoso e vinto
e andò a raccontare
del guaio a san Tommaso.
“Andrò io da lui, - fa san Tommaso, -
qui non resterà, Dio non voglia!”
Torna lì dov’era I’anima:
"Villano, - dice l’apostolo, -
questa dimora è proprietà nostra.
Visto che non sei né martire né confesso
dove ti sei acquistato merito
che credi di restare qui?
Un villano non ci può stare:
questa casa è per gente per bene!”
Tommaso, Tommaso, a rispondere
ti dilunghi più di un leguleio! -.
Non foste proprio voi a dire agli apostoli
(da chi lo si sarebbe saputo)
quando ebbero visto Dio,
dopo che fu risorto,
faceste iI vostro giuramento
che non ci avreste creduto
se non vedendo le piaghe
che il vostro maestro ebbe in croce.
Altro che in buona fede siete!
Bugiardo e miscredente foste!”
San Tommaso rinunciò subito
alla disputa e abbassò il capo.
Andò dritto da san Paolo
e gli raccontò di quell’accidente.
“Per la mia testa, ci andrò io, - disse, -
vedremo che risposta mi darà”.
L’anima non si curò di rispondergli
e andò ciondoloni per il Paradiso.
“Villano, - fa san Paolo, - chi vi guida?
Dove vi siete acquistato merito
per cui vi fu aperta la porta?
Fuori di qui, sciocco villano!”
“Cosa? - fa I’anima, - reverendo Paolo
il calvo, come siete bugiardo!
Foste un prepotente cosi ignobile voi!
Non vi sarà più uno così crudele!
Lo sperimentò santo Stefano
che voi faceste lapidare.
So raccontare bene la vostra vita!
Disdegnavate i santi sacramenti:
ovunque mettevate piede
erano morti tutti i santi uomini.
Dio perse la pazienza e vi diede
in ricompensa un bel ceffone.
Di quanti affari e strette di mano
dovete ancora pagare il vino!
Ecco che santo e che profeta siete!
Credete che io non vi conosca?”
San Paolo restò molto male;
voltò il passo cupo e mesto
e tornò da san Tommaso
che si consultava con san Pietro.
Racconta loro I’incredibile fatto
del villano che gli ha dato scacco.
“Per quanto mi riguarda il Paradiso
se l’è guadagnato: è suo”.
Vanno tutti e tre a protestare a Dio:
san Pietro gli racconta per bene
come il villano li ha oltraggiati:
“Con parole ci ha sconfitti,
io stesso ne sono confuso”.
“Andrò io a parlargli, - dice
Nostro Signore, - così sentirò
di persona questa novella, e
va dall’anima, la chiama
e le chiede com’è riuscita
a entrare lì dentro senza permesso.
Qui non è mai entrata anima
di uomo o di donna senza licenza:
come credi di rimanerci tu?"
“Signore, ho diritto di restare
quanto loro, se ottengo il giudizio:
io non vi ho mai rinnegato,
né ho mandato a morte un innocente.
Loro hanno commesso questo grave torto,
un tempo, quando erano in vita
e ora se ne stanno in Paradiso!
Finché io vissi al mondo,
ho fatto una vita onesta e pura.
Ho diviso il mio pane coi poveri,
di cuore, sera e mattina;
ai poveri offrivo un tetto
e davo loro alloggio volentieri
e li riscaldavo al mio fuoco;
ne ho curati molti finché morirono
e poi li ho portati in chiesa.
Di molte brache e molte camicie
li ho rivestiti quand’erano nudi!
Quando mi son visto colto dalla morte
mi sono confessato sinceramente,
ho ricevuto degnamente il vostro corpo
e ci insegnano che Dio perdona
i peccati a chi muore così.
Ora che sono qui, perché dovrei andarmene?
Andrei contro alle vostre parole,
perché avete concesso di sicuro
che chi entra qui dentro ci rimanga;
non vi smentirete certo per me!”
“Amico, - risponde Dio, - te lo concedo;
mi hai tanto accusato il Paradiso
che te lo sei guadagnato da avvocato!
Sai esporre bene i tuoi argomenti!”
Il villano dice in un proverbio:
va ben a scuola molta gente
che pur non è molto dotata.
L’educazione vince la natura,
la menzogna ha ucciso la giustizia,
il torto va avanti e il dritto sta fermo,
vale più I’ingegno della forza.
* Fabliaux. Racconti francesi medievali, Trad. it. di R. Brusegan, Einaudi, Torino 1980.
Il ciclone di Parigi
di Cesare Martinetti (La Stampa, 07.05.2012)
François Hollande vince le elezioni francesi e subito manda ad Angela Merkel il messaggio che molta parte dell’Europa (Italia compresa) si aspettava: l’austerità «non è una fatalità» e la costruzione europea deve essere riorientata verso la crescita. È stato il grande tema della sua campagna elettorale, la questione si apre a Bruxelles e Berlino, Hollande ha la sfrontatezza tutta francese di dire che la sua vittoria accende una speranza e una nuova prospettiva per molti Paesi. Ma, di nuovo rispetto al vecchio socialismo francese, sa anche dire che i conti vanno raddrizzati per ridurre il deficit e in prospettiva tagliare il debito. Insomma, la sfida è alta, vedremo presto.
Oggi dobbiamo registrare un risultato elettorale clamoroso anche se non inatteso. François Hollande è il nuovo Presidente della Repubblica, diciassette anni dopo François Mitterrand un socialista torna all’Eliseo. Le circostanze sono simili: allora fu Valéry Giscard d’Estaing a mancare la rielezione dopo il primo mandato, questa volta è Nicolas Sarkozy, il giovane Presidente della «rupture», l’uomo che aveva promesso di rinnovare la destra francese e la Francia intera dopo gli incolori anni di Chirac.
Per Sarkozy la sconfitta è bruciante, direttamente proporzionale all’investimento emotivo e politico che quest’uomo frenetico e impulsivo aveva buttato in campo. I francesi hanno rifiutato il suo bonapartismo da parvenu e l’unica vera rupture evidente dopo cinque anni di potere è stata tra il Presidente e i francesi. Sarkozy ha riconosciuto la sconfitta e si è preso tutte le responsabilità. Non ha annunciato il ritiro dalla politica, ma ha detto che torna «un francese tra i francesi». Difficile immaginare un suo futuro, oggi come oggi. Certo il suo partito appare sconquassato in vista delle legislative che saranno tra un mese.
All’Eliseo arriva un uomo che si è presentato alla Francia come «normale» per contrapporsi agli eccessi caratteriali del suo antagonista. Hollande è stato detto anche «grigio», «molle» come un budino, incolore, l’eterno secondo. In questa campagna ha dimostrato invece qualità culturali, un progetto politico riconoscibile non soltanto dalla gauche e una tenuta temperamentale invidiabile nel momento clou dello scontro con Sarkò, il duello televisivo di mercoledì scorso. Tutti pensavano che Sarkozy se lo sarebbe mangiato, e invece è successo esattamente il contrario: il Presidente è apparso fragile come mai era accaduto in tutta la sua carriera politica, in difesa e indifeso di fronte al modesto bilancio della sua presidenza, incapace di replicare all’antagonista che con pacata, ma studiata sfrontatezza ha ripetuto come un mantra: «Moi, le Président de la République, si... ». Un artificio retorico molto mitterrandiano.
Il risultato del voto ha una dinamica essenzialmente franco-francese, come si dice a Parigi, ma potrebbe trasformarsi in un ciclone a Bruxelles e Berlino. Hollande, un europeista convinto, figlio politico di Jacques Delors, che rimane tuttora il più prestigioso presidente della Commissione, ha fatto della rottura del rigore da copyright di Angela Merkel (al quale Sarkozy si era accodato più per tattica difensiva che per convinzione) il principale obiettivo di politica europea.
Come lo farà lo vedremo presto. Il calendario è serrato: il 18 ci sarà il passaggio dei poteri, il nuovo Presidente scioglierà l’Assemblée e convocherà la elezioni politiche. Ma intanto si formerà un nuovo governo. I candidati al ruolo di primo ministro sono due: Martine Aubry, segretaria del Ps ed ex ministro del Lavoro del governo Jospin (la donna che ha firmato la legge delle 35 ore) e Jean-Marc Ayrault, professore di tedesco, sindaco di Nantes, capogruppo all’Assemblée e fedelissimo di Hollande.
«Per una Francia diversa» Hollande canta Bella Ciao Lo sfidante incassa anche il voto del centrista Bayrou di Aldo Cazzullo (Corriere dela Sera, 04.05.2012)
TOLOSA - «Credo alle forze dello spirito e resterò sempre con voi» aveva detto François Mitterrand ai francesi nell’ultimo discorso da presidente. Quando ieri pomeriggio, al tramonto, François Hollande ha citato «les forces de l’esprit», i 25 mila della Place du Capitol hanno compreso bene quel che intendeva. Non si è spinto a dire che Mitterrand era qui, a Tolosa, dove un tempo chiudeva le campagne presidenziali. Hollande si è limitato a un «forse...», agitando le braccia. Non ha evocato lo spirito dell’unico presidente socialista della Quinta Repubblica, ma ha lasciato che aleggiasse sulla «ville rose», scelta non a caso per il comizio finale. Un discorso da vincitore, se non fosse per la totale mancanza di carisma, riconfermata alla fine, quando si fa passare il tricolore e tenta di sventolarlo ma sbaglia il senso del vento, e la bandiera si affloscia mestamente su se stessa.
Tolosa è la città dove Voltaire scrisse il trattato sulla tolleranza, dove Vincent Auriol presidente socialista della Quarta Repubblica fece i suoi studi, dove Jean Jaurès insegnò all’università prima di essere assassinato in un caffè di Parigi da un interventista, il giorno prima che scoppiasse la Grande Guerra. E ieri c’era un’atmosfera da riunione di tutte le anime della sinistra: gli operai con i cartelli per boicottare la Lipton che chiude lo stabilimento e i dirigenti del Ps locale che prendono un tè in piazza nell’attesa del comizio, vecchi anarchici vestiti di nero e studenti ecologisti dell’università, i tricolori patriottici e le bandiere rosse della Cgt, il sindacato filocomunista.
«Evviva il comunismo e la libertà» lo comprendono anche i francesi; eppure è proprio con «Bandiera rossa» che l’orchestra «Grandes bouches» introduce Hollande. Stavolta è venuta anche Ségolène Royal, la madre dei suoi quattro figli, ma la tengono a distanza. Accanto al candidato c’è sempre la nuova compagna, Valérie Trierweiler, che una deputata di destra ha ribattezzato «Rottweiler», costringendo Sarkozy a scusarsi. E sul palco c’è, redivivo, Lionel Jospin, al primo comizio da quando dieci anni fa si ritirò dalla politica, la notte in cui fu eliminato al primo turno. Stasera la sua razionalità calvinista stona un poco, in una serata che è già di festa, dopo che François Bayrou ha annunciato il voto per Hollande, infliggendo al presidente un colpo che potrebbe essere fatale.
Sarkozy ha sempre scelto contesti solenni per i suoi comizi: Place de la Concorde, il Trocadéro. Hollande al contrario ha voluto scenari «umani»: il bosco di Vincennes a Parigi, il parco alla periferia di Bordeaux, ora a Tolosa la piazza del municipio, cuore del centro storico. Il tono - a parte la voce ormai stridula - è quello della vittoria, che Hollande vorrebbe «bella, grande, storica»: non solo la sconfitta di Sarkozy, ma «il sogno di una Francia diversa». Lancia uno slogan non originalissimo, «la nuova frontiera». Placa i «buuu» per la Merkel, «che ora comincia a parlare anche lei di crescita, così come il governatore della Banca centrale europea, che pure non è tra i nostri amici». Rivendica di aver vinto il dibattito di mercoledì sera: «Forse valeva davvero la pena farne un altro...». Soprattutto, chiude la campagna come l’ha cominciata, all’insegna di una «candidatura normale» e di una «presidenza normale».
Hollande promette alla Francia di rasserenarla, dopo cinque anni in cui Sarkozy l’ha tenuta in perenne tensione. «Non esistono due France, la Francia è una sola e io voglio riunirla, restituirle fiducia in se stessa e nell’avvenire». Tolosa è città occitana, quasi più spagnola che francese - i balconi di ferro battuto, i patios ombreggiati, le strade chiamate «carrièra», i Pirenei innevati all’orizzonte - e Hollande rimprovera a Sarkozy di aver offeso i vicini, saluta i socialisti catalani, dice di ricevere parecchi messaggi anche dall’Italia. Piange le vittime della strage antisemita compiuta da Mohamed Merah, ma denuncia anche lo spirito antimusulmano del presidente. Sotto il palco sorridono il sindaco di Parigi Bertrand Delanoë, l’ex segretario del partito comunista Robert Hue, i possibili primi ministri Michel Sapin e Jean-Marc Ayrault, e naturalmente Ségolène Royal, ancora molto amata dalla folla. Con Hollande hanno ripreso a parlarsi, lui le ha promesso la presidenza dell’Assemblea nazionale, ruolo di prestigio e soprattutto lontano dal governo.
Sarkozy non è mai nominato. Semmai, irriso: «In tv tutti hanno potuto vedere la sua modestia, la sua prudenza, la sua capacità di riconoscere gli errori...». Gli ultimi anni sono tratteggiati come un’epoca buia, di attentati all’indipendenza della magistratura e alla libertà di stampa, abusi di potere, disprezzo della gente semplice. Il profilo presidenziale che Hollande ritaglia per sé è agli antipodi: lui non vuol essere anche capo del governo e capo della maggioranza, non avrà la pretesa di prendere personalmente ogni decisione, di andare su tutti i palloni come un mediano ringhioso o un centravanti egoista; sarà un presidente in ascolto, «continuerò a visitare le fabbriche a rischio di chiusura, gli istituti per handicappati, le case di periferia dove non ci sono più ascensori, elettricità, acqua calda». «Una volta ho detto che amo les gens, la gente, e diffido dell’argent, il denaro. Alla fine della campagna, amo ancora di più i francesi, e continuo a diffidare del denaro».
Ora l’orchestra suona Bella Ciao. Gli studenti rientrano all’università, dove stasera c’è un reading di Dino Buzzati. Hollande si ferma a conversare con i giornalisti, assicura che con Bayrou non c’è stata alcuna trattativa e per lui non ci sarà un ministero. Poi si lascia baciare, abbracciare, fotografare dai militanti: il servizio d’ordine fatica ad aprirgli un varco verso la Renault nera, i militanti lo assedieranno a lungo nel cortile del municipio. Al suo fianco, Valérie saluta la folla con la mano. Tre passi indietro, Ségolène cerca una telecamera.
Un «no» collettivo all’antisemitismo
Il primo dovere della politica
di Bernard-Henri Lévy (Corriere della Sera, 20 marzo 2012)
Così dunque in Francia, nel 2012, nella terza metropoli del Paese, si può sparare contro una scuola ebraica e uccidere, a bruciapelo, dei bambini. L’inchiesta chiarirà, dobbiamo sperarlo, le circostanze di questa tragedia, l’identità dell’assassino, i suoi eventuali moventi. Ma quali che siano i moventi, quale che sia stato lo svolgimento della sparatoria sopravvenuta davanti ai cancelli, poi, se ho ben capito, all’interno della scuola Ozar Hatorah, quale che sia il legame che sarà stabilito con i misteriosi omicidi di militari, la settimana scorsa, a Tolosa e a Montauban, il fatto è questo ed è mostruoso: bambini francesi, ebrei e francesi o, se si preferisce, sovranamente francesi ma colpevoli d’essere nati ebrei, sono stati freddamente abbattuti, in pieno giorno, sul territorio della Repubblica.
A far da corollario, quasi ugualmente insopportabile, ecco tornati i tempi bui in cui bisogna «dare l’ordine ai prefetti di rafforzare la sorveglianza intorno a tutti i luoghi religiosi in Francia e particolarmente nelle adiacenze delle scuole israelite». Sono i termini del comunicato del ministero dell’Interno reso pubblico dal suo titolare, Claude Guéant, pochi minuti dopo il dramma.
Comunicato che era inevitabile. Era il minimo che potessero fare le autorità rimaste sconcertate, come tutti noi, davanti all’orrore della situazione, prendendo misure d’urgenza appropriate. Ma queste parole, al tempo stesso, gelano il sangue. E tremiamo di vergogna e di collera all’idea che ci troviamo di nuovo - come dopo gli attentati della rue Copernic e della rue des Rosiers a Parigi, poi dopo l’esplosione di atti antisemiti dell’inizio degli anni Duemila - a pregare, a raccoglierci, a morire o, semplicemente, a studiare sotto «l’alta protezione della polizia» e al riparo di «perimetri di sicurezza» ricostituiti. Che miseria...
Allora, di fronte a tale abominio, e tenuto conto del periodo molto particolare in cui questa catastrofe accade, esiste una sola reazione possibile. Voglio dire: esiste una sola risposta - mentre la campagna per l’elezione presidenziale è al culmine e addirittura entra, apparentemente, nella sua ultima fase - che sia all’altezza dell’avvenimento. Certo, l’indignazione e la paura. Certo, le condanne verbali, le parole forti, le visite simboliche delle autorità, come ci annunciano mentre scrivo queste righe.
Certo, il bel gesto del candidato Hollande che decide, in omaggio alle vittime, di sospendere unilateralmente la sua campagna elettorale e di dedicare le prossime ore a un grande momento di raccoglimento collettivo e di lutto. Certo, il riflesso non meno bello del candidato Sarkozy che parla di «tragedia nazionale» e che decreta, da parte sua, un minuto di silenzio in tutte le scuole di Francia, in memoria dei tre bambini - di 3, 6 e 8 anni - e del professore, massacrati a sangue freddo da un assassino professionista.
E, certo, le speculazioni d’uso sul clima politico, sulla rimozione dei tabù, sulla liberazione della parola infame, che valgono, tramite mediazioni che l’emozione del momento soprattutto non deve far trascurare, come una sorta di permesso d’uccidere: qui per un omicida di bambini, lì per un serial killer di militari.
Ma anche un’iniziativa comune, che dico?, un atto di comunione che vedrebbe tutti i candidati democratici, dico proprio democratici, dimenticare per un istante quello che li contrappone e gridare all’unanimità e, se possibile, senza secondi fini politici, il loro rifiuto categorico dell’antisemitismo e delle sue conseguenze sempre criminali.
Poco più di vent’anni fa, tutta la classe politica (a parte il Front National), con François Mitterrand in testa, seppe sfilare insieme contro la profanazione di 34 sepolture ebraiche nel cimitero di Carpentras.
Occorrerebbe oggi, con Nicolas Sarkozy e François Hollande in testa, l’equivalente di quella manifestazione nella Tolosa in lutto: occorrerebbe che sulla Place du Capitole - importante luogo della nostra memoria nazionale dove il generale de Gaulle, il 16 settembre 1945, venne a predicare l’unità del Paese di fronte a un popolo di partigiani dell’Ffi (le Forze francesi dell’interno in cuierano confluiti nel ’44 i principali gruppi della Resistenza nazionale, n.d.r.) e dell’ Ftp (Franchi tiratori e partigiani, di origine comunista, n.d.r.) e di superstiti delle brigate internazionali in Spagna - si riunissero solennemente tutte le forze politiche per dire, apertamente, che è la Francia intera ad essere attaccata, e che quindi deve far fronte all’attacco quando i suoi figli, chiunque essi siano, e qualunque siano, ripeto, il profilo dell’omicida o le sue ragioni, vengono così massacrati.
Avviso ai piromani della difesa di una «identità nazionale» intesa come entità chiusa, timorosa, che si nutre di risentimento e di odio: è il contratto sociale a essere ucciso in una strage di questa sorta; è la base stessa del vivere insieme che, quando si scatena simile follia, vacilla e viene meno. Non c’è peggiore offesa alla nostra cultura, all’anima del nostro Paese, alla sua Storia e, tutto sommato, alla sua grandezza, del razzismo e, oggi, dell’antisemitismo. (traduzione di Daniela Maggioni)
La “carità politica”
del “Groupe paroles”*
in “La Croix” del 14 marzo 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
A poche settimane dall’elezione presidenziale francese, è bene ricordare che la politica è per eccellenza il luogo in cui cerchiamo insieme di discernere il bene comune e di metterlo in atto. Certo è necessario che questa ricerca sia guidata dall’attenzione alla giustizia, alla libertà e alla fraternità, ma non basta: tutto si gioca infatti nell’ascolto gli uni degli altri, nel dialogo e nell’espressione rispettosa dei punti di vista. Solo così possiamo trovare le strade per vivere insieme. Un simile atteggiamento di spogliazione e di disponibilità è, per i cristiani, un modo di essere recettivi al lavoro dello Spirito e all’accoglienza di “colui che viene”.
Questo è tanto più necessario in quanto le problematiche, le soluzioni e i modelli che hanno prevalso in un certo momento non sono necessariamente adatti in altre circostanze e che occorre continuamente rimettersi all’opera. In maniera ancora più fondamentale, come ha spiegato il filosofo Claude Lefort, in democrazia il potere è un luogo vuoto che non è occupato da un sovrano che incarnerebbe la trascendenza e a questo titolo deciderebbe del bene comune. Non c’è più una aristocrazia per natura portatrice dei valori e incaricata di dettarli e di farli applicare. Tanto più che la democrazia è per natura sempre incompiuta e in dibattito.
La politica è quindi il luogo di una ricerca permanente. Questa condizione precaria è in se stessa spirituale: ci invita a restare sempre “in cammino”, come Abramo stesso si è messo in cammino; ci invita, come hanno fatto i profeti, a mettere continuamente in discussione tutto ciò che produce ingiustizia, asservimento, idolatria, cioè una riduzione dell’umano a qualcosa di inferiore a se stesso, in quanto viene considerato uno strumento, un oggetto, una funzione (consumare, produrre...), ecc.; ci invita infine ad inscrivere questa ricerca nel tempo, altrimenti è impossibile articolare le differenze e le contraddizioni proprie ad ogni società.
Siamo chiamati a vivere questa ricerca in maniera che sia un’esperienza di fraternità, affinché si diffonda nell’intera società, testimoniando così il Dio in cui la nostra fraternità trova la sua sorgente e il suo fine. Quindi, la politica può essere considerata dai cristiani, la cui vocazione è testimoniare la dimensione trascendente dell’essere umano, come il luogo di esercizio per eccellenza della carità: nel senso di farsi prossimi alle donne e agli uomini di oggi nelle molteplici dimensioni delle loro esistenze. È in questo senso che Pio XI ha potuto dire: “l’ambito della politica... è l’ambito della più ampia carità, della carità politica, di cui si potrebbe dire che null’altro, eccetto la religione, le è superiore.”
Lo spazio pubblico apre la carità ad una forma di universalità che va al di là delle azioni particolari in direzione di queste o quelle persone o gruppi di persone. Questa apertura sull’universalità è ancor più capitale nell’epoca della globalizzazione, perché si tratta di inserire l’azione politica nazionale in un insieme sempre più vasto. Questo è evidente tanto in materia di migrazione quanto in materia economica, ecologia o energetica. A questo riguardo l’Europa si afferma come uno spazio di solidarietà, e uno strumento di ricostruzione di una regolamentazione di fronte alla crisi, essendo il livello nazionale insufficiente.
Non possiamo fare le nostre scelte semplicemente in funzione di programmi o di proposte di riforma o di leggi. E neppure, anche se è importante, basandoci solo sui temi etici o sociali, indipendentemente da un modo di considerare la politica e l’esercizio delle responsabilità. Molto più profondamente, occorre porsi la domanda di come vogliamo essere corresponsabili del nostro destino, di come vogliamo fare politica e come vogliamo che la politica sia fatta: è a partire dal modo di fare politica che si delinea il nostro vivere-insieme.
Come potremo vivere e decidere insieme? Questo è la domanda essenziale che dobbiamo porci di fronte alla scelta che ci è proposta. In questo senso pensiamo che il nostro paese abbia fondamentalmente bisogno di essere riunito, per ravvivare la fiducia e il dinamismo che gli mancano. Questo passa attraverso la giustizia sociale, perché essa rende possibile la fraternità, attraverso la solidarietà perché è l’attuazione della fraternità, attraverso il rispetto del più debole e dello straniero. Passa anche, e soprattutto, dal riapprendere a sostenersi gli uni gli altri, a condividere le sofferenze e le gioie, per progredire insieme. Può essere questo il senso di un impegno cristiano in politica, il senso di una scelta al momento del voto. Non si tratta di cristianizzare la società, ma di fare un’esperienza cristiana della politica.
*Guy Aurenche, Jean-François Bouthors, Régine du Charlat, Laurent Grybowski, Monique Hébrard, Elena Lasida, Paul Malartre, Jean-Pierre Rosa, Gérard Testard.
Per un 8 marzo nella Chiesa
di Comité de la Jupe
in “www.comitedelajupe.fr” del 7 marzo 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Buona festa a voi, donne della Chiesa, in questo 8 marzo 2012, giornata internazionale delle
donne! Attraverso una serie di contributi diversi, il Comité de la Jupe denuncia fermamente la
dominazione maschile in una istituzione che costantemente umilia la metà dell’umanità.
“Il Comité de la Jupe ha già ampiamente denunciato, da un lato la discriminazione fobica di cui
sono vittime le ragazze e le donne nella liturgia - anche per la predicazione e per l’accesso al
ministero ordinato - dall’altro il tentativo di dominio sul corpo delle donne che l’istituzione perpetua
giudicando l’esercizio della sessualità e demonizzando la teoria del genere.
È urgente proseguire, denunciando, ad esempio:
un linguaggio che, in buona coscienza, impone il maschile come definizione di tutto l’umano;
l’uso ricorrente del singolare “la donna” come se esistesse un modello unico;
l’esaltazione di una figura mariana eterea, vergine e condiscendente a tutto ciò che viene dal
modello paterno clericale;
il quasi generale dominio degli ordini religiosi monastici maschili sulle branche femminili.
Sì, la Chiesa non fa meglio degli altri: ha le sue proletarie, quelle “manine laboriose”, quelle
domestiche per tutti i servizi, quel corpo che non vuole vedere. Il suo corpo che offende ogni
giorno.
Allora, donne e uomini, apriamo gli occhi, curiamo la nostra Chiesa denunciando quello che le fa
male. La nostra parola - la sua - non le fa che bene.”
(Anne Soupa)
“Un giorno un vescovo mi confidava quanto le donne nella vita politica avessero difficoltà nel conquistarsi uno spazio. Lo deplorava sinceramente. Maliziosamente, gli ho fatto notare che, almeno, anche se è difficile, nella società civile le donne potevano essere ministri! La mia riflessione lo ha lasciato senza parole! La Chiesa cattolica romana si priva così di tesori di fede, di energia, di competenza, escludendo le donne dai ministeri ordinati. Essa giustifica così una visione del femminile che non può che essere in posizione di ricezione e non di iniziativa, una visione del femminile che non può rappresentare l’iniziativa di Dio. Così facendo, e benché il discorso ufficiale lo neghi, essa giustifica, nei fatti, un posto di second’ordine per le donne. Quando usciremo da questo immobilismo?” (Sr. Michèle Jeunet, rc)
“Padre Moingt, in un articolo su Etudes, esprimeva la preoccupazione per la disaffezione delle donne rispetto alla Chiesa, allontanate dagli altari e umiliate. È ancora peggio. Tristezza fondamentale nel constatare che il dominio maschile è onnipresente e che è peggiore nella religione, perché viene fondato su giustificazioni teologiche che fanno passare le discriminazioni per volontà divina. La tendenza recente di affidare ai soli uomini o ragazzi maschi le letture liturgiche mi sembra un provvedimento inverosimile: ingiustizia enorme nei confronti delle donne e cieca di fronte al modo di funzionare delle società moderne. Oggi, la pratica religiosa si accompagna troppo spesso per me ad un sentimento di alienazione. Esperienza quanto mai dolorosa!” (Sylvie)
“Trent’anni fa, infastidita dai singolari su “La” Donna e la sua vocazione, avevo scritto un articolo“Donne e Chiesa: un amore difficile!”. A distanza di trent’anni, dopo che molte mie contemporanee hanno lasciato la Chiesa in punta di piedi, dovrei scrivere: “Donne e Chiesa: un disamore consumato.” Emorragia annunciata, proposta fatta di istituzionalizzare i servizi delle donne nella Chiesa: donne cappellane, diaconesse, e perché no, preti. Un sistema obsoleto, unito ad un discorso unisex sulla sessualità, è tuttavia continuato. Delle teologhe come France Quéré hanno allora spalancato la porta di una parola sul ruolo decisivo delle donne bibliche nella Rivelazione, non guardiane di un Tempio intoccabile, ma vettori irrinunciabili della Speranza cristiana in un mondo in trasformazione. Al fiat di Maria “celestificata” ad vitam, successe la valorizzazione di Maria radicata, contestatrice dell’ordine stabilito maschile, che ha visto la miseria di un popolo maltrattato dai superbi. Le nuove tecnologie dell’informazione svolgeranno un ruolo per il riconoscimento della dignità delle donne nella Chiesa cattolica, importante quanto quello svolto nelle recenti primavere di popoli asserviti.” (Blandine)
“Parlare dell’ordinazione delle donne resta un tabù nella Chiesa cattolica, e il prendere ufficialmente
posizione a suo favore viene minacciato di scomunica. Per la Chiesa cattolica, il prete è un “altro
Cristo”. Riflettiamo un po’ su questo...
Non siamo tutti chiamati ad essere “configurati a Cristo” secondo l’espressione di Paolo?
Noi confessiamo, seguendo gli apostoli, che Dio si è fatto “uomo”. Ma la parola usata è “umano” e
non “maschio”... Incarnandosi, Dio ha optato per il maschile, piegandosi alle convenienze del suo
tempo per poter essere ascoltato.
Non è lo Spirito Santo che consacra il pane e il vino delle nostre tavole eucaristiche?
La donna resterà sempre quell’essere incompleto, inferiore, tentatore ed impuro?”
(Claude)
“Nella mia vita professionale, familiare, cittadina, posso far sentire la mia voce e pesare sulle
decisioni. Nella Chiesa, sono doppiamente muta ed impotente poiché laica e donna.
Eppure si può essere cattolica e femminista. Ma perché restare in questa Chiesa il cui discorso
ufficiale mi glorifica per meglio togliermi la parola?
Perché, come la Samaritana, voglio avvicinarmi il più possibile e bere alla sorgente che disseta per
sempre. Perché essere vicini a Cristo è possibile, senza la mediazione delle pompe, dell’organo,
dell’incenso e del latino, dei riti e dei divieti, ma attraverso la preghiera e l’incontro dei miei fratelli
e delle mie sorelle nella Chiesa.
Ecco quello che fa paura al clero: perdere il potere che conferisce loro lo statuto che si sono
concessi (malgrado l’insegnamento di Cristo) di mediatori, soli atti a veicolare il “sacro” nei due
sensi...
L’intrusione delle donne - del femminile - nell’edificio lo farà andare in frantumi. Da Maria
Maddalena a santa Teresa di Lisieux, in tutta la storia della Chiesa, delle donne - e degli uomini
come san Francesco d’Assisi! - hanno fatto sentire la loro musica delicata: un incontro è possibile e
questo incontro passa dal cuore.”
(Françoise)
“Il magistero cattolico maschile, quasi muto sugli uomini (maschi), affronta la “differenza dei sessi”
solo attraverso le donne. Questo non è estraneo al fatto che sono degli uomini a definire la natura
delle donne. Loro sono i soggetti della dottrina, e le donne gli oggetti. Della loro natura maschile
non parlano. Senza dubbio la identificano alla natura umana. Gli uomini (vir) si identificano agli
uomini (homo), all’universale, al neutro, al prototipo, mentre assegnano le donne alla particolarità,
alla specificità, alla differenza.
Che cos’è il genere? I documenti romani lo manifestano: uomini investiti dell’autorità dicono alledonne chi esse sono e quali rapporti devono intrattenere con gli uomini. Il genere quindi è un
rapporto di potere che si costruisce nello stesso tempo in cui costruisce i suoi due termini.”
(Gonzague JD)
“La frase infelice del cardinal Vingt-Trois che ha provocato la nascita del Comité de la Jupe non era
un increscioso incidente. Era, nel senso psicanalitico del termine, una parola involontaria. Svela non
la misoginia dell’uomo, ma quella di un’istituzione che è in una fase di ripiegamento. Nel fenomeno
di “restaurazione” al quale assistiamo oggi nella Chiesa cattolica, le donne sono le prime vittime: le
si rimette “al loro posto”, quello “di ausiliaria di vita” della solo metà dell’umanità che conta, la
metà maschile che si prende per il tutto.
In questo 8 marzo, noi donne cattoliche possiamo dare l’allarme. Quando delle società o delle
istituzioni sono in crisi, le donne ci rimettono per prime. L’emancipazione delle donne nelle nostre
società occidentali è un bene prezioso ma ancora fragile; il rischio di “restaurazione patriarcale” è
reale per l’insieme della società. Queste circostanze invitano alla vigilanza e alla solidarietà di tutte
le donne e anche degli uomini che considerano come un ottimo bene che le donne siano loro
contemporanee sulla base di parità.”
(Christine Pedotti)
“Buona festa a voi, sì, a voi, donne della Chiesa. Quelle che hanno seguito gli stessi incontri di catechismo di tutti gli altri bambini. Quelle che hanno detto sì, a un uomo o a una vita consacrata a Dio. Quelle che hanno portato un figlio o una figlia al fonte battesimale, come madre o come madrina. Buona festa a voi che tornate ogni giorno, ogni settimana, ogni domenica, per accompagnare, studiare, condividere, organizzare, informare, pulire, benedire, ornare di fiori, insegnare, cantare, preparare, lodare, predicare, pregare, meditare, tenere per mano, sollevare la testa... Buona festa a voi tutte, che siete Chiesa, che fate la Chiesa...” (Estelle Roure)
In principio era l’amore: la "charitas" - non la "caritas"!!!). Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
Rimeditare sull’indicazione di Kafka, ripresa da J. Derrida: -"Potrei, per me, pensare un altro Abramo" (F. Kafka - da una lettera del giugno 1921 a Robert Klopstock, l’amico medico, che lo seguì sino alla morte).
INTERVISTA A JEAN-LUC MARION *
Nel nome del Padre perduto
«Il sacrificio della croce risiede nel fatto che in Cristo l’umanità riconosce di provenire dal Padre e che vi ritornerà». Per il francese Jean-Luc Marion, fra i più autorevoli pensatori viventi, il messaggio cristiano continua a stimolare ed irradiare, in modi anche imprevedibili, la filosofia contemporanea. Già docente presso prestigiose università europee e statunitensi, accademico di Francia, dei Lincei e membro del Pontificio Consiglio della Cultura, Marion parteciperà domani al grande convegno romano «Gesù nostro contemporaneo», intervenendo proprio su «La potenza e la gloria del sacrificio» (ore 15, Auditorium Conciliazione).
Professore, la frase di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» è stata recentemente scelta da vari scrittori francesi, credenti e no, come il passaggio più emblematico del Vangelo. Un puro caso?
«Comprendo bene che soprattutto oggi si possa restare colpiti da questa frase, apparentemente in contraddizione con quanto potremmo attenderci da Gesù. Credo si tratti del riflesso di uno stato d’animo diffuso fra i nostri contemporanei. I quali, spesso senza ammetterlo, sembrano voler dire: "Dio mio, Dio mio, perché ti abbiamo abbandonato?". Siamo noi ad abbandonare Dio. In proposito Nietzsche ha ragione, quando riconduce la morte di Dio all’interrogativo sul perché l’abbiamo ucciso. Dunque, ciò equivale pure a: "Dio mio, Dio mio, perché hai permesso che l’uomo ti abbandoni?"».
C’è un legame con l’atteggiamento di chi, in Europa, denuncia la crisi del valore repubblicano di fratellanza?
«Sì. Perché la società laica comincia a comprendere di non poter produrre questo valore. Se ci riferiamo alla triade dei valori repubblicani francesi, la libertà può forse essere garantita a livello pubblico. E, si spera, pure l’uguaglianza. Ma la fratellanza presuppone invece un padre, mentre la società laica è fondata proprio sull’assenza del padre. Il solo padre assente possibile è Dio, ma non è stato finora riconosciuto. Dunque, nei sistemi fondati sui tre valori francesi, c’è una contraddizione interna. I primi due termini non possono garantire il terzo. La fratellanza non doveva essere inclusa, perché va oltre il progetto illuministico».
Assistiamo dunque ad ammissioni d’insufficienza, sia pure spesso involontarie. Ciò tradisce pure un certo bisogno di tirar fuori l’amore dalle secche del relativismo?
«In certi casi sì, è evidente. In generale, cresce la consapevolezza che non vi è alcun legame serio e immediato fra edonismo ed amore. La confusione è di certo antica e rimane moneta corrente, ma il piacere non ha mai reso felici».
Kierkegaard giudicava la relazione con Dio come innestata sempre nel tempo presente. La filosofia contemporanea continua a rimuginare quest’idea?
«Questa riflessione non è mai scomparsa. Ma il problema è che quando si parla di una relazione con Dio, molte categorie abituali non sono applicabili, a cominciare proprio dalla relazione. Quest’ultima presuppone in teoria due termini paragonabili e che esprimono uno stesso tipo di presenza. Ma la relazione fra uomo e Dio non è riconducibile né alla relazione fra due sostanze, né a quella fra una sostanza e un suo attributo. Dunque, il nostro rapporto con Dio è più complesso e profondo di una semplice relazione. La filosofia è stata sempre cosciente che si può parlarne solo per paradossi. Kierkegaard è un ottimo esempio e non certo il solo. Quando non immaginiamo più questo rapporto come paradossale, smettiamo di comprenderlo».
Dopo il crollo delle ideologie novecentesche, la filosofia sta riallacciando nodi nuovi con il messaggio di Gesù?
«Ogni epoca ha avuto l’impressione di coltivare un rapporto onesto ed autentico con il messaggio di Gesù. Persino nei periodi di ateismo e d’iper-razionalismo. In generale, il rapporto della filosofia e della cultura con Cristo è conflittuale, nel senso che la ragione deve sempre fare autocritica per approdare a un rapporto corretto con l’avvenimento cristiano. Oggi, comunque, percepiamo molto meglio ciò che c’impedisce d’instaurare un rapporto autentico. L’eredità delle ideologie totalitarie, certo. Ma pure l’imperialismo un po’ ingenuo delle scienze umane o esatte».
Su quest’ultimo versante, cosa pensa dei promotori di un nuovo ateismo militante, come Richard Dawkins e Christopher Hitchens?
«L’esposizione mediatica di cui godono ha un sapore molto ideologico. Da un punto di vista filosofico, invece, quanto scrivono è completamente ingenuo, dogmatico, acritico, con frequenti confusioni sui risultati scientifici citati e un’ignoranza evidente sulle conclusioni della filosofia. Trovo tutto ciò un po’ comico».
I vertici europei hanno negato le radici cristiane del continente. Stiamo già pagando in parte le conseguenze di quella scelta?
«L’attuale crisi europea è soprattutto politica, perché l’Europa è ancora sprovvista di un orientamento politico. Dunque, non può divenire un’entità politica forte. Tutto il resto, mi pare una conseguenza. Ora, se non abbiamo una vera Costituzione europea, ciò è dovuto a un rifiuto da parte dei popoli. Occorre dunque interrogarsi sulle ragioni profonde di questo rifiuto. Ve ne sono forse diverse, ma occorre pure constatare che le élites europee ci avevano chiesto di avallare una menzogna sull’identità europea. I popoli hanno rifiutato pure questa negazione delle radici cristiane. Non si può costruire l’Europa senza i cristiani e il fatto cristiano. Spero sia stata compresa almeno questa lezione».
Daniele Zappalà
* Avvenire, 9 febbraio 2012
Charles Péguy e i nuovi orleanisti
di Charles Coutel*
in “www.temoignagechretien.fr” del 9 febbraio 2012 (traduzione: www.finesettimana.org)
Un secolo circa dopo la sua morte, Charles Péguy continua ad essere citato, senza necessariamente essere letto. La sua filosofia dell’ospitalità e la sua denuncia dell’“orleanismo” potrebbero però scuotere la nostra epoca.
Nella sua allocuzione dell’11 novembre 2011, il presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy cita Charles Péguy (“Beati coloro che sono morti...”). A Villeroy, depone anche un mazzo di fiori davanti alla stele eretta in onore del poeta caduto il 5 settembre 1914.
Perdura così la manipolazione nazionalista di Péguy, iniziata da Maurice Barrès fin dal 1915. Si trattava allora di annettere al campo reazionario uno de grandi difensori di Dreyfus, autore nel 1910 del bell’inno alla libertà: La nostra giovinezza. Questo testo famoso si organizza attorno alla distinzione, che i politici attuali si guardano bene dal meditare, tra la mistica e la politica.
La mistica è il sorgere mattutino e inaugurale delle nostre convinzioni politiche, filosofiche o spirituali: è la promessa di restare fedeli a noi stessi e di non uccidere questo spirito nelle istituzioni e nelle gerarchie in cui ci impegniamo per difendere queste convinzioni.
Ora, Péguy, repubblicano vigilante e libertario coraggioso, avverte: ogni spirito può tradirsi nella durata e nella gerarchia; è l’origine del processo di “clericalizzazione”, che non è appannaggio solo delle religioni. Così le mistiche (cristiana, ebraica, socialista, repubblicana) si intenderanno tra loro e si rispetteranno. Ma anche si degraderanno trasformandosi in politiche, cioè in sfruttamento elettorale e parlamentare degli ideali.
Tutte le politiche si intenderanno tra loro contro tutte le mistiche. Meglio: Péguy se la prende anticipatamente con i suoi amici socialisti e repubblicani, in occasione proprio dei dibattiti della legge del 1905. Vicino alle posizioni di Clemenceau, avverte: diventerete voi stessi dei “clericali” se, in nome della Repubblica, perseguiterete i credenti.
conosciuto, ma non letto
Ecco perché una lettura riduttiva di Péguy, come è stata fatta e come potrebbe essere fatta durante il processo di “panteonizzazione” nel 2014, è inaccettabile. Manca solo l’arruolamento della Giovanna d’Arco di Péguy in testa alle sfilate del Front National! Queste manipolazioni ci fanno dimenticare l’essenziale, come dicevano i compagni di strada di Péguy. Fin dal 1931, Emmanuel Mounier scrive: “Péguy fende l’aria davanti a noi...”. Georges Bernanos profetizzava nel 1943: “La sua ora arriverà...”
Péguy sembra conosciuto e famoso, ma non è quasi mai letto! Eppure nella sua opera si trovano, oltre ad uno stile inimitabile, due intuizioni che meritano tutta la nostra attenzione: innanzitutto una filosofia dell’ospitalità come rapporto fondamentale con gli altri, col mondo e con Dio. In seguito, una teoria critica di ciò che chiama “l’orleanismo”, un processo di inavvertito tradimento di sé.
Dalle sue prime opere (nel 1896, Primo Dialogo della Città Armoniosa e nel 1987, Giovanna d’Arco) fino al vasto poema Eva (1913), Péguy medita sul paradosso dell’Ospitalità: colui che riceve è ricevuto, colui che è ricevuto riceve. Il poeta vi vede il segreto del nostro rapporto con la Lingua, con la Patria, con l’Amore e con la Salvezza.
Ognuna delle sue opere approfondisce questa ospitalità universale interiorizzando un episodio della vita del poeta. La nostra giovinezza è un’ampia meditazione sul Caso Dreyfus. Il Denaro (1913) è una ripresa accogliente di tutta l’infanzia nella città di Orléans e nella scuola pubblica.
Ospitalità della famiglia, della scuola e della Repubblica! È così che Péguy prenderà come guide dei personaggi che hanno fatto della loro vita un luogo di accoglienza e di umiltà: Gesù, Giovanna d’Arco, gli amici del caso Dreyfus, Clemenceau, Bernard Lazare.
traditore
Ma questo paradosso dell’ospitalità, dominato dall’Amicizia e dalla Speranza, si scontra con la durezza del mondo moderno affascinato dal Denaro, dal Potere e dall’orgoglio del Partito intellettuale ufficiale.
Il 15 marzo 1904, Péguy avverte i suoi amici repubblicani e socialisti tentati dalla carriera politica e parlamentare: “La fedeltà, la costanza nell’azione non sta nel seguire sulla via dell’ingiustizia gli antichi giusti quando diventano ingiusti.” Péguy accetta perfino il rischio di essere preso per “traditore” quando persiste nel difendere l’Ospitalità in un mondo moderno inospitale.
Il 17 luglio 1910, si legge in La nostra giovinezza: “Quando un uomo di cuore, per restare fedele ad una mistica, rifiuta di entrare nel gioco della politica [...] i politici hanno preso l’abitudine di definirlo con una parola molto ben utilizzata oggi: ’traditore’. Sappiatelo bene, noi siamo sempre stati e saremo sempre questo traditore.”
Il “traditore” Péguy ci dirà tuttavia come si opera un altro tradimento, quello vero: quello del sé per sé, col quale le mistiche diventano politiche.
Questo tradimento ha un nome: l’orleanismo. Viene detto orleanismo il processo con il quale il ramo degli Orléans sostituisce quello dei Borboni a capo della monarchia francese nel 1830. Péguy vede in esso l’immagine di un movimento generale del mondo moderno, includendovi il cristianesimo. In Il Denaro, si può leggere: “Il popolo si è accanito ad uccidere il popolo [...] un po’ come la famiglia d’Orléans [...] si è accanita ad uccidere il re. Tutto ciò di cui soffriamo è in fondo un orleanismo: orleanismo della religione, orleanismo della repubblica.”
seduzione del denaro
L’orleanismo sarebbe così il segreto del capitalismo trionfante nella Monarchia di Luglio (l’ “arricchitevi!” di Guizot) e nella teoria scientista del Progresso.
Nei socialisti e nei repubblicani, ma anche nei “cristiani moderni” si trova la stessa seduzione del Denaro, la stessa idea ingenua che ciò che viene dal passato è superato, la stessa rabbia nel distruggere la cultura umanista ereditata, lo stesso gusto per le “idee generali” e i “buoni sentimenti”: ecco perché, contro l’orleanismo delle menti, e come auspicherà anche Emmanuel Mounier, Péguy lancia un appello a “rifare il Rinascimento”.
La storia dirà se si possono applicare ai candidati all’elezione presidenziale del 2012 le analisi di La nostra giovinezza che biasimano le derive delle mistiche in politiche, se Nicolas Sarkozy è l’orleanista in capo del gollismo e François Hollande quello del jauressismo.
Come ri-istituire e ri-apprendere la Repubblica? Caduto nel settembre 1914, Péguy ci lascia senza risposta. Ma se dovessimo continuare il processo della sua panteonizzazione, dovremmo aspettarci delle sorprese.
Evocando l’opera di Péguy, Daniel Halévy parlava nel 1918 di un “vasto congegno di bombe a scoppio ritardato”. Sta a noi riconoscerle prima che ci esplodano in faccia.
Noi ne vediamo tre, che ci proponiamo di sviluppare nelle prossime settimane: il nostro rapporto con il denaro, il nostro rapporto con il potere, e il nostro rapporto con noi stessi.
* Charles Coutel è direttore dell’Institut d’études des faits religieux all’università di Artois. Ha recentemente pubblicato Hospitalité de Péguy, Desclée de Brouwer, p. 162, € 15.
LA FACOLTA’ DI LINGUAGGIO E DI GIUDIZIO (DEGLI UOMINI E DELLE DONNE), LE REGOLE DELLA GRAMMATICA (DEGLI UOMINI), E LE DONNE DI FRANCIA:
"La grammatica è maschilista"
Le donne francesi vogliono cambiarla
"La cosa grave è che arrivi nelle scuole l’idea di un genere superiore all’altro"
Quattromila persone hanno sottoscritto una petizione ripresa da "Le Monde" chiedendo nuove regole
Nei plurali il femminile risulta penalizzato, l’Académie Française però si oppone a ogni riforma
di Anais Ginori (la Repubblica, 24.01.2012)
«Que les hommes et les femmes soient belles!», che gli uomini e donne siano belle. Nessuno può pronunciare questa frase senza venire immediatamente bacchettato dai puristi della lingua. Eppure è questo il titolo di un appello per riformare la grammatica che sta circolando in Rete, ripreso anche da Le Monde. Da secoli infatti la concordanza dell’aggettivo prevede che il genere maschile prevalga su quello femminile. Si dice "gli uomini e le donne sono belli", non il contrario.
Sembra una di quelle tipiche sfumature che appassionano studiosi e accademici. Invece, secondo i gruppi che hanno promosso la petizione già firmata da oltre 4mila persone, questa regola nasconderebbe un immaginario maschilista duro a morire e avrebbe addirittura conseguenze nella vita di tutti i giorni. «Se neanche nella lingua esiste la parità di genere - spiega Clara Domingues, docente di letteratura e presidente di un’associazione femminista - come sperare che la condizione delle donne faccia progressi in famiglia o negli uffici?».
La forza delle parole. Nonostante pari diritti e dignità per entrambi i sessi siano iscritti nella Costituzione, argomentano le promotrici dell’appello, esiste ancora una grammatica "sessista". «La cosa più grave - si legge nella petizione - è il fatto che questa idea di un genere superiore all’altro venga trasmessa anche a scuola nell’insegnamento del francese ai bambini». Le associazioni militano per un cambio dei manuali nel quale sia prevista la possibilità di accordare aggettivi e participi secondo il genere del nome più vicino. Ad esempio: «Un cappello e una giacca nere». Oppure: «Laura, Giacomo e Paola sono simpatiche».
Femminismo a parte, una grammatica meno schiacciata sul maschile, offrirebbe più libertà nella costruzione delle frasi e sarebbe esteticamente più elegante, aggiungono le promotrici. Contrariamente a quel che si pensa, già nel greco antico e nel latino funzionava così. La petizione è stata inviata all’Académie Française, guardiano della purezza della lingua, con scarse speranze di essere accolta.
L’istituzione fondata nel 1635 dal cardinale Richelieu ha sempre fatto argine ad ogni cambiamento in questo senso. Già dieci anni fa, l’organismo si era rivolto con allarmismo al capo dello Stato. Le socialiste Martine Aubry e Elisabeth Guigou, appena nominate nell’allora governo, avevano osato farsi chiamare "Madame la Ministre". Da allora, ci sono state molte altre ministre e prima o poi l’Académie dovrà registrare la novità.
Per tradizione, si tratta di un’istituzione esclusivamente maschile, sette donne tra i quaranta membri, la prima fu la scrittrice Marguerite Yourcenar nominata solo nel 1980. «Non abbiamo mai seguito le mode. La superiorità del maschile esiste almeno da tre secoli e non ho l’impressione che sia rimessa in discussione nell’uso comune del francese» spiega Patrick Vannier, che si occupa del dizionario dell’Académie. La parità di genere può aspettare, almeno in senso linguistico.
Giovanna d’Arco & C. la politica arruola i fantasmi
Sarkozy strappa la Pulzella a Le Pen e divide la Francia
Ma il Medioevo “addomesticato” dilaga in molti Paesi
In Italia i leghisti si sono appropriati di Alberto da Giussano sulla cui epopea non mancano i dubbi
di Massimiliano Panarari (La Stampa, 08.01.2012)
Non c’è mai pace per la povera Giovanna d’Arco. In questi giorni la Francia sta celebrando il sesto centenario della nascita della patrona nazionale (avvenuta il 6 gennaio del 1412), e le polemiche esplodono con una durezza che non si ricordava da tempo. La ragione, naturalmente, risiede nel clima elettorale fattosi ormai incandescente e in un Nicolas Sarkozy che, divenuto timoroso riguardo le proprie chances di rielezione, non si fa scappare nessuna occasione promozionale. A tre mesi e mezzo dal voto, la visita di Sarkò alla casa natale di Giovanna a Donrémy, nei Vosgi, ha così dato fuoco alle polveri, con la sinistra che, sentendo stavolta il vento in poppa, non ci sta a farla trasformare in un santino elettorale a uso e consumo dell’Ump. E anche questo è un fatto nuovo, perché, da sempre, la Pulzella d’Orléans rappresenta innanzitutto un’icona della destra dura e pura, la quale riserverebbe (metaforicamente) al Presidente in carica una fine simile a quella che gli inglesi inflissero alla santa combattente, bruciata sul rogo come eretica (un’«imputazione» che la Chiesa cattolica cancellerà prontamente).
Ecco, allora, che dal Partito socialista, da sempre assai tiepido nei confronti della mistica condottiera (con l’eccezione di Ségolène Royal), si è levata più di una voce per ricordarne la valenza di simbolo di unità e concordia, da non strumentalizzare per la battaglia elettorale. E, dunque, Sarkò giù le mani da Giovanna d’Arco: parola di Harlem Désir (il vecchio leader di Sos Racisme, oggi numero 2 del Ps di Martine Aubry) e di Vincent Peillon (l’eurodeputato attualmente uomo chiave della campagna di François Hollande). Mentre, da altri lidi della variegata sinistra transalpina, Eva Joly (l’ex magistrato candidata dello schieramento ecologista) rimprovera al capo dello Stato di inseguire l’estremismo di destra esaltando un «simbolo ultranazionalista», quando il problema vero consisterebbe, invece, nel rilanciare la solidarietà tra europei di fronte alla crisi drammatica che stiamo vivendo.
E, naturalmente, fuoco e fiamme contro Sarkozy vengono da Marine Le Pen (anch’essa temutissima candidata alle presidenziali), che lo accusa di scippo, rivendicando la maternità della memoria dell’eroina che «ha buttato gli inglesi fuori dalla Francia», recuperata a metà degli anni Ottanta dal Front national di suo papà per venire riconvertita nella testimonial di una serie di dure campagne anti-immigrati e a difesa della «purezza della stirpe» francese.
Peraltro con le sue innegabili (ancorché discutibili) buone ragioni, perché se la Pulzella è stata spesso invocata anche dai laici governanti della Terza Repubblica, il top della popolarità l’ha sempre raggiunto in seno all’arcipelago della destra estrema, dall’Action française protagonista, a inizio secolo scorso, di una violenta diatriba con un famoso professore di liceo, Amédée Thalamas, «reo» di avere sollevato alcuni dubbi storiografici sulla vulgata che circondava l’eroina al regime collaborazionista di Vichy, dai monarchici ai cattolici tradizionalisti.
La storia, si sa, è terreno di scontro ideologico da sempre, ma l’«affaire Giovanna d’Arco» di questi giorni sembra confermare una tendenza peculiare di questa nostra temperie postmoderna, ovvero la predilezione della politica a dividersi su personaggi ed eventi del Medioevo. In diversi (da ultimo il bel libro di Tommaso di Carpegna Falconieri, Medioevo militante, edito da Einaudi) ci hanno spiegato come l’Evo di mezzo sia massicciamente entrato nell’immaginario collettivo degli ultimi decenni, senza risparmiare quella dimensione dell’identità che una parte della politica, vedova (consolabilissima) di sistemi di pensiero e idee forti, ha pensato bene di proiettare su una galleria di figure eroiche collocate in epoche assai lontane e con il vantaggio di essere spesso circonfuse di una sorta di aura leggendaria. Un fenomeno che spiega molto bene il ritorno prepotente dei nomi e dei simboli di cavalieri e condottieri medievali sui tremendi campi di battaglia delle guerre etniche dell’ex Jugoslavia, per nobilitare la rinnovata volontà di potenza della Russia di Vladimir Putin o per puntellare il governo nazionalista e xenofobo nella triste Ungheria di Viktor Orbán. Altrettante reinvenzioni della tradizione per scopo politico.
Come quella, per rimanere nei prati di casa nostra, che la Lega Nord ha operato a proposito di Alberto da Giussano, il mitico condottiero del XII secolo grazie al quale i Comuni italiani sbaragliarono le armate imperiali di Federico Barbarossa (tanto da meritarsi, secoli dopo, un costoso kolossal cinematografico sotto l’ultimo governo Berlusconi). Mitico o, forse, assai più verosimilmente «mitologico», come ritiene la gran parte della comunità storiografica internazionale, per la quale dell’esistenza del comandante militare della Lega Lombarda non esistono nei documenti tracce attendibili (da leggere, per rendersene conto, il libro del medievista Paolo Grillo, Legnano 1176, Laterza). Insomma, un falso pluricentenario.
Giovanna d’Arco
La battaglia per i voti alla corte della Pulzella
Sarkozy domani celebrerà i 600 anni dalla nascita dell’eroina, da anni simbolo del Fronte nazionale
Dietro l’omaggio si cela però una mossa per sedurre l’elettorato di Le Pen in vista del ballottaggio
di Giampiero Martinotti (la Repubblica,05.01.2012)
Un gesto politico destinato a suscitare dissapori, proteste e polemiche: Nicolas Sarkozy sarà domani in Lorena per celebrare Giovanna d’Arco a 600 anni dalla sua nascita. Formalmente, è il capo dello Stato a rendere omaggio alla pulzella d’Orléans, nata a Domrémy il 6 gennaio 1412. Ma dietro la silhouette presidenziale spunta il candidato non dichiarato all’Eliseo, l’uomo della destra pronto a cercar voti sul terreno tradizionalmente riservato al Fronte nazionale dei Le Pen, padre e figlia. Giovanna d’Arco è infatti il nume tutelare dell’estrema destra francese, la figura storica che ricorre continuamente nel linguaggio e nell’immaginario dei suoi leader e dei suoi militanti: con la sua scelta, Sarkozy dimostra di voler sedurre quella frangia dell’elettorato che è tornata ad essere fedele all’Fn. Una fascia di cittadini che deve assolutamente riconquistare per sperare di essere rieletto al ballottaggio del 6 maggio.
Gli uomini del Presidente, ovviamente, negano qualsiasi volontà di recupero: la celebrazione dell’eroina sarebbe solo un riconoscimento dovuto allo spirito di resistenza della pulzella. Louis Aliot, numero due del Fronte e compagno di Marine Le Pen, ha subito polemizzato: «Corre dietro alle nostre idee, ma solo l’Fn rende omaggio da trent’anni a Giovanna d’Arco». Uno dei più fedeli compagni di strada di Sarkozy, il ministro dell’Interno Claude Guéant, è sceso in campo per difendere il Presidente: «Nessuno può contestare che Giovanna d’Arco faccia parte dell’immaginario nazionale. Appartiene alla Francia, non appartiene ad alcun partito».
Nei fatti, tuttavia, la pulzella d’Orléans è la bandiera dell’estrema destra: ogni 1º maggio, il Fronte nazionale organizza una manifestazione che parte dalla statua in place des Pyramides e sabato celebrerà da parte sua il seicentesimo anniversario della sua nascita. Jean-Marie Le Pen, del resto, non perde occasione per citarla. Lo fece anche un anno fa, in un’intervista a Repubblica, prima di lasciare la guida del partito alla figlia: «Amo molto gli stranieri alla maniera di Giovanna d’Arco. Le dicevano: Giovanna, Dio ci obbliga ad amare gli inglesi, lei li ama? E lei rispondeva: Sì, a casa loro». La foto di una giovane vestita come una guerriera medievale a una sfilata del Fronte nazionale riassume l’identificazione tra l’estrema destra e la contadina lorenese.
La sinistra è sempre stata imbarazzata davanti a questo simbolo e lo è tuttora: Laurent Fabius vorrebbe aprire un museo dedicato a Giovanna a Rouen, dove fu mandata al rogo, mentre il portavoce del Partito socialista ha preferito non commentare la scelta di Sarkozy. Ma in passato perfino il comunista Louis Aragon aveva difeso la pulzella d’Orléans: «Per me è essenziale che abbia salvato il regno di Francia». Non sarà Giovanna d’Arco a scegliere il futuro presidente della Repubblica, ma l’identità nazionale francese è talmente forte che correre dietro ai suoi simboli è considerato dalla classe politica una necessità indispensabile per conquistare consensi.
Quella santa di Francia confiscata dalla destra
di Jacques Le Goff (la Repubblica, 05.01.2012)
Giovanna d’Arco ha avuto da viva e subito dopo la sua morte nel XV secolo un destino molto complesso. E’ stata dapprima molto onorata dai francesi, che sostenevano il delfino Carlo, diventato teoricamente il re Carlo VII, contro gli inglesi, che con il trattato di Troyes del 1420 avevano ottenuto la corona di Francia, portata da un bambino, Enrico VI. Giovanna d’Arco era riuscita a far togliere l’assedio di Orléans, città strategicamente molto importante, e a condurre il delfino Carlo a Reims per farlo consacrare secondo il diritto tradizionale dei re di Francia. In seguito, era stata fatta prigioniera e consegnata agli inglesi, che la fecero giudicare da un tribunale di inquisizione ai loro ordini: condannata a morte, fu bruciata sul rogo a Rouen nel 1431. Quando gli inglesi furono definitivamente cacciati dalla Francia, il re Carlo VII, ristabilito a Parigi, non s’interessò alla persona che gli aveva assicurato il trono. Fece tuttavia riunire un tribunale, che rigiudicò Giovanna nel 1456, annullò il precedente processo e la condanna a morte per eresia.
Dal XV al XX secolo Giovanna d’Arco restò più o meno nella memoria storica dei francesi, ma nella storia nazionale non fu un personaggio di primo piano. Le cose cambiarono profondamente all’indomani della prima guerra mondiale. Il governo di destra che guidò la Francia dal 1919, all’indomani della vittoria sulla Germania, si appoggiò su un sentimento intermedio fra il patriottismo legittimo e il nazionalismo ideologico. Ciò produsse un doppio avvenimento essenziale, che forgiò l’immagine di Giovanna d’Arco nella storia di Francia. Nel 1920, fu canonizzata e divenne santa con un decreto del Vaticano. Di conseguenza, il governo di destra la decretò santa nazionale, istituendo una festa annuale di Giovanna d’Arco che resta nel calendario francese, ma che fu ben presto confiscata in qualche modo dall’estrema destra.
Prima dai cattolici integralisti dell’Action Française, diretta da Charles Maurras ; poi dal governo di Vichy, insediato dai tedeschi in seguito alla disfatta della Francia nel 1940 ; e più ancora dopo la fine della seconda guerra mondiale, perché fu adottata come patrona della Francia dal più nazionalista ed estremista movimento di destra, il Fronte nazionale guidato da Jean-Marie Le Pen. Ogni anno, il Fronte nazionale organizza una sfilata e una manifestazione davanti e attorno alla statua di Giovanna d’Arco, che si trova vicino al Lungosenna e non lontano dalla place de la Concorde.
Giovanna d’Arco fu oggetto di attenzione da parte di alcuni storici, primi fra tutti Colette Beaune e Philippe Comtamine, che stabilirono un’immagine oggettiva e fondata sui documenti d’epoca di Giovanna d’Arco. Le fu consacrato un museo storico senza partito preso ideologico a Orléans, la città che aveva liberato dall’assedio inglese e che gli valse il nome di Pulzella d’Orléans : pulzella significava vergine e Giovanna d’Arco aveva molto insistito durante il suo primo processo sul valore della sua verginità. D’altra parte, fin dall’Ottocento, ma senza grande risonanza, il testo scientifico dei suoi due processi era stato pubblicato dallo storico di qualità (e oggettivo) Jules Quicherat.
Tuttavia, Giovanna d’Arco, sfruttata dal nazionalismo estremista della destra e in particolare dall’Fn, pur restando un personaggio importante e positivo della storia francese, non fu particolarmente onorata dai francesi che non erano di destra. Nella tradizione essenzialmente di destra furono associati due personaggi storici: Giovanna d’Arco e Napoleone. Questo atteggiamento radicato nell’ideologia nazionalista del XX secolo può ancora ispirare certi uomini politici di destra. E’ probabilmente in questa prospettiva, pensando non solo a Giovanna d’Arco ma a Napoleone, che Nicolas Sarkozy ha l’intenzione di celebrarla. Per la grande maggioranza dei francesi, Giovanna d’Arco è un personaggio importante, commovente, che i francesi hanno ragione di venerare nella moderazione di un patriottismo ragionato e ragionevole. Ma metterla in primo piano è un atteggiamento tipico della destra.
La teologia di Ratzinger nella scelta di Scola
di Giancarlo Zizola (la Repubblica, 30 giugno 2011)
Un pontificato che si narra come proiezione dell’autobiografia di Joseph Ratzinger nelle scelte istituzionali. La nomina di Angelo Scola a Milano è l’ultima conferma della plausibilità di questa chiave interpretativa. Benedetto XVI ha un occhio di riguardo per le persone incrociate in passato.
È accaduto per Tarcisio Bertone, che deve il ruolo di segretario di Stato poco più che alla scrivania di segretario della Congregazione per la Dottrina accanto all’ufficio del prefetto. Come se un pezzo di burocrazia condivisa potesse garantire qualità per qualsiasi altro ruolo. In modo analogo, con il canadese Marc Ouellet a capo della Congregazione dei Vescovi e il patriarca Scola a Milano, si proietta ai vertici della Chiesa il club teologico di Communio, la rivista teologica fondata nel 1972 da Ratzinger con Urs von Balthasar e Henri de Lubac per competere con le visioni del riformismo radicale di Concilium. E l’ammirazione di Ratzinger per don Giussani, i cui funerali volle concelebrare a Milano, è la fonte riconosciuta di una predilezione papale per Cl, un movimento di cui Scola era seguace, anche se da anni non aveva ruoli privilegiati al suo interno.
Non è solo questione di fiducia personale, e neanche di medaglie al merito assegnate agli amici, ma di opzioni. Vi è bene un legame tra le ostinate affiliazioni lefebvriane del fratello prete Georg, da un lato, e - dall’altro - le precipitose assoluzioni dei vescovi dello scisma e le controriforme liturgiche con cui il papa ha dato via libera alla messa tridentina che va generando l’attuale baraonda intorno agli altari cattolici. Su un altro piano, una continuità autobiografica emerge tra il Ratzinger di professione teologo e un magistero papale dominato dall’inquietudine per la formazione anche intellettuale dei cattolici ad una fede matura, fino all’apogeo dell’opera anticamente sognata, i due volumi del Gesù di Nazareth, non a caso firmato insieme da "Joseph Ratzinger e Benedetto XVI".
Un papa ha bene il diritto di imprimere la propria impronta sulla vita della Chiesa. Ma la nomina di Scola rischia di diventare un caso imbarazzante, al di là delle qualità personali del prescelto, ben riconosciute, proprio perché fa esplodere alcune anomalie del sistema. Il "fattore Papa" ha giocato nella costruzione di una campagna di stampa martellante, che ha penalizzato la ricerca di altre candidature. Con due conseguenze: di intercettare il severo clima di segretezza in cui Roma avvolge le procedure di selezione dei vescovi (il cardinale Martini scriveva domenica di essere stato sorpreso dalla sua nomina a Milano). Poi, di contraddire il criterio raccomandato dallo stesso Papa, di scegliere come vescovi candidati che abbiano almeno dieci anni prima della rinuncia canonica a 75 anni, perché possano svolgere un piano pastorale decente. E invece per Milano è stato nominato un settantenne.
L’anomalia maggiore è visibile, ancora una volta, nelle procedure centralizzate. A metà dell ’Ottocento Antonio Rosmini dimostrava che il sistema verticistico non era in grado di tutelare la Chiesa dalle ingerenze del potere politico. Le campagne mediatiche a favore di un candidato sono la nuova forma delle pressioni dei poteri cesaro-papisti, che rendono attuali le lotte per le investiture di Gregorio VII. Benché la consultazione del nunzio in Italia Giuseppe Bertello nella diocesi di Milano sia stata più ampia del consueto, è evidente che quanto è successo invita a ripensare al monito di Rosmini circa i vescovi "intrusi", paracadutati dall’alto e dunque fattori di indifferenza religiosa e di divisione del popolo cristiano.
L’altra anomalia riguarda la situazione dell’episcopato italiano. Indubbiamente non mancano al suo interno delle intelligenze pastorali di grande sensibilità e zelo, tuttavia alcune analisi sociologiche, come quella di Luca Diotallevi, non si astengono dal documentarvi segnali di un criterio selettivo ancorato per oltre un ventennio alla presunta sicurezza di figure conformiste, col risultato che gli attuali risvegli dal basso mondo cattolico sembrano scarsamente recepiti dalla gerarchia e non sembra determinarsi una vera inversione di rotta. Paradossalmente la Chiesa italiana era più ricca sotto Pio XII di grandi figure episcopali, un certo Roncalli a Venezia, Montini a Milano, Fossati a Torino, Siri a Genova, Lercaro a Bologna, Dalla Costa a Firenze, Ruffini a Palermo: saranno igrandi protagonisti del Concilio Vaticano II.
Infine, da notare che Scola entra a Milano su due vigilie: quella del cinquantenario dell’apertura del Vaticano II (1962-2012) e quella dei 1700 anni dell’editto di Milano con cui aveva origine "l’età costantiniana" nel 313: statuto di libertà per il cristianesimo, divenuta "religione imperiale". Vigilie che si intrecciano organicamente.
Il maestro di Scola, Von Balthasar, era molto netto sulla necessità di finirla con la riproduzione del regime di cristianità. Diceva che «al cristiano è vietato il ricorso ai mezzi d’azione specificamente mondani per un preteso incremento del regno di Dio in terra». Criticava l’integralismo di gruppi di «mammalucchi cristiani che aspirano a conquistare il mondo» e ammoniva: «Chi fa tali cose non ha esatta idea né della impotenza della croce né della onnipotenza di Dio né delle leggi proprie della potenza mondana».
I vescovi francesi pubblicano un “Indignatevi!” cristiano
di Amanda Breuer
n “www.lemondedesreligions.fr” del 16 marzo 2011 - traduzione: www.finesettimana.org)
Pubblicato il 10 marzo 2011, Grandir dans la crise (Crescere nella crisi) è un manifesto contro il nostro modo di consumare che, secondo la Conferenza episcopale [francese] ci illude sul vero bene comune, un manifesto contro la deregulation del mercato del lavoro che impedirebbe all’uomo di realizzarsi e contro l’indifferenza generalizzata che indebolirebbe la solidarietà e il senso di responsabilità verso i propri simili.
Ma questo libretto non si limita a constatare e a denunciare, fa anche proposte. La prima misura avanzata: un rafforzamento della corresponsabilità in particolare tra le imprese, i politici, i media e la società civile, ma anche la creazione di un organismo sovranazionale sussidiario che sia a servizio dell’interesse generale. L’autore del rapporto, l’arcivescovo di Rouen Mons. Jean-Charles Descubes, spiega: “Gli organismi internazionali del dopoguerra hanno bisogno di una “trascendenza” per permettere un certo distacco. Un’organizzazione politica gestita unicamente da politici può avere derive in senso totalitario. Allo stesso modo, un’organizzazione economica, quando è regolamentata solo dagli ambienti economici, può diventare pericolosa.”
Sul piano economico, il libro è a favore di una regolamentazione etica delle imprese e del mercato. I vescovi auspicano che i codici di comportamento corretto diventino obbligatori per non penalizzare le società che li applicano. Moralizzare le imprese consisterebbe nello spingerle a realizzare una giustizia sociale al loro interno, a contribuire allo sviluppo socio-economico locale, ad attuare delle politiche di gestione dei danni diretti e collaterali causati all’ambiente naturale e umano, a lottare contro i conflitti di interesse e la corruzione, a rifiutare di essere complici di violazioni dei diritti umani nella loro sfera d’influenza...
Ma i vescovi vorrebbero andare anche oltre per il settore bancario e quello finanziario: obbligarli al credito responsabile, a dare alle esigenze di controllo un peso proporzionale ai rischi corsi dalla collettività, ad assicurare la trasparenza dei guadagni verso il fisco e a ridurre il ricorso all’evasione fiscale: sono alcune delle esigenze espresse. Anche se Grandir dans la crise critica gli eccessi dell’alta finanza, non la tratta da capro espiatorio: “La finanza è essenziale per l’economia. Vogliamo solo mettere l’uomo tra l’una e l’altra”, riassume l’arcivescovo di Rouen.
Politicamente, un organismo sovranazionale, secondo i vescovi, dovrebbe essere in grado di impedire a certi paesi di privilegiare i loro specifici interessi rispetto a quelli di tutta l’umanità. Ma diffidano anche, e a giusto titolo, del populismo ancora molto vivo in Europa: “Non basta condannare le ideologie che speculano sulle paure suscitate dalla globalizzazione, sull’aumento delle differenze culturali o religiose sia all’interno del nostro paese, che in molti altri paesi europei.” Queste paure sono alimentate, a loro avviso, dalla disattenzione per le esigenze fondamentali proprie dell’ordine politico democratico, da un’ingiustizia sociale flagrante, dalla mancanza di equità nella ridistribuzione delle ricchezze, dall’evasione fiscale o da certe forme di discriminazione...
Di fronte a queste derive, la Conferenza se la prende anche con i media. Deplora una corsa all’indice di ascolto e alla redditività, a scapito della formazione di una coscienza civica e dell’apertura a tutti della parola. Di fronte al “trionfo del tempo reale” e del politicamente corretto, i vescovi auspicano che ci sia nei media un ritorno alla riflessione. Approvano tuttavia lo sviluppo della blogosfera, portatrice “di un pluralismo di opinioni e adatta ad uno scambio bilaterale”.
Infine, la partecipazione dei cittadini (attraverso le associazioni, le ONG o l’assunzione di responsabilità politiche) sarebbe, a loro avviso, la pietra angolare di un migliore “vivere insieme”. Ricordano la necessità di compiere i propri doveri di cittadini in particolare quello di votare poiché “se il cittadino non è vigilante, il potere sarà confiscato da interessi privati”, ma anche di pagare le imposte “che permettono allo Stato e alle collettività locali di essere al servizio del bene di tutti”. Infine l’opera difende un umanesimo cristiano tollerante di fronte alla crescita degli estremismi politici. La Conferenza episcopale francese firma un “Indignatevi!”cristiano.
PER UN NUOVO UMANESIMO E UN NUOVO CRISTIANESIMO. Pensare l’ "edipo completo"(Freud), a partire dall’ "infanticidio"!!!
AL DI LA’ DEL SACRO E DEL PROFANO, RIPENSARE INSIEME IL "CRISTO MORTO" (DI MANTEGNA) E "L’ORIGINE DEL MONDO" (DI COURBET) E ANDARE AL DI LA’ DELL’ORDINE SIMBOLICO DELLA MADRE (DI EDIPO) VERSO L’ORDINE SIMBOLICO DI UOMINI E DONNE LIBERE E LIBERI - QUELLO DI MARIA E GIUSEPPE E GESU’:
"L’origine du monde" (Wikipedia)
di Armando Torno (Corriere della Sera, 25 marzo 2011)
Il Cortile dei Gentili è cominciato ieri alle 15 nella sala XI dell’Unesco, a Parigi. Dopo il primo incontro di Bologna, che sotto la torre Eiffel qualcuno ha graziosamente definito apéritif, il dialogo tra credenti e non credenti è stato avviato dai saluti delle autorità («la ragione non riesce a fondare la fraternità», ha detto Getachew Engida, direttore generale aggiunto) ma anche dalle parole del cardinale Gianfranco Ravasi. Utilizzando un felice tocco di retorica, il porporato ha scelto una parabola per l’esordio di questo progetto destinato a raggiungere ogni parte del mondo. Ravasi, inoltre, cita Goethe, ricorda le frasi dell’apostolo Paolo per descrivere Gesù nell’antico cortile, utilizza Wittgenstein per parlare dell’indagine e dei confini della nostra conoscenza.
Poi si succedono gli ambasciatori del Marocco, della Repubblica Ceca, del Congo, nonché Giuliano Amato, protagonista di un intervento che fa pensare. Evidenzia lo spostamento dei confini del bene e del male che è in atto, sottolinea che la democrazia non è il regno del relativismo ma è basata su valori assoluti, invita a un’alleanza tra credenti e non credenti per ridare senso ai fondamenti morali del vivere. Merita un plauso, tra gli altri, l’intervento di Fabrice Hadjadj, filosofo e scrittore, che rammenta il bisogno di ognuno di elevarsi al cielo; inoltre, con un affondo, paragona il mistero della Parola alla volontà di potenza, invitando a cercare l’uomo non nell’efficienza ma «nell’epifania del suo volto».
Oggi, invece, dopo le credenziali politiche e diplomatiche, il Cortile dei Gentili avrà una giornata parigina intensissima. Alle 9 si comincia alla Sorbona con personalità quali Jean-Luc Marion, Julia Kristeva e, tra gli altri, il genetista Axel Kahn; alle 15 si passa all’Institut de France, dove gli accademici di Francia (tra loro si chiamano «immortali» ) renderanno onore all’iniziativa: da Gabriel de Broglie a Jean Clair, da Claude Dagens a Jean-Claude Casanova.
Alle 19 si terrà al Collège des Bernardins una tavola rotonda, dove Patrick de Carolis animerà un confronto sul progetto globale del Cortile. Intanto, alle 19.30 comincerà davanti a Notre-Dame un’animazione musicale, che lascerà il posto a una proiezione e alle 21 all’intervento su grande schermo di papa Benedetto XVI. Quindici minuti sono previsti per le parole del pontefice. Poi canti gregoriani, video, una danza sul «Cantico dei Cantici» e altro ancora. Sino al silenzio della notte, accolto nella cattedrale dalle meditazioni dei Fratelli di Taizé.
Il Cortile dei gentili arriva in Francia
Che fatica tacere di Dio
di SILVIA GUIDI *
"Quello che stupisce non è tanto la nostra difficoltà a parlare di Dio, quanto la nostra difficoltà a tacere di Lui" chiosa acutamente il filosofo e accademico di Francia Jean-Luc Marion, a margine del suo tentativo di estendere la fenomenologia a terreni finora inesplorati. È proprio l’invito a non censurare questo insopprimibile desiderio di parlare delle cose ultime rivolto a tutti, ma soprattutto a "chi non ha mezzi invisibili di sostentamento" (John Buchan) l’obiettivo del Cortile dei gentili, la struttura permanente (e itinerante) di dialogo inserita nel Pontificio Consiglio della Cultura.
La carovana ideale del Cortile - un progetto fortemente voluto dal presidente del dicastero, il cardinale Gianfranco Ravasi, e diretto da padre Jean-Marie Laurent Mazas - farà tappa il 24 e il 25 marzo a Parigi (prima di continuare il suo viaggio per Tirana, Stoccolma, Praga, Barcellona) per offrire a credenti e non credenti un’occasione di confronto e di arricchimento reciproco, cercando di evitare le secche di una "superficialità che stinge la fede in una vaga spiritualità e riduce l’ateismo a una negazione banale e sarcastica", come ama ripetere Ravasi parlando delle potenzialità del progetto. L’importante, ha precisato il cardinale durante la presentazione della versione francese dell’iniziativa, che si è svolta venerdì 18 marzo nella Sala Stampa della Santa Sede, è "non scambiare queste occasioni di dialogo per semplici congressi; non si tratta di cercare un minimo comune denominatore vago; sono occasioni in cui le opinioni dei relatori possono emergere anche con una forte carica testimoniale. La parola in questi casi non è solo "informativa" ma acquista anche una valenza "performativa"; ognuno mette in gioco la sua passione, le sue convinzioni, la sua visione del mondo".
Dopo l’incontro bolognese del 12 febbraio scorso, in cui il cardinale Ravasi e il rettore dell’università Ivano Dionigi hanno presentato la fisionomia della struttura e dato inizio al dibattito con alcuni intellettuali italiani, il Parvis des Gentils sarà lanciato ufficialmente in Francia con una due giorni di eventi su "Illuminismo, religione, ragione comune" organizzati in collaborazione con l’Institut Catholique. "I luoghi sono stati scelti per la loro valenza simbolica - spiega padre Mazas - per lo stesso motivo è stato scelto il logo dell’iniziativa disegnato da Serge Bloch: un unico tratto di penna che prende colori e forme diverse a delineare volti distinti e contrapposti". I lavori saranno aperti nel pomeriggio di giovedì 24 marzo nella sede dell’Unesco da un videomessaggio di Irina Bokova, direttore generale dell’organizzazione ("a dieci anni dall’11 settembre 2001, gli enti internazionali stanno riscoprendo l’importanza del dialogo interreligioso" chiosa padre Mazas), mentre a copresiedere ci sarà il cardinale Ravasi. Tra i politici invitati, Giuliano Amato, ex presidente del Consiglio italiano, Aziza Bennani, ambasciatrice del Marocco all’Unesco e Frédéric Mitterand, ministro della Cultura francese. Pavel Fischer, ex ambasciatore della Repubblica Ceca in Francia, si soffermerà sull’importanza della ricerca di senso in un mondo al contempo secolarizzato e religioso, tema che verrà ulteriormente approfondito nel contributo dello scrittore e drammaturgo per l’occasione, Fabrice Hadjadj, con una piéce teatrale su Giobbe che sarà parzialmente rappresentata durante la due-giorni parigina. Jean Vanier, fondatore dell’Arche, offrirà una testimonianza sulla forza trasformatrice di uno sguardo che non teme di posarsi sulle ferite dell’umano.
Durante la giornata di venerdì 25 marzo i lavori saranno ospitati nei luoghi più emblematici della cultura francese, a partire dal colloquio del mattino alla Sorbona, copresieduto dal cardinale Ravasi e dal rettore dell’Accademia di Parigi, Patrick Gérard. Condotta da Jean-Luc Marion, la seduta approfondirà il tema "Lumi, religioni, ragioni comuni" grazie alle relazioni di Julia Kristeva, semiologa e psicoanalista, del filosofo Bernard Bourgeois, e del genetista e saggista Axel Kahn. Concluderà Pierre Cahne, rettore dell’Institut Catholique di Parigi. La terza tappa del percorso fondativo del Cortile si terrà nel pomeriggio all’Institut de France; di economia, etica e finanza parleranno Bertrand Collomb e Rémi Brague, membro dell’Accademia delle Scienze morali e politiche; sul tema "Diritto e molteplicità dei riferimenti culturali" interverrà François Terre, membro dell’Accademia delle Scienze morali e politiche. È stato invitato anche Giulio Tremonti, ministro dell’Economia e delle Finanze italiano. A confrontarsi su "Arte, culto e cultura" saranno due accademici di Francia, Jean Clair e monsignor Claude Dagens, vescovo di Angoulême.
Al termine della due giorni di incontri, il progetto sarà presentato presso il Collège des Bernardins. L’evento finale sarà dedicato ai giovani, attesi a Notre-Dame per una serata di musica, spettacolo e testimonianze sulla piazza antistante la basilica. L’incontro proseguirà con una veglia di preghiera guidata dalla Comunità di Taizé.
* © L’Osservatore Romano 19 marzo 2011
Dalla cattedra al cortile
di Piero Stefani (Il pensiero della settimana, 26 febbraio 2011) *
Una delle intuizioni più profonde del card. Martini fu di istituire la «cattedra dei non credenti». L’esempio di Milano fu imitato da molti, in modi non sempre felici. Invero, nel succedersi delle edizioni, anche nella diocesi ambrosiana l’iniziativa perse progressivamente di smalto. Assunse, infatti, più l’aspetto di «liturgia culturale» che di vero e proprio confronto. Ciò non toglie la geniale originalità dell’iniziativa. Il suo fulcro era ben espresso dal titolo scelto. Un vescovo, a cui spetta, per definizione, la cattedra, dava voce a insegnamenti che provengono dall’esterno e giungono fino all’interno. Per comprenderlo occorre aver a mente che l’impostazione degli incontri non si concentrava sul confronto tra persone dotate o sprovviste di fede. Questo aspetto non era escluso, ma non era il più significativo.
La qualifica di «non credente» è spesso riduttiva o addirittura impropria, dominata com’è da una pura negazione. Nella «cattedra» era invece propria; e lo era perché il senso più autentico della proposta stava nell’affermare che le ragioni più serie della non credenza venivano considerate una forma di interlocuzione, esterna e interna, indispensabile perché ci fosse una fede matura. Analogamente la testimonianza di un credente pensoso non era avvertita priva di significato da parte di chi, in virtù della sua riflessione e della sua coscienza, era indotto a negare l’esistenza di una realtà trascendente o, quanto meno, nutriva dubbi al suo riguardo.
Si comprende, allora, sia perché Martini parlasse del dialogo con il non credente che è in noi, sia perché dichiarasse che la vera distinzione non era quella che sussiste tra credenti e non credenti, ma quella che divide le persone pensanti dai non pensanti. Si potrebbe tentare una sintesi: le persone pensanti sono coloro che danno spazio dentro di sé alle ragioni dell’«altro»; lo fanno non per consegnarsi all’incertezza, ma per render più mature le proprie convinzioni. Ciò avviene solo nel caso in cui il confronto sia sincero e alieno tanto da interessi di parte quanto da convenienze reciproche; condizioni queste ultime ormai estremamente rare.
In luogo della «cattedra dei non credenti», la Chiesa universale ora lancia un’iniziativa chiamata «cortile dei gentili». Affidata al Pontificio Consiglio della Cultura (prefetto card. Ravasi), il «cortile» è stato preinaugurato un paio di settimane fa a Bologna; mentre l’avvio ufficiale avverrà a Parigi verso fine marzo. La scelta dell’espressione è stata spiegata da Benedetto XVI nel suo discorso tenuto alla Curia romana a fine 2009. Si prendono le mosse dal fatto che, sentendo parlare di «nuova evangelizzazione», persone agnostiche o atee (le quali «devono stare a cuore a noi come credenti») forse si spaventano. Tuttavia in loro rimane presente la questione Dio. Come primo passo dell’evangelizzazione bisogna perciò tener desta la loro ricerca di Dio. A tal proposito, aggiunge Ratzinger, vengono in mente le parole di Gesù che, sulla scorta di Isaia, presentano il tempio di Gerusalemme come casa di preghiera per tutti i popoli (Mc 11,17; Is 56,7).
Gesù pensava «al cosiddetto cortile dei gentili, che sgomberò da affari esteriori perché ci fosse lo spazio per i gentili che lì volevano pregare l’unico Dio, anche se non potevano prender parte al mistero, al cui servizio era riservato l’interno del tempio». Si pensava cioè a persone che conoscono Dio solo da lontano: «che desiderano il Puro e il Grande anche se Dio rimane per loro il “Dio ignoto” (cfr. At 17,23)». «Io penso che la Chiesa dovrebbe anche oggi aprire una sorte di “cortile dei gentili” dove gli uomini possano in una qualche maniera agganciarsi a Dio, senza conoscerlo e prima che abbiano trovato l’accesso al suo mistero, al cui servizio sta la vita interna della Chiesa. Al dialogo con le religioni deve oggi aggiungersi il dialogo con coloro per i quali la religione è una cosa estranea, ai quali Dio è sconosciuto e che, tuttavia, non vorrebbero rimanere semplicemente senza Dio, ma avvicinarlo almeno come Sconosciuto».
È noto che l’esegesi biblica non ha alcun peso nei documenti ufficiali della «Chiesa docente», perciò non val la pena di impegnarsi a mostrare quanto sia inesatta l’interpretazione del passo evangelico qui proposta. Il punto serio è altrove; esso sta nel fatto che, in questa immagine, la Chiesa prende il posto del tempio (e di Israele). La sua cura e generosità sono però tali da aprire una dependance in cui è concessa ospitalità ad alcuni incerti ricercatori di Dio. Nel suo interno, la Chiesa celebra il mistero e nessuna crepa solca il suo levigato seno. In questa prospettiva sarebbe un vero e proprio ossimoro parlare della parte non credente che è in noi e sarebbe addirittura inconcepibile che le ragioni serie del dubbio e della negazione siano meritevoli di ascolto al fine di liberare la propria fede da sovrastrutture improprie.
In realtà, però, a dover essere purificato non è solo il cortile, è anche e soprattutto l’interno del tempio. In definitiva, il «cortile» che si sta inaugurando presuppone un dialogo senza ascolto. A quanto si può immaginare (e l’impressione è confermata dalla prime avvisaglie), nessuno accederà a essa per mettersi in discussione; dichiaratamente non lo faranno mai i credenti (si può, dunque, già ipotizzare quale sarà la lista degli invitati). Se i fatti confuteranno queste previsioni, saremo ben lieti di ricrederci.
Del resto mettersi in discussione è difficile per tutti. Le drammatiche vicende libiche di queste ore dovrebbero indurre l’Italia a mobilitarsi (ma non ne vediamo tracce consistenti) e ad aprire un profondo ripensamento a proposito della sua storia (in Cirenaica Badoglio e Graziani non si comportarono meglio di quanto faccia Gheddafi nei suoi ultimi giorni di potere), del suo passato prossimo e dei suoi affari presenti. Sono considerazioni che non valgono per la Grecia, Cipro e Malta. Questi ultimi giorni dimostrano, ancora una volta, che anche ottanta o settanta anni fa i governi e le società erano fatti di uomini esattamente come siamo noi che peraltro siamo, volenti o nolenti, molti più informati di allora. In Libia si compiono stragi e qui ci si preoccupa del prezzo del petrolio e della possibile invasione degli immigrati; mentre, quando si passa ad altro compartimento stagno, si riesce, per esempio, persino a scandalizzarci che alla fine degli anni trenta l’Inghilterra mandataria contingentasse l’immigrazione ebraica in Palestina.
* Vedi: http://www.ildialogo.org/Ratzinger/Interventi_1299160231.htm
MONSIGNOR RAVASI, MA NON E’ POSSIBILE FARE CHIAREZZA? SI TRATTA DELLA PAROLA FONDANTE E DISTINTIVA DELLA FEDE CRISTIANA!!! DIO E’ AMORE ("Charitas") O MAMMONA ("Caritas")?! Ha dimenticato l’esortazione di Papa Wojtyla ("Se mi sbalio, mi coriggerete")?!:
ARCHEOLOGIA FILOSOFICA E TEOLOGICA: "IN PRINCIPIO ERA IL LOGOS". ITALIA, NATALE 2010: AL GOVERNO DELLA CHIESA UN PAPA CHE PREDICA CHE GESU’ E’ IL FIGLIO DEL DIO "MAMMONA" ("Deus caritas est") E AL GOVERNO DELL’ **ITALIA** UN PRESIDENTE DI UN PARTITO (che si camuffa da "Presidente della Repubblica"), che canta "Forza Italia" con il suo "Popolo della libertà" (1994-2010).
ITALIA, NATALE 2010 d. C.: ARCHEOLOGIA EVANGELICA E COSTITUZIONALE. Il buon-messaggio di Giovanni e la preghiera insegnata da Gesù ai suoi discepoli.
Parte da Bologna il dialogo tra atei e credenti ispirato allo spazio per i «gentili» del Tempio di Gerusalemme
di Armando Torno (Corriere della Sera, 09.02.2011)
Nell’antico Tempio di Gerusalemme vi era uno spazio chiamato «Cortile dei Gentili» . Ad esso potevano accedere tutti, non soltanto gli israeliti. Non c’erano vincoli di cultura, lingua o religione. In tal modo, accanto al luogo nel quale Dio aveva fissato la sua presenza, si apriva un’area per i non ebrei, per gli «altri» , o meglio per i non credenti nel Dio unico di Abramo, Isacco e Giacobbe. Un atrio esterno, rappresentato appunto da questo cortile dei gojim, con porticato e colonne, sotto cui sostavano scribi e sacerdoti per dialogare con coloro che chiedevano di conoscere meglio la religione di Israele.
La sua esistenza è attestata a partire da Antioco III (223-187 a. C.) e ad esso si riferisce forse l’Apocalisse: «Ma l’atrio che è fuori del santuario, lascialo da parte e non lo misurare, perché è stato dato in balìa dei pagani» (11,2). Giuseppe Flavio nelle sue Antichità Giudaiche (XV, 417) parla dell’iscrizione che proibiva l’ingresso agli stranieri, sotto pena di morte, nella parte riservata al popolo ebraico. Qui si fermò anche Gesù.
Da questa consuetudine, dopo un invito di papa Benedetto XVI alla fine del 2009, è nata l’idea del cardinale Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, di dare vita a uno spazio di incontro e confronto sulla fede chiamato, appunto, «Cortile dei Gentili» . Un dialogo che non si terrà in un luogo fisso come un tempo usava ma percorrerà le città del mondo, incontrando le diverse culture. Cercherà risposte alle domande della fede, alimenterà una reciproca conoscenza tra credenti e non credenti.
Ravasi invita ogni uomo e punta sul dialogo: affida ad esso le speranze, gli approfondimenti, nonché la creazione di nuovi contesti per meglio comprendere i problemi attuali. Del resto, Platone consegnò ai dialoghi il suo pensiero; ora si guarda con spirito aperto a questa forma di comunicazione per scoprire idee e opinioni condivise, allargare le comuni consapevolezze. Il cardinale nota: «In ogni incontro c’è già un valore».
Non è possibile scrivere in questo momento un programma definitivo del progetto riguardante il «Cortile dei Gentili» , perché le richieste stanno giungendo da ogni parte del mondo. Possiamo soltanto ricordare che codesta odissea di ragione e fede comincerà a Bologna il prossimo 12 febbraio; il 24 e 25 marzo sarà la volta di Parigi, ma già si parla di Tirana, Praga, Stoccolma, Ginevra, Mosca, Chicago, senza contare le richieste che stanno giungendo dall’Asia e dal Sud America.
Perché Bologna? Ravasi chiarisce: «Cominceremo il nostro viaggio nella più antica università d’Europa, con una grande tradizione laica. Sabato prossimo sarà la vera e propria "prolusione"di un itinerario di dialogo e di ricerca dalle tappe molteplici. L’idea nasce quasi in connessione, in concorrenza con l’evento di Parigi, in particolare con la manifestazione della Sorbona» .
Il rettore, Ivano Dionigi, precisa che «un’università pubblica e laica che ospita il confronto tra il credere e l’intelligere non abdica alla propria autonomia, ma assolve la funzione di istituzione vocata, per natura e storia, alla formazione e alla ricerca» . Il suo intervento e quello del cardinale apriranno, poco dopo le 10, i discorsi dei primi quattro «relatori» del «Cortile» : lo scienziato Vincenzo Balzani, il costituzionalista Augusto Barbera, i filosofi Massimo Cacciari e Sergio Givone. Saranno intervallati da letture dell’attrice Anna Bonaiuto (tra l’altro, ha lavorato con Pupi Avati, Liliana Cavani e Nanni Moretti), che farà rivivere brani di Agostino (Confessioni), Pascal (dei Pensieri la parte sulla «Scommessa» ) e Nietzsche (Così parlò Zarathustra).
Sottolinea Ravasi: «L’iniziativa sarà aperta a tutti: studenti, docenti e anche a coloro che desiderano percorrere i sentieri di altura della ricerca sia filosofica sia teologica, sia razionale sia di fede. L’universitas torna a raccogliere ogni disciplina, compresa la teologia, e si rivolge all’agorà, alla comunità, a chi cerca e si interroga» . - per l’eminente uomo di Chiesa questo è il primo di due passi da intraprendere: «Mi sono ora rivolto all’orizzonte alto della cultura ed è auspicabile che sia l’inizio di un percorso di confronto nell’ambito accademico o, se si vuole, in quello del sapere più qualificato e specialistico; il secondo, invece, è delicato, decisamente arduo: sarà un confronto serrato, anche aspro, con la tipologia dominante della non credenza attuale che è quella nazional popolare dell’indifferenza, dell’amoralità, dello sberleffo ateistico» .
Inoltre Ravasi chiarisce i termini del primo incontro: «Il rettore e io non faremo, ovvero non daremo il là; vorrei ribadire che la tonalità del dibattito è lasciata completamente libera. Noi presenteremo soltanto la ragione di indole culturale che esige un simile confronto, perciò non sarà mai la finalità dell’incontro strettamente apologetica o volutamente laica, ma quello che si intende avviare è un dibattito aperto, un dialogo sulle letture differenti delle questioni umane fondamentali» .
Chiediamo degli esempi. In tal caso il cardinale mette in campo parole pesanti, che stanno al centro dell’attenzione di scienza e teologia, oltre che in secolari controversie filosofiche: «Vita, morte, oltrevita, bene e male, amore e dolore, verità e relativismo, trascendenza e immanenza» . Aggiunge: «Ovviamente ci sarà un’attenzione per le questioni bioetiche, in modo da essere sempre attenti ai progressi delle scienze ma al tempo stesso anche alla complessità del valore della vita e della persona, che restano il punto di riferimento sia per la teologia che per la filosofia» .
Il «Cortile dei Gentili» combatte la sonnolenza dello spirito, quel genere di torpore - per fare un esempio- alimentato da quell’editoria che fa notizia ma è inutile alla cultura, cara a coloro che confondono il messaggio con il massaggio. È iniziativa che ribadisce il valore della fede e ricorda con Dostoevskij l’impossibilità di vivere pienamente senza riflettere su Dio.
Ci accomiatiamo da Ravasi chiedendogli cosa si aspetta, come teologo, da questa iniziativa. «Con essa - risponde - attendo, oltre quel dialogo ricordato, un aiuto per coloro che desiderano uscire da una concezione povera del credere. Vorrei invitare il laico a non considerare la teologia un reperto archeologico o mitologico, perché ha una sua dignità "scientifica"; mentre il credente comprenda le ragioni profonde della teologia e non la veda come ostacolo: la intenda come un sussidio, una componente fondamentale per percorrere le strade della fede» .
Lo spirito di Port-Royal
Tra Sant’Agostino e Pascal, storia del pensiero forte
Ripubblicato il capolavoro di Sainte-Beuve che racconta idee e protagonisti di un’epoca d’oro
Da Montaigne a Voltaire, radici e influenze della filosofia nata nell’abbazia francese
Un’opera vastissima dove ogni lettore può trovare il suo alimento
Il cuore sta nella famiglia Arnauld e nella Grazia come illuminazione radiosa e dono
di Pietro Citati (la Repubblica, 10.03.2011)
È uscito da Einaudi il PortRoyal di Sainte-Beuve (a cura di Mario Richter, vol. I-II, pagg. XCI-2100, euro 150), da molto tempo esaurito nelle librerie italiane, e nella Pléiade di Gallimard. Parlare di evento è poco. Il Port-Royal è uno dei rarissimi capolavori della storiografia di ogni tempo e di ogni paese; e va posto accanto ai libri supremi; Erodoto, Tucidide, Senofonte, Curzio Rufo, Ammiano Marcellino, Beda, Liutprando, Guicciardini, Gibbon.
Il Port-Royal è un libro straordinariamente vasto. Comincia con Montaigne e finisce con Voltaire: discorre volubilmente di tutto: storia politica, guerre, storia morale, letteratura, eloquenza, religione, psicologia, paesaggio; e non si arresta mai senza aver esaurito le sue innumerevoli forme. Appaiono i grandi della letteratura e della religione; e centinaia di piccoli ritratti: figure in movimento, devote, profonde, solenni, frivole, drammatiche, avventurose. Alla fine, Port-Royal basta a tutti. Ogni lettore possibile vi trova il suo alimento definitivo.
Il libro comincia, o finge di cominciare, nel cuore del sedicesimo secolo, con Montaigne e San Francesco di Sales. Da principio, Sainte-Beuve sembra vicinissimo a Montaigne: mobile, frivolo, cangiante, multiforme, fluttuante, morbido, frantumato, molle, analogico, onnipresente: parla come Montaigne, conserva fedelmente nella memoria i libri che egli amava - e poi, all’improvviso, abbandona il suo meraviglioso modello. Solo alla fine comprendiamo che il romantico profondamente cristiano che abita in Sainte-Beuve non sopporta il profondo acristianesimo degli Essais. Verso San Francesco di Sales e la sua "dolce devozione interiore", Sainte-Beuve ha una simpatia intensissima: ama quella piacevole abbondanza di parole, quella fioritura graziosamente famigliare di immagini, quelle "siepi profumate di similitudini": ma presto si rende conto che la strada verso Port-Royal lo porterà in luoghi diversi. Sono le diverse "famiglie naturali" degli spiriti, tra le quali Sainte-Beuve muove, oscilla, guizza con una versatilità colorata.
***
Per Sainte-Beuve, Port-Royal des Champs e Port-Royal de Paris sono due paesaggi della natura e dello spirito: due Gerusalemmi celesti, che occupano un posto unico in terra. Port-Royal des Champs era un monastero medioevale cistercense, fondato nel 1204 nella valle della Chevreuse: mentre il secondo Port-Royal era stato costruito nel faubourg Saint-Jacques, a Parigi. Sainte-Beuve ama questi due luoghi: inquieto, sofferente, curioso dei fiori nascosti dell’anima, vi era penetrato da giovane, visitando i boschi, gli edifici, gli stagni, i chiostri, e camminando lungo le navate: aveva ascoltato le preghiere, i pianti, gli inni dei monaci mentre guardava commosso la loro folla raccolta attorno a lui, per trovare finalmente una voce. Era la sua voce: la sua morbida e inquieta voce; la sola che poteva prestare a tutti i fantasmi di Port-Royal.
Il cuore di Port-Royal era, per Sainte-Beuve, la famiglia Arnauld, con tutti i parenti vicini e lontani, e gli amici e gli affini. Come amava dire, si trattava di una vasta famiglia d’anime, segnata da un timbro inconfondibile. Era, in primo luogo, una tribù di patriarchi borghesi, profumati di Bibbia, con la devozione di una dinastia cinquecentesca. Possedevano un’autorità naturale: una eloquenza che preferiva la parola orale a quella scritta: una moderazione rigorosa: la grandezza romana o spagnola del gesto. Avevano un coraggio guerriero: nessun timore dei potenti: pervicacia: urbanità: ardore; e un’ironia sottilissima, lo spirito di Port-Royal, che comunicarono al più spiritoso di tutti i solitari: Pascal.
Qualcuno dei loro amici, e dei loro nemici, scrisse che gli Arnauld, in qualsiasi momento della loro esistenza, erano posseduti da un pensiero unico, da una parola misteriosa, la Grazia. Ma cos’era la Grazia? Ne aveva parlato Sant’Agostino; e Giansenio. La Grazia era un’illuminazione radiosissima: un dono inesplicabile, che scendeva da chissà dove; ma anche un lavoro, una fatica dura e persistente, che impregnava le giornate degli Arnauld. Se si guardavano attorno, nei campi e nelle chiese di Port-Royal, tutto era grazia: innumerevoli scintille di grazia. Armati con questo strumento dolcissimo e terribile, essi distinguevano e classificavano le vocazioni, i talenti, le ispirazioni di Dio: educavano le famiglie degli spiriti. Così nascevano le grandi menti, ardenti e insaziabili, nutrite di religione: la grandezza e la follia cristiana, il vero argomento di Sainte-Beuve. Più ancora dei monaci, Sainte-Beuve amava le Madri di Port-Royal; e la più grande di tutte, Madre Angélique. Ne parlava incessantemente e ne trascriveva le lettere, con una passione che non finiva di esaurirsi, come se soltanto in una monaca potesse calarsi l’occulto e manifesto spirito di Cristo. Quale grandezza, quale dolcezza, quale devozione, quale rispetto, quale timore di Dio; e anche quale grazia ironica, perché, come disse una volta Cristina Campo, solo le sante sono (o erano) spiritose. Così queste donne austerissime, perennemente in preghiera, avevano un immenso successo mondano. Intorno a Madre Angélique svolazzavano le spiritose e graziose dame gianseniste: madame de Sablé, madame de Sévigné, madame de La Fayette, madame de Longueville, coi loro sterminati epistolari.
Port Royal ha un culmine: Pascal, rappresentato con una complessità e una tensione grandiose. Non c’è niente di più terribile delle nevrosi e dei traumi di Pascal: durante un incidente, Pascal perde i sensi e pochi giorni dopo viene illuminato da una visione: le lunghissime insonnie, appena alleviate dai notturni esercizi di geometria; l’angoscia dell’abisso, aperto come una ferita vertiginosa al suo lato sinistro. Sainte-Beuve adorava la leggera, irrispettosa, insolente ironia delle Provinciales: la tremenda forza di volontà che nelle Pensées assoggettava la facoltà di ricerca: la percezione netta e sottile del reale; e la perfezione sovrana dell’intelletto, che conosceva soltanto ciò che è puro e distinto.
***
Sainte-Beuve non amava, in Port-Royal, tutto ciò che di solito veniva definito giansenista. Non poteva dimenticare di essere un figlio di Rousseau, un fratello di Lamartine e di Lamennais, un futuro parente di Nerval e di Baudelaire. Leggendo le pagine di Arnauld, di Giansenio e di Nicole, le trovava troppo rigide, troppo contratte, e soprattutto senza colore, linfa e sangue. Mancavano di quella vita, che affluiva così liberamente negli Essais di Montaigne e negli scritti di Pascal.
Port-Royal fu ucciso da questa sterilità, oltre che dalle paurose persecuzioni politiche. La furia della menzogna e del male, l’orgoglio di Luigi XIV e dei vescovi si scatenarono sopra la piccola chiesa e i cori, che con voci celestiali ed austere avevano invocato Dio. L’autunno scese rapidamente. Port-Royal diventò una fortezza assediata, che il potere voleva conquistare per inedia. Le monache diminuirono. Le converse scomparvero. Durante i primi anni del diciottesimo secolo, sul Journal di Port-Royal si leggevano soltanto uffici di defunti, brevi commemorazioni funebri. L’antico monastero cistercense si trasformò in una necropoli sacra. Le salme dei monaci e delle monache venivano esumate e trasportate in altre chiese. La valle di Port-Royal diventò un immenso ossario, dove le zappe dei becchini rimuovevano incessantemente un terreno arido, dal quale un tempo tanta vita spirituale era sgorgata.
Schedature razziali, nuovi guai per Sarkò
di Anna Maria Merlo (il manifesto, 08.10.2010)
Sarkozy arriva oggi a Roma per un incontro con il papa, organizzato in fretta, in seguito alle critiche larvate del Vaticano alla politica francese di repressione dei rom. Il papa aveva suggerito «l’accoglienza della diversità umana» e a Parigi erano fischiate le orecchie, in piena polemica sulla circolare del ministero degli interni del 5 agosto scorso, poi ritirata, dove venivano esplicitamente presi di mira «in priorità i rom» per l’evacuazione degli accampamenti illegali. Dopo, è stata discussa in parlamento una nuova legge sull’immigrazione, che prevede, tra le altre misure repressive, il ritiro della nazionalità ai naturalizzati da meno di dieci anni che si rendano colpevoli di attentare alla vita di un pubblico ufficiale.
Ieri, una nuova rivelazione pubblicata da Le Monde, aggrava il caso francese: quattro associazioni di nomadi hanno sporto denuncia dopo aver scoperto che la gendarmeria conserva e utilizza una schedatura clandestina e illegale su di loro. La schedatura si chiama Mens, che sta per «minoranze etniche non sedentarizzate». È conservata dall’Ocldi, l’Ufficio centrale di lotta contro la deliquenza itinerante. Il ministro degli interni, imbarazzato, ha smentito. Bice Hortefeux ha più volte affermato dopo l’estate che «non esistono statistiche sulle comunità» e che le schedature riguardano solo «le nazionalità». Il 25 agosto aveva detto che «è escluso che i rom vengano espulsi perché sono rom».. Ma l’esistenza del Mens lo contraddice.
In Francia, le statistiche etniche sono proibite e la loro costituzione è punita dalla legge fino a 5 anni di carcere e 300mila euro di multa. In un comunicato, il ministero degli interni afferma di aver aperto un’inchiesta e ammette di aver ritrovato un nota della gendarmeria che risale al ’92 e che parla di «minoranze etniche non sedentarizzate». In effetti, esiste un elenco amministrativo, legale, che recensisce i documenti di circolazione dei nomadi. Ma questo elenco non può contenere nessuna informazione relativa alle condanne giudiziarie.
La schedatura fantasma è stata scoperta per caso, con una ricerca su Internet. La pulce all’orecchio delle associazioni di nomadi era stata messa da un intervento di un gendarme avvenuto nel 2004, dove si parlava di «genealogia delle famiglie zigane». Su Internet, nel sito dell’Ocldi, fino a settembre era possibile, cliccando su una carta di Francia, identificare i nomi delle famiglie nomadi descritte a seconda del loro terreno di delinquenza (furto di gioielli, traffico di automobili ecc.). Il sito parlava di «gruppi a rischio» (Manouches, Gitani) e di «delinquenti itineranti provenienti dai paesi dell’est (rom)». I rom arrestati erano poi classificati per nazionalità.
«È un nuovo episodio di un caso che deve essere giudicato da un tribunale - ha commentato Jean- Marc Ayrault, presidente del gruppo socialista all’Assemblea - se c’è una schedatura che riguarda questa o quella categoria di francesi e di stranieri, questo è totalmente contrario al diritto, quindi non può che venire condannato». Per uno degli avvocati delle associazioni di nomadi, «queste schedature non possono non riesumare bruttissimi ricordi, appaiono come il parossismo di derive di una logica securitaria che continua ad aggravarsi». In Francia le schedature sono oggetto di forte opposizione: era successo con Edwige, che il governo aveva poi dovuto modificare, perché prevedeva una raccolta di dati di carattere personale, come la salute o l’orientamento sessuale. La polizia utilizza lo Stic, che scheda 34 milioni di persone (autori e vittime di aggressioni) e anche in questo caso ci sono dati etnici.
Ieri, l’Assemblea nazionale ha discusso un altro progetto di legge repressivo, che recepisce l’accordo di cooperazione firmato tra Francia e Romania nel 2007. Prevede l’espulsione di minorenni isolati e il loro rimpatrio forzato. Il giudice dei minori non sarà più chiamato ad intervenire per analizzare i casi. Per la difensora dei minorenni, Dominique Versini, si tratta «della rinuncia ai principi fondamentali della protezione dell’infanzia, in contraddizione con la nostra legge e con la Convenzione internazionale di difesa dei minorenni». Per il Ps, «questa legge è una vergogna».
“La polizia scheda i Rom”
Gelo All’Eliseo
di Domenico Quirico (La Stampa, 08.10.2010)
Piazzato così, alla vigilia dell’incontro con il Papa domani a Roma, imbastito per seppellire uno dei fronti della polemica sulla «caccia ai Rom», ha l’aria, brutta, di una imboscata. Il sospettosissimo Sarkozy che vede congiure in terra e in cielo non avrà mancato di considerare la coincidenza, che vale come un indizio, siccome l’autore: e cioè Le Monde, sempre lui, quello che gli ha già rifilato lo scoop-coltellata sullo scandalo Woerth-Bettencourt. In prima pagina di ieri, apertura, sei colonne che fischiano come una sassata: «La gendarmeria dispone di una schedatura illegale sui Rom». E sotto un pezzettone che sembra una requisitoria da corte d’assise, zeppo di particolari, date, documenti.
Sigla in codice «Mens»
Questa schedatura etnica, clandestina e illegalissima, si adorna del bell’acronimo «Mens», ovvero «minoranze etniche non sedentarizzate», e riposa nelle casseforti del Centro per la lotta contro la delinquenza itinerante al forte di Montrouge a Arceuil, Val de Marne. Per la gendarmeria e il ministero dell’Interno è una leggenda, una calunnia, non esistono e non sono mai esistite «statistiche sulle nazionalità». Lo aveva detto, con faccia indignata da metter paura, lo stesso ministro degli Interni Hortefeux il 25 agosto. E invece, come certifica il documento piantato come un chiodo a pagina nove del quotidiano, eccole qua le schedature razziali; scoperte andando a spasso su Internet dalla associazione delle «gens du voyage». La gendarmeria peraltro non se ne vergognava fino a poco tempo fa, anzi: le citava perfino in un documento di illustrazione dei meriti di questa itinerante branca poliziesca.
Mappatura interattiva
Un clic sulla carta della Francia, racconta Le Monde, e zacchete: regione per regione l’atlante dei nomi delle famiglie con le loro specialità delinquenziali: auto rubate, gioielli, riciclaggio eccetera. Ce ne sono, di reati, per il ripasso degli studenti di diritto penale. Se non bastasse si staglia anche un elenco degli arresti «di rom» tra il 2000 e il 2004, che prova come la polizia non se ne stesse ingrullita davanti al fenomeno, divisi per nazionalità; sembra un atlante della nuova Europa dell’Est. Ma è la razza che precede, si badi bene, la nazionalità.
Il documento è sparito da Internet a fine settembre, il che stupisce, ma solo per il ritardo. Il ministero degli Interni ha replicato. Questa sigla Mens sostiene fosse utilizzata dalla gendarmeria ma negli Anni Novanta: «Oggi non è a nostra conoscenza. Se ci fossero novità chiederemmo al gruppo di controllo delle schedature di occuparsene». Non è «a sua conoscenza» nemmeno della Commissione nazionale informatica e libertà, che si affanna a ricordare la legge (del 1978!) che vieta di utilizzare dati etnici e razziali.
«Come ai tempi di Vichy»
Le associazioni che raggruppano zingari e girovaghi hanno già presentato denuncia. Il loro avvocato, Bourdon, parla di «pessimi ricordi» che questo tipo di schedature evoca, e si riferisce ai tempi di Vichy e ai vagoni che partivano, purtroppo stracarichi, verso i feroci laboratori della Soluzione finale.
Ecco dunque che il fuoco della vicenda Rom riavvampa scomodamente per Sarkozy. Dopo aver negato e stranegato davanti alla Commissione europea e all’indignato Universo di essersi mai accanito contro zingari e rom, con un procedimento europeo pendente per violazione delle norme comunitarie sulla libera circolazione, spunta quella che sembra la prova di una bugia.
Sarkozy è impegnato in una complicata operazione di recupero politico, quello dell’elettorato cattolico. Il Papa ha criticato, indirettamente, le espulsioni dei Rom invitando a «accogliere le legittime differenze umane». Ma il messaggio l’hanno capito benissimo vescovi e uomini di chiesa francesi, severissimi verso le misure del Presidente. La seconda visita in Vaticano, oggi, ostinatamente richiesta, era fondamentale per far dimenticare, spiegare, convincere. Nessun particolare era trascurato. Carla Bruni a casa, e buonanotte al cerimoniale. Ma il divorzio e le nuove nozze così cinematografici hanno malmenato, per primi, la sua popolarità tra i cattolici francesi che per il 74% avevano votato per lui. E poi visita scenografica a Vezelay, la basilica simbolo della Francia cristianissima. Tutto perfetto. Non ci voleva Le Monde.
Le Temps, Genève - 22 settembre 2010
«L’elezione presidenziale [francese] si giocherà sulla questione dell’ingiustizia»
di Catherine Dubouloz
Intervista
Il sociologo Denis Muzet ritiene che il presidente Sarkozy abbia raggiunto un punto di rottura irreversibile.
(traduzione dal francese di José F. Padova)
Aumento dell’età pensionabile, sospetti di traffico di favori nel cuore dell’ affaire Woerth-Bettencourt e, prima di questo, crisi finanziaria e poi economica, chiusura di fabbriche, aumento della disoccupazione: accanto alla collera, nei francesi si diffonde un sentimento d’ingiustizia. Lo dimostrano i commenti dei manifestanti in occasione della mobilitazione del 7 settembre contro la riforma delle pensioni, votata in prima lettura il 15 settembre. O quelli raccolti dall’Istituto Mediascope, società di studi e consulenze specializzata nel campo della comunicazione e dei media. L’analisi del suo presidente, il sociologo Denis Muzet, prima delle nuove manifestazioni previste il 23 settembre.
Le Temps: Il 7 settembre i manifestanti segnavano a dito i potenti risparmiati dalla crisi, mentre i lavoratori sono chiamati a lavorare più a lungo. Essi gridavano il loro senso d’ingiustizia. I sondaggi che state eseguendo confermano tutto questo?
Denis Muzet: Sì, essi ne confermano a un tempo l’intensità e il meccanismo. La crisi ha posto la questione dell’ingiustizia al centro della società e sono persuaso che è proprio su di essa che si giocherà l’elezione presidenziale del 2012.
L.T.: Come si è realizzata questa sensazione?
D.M.: All’inizio vi è il cambiamento di paradigma indotto dalla crisi. Durante l’inverno 2008-2009 un sondaggio ha dimostrato che per i francesi la crisi, prima di essere finanziaria, era una crisi della moralità e della dismisura: gli uomini hanno dimenticato gli uomini e non hanno più pensato ad altro che al denaro. Qualche mese più tardi la questione della giustizia si è posta di nuovo a proposito della ripartizione degli sforzi destinati a rimettere in piedi il Paese. Il sentimento dominante, al tempo dei sequestri dei dirigenti d’impresa, nella primavera 2009, era che quegli sforzi non erano ripartiti con equità. I francesi hanno avuto la sgradevole sensazione di pagare due volte la crisi: una prima volta con i suoi effetti sull’impiego e il potere d’acquisto, una seconda volta quando è stato necessario portare sostegno alle banche mediante l’imposta. Questo profondo senso d’ingiustizia si è ancor più aggravato quando è sorta la questione delle remunerazioni per i dirigenti invitati ad abbandonare certi gruppi in difficoltà. L’ affaire Woerth-Bettencourt è venuto a innestarsi su questo fondo di amarezze.
L.T.: E che cosa ha rivelato?
D.M.: I francesi hanno scoperto che un ministro del Bilancio - la medesima persona che ai contribuenti teneva discorsi di sforzi e di rigore, quando era a Bercy -, attraverso le sue buone relazioni con il gestore del patrimonio di Liliane Bettencourt [ndt.: la ricchissima proprietaria di L’Oréal] in quanto tesoriere del partito UMP avrebbe ricevuto danaro da quest’ultima, per finanziare la campagna elettorale di Nicolas Sarkozy. Poi ha fatto trasmettere dai suoi uffici a Liliane Bettencourt un assegno di 30 milioni di euro a titolo di rimborso d’imposte, applicando lo scudo fiscale. E tutto ciò chiudendo gli occhi sulle pratiche di “ottimizzazione fiscale” a favore di quell’immenso patrimonio. Questo ha permesso di fare rinascere un vecchio tema, diventato il motto aziendale del Fronte Nazionale [ndt.: il partito fascista di Le Pen] negli anni ’90, quello per il quale «Tutti sono corrotti».
L.T.: Come collega Lei i sequestri dei dirigenti e le manifestazioni contro la riforma delle pensioni?
D.M.: Le rivolte del maggio 2009 hanno preparato il terreno. Ma, a quell’epoca, il potere politico nazionale non era messo in discussione. Nicolas Sarkozy stesso partecipava alla critica del capitalismo senza fede né legge e incitava alla sua moralizzazione. Quello che poi ha modificato la situazione è che si è entrati nel 2010, nella crisi della politica. Innanzitutto perché con la crisi i francesi si sono resi conto di quanto fosse illusoria la supposizione di un potere ispirato dalla [buona] politica. Poi, hanno la sensazione di una classe politica sconnessa dalla loro vita quotidiana, occupata a mettere a segno i suoi «affarucci» e a prendersi privilegi senza curarsi della sofferenza del popolo.
La candidatura del figlio di Nicolas Sarkozy alla presidenza dell’Epad [Azienda pubblica di pianificazione della Difesa], nell’autunno 2009, è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il distacco del presidente dall’opinione pubblica data da quel momento. Infine sale oggi il sospetto che i dirigenti fossero complici della crisi e che, in un modo o nell’altro, approfittassero del sistema. Da allora la rivolta non punta più contro i dirigenti delle grandi società, ma contro i dirigenti politici e ha trovato il mezzo per esprimersi nella riforma delle pensioni. Tanto più che l’uomo che propugna la riforma è colui che incarna maggiormente, simbolicamente, l’ingiustizia sociale, fiscale ed economica. Eric Woerth stenterà a cavarsela.
L.T.: E Nicolas Sarkozy? Lei pensa che potrà staccarsi dalla sua immagine di presidente dei ricchi, da ora fino alla campagna presidenziale?
D.M.: Avrà grandi difficoltà nel ricomparire, da qui al 2012, come il presidente di tutti i francesi e, iniziata la campagna, come il candidato di tutti i francesi. Temo si sia raggiunto un punto di rottura irreversibile.
L.T.: La progressione nel settore “sicurezza” [ndt.: allude all’indecente espulsione etnica dei rom], che mirava a creare una diversione che distogliesse dall’ affaire Woerth, secondo Lei non ha raggiunto il suo scopo?
D.M.: Non soltanto ha coperto d’obbrobrio la politica messa in atto e i discorsi di stigmatizzazione [ndt.: dei rom] che l’accompagnano, ma ha anche finito col gettare discredito sulla sincerità di un potere che dava l’impressione di voler fare dimenticare l’ affaire Woerth-Bettencourt. L’Eliseo non è riuscito a sostituire la tematica delle ingiustizie con quella dell’insicurezza. La ripresa [dopo le ferie] si è fatta sotto l’egida della riforma delle pensioni e il binomio maledetto Woerth-Bettencouert è riemerso. Le due tematiche si fanno eco l’una dell’altra e creano un sentimento confuso: all’insicurezza fisica si mescola l’insicurezza sociale ed economica.
L.T.: Lei crede a una possibile esplosione sociale?
D.M.: No, non più adesso. La manifestazione del 7 settembre è servita come sfogo. Dopo che la sinistra ha promesso di fare retromarcia sull’età della pensione ciò canalizza la rivolta. Nei nostri sondaggi noi ascoltiamo dalla gente, comprese le persone di destra: «Viva il 2012!». Si è entrati in una dinamica di alternanza e di speranza di cambiamento.
Rom e immigrati. Il razzismo viene dall’alto
di Jacques Rancière (il manifesto, 23.09.2010)
Vorrei proporre alcune riflessioni attorno alla nozione di "razzismo di Stato". Queste riflessioni si oppongono a un’interpretazione molto diffusa delle misure prese di recente dal governo francese, dalla legge sul velo fino all’espulsione dei rom. Questa interpretazione vi vede un’attitudine opportunista che mira a sfruttare i temi razzisti e xenofobi a fini elettorali. Questa supposta critica riprende il presupposto che fa del razzismo una passione popolare, che lo considera la reazione impaurita e irrazionale degli strati retrogradi della popolazione, incapaci di adattarsi al nuovo mondo, mobile e cosmopolita.
Lo Stato è accusato di venir meno ai propri principi mostrandosi compiacente nei confronti di queste popolazioni. Ma al tempo stesso questa critica rafforza la posizione dello Stato in quanto rappresentante della razionalità di fronte all’irrazionalità popolare. Questa posizione, adottata dalla critica "di sinistra", è esattamente la stessa in nome della quale la destra da una ventina d’anni a questa parte ha adottato un certo numero di leggi e di decreti razzisti.
Tutte queste misure sono state prese in nome di una stessa argomentazione: ci sono problemi di delinquenza e di degrado causati dagli immigrati e dai clandestini, che rischiano di scatenare il razzismo se l’ordine non viene ripristinato. Bisogna quindi sottoporre questi atti di delinquenza all’universalità della legge, per evitare che creino dei disordini razzisti.
È un gioco delle parti che è in atto, a sinistra come a destra, dalle leggi Pasqua-Méhaignerie del 1993. Consiste nell’opporre alle passioni popolari la logica universalista dello stato razionale, cioè di dare alle politiche razziste di Stato una patente d’antirazzismo. Sarebbe l’ora di rovesciare questa argomentazione e di sottolineare la solidarietà tra la "razionalità" statale all’origine di queste misure e questo avversario complice e comodo - la passione popolare - che essa sfrutta per meglio brillare. Nei fatti, non è il governo che agisce sotto la pressione del razzismo popolare e in reazione alle passioni cosiddette populiste dell’estrema destra. È la ragion di Stato stessa che alimenta il razzismo, a cui affida la gestione immaginaria della propria legislazione reale.
Una quindicina di anni fa avevo proposto il termine di razzismo freddo per designare questo processo. Il razzismo con cui abbiamo oggi a che fare è un razzismo freddo, una costruzione intellettuale. È, prima di tutto, una creazione dello Stato. La natura stessa dello Stato è di essere uno Stato di polizia, un’istituzione che stabilisce e controlla le identità, i luoghi e gli spostamenti, un’istituzione in lotta permanente contro tutto ciò che sfonda le identità da lui stabilite, anche quando questo sfondamento delle logiche identitarie è costituito dall’azione dei soggetti politici. Questo lavoro è reso più pressante dall’ordine economico mondiale. I nostri Stati sono sempre meno in grado di contrapporsi agli effetti distruttori della libera circolazione dei capitali sulle comunità di cui devono occuparsi. Ne sono incapaci, tanto più che non lo vogliono nemmeno. Ripiegano quindi su ciò che resta in loro potere, la circolazione delle persone. Prendono come oggetto specifico il controllo di quest’altra circolazione e presentano come obiettivo la sicurezza delle popolazioni nazionali minacciate dai migranti. Si tratta, in altri termini, più precisamente della produzione e gestione del sentimento di insicurezza. Questa attività diventa sempre più la ragion d’essere degli Stati e il mezzo della loro legittimazione.
Di qui un uso della legge che ottempera due funzioni essenziali: una funzione ideologica, che si configura nel dare costantemente corpo al soggetto che minaccia la sicurezza; e una funzione pratica, che porta a ridefinire costantemente la frontiera tra il dentro e il fuori, a creare costantemente delle identità fluttuanti, suscettibili di far cadere "fuori" quelli che finora erano "dentro".
Legiferare sull’immigrazione ha voluto dire, in un primo tempo, creare una categoria di sub-francesi, facendo cadere nella categoria fluttuante degli immigrati persone che erano nate sul territorio francese da genitori nati francesi (i giovani francesi delle banlieues di seconda o terza generazione).
Legiferare sull’immigrazione clandestina ha voluto dire far cadere nella categoria dei clandestini degli "immigrati" regolari. È sempre la stessa logica che ha portato all’uso recente della nozione di "francese di origine straniera".
Ed è questa stessa logica che ha preso di mira oggi i rom, creando, contro il principio della libera circolazione nello spazio europeo, una categoria di europei che non sono veramente europei, allo stesso modo in cui ci sono dei francesi che non sono veramente francesi. Per costituire queste identità in sospeso lo stato non si preoccupa di cadere in contraddizione, come si è visto con le misure relative agli "immigrati".
Da un lato sono state varate delle leggi discriminatorie e delle forme di stigmatizzazione fondate sull’idea dell’universalità civile e dell’eguaglianza di fronte alla legge. Sono quindi previste sanzioni e/o vengono stigmatizzati coloro le cui pratiche si oppongono all’eguaglianza e all’universalità civica. Ma, dall’altro lato, all’interno di questa cittadinanza simile per tutti sono state imposte delle discriminazioni, come quella che distingue i francesi "di origine straniera". Dunque, da un lato tutti i francesi sono eguali e guai a coloro che non lo sono, e dall’altro tutti non sono eguali e guai a coloro che lo dimenticano!
Il razzismo attuale è quindi prima di tutto una logica statale e non una passione popolare. E questa logica statale è sostenuta in primo luogo non da non si sa bene quali gruppi sociali arretrati, ma da una buona parte dell’élite intellettuale. Le ultime campagne razziste non sono per nulla il frutto dell’estrema destra cosiddetta "populista". Sono state condotte da un’intellighentia che si rivendica come tale e di sinistra, repubblicana e laica.
La discriminazione non è più fondata sull’argomento delle razze superiori e inferiori. Ma si articola in nome della lotta contro il "comunitarismo", in nome dell’universalità della legge e dell’eguaglianza di tutti i cittadini nei confronti della legge e in nome dell’eguaglianza dei sessi. Anche in questo caso, non si fa troppo caso alle contraddizioni; questi argomenti sono avanzati da gente che, in altre occasioni, fa ben poco caso all’eguaglianza e al femminismo.
Nei fatti, l’argomentazione ha soprattutto l’effetto di creare l’amalgama richiesto per identificare l’indesiderabile: l’amalgama tra migrante, immigrato, arretrato, islamista, machista e terrorista. Il ricorso all’universalità è nei fatti utilizzato a vantaggio del suo opposto: l’insediamento di un potere statale di decidere a discrezione chi appartiene e chi non appartiene alla classe di coloro che hanno il diritto di essere qui, il potere, in breve, di conferire e di annullare delle identità. Questo potere ha un correlato: il potere di obbligare gli individui ad essere identificabili ad ogni istante, a mantenersi in uno spazio di visibilità integrale nei confronti dello Stato.
Vale la pena, da questo punto di vista, di tornare sulla soluzione trovata dal governo francese al problema giuridico posto dalla proibizione del burqa. Era difficile fare una legge che fosse specifica per alcune centinaia di persone di una religione determinata. Il governo ha trovato la soluzione: una legge che impone la proibizione generale di coprirsi il volto nello spazio pubblico, una legge che riguarda al tempo stesso la donna con il velo integrale e il manifestante con il volto dissimulato o coperto da un foulard. Il foulard diventa così l’emblema comune del musulmano arretrato e dell’agitatore terrorista. Questa soluzione - adottata, come parecchie altre misure sull’immigrazione, con l’astensione benevola della sinistra - fa riferimento al pensiero "repubblicano".
Ricordiamoci delle furiose diatribe del novembre 2005 contro i giovani dal volto coperto e con il cappuccio che agivano di notte (in occasione della rivolta delle banlieues).
Ricordiamoci del punto di partenza del caso Redeker, il professore di filosofia minacciato da una fatwa islamista. Il punto di partenza della furiosa diatriba antimusulmana di Robert Redeker era stato... la proibizione dello string a Paris-Plage (l’iniziativa estiva del comune di Parigi, con la spiaggia lungo la Senna). In questa proibizione, decretata dal sindaco di Parigi, Redeker vi aveva visto un atto di compiacenza nei confronti dell’islamismo, una religione il cui potenziale di odio e di violenza si era già manifestato nella proibizione di essere nudi in pubblico. I bei discorsi sulla laicità e l’universalità repubblicana si riassumono in definitiva nel principio che si deve essere interamente visibili nello spazio pubblico, sia questo fatto di pavé oppure di spiaggia.
Concludo: è stata spesa molta energia contro una certa forma di razzismo - quella incarnata dal Fronte nazionale - e contro una certa idea di razzismo come espressione dell’ "uomo comune bianco", che rappresenta gli strati arretrati della società. Buona parte di questa energia è stata recuperata per costruire la legittimità di una nuova forma di razzismo: razzismo di Stato e razzismo intellettuale "di sinistra". Sarebbe forse tempo di riorientare il pensiero e la lotta contro una teoria e una pratica di stigmatizzazione, di precarizzazione e di esclusione che oggi costituiscono un razzismo che viene dall’alto: una logica di Stato e una passione dell’intellighentia.
I Rom e l’Europa meticcia
L’Europa meticcia non può rifiutare i rom
di Jacques Le Goff (la Repubblica, 23.o9.2010)
La direttiva del governo francese riguardo alle espulsioni era concepita in modo inammissibile: mettendo l’accento sull’identità dei rom risultava un’operazione discriminatoria e, al limite, razzista. Certo, la vicepresidente della commissione europea Viviane Reding, comparando la misura ai provvedimenti tedeschi durante la seconda guerra mondiale, ha evidentemente esagerato.
Ora, al di là delle reciproche scuse, è chiaro che in Europa esiste un problema e una questione dei rom.
È mia convinzione che questo problema debba essere regolato attraverso una politica specifica concordata in sede europea. Occorre varare un regolamento al cui rispetto siano tenuti tutti i paesi dell’Unione, al di là del fatto che il numero dei rom sia diverso in ciascun paese e che i governi europei oggi siano divisi tra quelli che hanno un atteggiamento piuttosto accogliente e quelli invece (come l’italiano) che sembrano porsi in maniera tendenzialmente ostile.
Penso che la cosa più importante da fare oggi sia aprire un confronto tra i rappresentanti di tre diverse parti: le diverse comunità rom, i governi nazionali e l’Unione europea.
Un tavolo di dialogo dovrebbe individuare, prima di tutto, dei luoghi deputati all’insediamento delle diverse comunità rom. Luoghi che i governi devono far rispettare ma che devono rispettare anche le stesse comunità rom. C’è comunque nella storia una tendenza dei rom a installarsi e rimanere in luoghi specifici.Il problema è reso più acuto dal fatto che i paesi europei dove i rom sono più numerosi - in particolare la Romania - sono anche quelli in cui la disoccupazione è più alta. Per questo credo che nei colloqui si dovrebbe affrontare anche il tema dell’occupazione.
Oggi l’attrito tra rom e gruppi di cittadini europei nasce da diverse questioni ancora insolute: una di queste è la resistenza di alcuni rom a far frequentare le scuole pubbliche nazionali ai propri figli. Io sono favorevole alla maggiore integrazione possibile dei rom nelle culture dei diversi paesi in cui risiedono, ma credo anche che potremo lasciare loro il compito di organizzare essi stessi l’educazione dei loro figli, a condizione che funzionari pubblici di diversi paesi possano sovrintendere al rispetto di alcune regole fissate di comune accordo.
Dunque lascerei ai rom libertà nella scelta dei docenti degli orari e dei metodi dell’insegnamento ma con l’impegno che questo stesso insegnamento sia oggetto di una verifica da parte degli stati nazionali. Anche nel settore della sanità e della salute occorre cercare un compromesso tra la libertà dei rom di dove e come farsi curare e la verifica che queste cure siano effettivamente svolte.
Come storico credo che una progressiva realizzazione di una sempre più forte unione europea sia la strada giusta per risolvere il problema. Per riprendere un espressione di Jacques Delors il nostro spazio politico ha scelto di costruirsi come «Europa delle nazioni». E i rom si possono considerare a tutti gli effetti una nazione. Ecco perché credo che almeno una parte importante delle regole che si applicano alle nazioni europee potrebbero essere applicate ai rom. Tenendo conto che l’Europa è un insieme di diversità, anche se con forti somiglianze tra diversi paesi che la compongono.
Insomma, mi pare che l’essenziale sia la voglia di pervenire ad un accordo che non può che essere un compromesso, frutto di un dialogo. Naturalmente c’è un problema linguistico: i rom parlano sia lingue specifiche sia la lingua del paese in cui risiedono, dunque la loro nazione non si distingue per un’unica lingua. Ma questo è un problema che esiste anche altrove in Europa e anch’esso può trovare una ragionevole soluzione.
Come storico credo che ciò che ha contraddistinto l’esperienza millenaria dell’Europa siano stati il meticciato, la mescolanza delle culture e la loro progressiva integrazione.
L’Europa è nata dalla fusione tra i popoli cosiddetti romani o gallo romani o ispano romani (cioè quelli che diedero luogo a una prima integrazione) e i cosiddetti «barbari», una parola oggi bandita dagli storici. Oggi fortunatamente non disprezziamo più chi non pratichi una cultura cosiddetta superiore: gli storici e tutti coloro che hanno influenza sulla società dovrebbero mostrare come la caratteristica tipica dell’Europa sia proprio la sua capacità di integrazione nel rispetto delle diversità: una strada difficile ma possibile.
Certo, le difficoltà di accogliere gli stranieri che si manifestano oggi in Europa nascono anche dal fatto che negli ultimi anni il numero di immigrati è cresciuto. Ma non dovremmo dimenticarci che nel periodo dell’antichità tardiva o del Medioevo le cifre relative ai cosiddetti barbari, celti, germani o slavi che si spostarono sul territorio europeo erano assai più grandi. A quell’epoca l’integrazione più importante fu quella provocata dalla cristianizzazione.
Oggi la religione di per sé non può essere lo strumento principale di integrazione. Serve un progetto culturale comune nello spazio europeo: un progetto scientifico ma anche educativo. E poi è necessario lavorare anche sul regime politico: la forza dell’Europa è anche quella di essere composta da stati che con tutti i loro limiti sono tutti democrazie.
La sinistra in particolare deve saper rispondere con maggior forza alla destra su questo tema. Il suo limite oggi è che purtroppo non riesce a combinare la giusta ostilità alle cattive politiche di discriminazione con un’alternativa efficace, capace di offrire soluzioni di ricambio concrete percorribili. Forse la nozione più falsa e pericolosa veicolata dal nazismo è proprio quella della purezza etnica.
C’è bisogno oggi di un grande progetto capace di rifarsi proprio all’originalità dell’esperienza storica europea, capace cioè di ritrovare l’ingrediente storico della sua forza: il suo multiculturalismo, la sua abitudine al meticciato. Il presidente della repubblica francese - per fare solo un esempio - dovrebbe ricordarsi di essere ungherese.
*Intervento raccolto da Giuseppe Laterza e pubblicato su www. laterza. it, il sito web della casa editrice da oggi rinnovato nei contenuti
Niente sofismi, sui Rom è razzismo
di Furio Colombo (il Fatto, 19.09.2010)
Che storia è? Che cosa è accaduto? Guerra della Repubblica francese contro gli zingari? Tutto è possibile, sappiamo che conta la paura, pesa il pregiudizio e che la politica è fatta anche di quel brutto ingrediente che è il populismo, ovvero la voglia di piacere alle maggioranze facendo qualcosa di cattivo e di ingiusto ai danni delle minoranze. Ma due cose non tornano in questa vicenda. La prima è che la presenza nomade degli zingari, gitani, rom dura da secoli in Europa, come testimoniano storiografia, letteratura, poesia, musica, folklore, proverbi e costumi.
Ci sono sempre momenti in cui qualcuno crede di scoprire ciò che c’è sempre stato e pensa di denunciarlo come intollerabile. La seconda è che i rom gitani o zingari dispersi per l’Europa sono pochissimi. Poche decine di migliaia di persone in comunità (campi) che spesso non arrivano a cento persone.
Come è possibile che un fatto così antico e così piccolo colpisca prima l’attenzione, poi l’ira, infine produca l’editto di cacciata dal Paese del presidente di una grande Repubblica? La cosa è ancora più difficile da capire perché il Paese è la Francia e il presidente è Sarkozy. Era sempre sembrato in grado di tenere in equilibrio il suo temperamento nervoso di uomo iperattivo con le esigenze di personaggio al sommo delle istituzioni francesi. Certo, alcuni aspetti del suo passato politico non sono un buon preannuncio, come le violenze di tipo leghista scatenate anni fa dalla sua polizia nelle banlieu parigine, contro giovani figli di immigrati, cittadini francesi. Ma, da presidente del Paese che si identifica con il valore della libertà e dei diritti civili, Sarkozy aveva dimostrato di saper tenere a distanza le squilibrate spinte a certi tipi di azione e persecuzione della destra di Le Pen e dei suoi eredi. Zingari, sfogo ideale
QUALCOSA è scattato, vuoi nella vita pubblica (sondaggi, popolarità in declino) vuoi nella vita privata di Sarkozy (di questo non sappiamo nulla e non ospiteremo cattiverie suggerite da francesi malevoli) per rompere in modo così clamoroso l’equilibrio della più alta istituzione francese, dunque del suo governo, dunque dei suoi ministri e della sua polizia. Un percorso utile per capire ciò che sta accadendo è la vicenda giudiziaria che da qualche tempo insegue Sarkozy (fondi illegali versati alla sua campagna elettorale). I giudici francesi non mollano. Molte cose sono possibili quando si confrontano il senso di impotenza di qualcuno molto potente con una comunità di persone (i rom) senza potere e senza rappresentanza e del tutto privi di difesa.
Per lo sfogo d’ira di Sarkozy, per lo stato di non equilibrio in cui, per qualche ragione, il presidente francese è caduto, gli zingari sono l’ideale. Primo, distruggere i campi, che non sono certo di cemento armato. Secondo, forzarli a “tornare a casa”, come se dei nomadi avessero una casa. Terzo, trasportarli verso Paesi dell’Est, certe volte individuati a caso,badandobeneafingerechesi tratti di “rimpatrio” (raramente i rom fanno conferenze stampa per smentire); badando a far notare la elargizione di una buonuscita di 300 euro per famiglia, alla presenza delle telecamere, in modo che i detrattori del presidente siano serviti. Si tratta di partenze “assistite” e “spontanee”. In tal modo siamo costretti a vedere di che cosa è capace il presidente Sarkozy quando gli va la mosca al naso. Ecco uno che non scherza. Un vero uomo, direbbe se potesse dire tutto, Sarkozy, di se stesso.
Amici in Italia, estranei in Europa
MA SIAMO solo a metà della storia. Segue prima l’imbarazzo, poi la condanna europea. E quando la Commissione Europea, con il presidente Barroso gli resiste, i presenti al summit di Bruxelles parlano di uno scontro con scambio di urla. Una vera scenata del sempre meno equilibrato Sarkozy contro quel punto debole - però simbolico - che è la Commissione Europea. Forse la situazione di squilibrio e quel volare di insulti hanno attratto l’attenzione di Berlusconi, che si unisce subito, nel senso che anche lui (unico in Europa) proclama non solo che l’iniziativa di Sarkozy è sacrosanta, ma che lo farà anche in Italia: persecuzione degli zingari, che non hanno alcun governo per proteggerli e alcuna forza politica. Del resto quella persecuzione è già in atto a pieno regime a Roma e a Milano, oltre che in tutti “territori” della Lega.
Dunque Berlusconi si pronuncia ma gli accade il solito incidente che lo tormenta fuori dall’Italia. Non solo la stampa francese (o quella europea) non fanno cenno della Santa Alleanza: tutta la Francia e tutta l’Italia contro i rom. Ma si dà un caso curioso. Sarkozy, che nella disciplinata stampa italiana ringrazia ripetutamente Berlusconi (testualmente: “E’ così che si vedono i veri amici”) nella irata conferenza stampa a Bruxelles non lo nomina mai. Questa battaglia è sua e se la gestisce lui. Qui però finiscono la parte mondana e quella giornalistica della insolita e stupefacente vicenda. E comincia la verifica, non secondo principi umani e morali, che non sarebbe male includere in questa storia. Ma comincia la riflessione del buon senso.
Cittadini da secoli
BASTA riprendere la storia dall’inizio. Abbiamo detto che la Francia (e poi la Francia e l’Italia, 150 milioni di persone in due dei paesi più ricchi del mondo) si schierano contro i rom. Deve trattarsi di un rischioso progetto: liberare i rispettivi paesi dalla invasione degli zingari. Ci sarebbe un primo ostacolo: gli zingari sono cittadini europei. Qui dovrebbe soffermarsi il diritto. Il buon senso si ferma molto prima. Il buon senso avverte che i rom - sommando i due paesi - non sono neppure 400 mila, dispersi in campi di poche centinaia, a volte decine di persone. Metà sono donne, metà sono bambini. C’è un altro dettaglio che attrae l’attenzione del buon senso e avverte che qualcosa non va nell’equilibrio di questi due stati: una buona metà dei perseguitati sono cittadini francesi o cittadini italiani da secoli.
Qui, nella guerra ai rom, mancano le ragioni (vere e false) con cui gli untori scatenano la guerra contro l’immigrazione. Ti dicono che sono tanti, che sono troppi che prenderanno il sopravvento e imporrano il giogo islamico. I rom sono pochi, sono cristiani, sono in giro da secoli, sono cittadini europei e, spesso, sono cittadini dei paesi in cui ormai vivono con cui condividono scuola e lingua. Purtroppo tutto ciò ci porta verso un’unica, triste, squallida spiegazione: questo è razzismo nella sua forma più rozza e più pura. È tutto qui. Ma è come diagnosticare, nel cuore dell’Europa, il peggiore dei mali.
Rom, questione comune
di Etienne Balibar (il manifesto, 18.09.2010)
Dal punto di vista dei rom, il processo di unificazione europea ha di sicuro aperto delle possibilità di comunicazione nella comunità finora inesistenti e ha dato la possibilità di reclamare i propri diritti in modo più efficace e legittimo. Ma non ha modificato la configurazione di base della persecuzione, o addirittura può aver dato ad essa una nuova dimensione. Si tratta di una storia affascinante: quello che era ampiamente invisibile è diventato visibile e un’intera parte della storia d’Europa diventa comprensibile.
Ed è una questione vitale per il futuro dell’Europa: essa non può essere costruita sull’esclusione, non è un Impero. Ufficialmente, presenta se stessa come uno spazio per la realizzazione dei diritti democratici e del benessere comune delle sue popolazioni. In pratica, conquisterà legittimità nelle menti e nei cuori dei cittadini (una cosa più difficile di quanto immaginato all’inizio) soltanto se comporterà un avanzamento verso istituzioni più democratiche e una cultura di maggiore - e non di minore - solidarietà.
Sotto questo punto di vista, la persecuzione dei rom in Europa, trasmettendosi da un Paese all’altro in un processo di emulazione negativa come nel passato, non è un problema che riguarda ogni paese separatamente, ma è un problema "comune", un problema "comunitario".
Affrontandolo in questo modo - e lavorando contro le proprie inclinazioni - gli europei eliminerebbero non solo una fonte di conflitti interni e di violenza che può diventare insopportabile, ma costruirebbero una comune cittadinanza. Inoltre reclamando i loro diritti, elevando il discorso dal livello culturale a quello civile, trovando gli interlocutori istituzionali e gli alleati di cui hanno bisogno tra la popolazione, i rom di tutta Europa conquisterebbero un’integrazione che ci riguarda tutti, collettivamente. Non essendo un esperto di storia e sociologia rom, ma in quanto cittadino europeo e filosofo che ha lavorato su altri aspetti dell’esclusione e sul loro impatto sullo sviluppo della democrazia, vorrei affrontare le tre principali questioni in discussione.
La prima riguarda l’esclusione e la cittadinanza e la loro trasformazione a livello paneuropeo. I rom sono privi di alcuni diritti di base in molti paesi europei e nello spazio europeo, malgrado il fatto che siano cittadini europei, essendo di pieno diritto cittadini degli stati membri. Questi diritti di base includono il diritto di circolazione, di residenza, di lavoro, il diritto alla scuola, alla salute e alla cultura. I rom sono costretti a risiedere in determinate aree, dalle quali del resto possono anche venire arbitrariamente espulsi. Sono definiti o come "nomadi" o come cittadini che provengono da determinati paesi. Sono a priori considerati come delinquenti o come una popolazione pericolosa. Non vengono mai ammessi o sono ampiamente sottorappresentati nella maggior parte delle professioni, sia manuali che intellettuali (con tassi di disoccupazione che toccano i massimi). È inutile dire che questo riguarda anche gli impieghi pubblici. Questo fenomeno è illegale o legale, con la scusa di norme e di accordi interstatali che riguardano l’igiene, la previdenza sociale, le politiche per l’occupazione e le norme culturali. Hanno luogo su uno sfondo di una persistente estrema violenza "popolare", che è alimentata anche da gruppi neofascisti e da bande criminali, solo verbalmente condannati da molti stati membri dell’Unione europea. Solo i più vergognosi pogrom diventano una notizia per la stampa nazionale o internazionale.
La costruzione dell’Ue ha avuto degli effetti estremamente contraddittori. Ha prodotto una categorizzazione dei rom a livello europeo, dal momento che per la Ue sono stati considerati un "problema" nel loro stesso diritto a farne parte. Questo è uno scalino preliminare nella nuova razzializzazione dei rom. Li mette nella stessa categoria dei "migranti" di origine extracomunitaria, in un quadro generale che ho definito come l’emergente apartheid europeo, il lato oscuro dell’emergenza di una «cittadinanza europea». La differenza proviene dal fatto che i "migranti" (e i discendenti di migranti) sono visti come un altro esterno, mentre gli tzigani come un altro interno. Ciò d’altronde rafforza il vecchio stereotipo del nemico interno, che ha effetti sanguinosi.
Malgrado gli enormi cambiamenti storici e sociali - specialmente dopo la seconda guerra mondiale e la fine della guerra fredda - che hanno portato l’Europa molto lontana dal proprio passato, questo fenomeno è testimone di una traccia durevole delle persecuzioni nella storia europea. È inevitabile la comparazione con il caso, di cui si è parlato molto di più, della persecuzione di un "gruppo razziale" nella storia europea, cioè gli ebrei. I due "gruppi paria" sono stati il bersaglio congiunto del genocidio nazista (come altre popolazioni "devianti"). Rappresentano casi completamente diversi di traiettoria religiosa ed economica, ma - è importante sottolinearlo - entrambi hanno svolto un ruolo centrale nello stabilire delle connessioni tra diverse culture europee (specie nel campo artistico, nel caso degli tzigani) incarnando l’elemento "cosmopolita" senza il quale le culture "nazionali" restano isolate e sterili.
Questo mi porta a prendere in considerazione una seconda questione, che riguarda più specificamente le tendenze di razzializzazione in Europa. Alcuni anni fa mi ero chiesto se bisognasse ammettere che esiste un razzismo o neo-razzismo "europeo" che avrebbe avuto, rispetto alla costruzione "sopra-nazionale", la stessa relazione di complementarità ed eccesso che il razzismo tradizionale (antisemitismo, razzismo coloniale, ecc) aveva con lo stato-nazione e le classiche costruzioni imperialiste. Bisogna essere molto prudenti a proporre questo tipo di ipotesi. Nondimeno, ci sono dei fenomeni inquietanti che possono dare credito a questa ipotesi, ponendo i rom nella scomoda posizione di caso test. In conclusione, possiamo dire che l’unificazione dell’Europa ha reso la razzializzazione del "problema tsigano" più visibile, perché mostra l’evidente contraddizione con la tendenza generale e ufficiale verso il superamento dei pregiudizi etnici e nazionali sulla quale è costruita la "nuova Europa". Da questo punto di vista, ci sono almeno tre fenomeni che mi paiono rilevanti:
1. La tendenza delle nazioni europee a proiettare sui rom i pregiudizi verso altre nazioni. Per esempio, la stampa francese è più attenta a riferire dei pogrom che hanno luogo in Italia o in Ungheria, o delle discriminazoni in Romania, ma resta quasi silenziosa sul modo in cui i comuni in Francia respingono i "nomadi" dal loro territorio, o sul modo in cui la polizia di frontiera francese espelle cittadini rumeni e bulgari per alimentare le statistiche ufficiali, pur sapendo benissimo che, in quanto cittadini europei, essi torneranno al più presto.
2. Arriviamo al fenomeno della costruzione del capro espiatorio e, più precisamente, al modo in cui le "nazioni" europee si considerano ufficialmente l’un l’altra come membri di una stessa comunità. Dopo aver superato le antiche ostilità, esse restano nei fatti piene di mutuo risentimento e sospetto reciproco - cosa che, fino ad un certo punto, dipende dal fatto che la costruzione europea è rimasta in mezzo al guado. Questo risentimento e sospetto reciproco tende a venire proiettato verso gruppi "devianti". I rom sono come una nazione in eccesso in Europa, che si distingue per l’odio che suscita non solo perché travalica i confini ma anche perché incarna l’archetipo delle popolazioni senza stato, che fanno resistenza alle norme di territorializzazione e di normalizzazione culturale (per ironia della sorte, sotto molti aspetti, questa singolarità è essa stessa frutto delle persecuzioni).
3. Questo problema, come sappiamo, diventa eccezionalmente acuto quando vengono prese in considerazione le relazioni tra Europa occidentale ed Europa dell’est. Il fatto che i regimi di tipo sovietico in Europa dell’est durante la guerra fredda, in paesi che hanno anche un’importante popolazione rom, avessero combinato una politica coercitiva e normativa con programmi di integrazione economica, ha comportato la definizione di "protégés del socialismo" in paesi dove (per quanto tempo ancora?) la maggioranza della popolazione vede l’ammissione alla Ue come la strada più rapida verso la liberalizzazione economica e sociale. Nell’altra metà del continente, i paesi occidentali e la loro opinione pubblica li percepiscono come la perfetta illustrazione della povertà e della deregulation con le quali l’Ue sfida i vecchi membri. In entrambi i casi, sono rigettati e visti più come "orientali" che come veramente europei.
Se la relegazione dei rom nella condizione di comunità senza stato prosegue (de facto più che de jure: vivono, certo, sotto la giurisdizione degli stati, ma sono visti sia come inadatti che ostili ad entrare nella costruzione di uno stato moderno), cosa che ci riporta all’origine della loro discriminazione, essa rivela al tempo stesso i limiti della costruzione della sfera pubblica in Europa. Essa può essere paragonata a uno statalismo senza stato.
Questa situazione poco chiara, combinata con altri fattori, tende ad esacerbare varie forme di razzismo popolare, in particolare sotto la forma dell’ossessione della sicurezza. Dall’altro lato, ha portato alla creazione di una piuttosto densa rete di istituzioni e organizzazioni che hanno a vedere con la "questione rom" a livello europeo. Alcune di queste organizzazioni ed iniziative governative possono favorire lo sviluppo di una coscienza autonoma e di una pratica civile nella comunità rom, mentre altre tendono a ridurli allo stato di un gruppo sotto controllo, protetto e piazzato sotto sorveglianza.
Questo dilemma, secondo me, porta a prendere in considerazione un altro problema cruciale, che riguarda le vie dell’emancipazione proposte alle popolazioni rom in Europa. Parlando da un punto di vista astratto, ci sono due strade, come in altri casi simili. Una può essere definita "maggioritaria" e comporta la richiesta della fine dell’ "eccezione", il riconoscimento dei diritti di base che, di principio, appartengono ad ogni cittadino. L’altra può essere definita "minoritaria" e si basa su un crescente senso di identità e di solidarietà tra le popolazioni rom, attraverso i confini nazionali, che porta verso una maggiore autonomia culturale e, di conseguenza, verso una maggiore visibilità come gruppo "quasi nazionale" che lotta contro l’esclusione all’interno di un’Europa multi-nazionale.
La prima strada dipende soprattutto dai passi avanti più generali sui diritti umani e da un ritorno a politiche sociali che riescano ad arginare la corrente neo-liberista, mentre la seconda dipende dalla capacità di utilizzare il discorso e le istituzioni dell’Unione europea affinché i rom arrivino a costruirsi una voce autonoma. Nessuna delle due strade è facile, né probabilmente sufficiente. Sarà responsabilità dei rom stessi articolare una combinazione efficace. Ma è anche nostra responsabilità - e nostro interesse - in quanto democratici europei, aiutarli in questo processo, lottando contro il risorgere del razzismo in mezzo a noi, inventando un’Unione migliore.
* Questo testo è una rielaborazione, per gentile concessione di Etienne Balibar, dell’introduzione al volume «Romani Politics in Contemporary Europe» (Palgrave ed. dicembre 2009), una raccolta di saggi sulla questione dei rom e l’Europa a cura di Nando Sigona e Nidhi Trehan. La traduzione è stata curata da Anna Maria Merlo
I nemici del diritto europeo
di BARBARA SPINELLI (La Stampa, 17/9/2010)
In un’intervista concessa al Figaro, Silvio Berlusconi ha preso ufficialmente le difese di Sarkozy, sull’espulsione dei Rom che divide il governo francese dall’Unione, e ha detto una cosa significativa, che probabilmente ha ripetuto ieri al vertice europeo di Bruxelles e che vale la pena esaminare. Credendo di comportarsi da uomo saggio, esperto in prudenza e tatto, ha criticato le parole pronunciate dal commissario alla Giustizia contro Parigi spiegando che «la signora Reding avrebbe fatto meglio a trattare la questione in privato con i dirigenti francesi, prima di esprimersi pubblicamente come ha fatto». Ha lasciato poi intendere che l’Italia conosce problemi simili a quelli francesi e che anch’egli, come Sarkozy, non tollererà ingerenze esterne nella politica italiana.
Non è la prima volta che il presidente del Consiglio si mostra infastidito quando le istituzioni europee rendono pubblici i loro pensieri, le loro inquietudini, le loro regole.
Il fastidio si è più volte tramutato in collera, durante la crisi economica iniziata nel 2007, e l’invito a privatizzare la politica europea, che oggi torna a formulare chiedendo che le dispute tra Stati e Unione avvengano nelle tacite camere delle cancellerie, indica una visione precisa dell’Europa, della sua influenza sugli Stati che la compongono, del diritto sovrannazionale da essa esercitato. Quella che viene negata, nella sostanza, è la preminenza di tale diritto - con le sue direttive, con la Carta dei diritti fondamentali incorporata nel Trattato di Lisbona - sulle condotte e le leggi degli Stati nazione. È il nòmos europeo, il diritto europeo, che tanto disagio suscita nei singoli governi, e che pur rimanendo legale viene corroso, delegittimato, creando conflitti gravi tra legalità formale e legittimità sostanziale.
Tutto questo viene corroso in nome di sovranità nazionali che certo non scompaiono, ma che in alcuni ambiti appartengono al superiore potere comunitario. Il nòmos europeo non è formalmente confutato (non potrebbe esserlo) ma in cambio si vorrebbe vederlo camuffato, occultato, come Tartuffe che nella commedia di Molière implora, per nascondere le proprie libidini: «Coprite quel seno, ché io non devo vederlo. Simili oggetti feriscono le anime, e fanno sorgere pensieri colpevoli». Il silenzio omertoso, le trattative segrete fra Bruxelles e gli Stati, il rifiuto di uno spazio dove pubblicamente siano discussi drammi come quello dei Rom, popolo ormai comunitario a tutti gli effetti: come nella Francia di Molière e Luigi XIV, esiste oggi in Europa una «cabala di devoti» nazionalisti secondo cui il diritto europeo è valido ma va dissimulato, come il bel seno della servetta Dorine. Quel che i devoti vogliono a tutti i costi tenere in piedi è la finzione di Stati assolutamente sovrani, liberi di decidere come meglio loro piace senza interferenze di Bruxelles. Sono gli stessi devoti che vituperano, quando fa loro comodo, il «deficit democratico» d’Europa e delle sue burocrazie taciturne e scostanti.
L’ipocrita messinscena è una specialità francese, fin dal dopoguerra, e Sarkozy la perpetua. È la finzione di uno Stato che si sente talmente superiore, dal punto di vista etico, da non sopportare alcun tipo d’ingerenza. «In quanto patria dei diritti dell’uomo non riceviamo lezioni da nessuno» ammoniscono in questi giorni, sussiegosi, i ministri di Sarkozy; in particolare Pierre Lellouche, segretario di Stato agli Affari europei, secondo cui la Francia «è un grande Paese sovrano che non è consentito trattare come un ragazzino». Berlusconi e la Lega sono ben felici di nascondersi, in cerca di tutele, dietro tanta regale sicumera.
Ma c’è qualcosa di più nella vicenda dei Rom, che il fronte franco-italiano rivela. Di quest’Europa troppo schietta e comunicativa nel parlare e ammonire, né i governanti francesi né quelli italiani sembrano ricordare la ragion d’essere, sempre che la conoscano. Quel che evidentemente hanno dimenticato, è che nel dopoguerra la Comunità nacque proprio per questo: per creare un nuovo diritto sovrannazionale, grazie al quale gli Stati non possono più compiere misfatti nel chiuso delle piccole patrie sovrane. Per vietare discriminazioni di popoli giudicati estranei alle piccole patrie, per fede o etnia o scelta di vita: per sostituire parte delle vecchie norme nazionali con norme più vaste, plurali, di stile imperiale.
Non stupisce che Viviane Reding, commissario democristiano, abbia denunciato martedì il pericolo di un ritorno al passato, alle persecuzioni di ebrei e zingari durante l’ultima guerra. Sono parole forti di cui si è scusata e che molti hanno giudicato eccessive, ma che restano un memento ineludibile: memento di come l’Unione si fece dopo il ’45, e perché. L’Europa è la promessa, fatta da ciascuno a se stesso, che alcune cose non si faranno più, grazie alla messa in comune delle sovranità nazionali sino a ieri assolute. Non ha senso altrimenti istituire giorni che commemorano i genocidi. La frase che ingiunge «Mai più!» è pura menzogna se non vale qui, ora, come impegno continuamente rinnovabile e per tutte le etnie o religioni.
Da quando l’Unione si è estesa a Est, dove vive il maggior numero di Rom, il diritto europeo tutela anche queste genti, nomadi o sedentarie che siano. La direttiva europea 2004-38, concernente la libera circolazione nella Comunità, stipula che nessun cittadino dell’Unione può esser espulso dal territorio in cui si trova, a meno che «non sussistano ragioni di ordine pubblico, di sicurezza e di salute pubblica»: ragioni valutabili «caso per caso», mai applicabili a un’etnia. Se l’Unione aprirà contro Parigi una procedura d’infrazione, è perché riterrà violata questa legge. Una circolare governativa francese del 5 agosto parla di «espulsione dei Rom», e rappresenta già un’infrazione. In gran fretta, nel frattempo, è stata riscritta.
Ieri a Bruxelles l’Europa si è divisa sui Rom: alcuni parlano di «scontri violenti» fra Barroso e Sarkozy. Anche se la Germania non è innocente (numerose sono le espulsioni di Rom verso il Kosovo), il cancelliere Merkel difende la Commissione, e il suo diritto a imporre superiori leggi e valori. Lo stesso fa il governo belga. Gli innocenti sono rari, ma l’unico a sostenere esplicitamente l’Eliseo, sul Figaro di ieri, è il governo di Roma. È anche l’unico a far propria l’immagine che Sarkozy si fa della Commissione: quando invita la lussemburghese Reding ad accogliere i Rom nel suo Paese, l’Eliseo tratta la Commissione come assemblea composta di rappresentanti nazionali, non di rappresentanti l’interesse comune europeo.
Può darsi che la linea del silenzio omertoso finisca col passare. Il presidente della Commissione Barroso ha una fierezza istituzionale discontinua, e ci sono governi (Spagna, Repubblica Ceca) gelosi della propria sovranità. Resta che il patto del silenzio è stato provvidenzialmente rotto, che su questioni essenziali si dibatte in pubblico: che esiste, sui Rom come a suo tempo sull’Austria di Haider, un’agorà europea. L’esecutivo di Barroso avrebbe obbedito alla politica privatizzata, se il Parlamento europeo non avesse condannato le pratiche d’espulsione con voce alta, il 9 settembre. Diceva uno dei grandi federalisti, Mario Albertini, che la vera Unione sarebbe nata il giorno in cui il federalismo sarebbe «sceso al livello della lotta politica di ogni giorno (... affinché) l’uomo della strada sappia che, come c’è il socialista, il democristiano e il liberale, così c’è anche il federalista europeo». È quello che sta succedendo dall’inizio di quest’estate, grazie ai Rom e alla lotta politica che essi hanno suscitato attorno alla ragion d’essere dell’Europa.
La lettera a Benedetto XVI che i francesi non sono abbastanza adulti per leggere
di Claude Lacaille
in “Témoignage Chrétien” n. 3257 del 21 giugno 2007 (www.finesettimana.org)
Pubblicata sulla stampa del Quebec in occasione del viaggio del papa in Brasile nel mese di maggio, questa lettera aperta è stata largamente diffusa nei paesi francofoni e ispanofoni, grazie soprattutto a internet. Al contrario la si è poco letta sulla stampa francese. Témoignage Chrétien la pubblica con l’autorizzazione dell’autore, il quale si confessa “sorpreso dell’eco e meravigliato del dibattito che ha suscitato”. La lettera a Benedetto XVI di questo prete del Quebec, Claude Lacaille, solleva numerose questioni lancinanti per l’insieme della chiesa cattolica: difficoltà di comunicazione con la gerarchia, posto della morale sessuale nei discorsi dell’istituzione, ruolo delle conferenze episcopali, ecc. Ma è soprattutto la delusione e l’incomprensione che sono al centro del testo. Il tentativo di mettere al passo le correnti della teologia della liberazione (“pratica” e non “teoria” secondo Claude Lacaille) e il rimettere la pastorale sacramentale al centro susciterebbe un vero sentimento d’abbandono massiccio dei credenti e delle credenti poveri dell’America latina. “E’ una vergogna mandare in rovina così una chiesa sull’altare di un potere clericale oscurantista” ci ha confidato Claude Lacaille. “L’attuale cardinale di Santiago entra in crisi ogni volta che sente la parola “sociale”: per lui si tratta di marxismo”.
A mio fratello Benedetto XVI
di Claude Lacaille, prete delle Missioni straniere, Trois-Rivières (Quebec)
“Ti indirizzo questa lettera perché ho bisogno di comunicare con il pastore della chiesa cattolica e perché non esiste nessun canale di comunicazione per raggiungerti. Mi indirizzo a te come a un fratello nella fede e nel sacerdozio poiché abbiamo ricevuto in comune la missione di annunciare il Vangelo di Gesù a tutte le nazioni.
Io sono prete missionario del Quebec da 45 anni; mi sono impegnato con entusiasmo al servizio del Signore all’apertura del concilio ecumenico Vaticano II. Mi sono trovato a lavorare in ambienti particolarmente poveri: nel quartiere Bolosse a Port au-Prince sotto François Duvalier, poi tra i Quichuas in Equador, e infine in un quartiere operaio di Santiago del Cile, sotto la dittatura di Pinochet.
Nel leggere il Vangelo di Gesù durante i miei studi secondari, sono rimasto impressionato dalla folla di poveri e di menomati dalla vita di cui si circondava Gesù mentre i numerosi preti che ci seguivano nel collegio cattolico ci parlavano solo di morale sessuale. Avevo 15 anni.
A bordo dell’aereo che ti conduceva in Brasile, hai ancora una volta condannato la teologia della liberazione come un falso millenarismo e un miscuglio non corretto di chiesa e politica. Sono rimasto profondamente scioccato e ferito dalle tue parole. Avevo già letto e riletto le due istruzioni che l’ex cardinale Ratzinger aveva pubblicato su questo tema. Vi si descrive uno spauracchio che non rappresenta per niente il mio vissuto e le mie convinzioni. Non ho avuto bisogno di leggere Karl Marx per scoprire l’opzione per i poveri. La teologia della liberazione non è una dottrina, una teoria; è un modo di vivere il vangelo nella prossimità e solidarietà con le persone escluse, impoverite.
E’ indecente condannare così pubblicamente dei credenti che hanno consacrato la loro vita, e noi siamo decine di migliaia di laici, di religiose e di religiosi, di preti venuti da ogni parte ad aver seguito lo stesso cammino. Essere discepolo di Gesù, è imitarlo, seguirlo, agire come ha agito. Non comprendo il grave accanimento contro di noi. Proprio prima del tuo viaggio in Brasile hai ridotto al silenzio e congedato dall’insegnamento cattolico padre Jon Sobrino (ndr.: al momento non è stata emanata nessuna sanzione), teologo impegnato e devoto, compagno dei gesuiti martiri del Salvador e di monsignor Romero. Quest’uomo di 70 anni ha servito con coraggio e umiltà la chiesa dell’America latina con il suo insegnamento. E’ un’eresia presentare Gesù come un uomo e di trarne le conseguenze?
Ho conosciuto la dittatura di Pinochet in Cile in una chiesa guidata valorosamente da un pastore eccezionale, il cardinal Raul Silva Henriquez. Sotto il suo governo, abbiamo accompagnato un popolo spaventato, terrorizzato dai militari fascisti cattolici che pretendevano di difendere la civiltà cristiana occidentale torturando, sequestrando, facendo scomparire e assassinando.
Ho vissuto quegli anni in un quartiere popolare particolarmente colpito dalla repressione, la Bandera. Sì, ho nascosto delle persone; sì, ne ho aiutate a lasciare il paese; sì, ho aiutato della gente ha salvare la pelle; sì, ho partecipato a degli scioperi della fame. Ho anche consacrato quegli anni a leggere la bibbia con la gente dei quartieri popolari. Centinaia di persone hanno scoperto la parola di Dio e questo ha permesso loro di far fronte all’oppressione con fede e coraggio, convinti che Dio li accompagnava.
Ho organizzato delle mense dei poveri e dei laboratori artigianali per permettere a degli anziani prigionieri politici di ritrovare il loro posto nella società. Ho raccolto i loro corpi assassinati all’obitorio e ho loro dato una sepoltura degna di esseri umani. Ho promosso e difeso i diritti della persona a rischio della mia integrità fisica e della mia vita. Sì, la maggior parte delle vittime della dittatura erano marxisti, e noi ci siamo fatti prossimi perché queste persone ci erano simili.
Abbiamo cantato e sperato insieme la fine di questa ignominia. Abbiamo sognato insieme la libertà. Che avresti fatto al mio posto? Per quale peccato vuoi condannarmi, mio fratello Benedetto? Che cosa ti indispone così tanto in questa pratica? E’ così distante da ciò che Gesù avrebbe fatto nelle stesse circostanze? Come pensi che io mi senta quanto ascolto le tue condanne reiterate? Giungo come te al termine del mio servizio ministeriale e mi attenderei di essere trattato con più rispetto e più affetto da parte di un pastore. Ma tu mi dici: “Non hai capito nulla del Vangelo. E’ solo marxismo! Sei un ingenuo!” Non si tratta di eccessiva arroganza da parte tua?
Rientro dal Cile, dove ho rivisto i miei amici del quartiere dopo 25 anni; nel gennaio scorso sono venuti in 70 ad accogliermi. Mi hanno accolto fraternamente dicendomi: “Tu hai vissuto con noi, come noi, ci hai accompagnato durante i peggiori anni della nostra storia. Sei stato solidale e ci hai amato. E’ per questo che ti vogliamo molto bene”. E questi stessi lavoratori e lavoratrici mi dicevano: “Siamo stati abbandonati dalla nostra chiesa. I preti sono rientrati nei loro templi; non condividono più con noi, non vivono più tra noi”.
In Brasile c’è la stessa realtà: in 25 anni si è rimpiazzato un episcopato impegnato presso i contadini senza terra e i poveri delle favelas delle grandi città con vescovi conservatori che hanno combattuto e rifiutato centinaia di comunità di base, dove la fede si viveva nella vita concreta. Tutto questo ha provocato un vuoto immenso che le chiese evangeliche e pentecostali hanno colmato: sono rimaste in mezzo al popolo e centinaia di migliaia di cattolici passano a queste comunità.
Caro Benedetto, ti supplico di cambiare il tuo sguardo. Non hai l’esclusività del soffio divino; tutta la comunità ecclesiale è animata dallo spirito di Gesù. Ti prego, ritira le tue condanne; tra breve sarai giudicato dal solo autorizzato a classificare chi sta destra e chi a sinistra, e sai come me che è sull’amore che saremo giudicati.”
di Adriano Prosperi (la Repubblica, 16.09.2010)
Uno spettro si aggira per l’Europa: un altro. Non quello rosso del comunismo che nel 1848 allarmò la Santa Alleanza. Oggi lo spettro veste gli stracci colorati e si muove sui carrozzoni di un popolo di nomadi. È questo lo spettro che ha spinto Sarkozy a rispondere sgarbatamente alla commissaria europea Viviane Reding e che gli ha guadagnato l’immediato appoggio di Berlusconi.
Oggi nasce in Europa una nuova internazionale: quella della paura. Ne tengano conto gli storici del futuro. Abbiamo avuto finora diverse Europe, quella cristiana, quella degli umanisti, quella illuministica. È stato battuto il tentativo di dar vita a un’Europa nazifascista nel segno della romanità antica e della svastica che nel 1934 portò a Roma per annunciarne la creazione l’ideologo del razzismo nazista Alfred Rosenberg. Ci fu, invece di quella, l’Europa rinata dalle rovine grazie all’intelligenza e al coraggio di uomini come Federico Chabod che concluse le sue lucidissime lezioni sulla storia dell’idea d’Europa lasciando Milano per unirsi alla Resistenza in Val d’Aosta.
Ma quella che oggi ha preso forma nelle dichiarazioni di Sarkozy e per la quale il nostro presidente del Consiglio si è affrettato a dichiarare che esiste «una convergenza italo-francese» è un’Europa dominata dalla paura, dalla volontà di chiudere le porte agli immigrati e di cacciare via i rom.
Notiamo di passaggio la differenza di stile tra le due dichiarazioni, quella di Sarkozy e quella di Berlusconi. Quella di Sarkozy è una rispostaccia pubblica, da litigio di condominio: quella di Berlusconi è un avvertimento di metodo: di queste cose si deve parlare privatamente. Ma ambedue partono da un unico presupposto: quello che i rom siano spazzatura. Anzi, qualcosa di meno. Sul mercato internazionale della spazzatura il prezzo dei rimpatri francesi dei rom - 300 euro un adulto, 100 un bambino - è decisamente a buon prezzo se confrontato con quello dei residui speciali che attraversano l’Europa su carri blindati per andare a nascondersi in qualche miniera abbandonata o a farsi bruciare negli impianti tedeschi.
Accomuna le due dichiarazioni lo stesso disprezzo per gli esseri umani in gioco. Ci si chiede se siamo giunti davvero al punto di dover riconoscere che l’Europa ha dimenticato l’epoca in cui i trasferimenti forzati di popolazione e l’eliminazione fisica degli indesiderati presero avvio proprio dai rom. Sbaglieremmo a trascurare le ragioni di questa rapida convergenza dei due presidenti nella costruzione di un’Europa della paura.
Il ministro Maroni ci aveva già informato all’inizio dell’estate che stava preparando la sua campagna d’autunno col rilancio del tema degli immigrati. E non è certo da oggi che la politica della paura costituisce la risorsa alla quale si appella una dirigenza politica senza idee e senza risultati da presentare al paese. È una ricetta a suo modo infallibile. Ma la censura della commissaria europea Viviane Reding ha fatto suonare l’allarme in casa leghista e ha spinto Berlusconi a coprirsi dietro le spalle di Sarkozy per la semplice ragione che la Francia è sempre la Francia.
Sarà bene che l’opinione pubblica democratica si svegli: non si dimentichi che si sta discutendo della sorte di esseri umani mercificati e venduti a un tanto il chilo. Che cosa contino sul mercato di una coalizione che si presenta a mani vuote davanti al paese in cerca di rilanci elettorali lo abbiamo capito dal commento del governo all’episodio della sparatoria partita da navi vedetta italiane in mani libiche: pensavano forse che si trattasse di immigrati clandestini? Perché evidentemente in questo caso si sarebbe trattato di una causa giusta. Che i libici, con l’aiuto e l’avallo dell’Italia, sparino sui pescherecci dei disperati o li chiudano nei campi di concentramento viene considerato un successo politico del nostro paese.
Comunque il risultato è quello di una brusca svolta storica: nell’idea d’Europa, nella immagine della Francia paese della libertà e rifugio per chi non trova libertà in casa sua; anche nella realtà storica di un’Italia che, pur nella fragilità delle sue istituzioni statali, aveva trovato nel solidarismo cristiano e in quello socialista le risorse ideali e pratiche per assicurare assistenza e conforto ai diseredati.
L CASO Rom, scontro Barroso-Sarkozy "Parigi continuerà a smantellare i campi"
Sarebbe sfociato in una discussione - definita "violenta" dal primo ministro bulgaro, Boyko Borissov - il confronto tra il presidente francese e il presidente dell’esecutivo Ue durante il vertice di Bruxelles tra i 27 Paesi dell’Unione. Ma il n.1 dell’Eliseo nega: "Nessun contrasto". Mentre il leader europeo ribadisce: "Le discriminazioni sono inaccettabili" *
BRUXELLES - Sarebbero culminate in uno scontro verbale "violento" tra il presidente francese Nicolas Sarkozy e il presidente dell’esecutivo europeo Josè Manuel Barroso, durante i lavori del vertice Ue in corso a Bruxelles, le tensioni sulla questione dei rom tra la Francia e la Commissione europea. Lo ha riferito il primo ministro bulgaro, Boyko Borissov. Un contrasto che Sarkozy nega, rilanciando, però, la fermezza nelle politiche d’espulsione: "Sono stati già smontati più di 55 mila campi nomadi. Non c’è alcuna forma di discriminazione, tutto è successo ed è stato voluto dalle leggi, dai nostri regolamenti. I francesi devono sapere che questa politica continuerà nel rispetto delle regole repubblicane, un rispetto molto forte". Nel mirino del presidente francese finiscono anche i media: "Voi giornalisti che mi mettete in prima pagina poi mi chiedete se ho dato adito all’Ue di accusarmi. Per la Francia è stata un’umiliazione profonda".
Di tono un po’ diverso la replica di Barroso, che rispondendo ai giornalisti che gli chiedevano un commento sullo scontro avuto con Sarkozy, ha risposto: "E’ vero che abbiamo sentito commenti esagerati: ieri, la commissaria Reding lo ha riconosciuto, penso che altri dovrebbero fare lo stesso, rinunciando a un certo populismo". Barroso ha pertanto rivolto un invito ad abbandonare "retorica inutile" e "controversie non necessarie" per non farsi distrarre dal vero problema. "La Commissione riempie il suo ruolo di guardiano dei trattati. In Unione europea ogni discriminazione in termini etnici è assolutamente inaccettabile. La dignità umana è sacra", ha dichiarato Barroso. Il presidente dell’esecutivo europeo ha rilevato la necessità di affrontare insieme il problema e di non farsi distrarre "dalle polemiche".
La situazione, già tesa da giorni, stamani non si era affatto distesa, dopo che la presidenza belga dell’Ue aveva dichiarato che riteneva fosse compito della Commissione europea "sorvegliare" il rispetto da parte della Francia della normativa europea per quanto riguarda la materia del rimpatrio dei rom in Bulgaria e Romania. "Concordiamo tutti sul fatto che la Commissione debba verificare la corretta applicazione degli impegni presi dalla Francia" su questa delicata questione, ha dichiarato poco prima dell’inizio del vertice Ue a Bruxelles il premier belga, Yves Leterme, il cui paese assicura la presidenza semestrale dell’Unione europea.
Inevitabilmente i leader dei ventisette, oggi, hanno parlato anche della questione dei rimpatri dei rom. La questione, che non era prevista in agenda, è stata dibattuta informalmente durante il pranzo, su richiesta del presidente francese Nicolas Sarkozy, protagonista ieri di un duro scambio di accuse con la commissaria Ue alla giustizia Viviane Reding. Il premier Silvio Berlusconi è arrivato in ritardo al vertice a causa di un guasto tecnico e un atterraggio di emergenza dell’aereo 1 (FOTO 2) su cui viaggiava, ma in tempo utile per partecipare al confronto tra i leader sui rom e sugli altri temi ufficiali del summit. Ieri Berlusconi ha assicurato il sostegno dell’Italia alla Francia e a Sarkozy, chiedendo all’Europa di farsi carico del problema dei rom e dell’immigrazione. E oggi Sarkozy dice: "Ho parlato con lui e siamo d’accordo".
Il vertice è stato preceduto da una riunione dei ministri degli Esteri dell’Ue che ha dato il via libera all’accordo di libero scambio tra Ue e Corea del sud, dopo che l’Italia ha tolto la sua riserva. Per l’Italia al tavolo dei capi di Stato e di governo c’è il ministro degli Esteri, Franco Frattini.
Le scuse di Reding. Ieri sera la Reding aveva smorzato i toni ed espresso le sue "scuse" per aver osato un parallelo tra le espulsioni dei rom e la seconda guerra mondiale. Oggi Sarzoky commenta: "Quelle frasi hanno scioccato i sentimenti di tutti i miei compatrioti’’. Resta, però, l’apertura di un procedimento di infrazione contro Parigi per la politica di rimpatri volontari dei rom bulgari e romeni. "La Commissione Ue ha il diritto e l’obbligo di verificare se gli Stati membri rispettano le regole comunitarie" sintetizza la cancelliera tedesca, Angela Merkel.
Gli altri dossier. La questione dei rom rischia di oscurare i numerosi altri dossier nell’agenda del vertice Ue, in primis quello economico e della crisi del debito. I 27 non concordano sulle misure da adottare e sull’introduzione di nuove sanzioni contro i paesi troppo lassisti, come rischiesto dalla Germania. Fra gli altri temi sul tavolo dei lavori, gli aiuti al Pakistan, l’accordo di libero scambio con la Corea del Sud, le relazioni dell’Ue con i suoi partner cosiddetti strategici, in particolare quelli asiatici.
La risposta di Parigi a Bruxelles. Intanto, incalzato sulla sua politica nei confronti dei rom, il governo di Parigi prepara la risposta a Bruxelles. Rappresentanti dell’ElIseo, di Matignon, dell’Interno e dell’Immigrazione si sono incontrati ieri per delineare la risposta alla lettera che il Commissario Ue, Viviane Reding, ha inviato all’esecutivo per chiedere chiarimenti sulla circolare del 5 agosto, in cui si diceva esplicitamente che le espulsioni dovevano riguardare "in particolare i rom" (una circolare precipitosamente sostituita lunedì scorso).
Il governo vuole prendere le contro-misure nei confronti della minacce di una procedura di infrazione da parte della Commissione; una condanna che potrebbe portare a sospendere l’allontanamento dei rom -tanto che siano volontari, umanitari o forzati- rumeni e bulgari verso il loro Paese. Le Figaro è entrato in possesso del messaggio inviato martedì da Viviane Reding, al ministro francese dell’Immigrazione, Eric Besson: "Le sarei riconoscente -scrive- se volesse farmi avere al più presto gli elementi di spiegazione che potete addurre sulla compatibilità di questa circolare al diritto dell’Unione Europea e della Carta dei Diritti fondamentali e tutti i dettagli su come è stata applicata". Il Commissario chiede di sapere -aggiunge il quotidiano francese - se i prefetti abbiano applicato alla lettera la famosa circolare del 5 agosto, che ha infiammato il dibattito e che faceva un particolare riferimento ai rom; e chiede anche chiarimenti sulla nuova circolare preparata dal ministro dell’Interno, Bruce Hortefeux, il 13 settembre, per dissipare "ogni malinteso circa la possibile stigmatizzazione dei Rom". La Reding vuole sapere in sostanza cosa cambia sullo smantellamento dei campi dei rom, tanto più che la nuova circolare sostituisce quella incriminata, senza specificare se l’annulla; un dato che non è sfuggito alla Reding che intende incrociare le armi.
Maroni: "La Francia ha applicato le direttive europee". Per fronteggiare l’emergenza Rom ’’il governo francese ha agito bene applicando le direttive europee’’. Lo ha affermato il ministro dell’Interno, Roberto Maroni, interpellato dai giornalisti a Montecitorio. Maroni ha poi aggiunto che in Italia ’’l’emergenza nomadi non c’è più e la situazione si va normalizzando’’, con gli interventi di chiusura dei campi abusivi e l’apertura di campi nomadi attrezzati.
* la Repubblica, 16 settembre 2010
ESPULSIONI
Rom, l’Unione attacca Parigi
"Una vergogna per l’Europa"
Viviane Reding, vicepresidente della Commissione con delega per la Giustizia dei Diritti umani, annuncia l’avvio di una procedura di infrazione contro il governo francese. E aggiunge: "E’ una violazione della Carta europea sui diritti fondamentali" *
BRUXELLES - Il comportamento dei ministri francesi verso la Commissione europea è "una disgrazia" per l’Unione Europea, ha detto la vice presidente della Commissione Viviane Reding, a proposito di quanto affermato dai ministri sulla questione delle espulsioni di rom. Il ruolo della Commissione come "guardiano" dei trattati Ue, ha detto la Reding, è reso "estremamente difficile" dal fatto che "non ci possiamo più fidare delle assicurazioni date da due ministri in una riunione formale con due commissari circondati da 15 rappresentanti ufficiali di alto livello da entrambe le parti del tavolo".
E questa, secondo la vicepresidente della Commissione di Bruxelles, "non è un’offesa meno importante in una situazione così cruciale. Dopo 11 anni di esperienza nella Commissione, andrò oltre: è una vergogna. Sarò molto chiara: non c’è posto in Europa per la discriminazione basata sulle origini etniche o di razza. E’ incompatibile con i valori su cui si fonda l’Unione europea. Le autorità nazionali che discriminano gruppi etnici violano anche la Carta europea dei diritti fondamentali, che tutti gli Stati membri, compresa la Francia, hanno firmato".
La commissaria Ue, che ha la responsabilità per la Giustizia, i diritti fondamentali e la cittadinanza, ha poi annunciato l’avvio di "una procedura di infrazione contro la Francia" per applicazione discriminatoria della direttiva sulla libera circolazione dei cittadini e per la mancata trasposizione di tali norme europee nella legislazione francese. Il governo francese ha reagito con "stupore" all’annuncio ma ha fatto sapere di non voler entrare in polemica con Bruxelles.
"Abbiamo appreso con grande stupore le dichiarazioni di Viviane Reding. Non pensiamo che con questo tipo di affermazioni possano migliorare le sorti e la situazione dei rom", ha detto a Parigi il portavoce del ministero degli Esteri, Bernard Valero. "Questo non è il momento della polemica, noi lavoriamo fianco a fianco con le autorità di Bucarest. Un lavoro - ha concluso - che vogliamo condurre con i nostri partner romeni e con la Commissione europea".
Viviane Reding, ha usato toni molto duri contro i ministri e la scarsa collaborazione dimostrata. "Darò certamente alle autorità francesi il diritto di commentare gli ultimi sviluppi nei prossimi giorni - ha detto - ma voglio dire molto chiaramente che la mia pazienza si sta esaurendo: quando è troppo, è troppo".
La procedura di infrazione verrà avviata su due fronti: "per l’applicazione discriminatoria della direttiva sul libero movimento delle persone e per la mancata trasposizione delle garanzie procedurali e sostanziali previste dalla stessa direttiva". Nessuno Stato, ha detto la vicepresidente, può aspettarsi trattamenti speciali quando si parla di diritti fondamentali: una regola che "oggi si applica alla Francia, ma si applica allo stesso modo a tutti gli altri Stati membri, piccoli o grandi, che si trovino in una situazione analoga: potete contare su di me per questo".
Oggi intanto sono stati 69, dei quali 12 bambini, i rom imbarcati a bordo di un volo speciale della compagnia rumena Blue Air diretto a Bucarest. Il rimpatrio è "volontario nel quadro di una normale procedura", ha detto Alaint Testot, direttore territoriale dell’ufficio francese per l’immigrazione e l’integrazione. Su un centinaio di rom attesi, solo 69 si sono presentati all’imbarco.
* la Repubblica, 14 settembre 2010
FRANCIA
Rom, Sarkozy furioso con l’Europa
"La Reding li accolga nel suo Paese"
Dura risposta del presidente francese al Commissario Ue alla Giustizia, che ha annunciato l’apertura di una procedura d’infrazione per i rimpatri dei nomadi: "Perché non li prende in Lussemburgo?". Il Granducato: "E’ in malafede"
PARIGI - E’ battaglia di parole tra l’Eliseo e l’Unione. La replica del governo francese al commissario alla Giustizia, Viviane Reding, che ieri aveva annunciato l’apertura di una procedura d’infrazione 1 contro Parigi per i rimpatri dei rom, è stata dura. Sarkozy ha definito le critiche del commissario alla sua politica "inaccettabili". E se inizialmente aveva invitato tutti a moderare i toni della discussione e a smettere di alimentare "una sterile controversia", dopo ha provocato il commissario Reding: "Che faccia venire i rom nel suo Paese, che li accolga nel Lussemburgo", ha detto secondo quanto raccontato da alcuni senatori che erano con il presidente a una colazione di lavoro. Parole che non sono piaciute al Granducato, il cui ministro degli Esteri, Jean Asselborn, ha definito "in malafede" il presidente francese.
Il ministro francese per gli Affari europei, Pierre Lellouche, stamattina aveva definito "inopportuna" la "scivolata" del commissario Reding, soprattutto il paragone delle espulsioni da parte della Francia con quanto avvenuto nella seconda guerra mondiale. "La pazienza ha un limite, non è così che ci si rivolge a un grande Stato", ha aggiunto Lellouche.
E mentre la Germania si è schierata con la Francia contro i toni del commissario ma a favore della Ue per la posizione francese sulle espulsioni, l’Unione europea fa fronte comune con il commissario: "La signora Reding parla a nome della Commissione", ha ribadito la portavoce dell’esecutivo europeo, Pia Ahrenkilde, spiegando che l’esame della normativa francese sulle espulsioni "viene effettuato in coordinamento con il presidente Barroso". Che ha aggiunto: "Il divieto di discriminare sulla base delle origini etniche è uno dei valori su cui si basa l’Unione europea". Per questo la posizione della Reding ha "il pieno sostegno del collegio dei commissari e il mio personale".
A causare la polemica e scatenare la reazione di Viviane Reding 2, responsabile della Giustizia e dei diritti fondamentali in seno dell’esecutivo europeo, era stata una circolare del ministero degli Interni francese, tenuta nascosta e poi sostituita con una nuova politicamente più corretta. La prima versione prendeva di mira espressamente i rom per le espulsioni. "Sembra che le persone siano espulse da uno Stato membro della Ue soltanto perché appartengono a una certa minoranza etnica. Pensavo che l’Europa non sarebbe stata più testimone di questo tipo di situazioni dopo la seconda guerra mondiale", aveva detto Reding.
"La prima circolare era del 5 agosto - ha precisato l’Eliseo - ed è stata sostituita da quella del 13 settembre che il ministro degli Interni stesso ha firmato. Ora è tempo di un dialogo pacifico per trattare il fondo degli argomenti. C’è la volontà di trattare le cose sul fondo e non lasciarsi trascinare in sterili polemiche". Dall’estate Parigi ha inasprito la sua politica di rimpatrio dei rom (principalmente romeni e bulgari) in situazione irregolare, e l’iniziativa ha provocato numerose critiche in patria e all’estero. La commissione europea ieri ha minacciato una procedura d’infrazione nei confronti della Francia. Sull’eventualità che il problema dei rom sia sollevato domani con Sarkozy a Bruxelles, l’Eliseo ha precisato che la questione "non è all’ordine del giorno" del vertice.
* la Repubblica, 15 settembre 2010
LA RISOLUZIONE
Rom, il Parlamento europeo
censura la linea dura di Sarkozy
La risoluzione presentata dal centrosinistra è stata approvata con 337 voti a favore, 245 contro e 51 astensioni. Il documento chiede "l’immediata sospensione di tutte le espulsioni". Il governo francese: "Non ci fermiamo"
STRASBURGO - Il Parlamento Europeo ha adottato la risoluzione sui Rom che censura le politiche francesi di espulsione dei Rom presentata dal centrosinistra con 337 voti a favore contro 245 e 51 astensioni. La risoluzione esprime, tra l’altro, "grande preoccupazione per le misure di espulsione prese dalle autorità francesi e di altri paesi nei confronti dei Rom e sollecita tali autorità all’immediata sospensione di tutte le espulsioni". Secca la replica di Parigi. "’E’’ fuori questione la sospensione delle espulsioni" dice il ministro dell’Immigrazione francese Eric Besson.
Il testo del Parlamento riporta la "profonda preoccupazione" per "la retorica incendiaria e discriminatoria che ha caratterizzato il dibattito politico durante i rimpatri dei Rom, che ha dato credibilità a dichiarazioni razziste e azioni dei gruppi dell’estrema destra". Poi la risoluzione ricorda che "le espulsioni di massa sono vietate dalla Carta dei Diritti Fondamentali e dalla Convenzione europea per la protezione dei diritti umani e delle Libertà fondamentali, quindi tali misure sono in violazione dei trattati e delle leggi della Ue, visto che (le espulsioni) sono una discriminazione su base razziale ed etnica che viola la direttiva sulla libertà di libera circolazione". Bocciata anche la raccolta delle impronte digitali dei Rom espulsi.
Il testo approvato censura anche la Commissione europea. "Il Parlamento europeo - è scritto nel punto 10 - deplora la tardiva e limitata risposta della Commissione in qualità di guardiana dei Trattati, nel dovere di verificare l’aderenza delle azioni degli stati membri alle leggi primarie della Ue, in particolare alle direttive sulla non-discriminazione della libertà di movimento e il diritto di protezione dei dati personali.
* la Repubblica, 09 settembre 2010
Mentalità nazista anti rom
di Moni Ovadia (l’Unità, 04.09.2010)
Oggi a Roma in Campo de’ Fiori si terrà una manifestazione di solidarietà e di lotta per i diritti dei rom e dei sinti. Il mio amico Santino Spinelli, rom abruzzese, cittadino italiano, musicista di fama internazionale, professore di cultura romanì all’università di Chieti, mi ha lanciato un accorato appello perché ne parli. Lo faccio con il cuore e con tutta la passione di cui sono capace, ma questa volta anche alzando il tiro. I recenti provvedimenti del governo francese, le esternazioni di ministri del nostro governo in vena di emulazioni, l’ennesima tragica morte di innocenti nei luoghi del degrado a cui i rom sono costretti con deliberata crudeltà da un sistema che li vuole cancellare sono infami espressioni di razzismo, nulla di meno.
La mentalità che li partorisce è identica a quella dei nazisti. Non ingannino le modalità apparentemente diverse dovute solo al mutato contesto formale in cui viviamo. La stessa mentalità portò alle vessazioni e alle violenze antisemite e antinomadi che naturalmente sfociarono nello sterminio di ebrei, rom e sinti nei campi di sterminio.
I diretti responsabili odierni di questa politica sono i nazisti di oggi, chi approva, chi tace, chi gira la testa dall’altra parte è un infame complice di questi miserabili vigliacchi. In questi giorni è stato messo in pensionamento anticipato un coraggioso prelato cattolico che aveva alzato la voce con chiarezza e senza riserve diplomatiche contro il governo francese. Non dimentichiamo mai che il silenzio, l’opportunismo e le titubanze per convenienza sono, ieri come oggi i più perniciosi alleati dell’orrore.
Tutti gli esseri umani per bene hanno la responsabilità e il dovere di lottare contro il razzismo se non vogliono diventarne sodali. In particolare, tocca agli ebrei e alle loro istituzioni denunciare i politici razzisti interrompendo ogni rapporto di contiguità con loro.
Oggi a Campo dei fiori un presidio contro la discriminazione: ecco un piccolo manifesto per favorire l’integrazione e cacciare i pregiudizi
Otto idee per Rom e Sinti
Per dire stop a razzismo e discriminazione, ai campi Rom e alle forme di ghettizzazione delle popolazioni Sinti e Rom, oggi il Coordinamento nazionale antidiscriminazione ha organizzato una manifestazione alle 14.30 in Piazza Campo dei fiori, a Roma
di Alexian Santino Spinelli (il Fatto, 04.09.2010)
Un bambino muore, un bambino di soli tre anni muore a Roma, Caput Mundi, a poca distanza dal Vaticano, centro dell’Impero della Chiesa Cattolica Romana, nel cuore della cultura europea. È un bambino rom che allunga un’interminabile lista di bambini rom morti per cause futili. Lui figlio legittimo della discriminazione e della segregazione razziale, capro espiatorio di tutti i mali della società come poteva pensare di non pagare le sue colpe e di non essere usato come agnello sacrificale? Ai disvalori si è opposta una sincera e ferrea resistenza durante la seconda guerra mondiale che è costata oltre 50 milioni di morti di cui 500 mila Rom e Sinti barbaramente massacrati nei lager.
Oggi si vive un retaggio di quella cultura etnocentrica e razzista, con i campi di sterminio “moderni” (campi nomadi anche se i Rom non sono nomadi per cultura) e le nuove forme di deportazioni “civili” e “democratiche” approvate in larga maggioranza dall’opinione pubblica teleguidata e frastornata dai pregiudizi. Ma che non ci sia l’alibi del “Io non sapevo”. Ecco otto punti per migliorare la situazione dei Rom e Sinti in Italia
1 La sicurezza e la legalità vanno garantite a tutti. Rom e Sinti compresi. Nessuna voce autorevole ha condannato realmente l’episodio. Solo all’estero si sono resi conto della gravità della situazione dei Rom e Sinti in Italia.
2 Ristabilire la legalità riguardo la palese violazione dei più elementari diritti umani nei confronti delle diverse comunità Rom e Sinte in Italia, costrette a vivere in condizioni disumane e fortemente discriminate in netto contrasto con la Costituzione Italiana, con la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e con le normative europee ed internazionali.
3 Smantellare i campi nomadi che sono pattumiere sociali degradanti e frustranti, centri di segregazione razziale permanente ed emblema della discriminazione. I Rom e Sinti non sono nomadi per cultura. La mobilità è sempre coatta e mai una scelta.
4 Facilitare l’accesso alle case popolari con pari opportunità o sviluppare insediamenti urbanistici non ghettizzanti facilitando anche l’utilizzo dei servizi pubblici. Favorire il più possibile l’accesso alla scolarizzazione, al lavoro e all’assistenza sanitaria alle famiglie di Rom e Sinti più disagiate.
5 Arrestare il processo di demonizzazione e di criminalizzazione di un intero popolo. Sono i singoli che hanno un nome e cognome a sbagliare e che devono essere puniti e non l’etnia di appartenenza.
6 Promuovere la conoscenza della storia, della cultura, dell’arte e della lingua dei Rom e dei Sinti per combattere gli stereotipi negativi e favorire l’integrazione.
7 Creare una consulta in Italia di intellettuali Rom e Sinti e associazioni che abbiano una esperienza internazionale sulle problematiche concernenti la realtà delle comunità romanès che possano favorire la mediazione nella risoluzione dei problemi sociali e politici.
8 Favorire il più possibile il processo di integrazione positiva a coloro i quali dimostrano una chiara volontà di partecipazione sociale evitando di porre sullo stesso piano chi merita e chi delinque.
(*) musicista e docente universitario
FRANCIA
Rom, in migliaia in piazza a Parigi
130 città contro le espulsioni
Manifestazioni anche in Europa. "No alla politica disumana di Sarkozy". Malgrado questa massiccia adesione, però, i sondaggi continuano a mostrare come oltre la metà dei francesi sostenga la linea dura del governo
* La Francia scende in piazza per i rom foto La Francia scende in piazza per i rom * Francia in piazza contro Sarkozy "No al razzismo e all’esclusione" articolo Francia in piazza contro Sarkozy "No al razzismo e all’esclusione"
PARIGI - Per una volta si è riunita anche tutta la gauche francese, in prima fila oggi a Parigi nella manifestazione anti-xenofobia che è partita da place de la Republique. In prima fila, in quella che è considerata la grande protesta contro il presidente Nicolas Sarkozy e la sua decisione di espellere nomadi e rom, anche il sindaco socialista della capitale, Bertrand Delanoe.
La protesta è concentrata contro le politiche del governo nei confronti dei rom 1 e soprattutto contro le espulsioni collettive dei nomadi verso alcuni Paesi d’origine, dalla Romania alla Bulgaria. Sono ben 138 le manifestazioni organizzate in tutto il Paese e oltre 130 le città coinvolte: in testa al corteo di Parigi una quarantina di rom rumeni, il cui campo è stato smantellato il 12 agosto scorso a Choisy-Le-Roi, alla periferia della città. Nelle loro mani uno striscione: "No alla politica disumana di Sarkozy". Artisti come Regine, Jane Birkin, Anges Jaoui e Jean Cherhal hanno intonato, lungo le strade, "Les Petits Papiers", celebre canzone di Serge Gainsbourg, accompagnati da una fisarmonica.
E la protesta non si esaurisce a Parigi. A Bordeaux centinaia di persone sono scese in strada per dire "basta al razzismo" e gruppi di manifestanti si sono dati appuntamento anche nel resto d’Europa, davanti alle ambasciate francesi di diversi Paesi Ue, inclusa l’italia. Questi mini sit-in sono stati organizzati da decine di associazioni e organizzazioni per la difesa dei diritti umani con il sostegno dei sindacati e dei partiti di opposizione
Le espulsioni hanno finora colpito oltre 1000 rom, innescando una serie di polemiche nella comunità internazionale. Secondo le cifre ufficiali, lo scorso anno sono stati espulsi 11 mila rom. La "League of Human Rights", che ha organizzato la maggior parte delle manifestazioni, ha dichiarato di voler reagire così a un governo ’’xenofobo". I sit-in sono stati supportati dal partito dell’opposizione socialista e dal sindacato Cgt, il secondo più grande della Francia. Malgrado questa massiccia desione, però, i sondaggi continuano a mostrare come oltre la metà dei francesi sostenga le misure del governo.
A ribasso nei sondaggi e imbarazzato dallo scandalo politico-fiscale che ha investito il ministro del lavoro Eric Woerth, costretto a difendere la cruciale riforma delle pensioni, il presidente francese Nicolas Sarkozy aveva annunciato a fine luglio un inasprimento della sua politica di sicurezza. Ma, decidendo di smantellare i campi illegali di rom e annunciando di voler togliere la cittadinanza ai neofrancesi di origine straniera che si macchino di certi reati, ha suscitato l’indignazione dell’opposizione e di gran parte della società civile.
Si protesta anche a Roma. Appuntamento presso l’ambasciata francese a Roma per la manifestazione contro il "razzismo e la discriminazione di rom e sinti", contro "i campi nomadi" e contro le politiche sui nomadi di Sarkozy e Maroni, organizzata dal coordinamento nazionale antidiscriminazione. Sono un centinaio le persone che da piazza della Cancelleria si sono spostate nell’adiacente Campo de’ Fiori.
Le bandiere blu e verdi con al centro una ruota, simbolo dei rom, sventolano dunque anche nella capitale. Presenti alla manifestazione Prc, Sel e Cgil. "Questa manifestazione è gemellata con quella di Parigi", ha spiegato Alexian Santino Spinelli, rom e docente all’università di Camerino. "Siamo qui contro i respingimenti in Francia e in Italia e contro i campi rom, che ci emarginano. In pochi sanno che il settanta per cento dei rom in italia vive in case, mentre i bambini stanno morendo nei campi. È un bollettino di guerra in periodo di pace".
Secondo il delegato del sindaco ai rapporti con la comunità rom di Roma, Najo Adzovic, si tratta però di una manifestazione "ideologica e politica, un evento organizzato dai centri sociali e dalle associazioni che non rispecchia la nostra comunità e il cui scopo è solo quello di fare un pò di rumore". "Protestare e far sentire la propria voce è giusto e corretto, ma a farlo - prosegue Adzovic - dobbiamo essere noi rom che però non ne sentiamo la necessità, almeno qui a Roma, dove le politiche della sicurezza si sposano con quelle dell’integrazione. In questa città, mai come in questo momento, ci stiamo confrontando con un’amministrazione disposta ad ascoltare le nostre esigenze e le nostre problematiche a 360 gradi".
* la Repubblica, 04 settembre 2010
LA LETTERA
"Presidente, mi sento tradito
da una politica senza umanità"
di TAHAR BEN JELLOUN *
Signor Presidente Sarkozy,
ho la fortuna di beneficiare di due nazionalità. Sono marocchino e francese, dal 1991. E sono felice di quest’appartenenza a due Paesi, due culture, due lingue, che vivo come un permanente arricchimento. Ma dopo le sue dichiarazioni di Grenoble sulla possibile revoca della nazionalità francese ai responsabili di reati gravi, sento la mia nazionalità francese in qualche modo minacciata, o quanto meno resa più fragile. Non che io abbia l’intenzione di darmi alla delinquenza o di turbare gravemente l’ordine pubblico; ma in quelle parole vedo un attacco contro le fondamenta stesse del Paese, contro la sua Costituzione. E ciò, signor presidente, non è ammissibile in una democrazia, in uno Stato di diritto come la Francia, che rimane malgrado tutto il Paese dei diritti umani; un Paese che per tutto il secolo scorso ha accolto e salvato centinaia di migliaia di esiliati politici.
Nel 2004, da ministro dell’Interno, lei dichiarò che "a ogni reato deve corrispondere una risposta ferma, la stessa per chi è o non è francese in base alla sua carta d’identità". Oggi, in veste di presidente, lei contraddice la sua posizione di ministro. E ciò mi induce a riflettere sulla funzione che lei ricopre, e a intervenire, sia pure tardivamente, nel dibattito pubblico sull’identità nazionale che uno dei suoi ministri ha creduto opportuno di lanciare.
La nazionalità fa parte dell’identità. E come nel mio caso, può essere duplice. Io non riesco a vedermi privato di una delle mie nazionalità. Mi sentirei diminuito.
Nessuna società è di per sé razzista. Dire che la Francia è "un Paese razzista" è stupido e ingiusto.
Sono marocchino e francese. La sua idea di revocare la cittadinanza a chi compie reati gravi per me è una minaccia
Al pari di tanti altri, anche questo Paese è percorso da tendenze all’esclusione e al razzismo, vuoi per motivi ideologici e politici, vuoi per ragioni attinenti al disagio sociale, alla povertà o alla paura. Confondere l’insicurezza con l’immigrazione non è solo un errore, è una colpa.
Il ruolo di un dirigente politico è quello di scoraggiare, e ove necessario di impedire lo sviluppo di siffatte tendenze. Un capo di Stato non dovrebbe reagire con i suoi umori, in maniera viscerale. Non è un cittadino qualsiasi, che può permettersi di dire qualunque cosa gli venga in mente. È tenuto a pesare le parole e a misurarne le possibili conseguenze. La Storia registra ogni sua dichiarazione, buona o cattiva, giusta o inopportuna che sia. E il suo quinquennato, signor presidente, resterà certamente segnato da alcuni dei suoi sconfinamenti verbali. Chiunque ha diritto a reagire a un insulto, ma non un capo di Stato. Non che si sia autorizzati a mancargli di rispetto - ma il presidente della Repubblica deve porsi al disopra del livello di un cittadino medio. È un simbolo, investito di una funzione nobile, eccezionale. Per abitarla, per consolidare quest’ambizione bisogna saper volare alto, e non rimanere invischiati nei fatti fino a dimenticare di essere un cittadino d’eccezione.
Quali che siano i valori, di destra o di sinistra, sostenuti dal partito da cui proviene, il capo dello Stato, in quanto eletto a suffragio universale, dev’essere il presidente di tutti i francesi. Compresi quelli di origine straniera. E anche nel caso in cui la sfortuna abbia spezzato la loro sorte, o li predisponga a una precarietà patogena. Ora, le sue recenti dichiarazioni, peraltro denunciate da un editoriale del New York Times e da personalità autorevoli come Robert Badinter, denotano un cedimento che forse nel 2012 potrà valerle un certo numero di voti del Front National, ma che al tempo stesso la pone in una situazione difficilmente sostenibile.
Signor presidente, comprendo bene quanto il problema della sicurezza la preoccupi. Ma nessuno mai sarà disposto a prendere la difese di un delinquente che abbia sparato su un agente della polizia o della gendarmeria. Spetta alla giustizia dare una "risposta ferma" a questi reati, i cui autori vanno però giudicati indipendentemente dalla loro origine e religione, o dal colore della loro pelle. Altrimenti si cade nell’apartheid. La repressione peraltro non basta. Occorre andare alla radice del male, se si vuole risanare in maniera definitiva la drammatica situazione delle banlieue.
È più facile suscitare la diffidenza, o magari l’odio per lo straniero, che promuovere il rispetto reciproco. Ma un capo di Stato non è un poliziotto d’alto rango. È il magistrato supremo della nazione, il garante della giustizia e dello stato di diritto. E in quanto tale deve essere irreprensibile, sia nei comportamenti che nelle parole. Ora, signor presidente, il suo discorso sulla revoca della nazionalità ai delinquenti di origine straniera che abbiano attentato alla vita di un poliziotto o di un gendarme è ricusato dalla Costituzione. Sono parole al vento - perché come lei ben sa, se una legge del genere fosse votata, la sua applicazione creerebbe più problemi di quanti possa risolverne. Non spettava a lei lanciare questa minaccia.
Signor presidente, lei non ignora certo il contenuto dell’ultimo rapporto dell’Ong "Transparence France". Ma nel caso che questo testo le fosse sfuggito, citerò una delle sue conclusioni: "La Francia continua a veicolare un’immagine relativamente degradata della sua classe politica e della sua amministrazione pubblica". Peraltro, per quanto riguarda i livelli di corruzione, la Francia è classificata al 24° posto su 180 Paesi.
La crisi economica non è una scusa. La crisi morale è un fatto. A lei, signor presidente, spetta il compito di ripristinare l’immagine della Francia per quanto ha di più bello, di più invidiabile, di universale: il suo status di Paese dei diritti umani. È il Paese della solidarietà e della fratellanza proclamate, una terra generosa, ricca delle sue differenze, dei suoi colori, delle sue spezie, che tra l’altro dimostra come l’islam sia perfettamente compatibile con la democrazia e la laicità. Perciò la prego, signor presidente, di cancellare dal suo discorso le idee infelici che sono quelle diffuse da un partito di estrema destra, nell’intento di far ripiegare il Paese su se stesso, di isolarlo, di tradire i suoi valori fondamentali.
Voglia credere, signor presidente, all’espressione dei miei migliori sentimenti.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)
* la Repubblica, 04 settembre 2010.
Per l’ONU, Parigi deve smettere di discriminare i rom
intervista a Pierre-Richard Prosper, a cura di Agathe Duparc
in “Le Monde” del 29 agosto 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
Incaricato di vegliare sull’applicazione della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale delle Nazioni Unite, il Comitato contro l’eliminazione della discriminazione razziale (CERD), l’11 e il 12 agosto, aveva messo sotto esame la Francia per il crescendo di politiche per la sicurezza contro i rom e i nomadi. Venerdì 27 agosto, i 18 esperti hanno emesso una quindicina di raccomandazioni finali. Pierre-Richard Prosper, il referente, dà le spiegazioni.
Il CERD raccomanda alla Francia di “evitare i rimpatri collettivi” di rom, ma le espulsioni continuano.
Siamo molto preoccupati per questa situazione e speriamo che le nostre osservazioni siano prese sul serio. Abbiamo chiesto alla Francia di rispondervi entro un anno e di segnalarci quali provvedimenti erano stati presi contro la discriminazione dei rom. Chiediamo anche l’abolizione dei documenti di circolazione per i nomadi. Non rimettiamo in discussione il diritto di uno Stato di preoccuparsi della sua sicurezza, ma il prendere di mira un gruppo piuttosto che degli individui è contrario agli obblighi della Francia, firmataria di convenzioni internazionali.
Il CERD mette in guardia contro la possibilità di ritirare la nazionalità a certi delinquenti.
Il nostro ruolo non è di immischiarci in dibattiti interni francesi. Solo alziamo il cartellino per dire: attenzione, andando di questo passo, la Francia deve fare attenzione a rispettare i suoi obblighi internazionali. Forse ci sono delle situazioni nelle quali la cittadinanza debba essere ritirata, ma questo non deve riguardare gruppi di popolazione. Bisogna essere molto prudenti.
Si può parlare di discorso discriminatorio e razzista ai vertici dello Stato francese?
Quello che succede in Francia con i rom è di natura discriminatoria. I discorsi, le azioni intraprese sono discriminatori. Molte ONG ce le riferiscono. Invece, per combattere la discriminazione, l’impulso deve venire dal vertice dello Stato. Preghiamo urgentemente la Francia di mettere un freno a tutti i discorsi politici negativi che potrebbero essere discriminatori. Temiamo che la popolazione francese si senta ora libera di agire contro i rom.
Il CERD ha annunciato l’intenzione di far intervenire l’Unione Europea sulla questione dei rom. Come?
Deve esserci una risposta a livello di ogni Stato implicato ed una risposta collettiva a livello dell’Unione Europea. Abbiamo quindi fatto scattare la procedura detta “di allarme rapido”. Venerdì sera, abbiamo inviato una lettera al presidente della Commissione e al Consiglio d’Europa per parlare della situazione molto difficile dei rom in sei paesi (Romania, Slovenia, Danimarca, Bosnia, Estonia e Francia) e chiedere un’azione rapida e concordata.
Alcune persone vicine al presidente Sarkozy hanno ironizzato sul fatto che il CERD sia composto da esperti di paesi non sempre democratici. Che cosa ne pensa?
Ho trovato queste dichiarazioni molto sorprendenti ed inadeguate. Siamo stati eletti dagli Stati firmatari della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale (uno degli organi del trattato dell’ONU), di cui fa parte anche la Francia. Abbiamo ricevuto un mandato per lavorare e la Francia ha accettato queste nomine. Agiamo a titolo individuale e non rappresentiamo gli Stati. Non è giusto pensare che ci siamo accaniti sulla Francia. Anche quando gli Stati Uniti sono stati messi sotto esame, le critiche sono state molto vivaci. Succede così per tutti gli Stati quando constatiamo un problema.
Rom, l’invenzione del razzismo
di Alberto Burgio (il manifesto, 26 agosto 2010)
La vicenda della cacciata dei rom dalla Francia ruota intorno a due paradossi. Il primo riguarda le motivazioni che hanno indotto Nicholas Sarkozy ad espellere 700 «zingari», in parte cittadini francesi. Com’è noto, si tratta di ragioni politiche. Il presidente è in caduta libera nei sondaggi.
L’emorragia di consensi al centro e a destra rischia di tramutarsi in una disfatta per lo scandalo Bettencourt. Da qui la mossa razzista. I rom (tutti) sono ladri e potenziali assassini. E restano stranieri, benché cittadini francesi. Cacciarli serve a difendere la sicurezza e la purezza della nazione.
Dove sta il paradosso? Nel fatto che il nesso tra misure razziste e motivazioni politiche non è affatto
atipico e non costituisce aggravante. È assolutamente classico, e la chiarezza persino sfrontata con
la quale si dichiara in questa vicenda fa di essa un caso di scuola che va considerato con la massima
attenzione.
Il razzismo non è qualcosa che prescinda dalla politica (dalla ricerca del consenso per il governo dei
corpi sociali).
È uno strumento squisitamente politico. Consiste nella produzione di soggettività
deteriori (per mezzo di stereotipi) e nella finalizzazione di passioni e paure diffuse, che vengono
incanalate contro i gruppi (le «razze») additati come diversi e stranieri, colpevoli e nemici.
Non c’è razzismo che operi in autonomia dal gioco politico. La sua apparente «purezza» concerne il terreno dell’ideologia: il consenso si ottiene nascondendo (magari anche a se stessi) le ragioni politiche dell’«invenzione delle razze».
Il meccanismo è sempre questo. Nel caso dei rom cacciati da Sarkozy è soltanto evidente. Come pure nei proclami di Roberto Maroni e di Letizia Moratti già in piena campagna elettorale, che meriterebbero qualche riflessione da parte di chi ha a cuore quanto resta della civiltà in questo paese. Pur di portarsi dietro le masse padane, si alimenta l’odio «etnico» contro gli stranieri poveri, promettendo politiche conseguenti. È un gioco pericoloso, perché le aspettative esigono poi soddisfazione. Che cosa significherà tra qualche anno, avanti di questo passo, essere straniero - o anche solo povero - in Italia?
Veniamo al secondo paradosso. Se il razzismo è un dispositivo politico volto a produrre e manipolare il consenso, esso non riguarda soltanto le «razze» qui e ora considerate tali, ma la società intera. Non è affare di margini e periferie, ma di tutto il territorio sociale. Faremmo quindi bene a non occuparcene soltanto quando si tratta di «zingari» o di «negri». In realtà siamo tutti in questione, e non solo come massa di manovra (come base elettorale).
La produzione di identità stereotipizzate è un ingrediente fondamentale nella legittimazione delle gerarchie sociali. Da questo punto di vista il catalogo delle «razze» (di nome o di fatto) è molto più ricco di quanto si pensi. A meno di non credere all’esistenza di «razze umane», non c’è ragione per separare gli stereotipi che razzizzano migranti ed ebrei da quelli inventati per criminalizzare i «devianti» (omosessuali, transessuali e tossici) o per giustificare la subordinazione delle donne e dei lavoratori dipendenti.
Il senso comune recalcitra? Certamente. Il discorso razzista non impera invano da secoli nell’immaginario europeo. Ma per respingere il ragionamento, il senso comune è costretto a invocare presunte peculiarità «naturali» dei gruppi esplicitamente razzizzati, scoprendosi razzista.
La critica dev’essere conseguente. Come non c’è alcun gruppo umano a buon diritto trasformato in «razza», così non c’è stereotipizzazione inferiorizzante che non sia razzista. A danno di chiunque essa si compia. Allora, tra chi (la Commissione europea) accusa la Francia di violare le regole sulla «libera circolazione e la libertà di scegliere il posto dove vivere» e chi (il governo francese) sostiene la legittimità delle misure adottate, ha paradossalmente ragione quest’ultimo. Non per il turpe escamotage dei 300 euro che trasforma l’espulsione dei rom in esodo volontario, ma per un fatto molto serio, del quale raramente si ha consapevolezza.
Nelle società democratiche le gerarchie sociali (di censo e potere) debbono essere giustificate e gli stereotipi servono a tal fine. Poco importa che si parli di propensione alla violenza e al crimine piuttosto che di inferiorità mentale o di incoercibile ignavia di «fannulloni». Per questo l’«invenzione delle razze» resta, nonostante Auschwitz, un cardine della modernità.
I tecnocrati di Bruxelles sono degli ipocriti: a quanti europei è di fatto possibile scegliere il posto in cui vivere? Sarkozy in crisi di consenso segue un copione classico da almeno due secoli in Europa.
Quanto a noi, faremmo bene a ripensare a tutto questo sforzandoci di liberare le nostre idee dalle ipoteche dell’ideologia. La battaglia contro il razzismo non è uno specialismo di filantropi, ma un aspetto cruciale della lotta di classe.
Nicolas Sarkozy e i cattolici: è divorzio?
editoriale
in “Le Monde” del 25 agosto 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
I cattolici francesi, e, in primo luogo, i responsabili della Chiesa, sono, a dir poco, scioccati dalla politica di sicurezza del Presidente della Repubblica. Da un mese, la volontà ostentata da parte di Nicolas Sarkozy di smantellare centinaia di campi rom, poi il suo discorso di Grenoble in cui minacciava di togliere la nazionalità ai francesi “di origine straniera” che attentassero alla vita dei poliziotti e delle forze dell’ordine hanno provocato un disagio che continua a crescere. E anche reazioni sempre più sferzanti da parte di vescovi.
Già il 28 luglio, Raymond Centène e Claude Schockert, vescovi di Vannes e di Belfort, responsabili della pastorale dei nomadi e di quella dei migranti, mettevano in guardia contro “una recrudescenza della stigmatizzazione” contro dei “capri espiatori designati”. Poi è stato il vescovo di Ajaccio, Jean-Luc Brunin, a deplorare “l’amalgama tra insicurezza e immigrazione”.
Durante la festa dell’Assunzione, a metà agosto, André Vingt-Trois, cardinale arcivescovo di Parigi e presidente della Conferenza episcopale francese, parlava di “coloro che si rivolgono al nostro paese e che si aspettano il riconoscimento della loro dignità”. “Sapremo far loro posto alla nostra tavola?, chiedeva, prima di fustigare “i deliri di un crescendo verbale e fisico”. “Nessun essere umano può essere privato della sua umanità”, aggiungeva Hyppolite Simon, arcivescovo di Clermont e vicepresidente della Conferenza episcopale. Implicitamente, da ultimo, è al capo dello Stato che papa Benedetto XVI ha ricordato in francese, domenica 22 agosto, il dovere di “saper accogliere le legittime diversità umane”.
Questa raffica di sermoni è evidentemente fedele ai principi cristiani di tolleranza verso gli stranieri e di sollecitudine nei confronti dei diseredati. Ma il disagio è tanto più profondo, in quanto Nicolas Sarkozy aveva saputo convincere i cattolici francesi che era dei loro.
Rompendo con la discrezione dei suoi predecessori in materia, aveva affermato con chiarezza nel 2004, nel suo libro La République, les religions, l’espérance: “Mi riconosco come membro della Chiesa cattolica.” Ugualmente, tutti ricordano le frasi scioccanti del Presidente della Repubblica pronunciate davanti al papa il 20 dicembre 2007, nella basilica di San Giovanni in Laterano: il richiamo delle “radici cristiane” della Francia, l’evocazione delle “sofferenze” provate dai cattolici per la legge del 1905 di separazione di Chiesa e Stato, la difesa di una “laicità positiva”. Nel settembre 2008, inoltre, la Repubblica aveva accolto con tutti gli onori Benedetto XVI, che aveva allora lodato “la generosa tradizione di accoglienza della Francia”.
Dopo le divergenze sul lavoro domenicale, il rilancio in crescendo sulla sicurezza ha compromesso la fiducia. Nel suo discorso del Laterano, Nicolas Sarkozy aveva affermato che “nella trasmissione dei valori, il maestro non potrà mai sostituire il pastore o il parroco”. I papa e i vescovi gli ricordano oggi che in materia di rispetto dei valori, deve fare ancora qualche progresso.
SANTA SEDE
"Giusto accogliere diversità umane"
Il Papa in difesa dell’immigrazione
Salutando i pellegrini alla celebrazione a Castel Gandolfo, Benedetto XVI ha ricordato, in francese, come appartenga al messaggio cristiano l’accoglienza verso genti di tutte le nazioni. La scelta della lingua fa pensare a un riferimento indiretto alle espulsioni dei rom decise dal governo Sarkozy
CASTEL GANDOLFO (ROMA) - Un Angelus con un messaggio molto chiaro: è sbagliato emarginare i più deboli, è doveroso accogliere chi ha bisogno di una mano. Perché "Dio abbassa i superbi e i potenti di questo mondo e innalza gli umili".
Benedetto XVI ha commentato l’odierna festa liturgica della Regalità di Maria schierandosi a favore dell’immigrazione, in chiaro riferimento alle polemiche degli ultimi giorni.
Salutando i pellegrini di lingua francese presenti alla celebrazione a Castel Gandolfo, il Papa ha ricordato come appartenga al messaggio cristiano l’accoglienza verso le genti di tutte le nazioni e di tutte le culture, e quindi verso "le legittime diversità umane".
La scelta di pronunciare in francese l’invito al momento dei saluti ha fatto pensare che Benedetto XVI potesse indirettamente riferirsi alle espulsioni dei rom, decise in questi giorni dalle autorità francesi.
"I testi liturgici di oggi - ha scandito il Pontefice in francese - ci ripetono che tutti gli uomini sono chiamati alla salvezza". "Contengono quindi - ha aggiunto Benedetto XVI - un invito a saper accogliere le legittime diversità umane, seguendo Gesù venuto a riunire gli uomini di tutte le nazioni e di tutte le lingue. Cari genitori possiate educare i vostri figli alla fraternità universale".
Il papa ha poi invocato l’intercessione mariana affinché prevalga "la pace", specialmente "dove più infierisce l’assurda logica della violenza" e ha auspicato che "tutti gli uomini si persuadano che in questo mondo dobbiamo aiutarci gli uni gli altri come fratelli per costruire la civiltà dell’amore".
* la Repubblicca, 22 agosto 2010
“Questa intolleranza può creare in Europa un effetto domino”
intervista a mons. Giancarlo Perego,
a cura di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 22 agosto 2010)
«L’Italia ha dato il cattivo esempio alla Francia e ora va subito fermato l’effetto-domino che rischia di infiammare il resto d’Europa e contagiare soprattutto i paesi orientali». Mette in guardia dal «meccanismo di intolleranza verso i Rom innescato dall’Italia» monsignor Giancarlo Perego, direttore generale della Fondazione Migrantes della Cei.
Cosa c’entra il governo di Roma con le espulsioni dei rom in Francia?
«E’ a partire dalle errate politiche dell’immigrazione del governo italiano che in Europa si è messo in moto un "effetto moltiplicatore" che sta producendo gravi danni sociali in Francia. Abbiamo di fronte una situazione potenzialmente esplosiva che può sfuggire di mano alle autorità nazionali e che soprattutto ad Est (Ungheria e Slovacchia) minaccia oggi di assumere forme particolarmente violente di intolleranza contro un popolo già ai margini e sempre più duramente provato dalla situazione di disagio economico generalizzato».
Di chi è la colpa?
«A forza di irresponsabili campagne propagandistiche e di provvedimenti demagogici a livello centrale e locale, è stata addebitata ai rom la colpa delle difficoltà economiche delle famiglie italiane. In pratica, queste popolazioni nomadi sono state trasformate in capri espiatori per spostare strumentalmente l’attenzione dell’opinione pubblica dalle vere cause della crisi».
Nelle discriminazioni esiste un «modello Italia» esportato in Europa?
«Purtroppo sì. E’ un meccanismo pericoloso che, una volta avviato, finisce fuori controllo, in direzione di un’escalation di discriminazioni, violenze e persecuzioni. Con indecente mistificazione in Italia i rom sono stati ritenuti e indicati all’opinione pubblica come i responsabili di mali sociali che invece sono legati ai mondi finanziari e politici. Assistiamo a un’azione demagogica e strumentale per gettare fumo negli occhi alle famiglie italiane pesantemente colpite dalla crisi economica. Si usa spregiudicatamente un popolo inerme per nascondere la reale origine dei problemi, e cioè i tagli al Welfare e gli errori nelle politiche migratorie. Il pessimo esempio italiano sta facendo scuola in Europa.
I rom impoveriscono un paese?
«Assolutamente no. Le famiglie non devono certo il loro disagio a qualche centinaio di rom che ora si vuole allontanare a forza, bensì da bufere finanziarie globali e dai radicali tagli alla spesa sociale che penalizzano la vita quotidiana delle persone. Il contesto italiano ed europeo è segnato da intolleranze che i governi invece di contrastare favoriscono con politiche sbagliate. Come ha ricordato anche il cardinale Bagnasco nella sua ultima prolusione, in Italia esistono situazioni dolenti e discriminazioni allarmanti emerse con i fatti di Rosarno e con l’incendio di un campo rom alla periferia milanese. Manca l’impegno per una fondamentale strategia di integrazione degli immigrati e di ogni altra minoranza, come quella dei rom. Servono il superamento di quartieri o isole etniche nelle città, una nuova politica fiscale, della casa, dell’accompagnamento sociale e della sicurezza sociale. La "città di eguali" va costruita coniugando l’accoglienza con la tutela dei diritti fondamentali delle persone e, tra i valori non negoziabili anche in politica, c’è un’accoglienza rispettosa delle leggi e mirata a favorire l’integrazione».
Sarkozy non molla
“Divieto totale di portare il burqa”
di Domenico Quirico (La Stampa, 22 aprile 2010)
Alla fine Sarkozy ha deciso, dopo interminabili tentennamenti: velo integrale vietato, totalmente, su tutto il territorio francese. In consiglio dei ministri ha ribadito l’imputazione che, a suo parere, lo rende incompatibile con la Repubblica: «attentato alla dignità della donna che è indivisibile». Il governo è quindi invitato a presentare entro maggio il relativo progetto di legge. Il portavoce Luc Chatel ha aggiunto: «Stiamo legiferando per il futuro. Portare il velo integrale è un segno del ripiegamento comunitarista e del rifiuto dei nostri valori». Aggiungendo poi prudentemente che «tutto deve essere fatto in modo tale che nessuno si senta stigmatizzato per la sua fede religiosa».
Il divieto si è caricato, in un momento in cui Sarkozy sterza ancor più a destra, di pericolosi significati simbolici e preventivi: lo ha ammesso lo stesso portavoce, ricordando che il burqa è un capo di abbigliamento portato da non più di duemila donne integraliste (o obbligate a esserlo) in tutto il Paese. Giovedì toccherà al Belgio sanzionare il divieto assoluto: Sarkozy è soddisfatto, la Francia almeno in questo è all’avanguardia dell’Europa.
Il presidente corre comunque dei rischi: di tipo costituzionale. Il Consiglio di Stato ha dato un parere sfavorevole al divieto totale. Ha sottolineato che vietare il burqa in tutti i luoghi pubblici «non ha fondamenti giuridici incontestabili» e resta fragile di fronte a un probabilissimo ricorso.
Davanti all’organo costituzionale francese, ma soprattutto davanti alla Corte europea dei diritti dell’uomo. Per il Consiglio deambulare in burqa non mette in pericolo l’ordine pubblico. Ne era nato un progetto minimalista, ovvero vietare solo negli edifici pubblici nei trasporti, nelle gioiellerie e nelle banche. Un po’ ipocrita, ma certamente più facile da attuare e giustificare. Ancora ieri il mediatore della Repubblica, Jean-Paul Delevoye, ha ribadito: «Amo la legge ma non amo il divieto assoluto». Aggiungendo una significativa domanda: «Come pensate di comportarvi con le signore saudite che vengono a fare compere sugli Champs Elysées?».
C’è un dettaglio costituzionale interessante: Sarkozy ha optato per un progetto di legge, percorso più solenne, rifiutando di scegliere la «proposta di legge» come gli suggerivano alcuni della sua maggioranza: più svelta nelle procedure e che evita il passaggio pericoloso davanti al Consiglio di Stato. Sfida coraggiosa ma arrischiata. Già ieri SOS Racisme parlava di «semplicismo populista contrario alla Costituzione e alla Convenzione dei diritti umani».
Le reazioni vanno dalla prudenza all’entusiasmo. Anche nella maggioranza c’è chi pensa che il dibattito su un problema così numericamente marginale si sia caricato di simboli troppo onerosi. E’ il caso di Bernard Accoyer, presidente dell’Assemblea nazionale, che non ha voluto fissare una data per l’esame del testo: «Ci sono cose più pressanti, che sono il lavoro e il potere di acquisto». Una volta tanto Marine le Pen non rampogna il presidente. Solo che vuole di più: il ritiro del diritto di soggiorno per tutte le donne straniere che lo portano. Al settimo cielo l’associazione femminista «Ni putes Ni soumises», che ha salutato l’annuncio come una vittoria delle donne: «È l’inizio di una nuova pagina di emancipazione per le donne dei quartieri popolari, cui si va a offrire qualcosa di diverso dalla detenzione casalinga o dalla morte sociale».
“Penseur de fond”
di Nicolas Weill (Le Monde, 22 gennaio 2010 - traduzione: www.finesettimana.org)
Jean-Luc Marion ama ripetere che la vita di un filosofo si riassume in tre verbi: “È nato, ha lavorato, è morto.” Ma questo recentissimo accademico di Francia ha un’esistenza più complessa.
Innanzitutto più nomade, poiché appartiene a quella cerchia molto privilegiata di professori universitari francesi la cui carriera si dispiega su entrambe le rive dell’Atlantico, come fu, prima di lui, per Jacques Derrida, François Furet, Paul Ricoeur - a cui è succeduto all’università di Chicago - o per l’altro Immortale che ritroverà a quai Conti [ndr. sede dell’Institut de France], l’antropologo René Girard. Del resto, la ragione cammina per Marion insieme alla fede, cosicché alla sua traiettoria di professore si affianca un’implicazione nella vita del cattolicesimo.
L’ambiente in cui è nato ha certamente avuto un’influenza in questo senso. Questo bravo studente dal percorso ultraclassico (Scuola normale superiore, aggregato di filosofia, professore alla Sorbona dove occupa la cattedra di metafisica) è riuscito comunque ad uscire dal solco del suo ambiente d’origine: una famiglia della Franca Contea di “cattolici repubblicani” dove le scelte propendevano per il settore scientifico ed ingegneristico piuttosto che per la filosofia.
Ma questo non ne ha fatto una pecora nera, al contrario. Cita con orgoglio suo fratello diventato prete nella loro parrocchia natale di Saint-Martin a Meudon (Hauts-de-Seine). È altamente significativo che sia una delle persone più vicine, dagli anni ’60, al cardinal Jean-Marie Lustiger, di cui giovedì 21 ha pronunciato l’elogio sotto la Coupole. Questa fedeltà ai suoi genitori l’ha inscritta perfino sulla sua spada da accademico, dove ha messo l’anello-portatovagliolo che suo padre, rinchiuso in un campo disciplinare durante la guerra, si era fabbricato come simbolo di un futuro migliore e di una dignità ritrovata.
Ma per quanto profondamente cattolico (“catho” e “tala” vengono chiamati in ambiente
normalista quelli che vanno a messa), Jean-Luc Marion è ben lungi dall’essere un uomo austero.
Questo innamorato di Antoine Blondin e di Courbet - a cui intende dedicare il suo prossimo saggio
ama sedurre e rimescolare le carte, con il suo cravattino a farfalla sapientemente annodato e
sciolto, la sua pipa sempre fumante, il suo fisico alla Truffaut. Il gusto che manifesta per lo sport
mira ostentatamente a suggerire ai suoi interlocutori che, per quanto erudito, sa appassionarsi per il
base-ball e soprattutto per la corsa a piedi, disciplina che ha praticato in maniera intensiva.
La paragona volentieri alla vita intellettuale: “Fare un libro, dice, è come correre i 1000 metri,
bisogna essere capaci di resistere sulla distanza, di resistere accelerando. La stessa esperienza
dell’impossibile, insomma; bisogna battere il proprio record e quindi il proprio limite mentale.”
Autore di una buona ventina di libri, di cui l’ultimo, Certitudes négatives (Grasset, p. 330, € 22), riassume e attualizza il suo pensiero, ama sconcertare maneggiando allegramente i paradossi o mostrando talvolta un sorriso enigmatico. Ha saputo riempire grandi anfiteatri di generazioni di studenti che conservano il ricordo della sua estrema chiarezza e del suo senso della messa in scena dei testi più ardui.
“Jean-Luc Marion esce dagli schemi”, dice il suo collega alla Sorbona, Denis Kambouchner - come lui specialista di Descartes -, che apprezza la qualità del personaggio di sentirsi a proprio agio anche al di fuori del proprio universo ideologico. Così Marion, “di sensibilità gaullista”, ha attraversato senza eccessivi turbamenti i momenti culminanti del dopo-Maggio-68, e si ritroverà come un pesce nell’acqua per sette anni in quel bastione del marxismo universitario che fu il dipartimento di filosofia di Nanterre.
Tra le molte figure significative che hanno incrociato il suo percorso, Maurice Clavel (1920-1979), il filosofo “gaullista-gauchista” e cristiano, sorta di prototipo dell’intellettuale mediatico, incarna un modello opposto. Cristiano militante come lui, Clavel incita il giovane Marion a smettere di scrivere delle opere per un pubblico limitata per impegnarsi invece sulla scena pubblica. Ma il condiscepolo di Bernard-Henri Lévy preferisce un’azione più discreta, dagli effetti forse più durevoli, trasmessa da riviste o dall’università, dove esercita la sua incontestabile influenza. Così partecipa all’avventura della rivista Communio dal 1976 (i suoi articoli sono stati recentemente riuniti in Le Croire pour le voir, ed. Communio, p. 224, € 19), una pubblicazione cattolica internazionale di cui Benedetto XVI è stato il responsabile in Germania.
L’altra personalità che caratterizza il suo percorso, mentre è nella classe preparatoria per entrare alla Normale al liceo Condorcet a Parigi, è quella del carismatico professore di filosofia Jean Beaufret (1907-1982). Questo ex resistente è stato il discepolo francese più vicino ad Heidegger. “È finito male”, deplora Jean-Luc Marion, ricordando i rapporti che Beaufret aveva stretto con i negazionisti verso la fine della sua vita. Lui stesso catalogato contro la sua volontà come “heideggeriano” per il ruolo evidente ed esplicito che gioca il pensiero del filosofo tedesco nella sua opera, Marion afferma di essersi molto presto reso conto del problema dell’impegno hitleriano dell’autore di Essere e tempo. “Il più grande filosofo del XX secolo era un nazista!”, dice.
Ecco quindi, secondo il nuovo accademico di Francia, uno degli effetti del “nichilismo moderno”, in cui “il vero non comprende più il bene né il bello come nell’Antichità e fino a Leibnitz”. Aggiunge tuttavia che “non si tratta solo del caso di Heidegger”. “Un gran numero di filosofi del XX secolo hanno mostrato un accecamento abbastanza stupefacente sulla politica, cosicché il caso di Heidegger è solo il più visibile.”
Viene forse da qui la sua reticenza di fronte al modello, che ritiene in crisi, dell’ “intellettuale impegnato” e visibile, fosse anche cattolico? In ogni caso, difende senza complessi le posizioni della Chiesa. Sia protestando senza incertezza nel suo ultimo libro contro l’esclusione degli immigrati irregolari, dei senza fissa dimora, ma anche degli “embrioni reputati (da chi?) non ancora umanizzati o soprannumerari”. O ritenendo che “si fa un processo ingiusto a Pio XII”, il cui silenzio sulla Shoah è controverso, pur ammettendo che non c’era nessuna “urgenza” ad accelerare il processo di beatificazione.
Se sulle qualità del professore regna l’unanimità, le tesi del filosofo sono oggetto di molte discussioni e contestazioni. L’attacco più vivace era venuto, agli inizi degli anni ’90, da Dominique Janicaud (1937-2002), allora professore a Nizza. Riguardava la fenomenologia - il metodo filosofico inventato da Husserl, importato in Francia da Sartre e Merleau-Ponty, e a cui Marion si rifà. Per Janicaud, autore di La Phénoménologie dans tous ses états (Folio, 2009), Jean-Luc Marion era responsabile, con altri come Emmanuel Levinas (di cui pubblica le opere da Grasset) o Michel Henry, di aver impresso una “svolta teologica” a questa disciplina, che consiste nel partire dalle cose come si presentano piuttosto che come esse sono. Tutto ciò non turba Jean-Luc Marion. Continuando a fumare la sua pipa, si accontenta di enumerare con calma i temi che solo la sua filosofia si dimostra capace di trattare: l’avvenimento, l’opera d’arte, la carne, ecc. Sempre la strategia della resistenza nella durata.
Roma sfida l’Europa per difendere il crocifisso di il manifesto (il manifesto, 22 gennaio 2010)
Galeotto, probabilmente, fu l’incontro nel pieno delle polemiche sull’approvazione del processo breve al Senato tra il premier Silvio Berlusconi e l’ex capo dei vescovi italiani Camillo Ruini avvenuto proprio l’altro ieri. Fatto sta che ieri mattina il «gran visir» Gianni Letta ha dato l’annuncio, in occasione della presentazione del libro «I viaggi di Benedetto XVI in Italia»: «Il ricorso italiano contro la sentenza della Corte di Strasburgo sull’esposizione dei crocifissi nei luoghi pubblici è pronto - ha spiegato - proprio stamane c’è stato un incontro alla Farnesina per mettere a punto gli ultimi dettagli».
Nella cornice dell’ambasciata italiana presso la Santa Sede, Letta ha definito la decisione della Corte di Strasburgo «il grave torto», e ha aggiunto: «Abbiamo fiducia che il nostro ricorso possa trovare accoglimento, anche perché sono molti i paesi europei che stanno venendo sempre più numerosi a sostegno dell’azione italiana». Presto dunque al Consiglio d’Europa andrà in onda l’ennesima puntata della lunga saga sul crocifisso.
La Corte, pochi mesi fa, aveva accolto il ricorso di una cittadina italiana di origini finlandesi Soile Lautsi che da quasi dieci anni si batte perché nelle aule scolastiche non sia esposto il crocifisso. Secondo i magistrati del Consiglio d’Europa, con sentenza emessa all’unanimità, la presenza del crocifisso in classe condiziona l’educazione degli studenti che possono interpretarlo come simbolo di una religione ufficiale. E, riscontrando la violazione degli articoli della Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo riguardanti i diritti all’istruzione e alla libertà di pensiero, coscienza e religione, la Corte ha condannato l’Italia a risarcire con cinquemila euro la Lautsi per danni morali.
Sin da subito il governo si è schierato contro la decisione della Corte europea, promettendo di fare ricorso. Ma poi non se ne aveva più avuto notizia. Ieri, l’annuncio del sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Letta, che parla a poche ore dall’incontro tra il premier e Ruini.
L’approvazione della Chiesa non si è fatta attendere: «Quella del governo italiano è un’iniziativa da apprezzare e da lodare», ha detto il presidente della Cei Angelo Bagnasco. «La sentenza - ha aggiunto il cardinale - veramente va contro non solo all’oggettività della storia europea ma anche al sentire popolare, della gente».
Le attese conclusioni della commissione parlamentare di studio
Il bando solo in esercizi e uffici pubblici. La sanzione: il rifiuto del servizio
Francia, verso il divieto di burqa
"Offende i valori nazionali"
PARIGI - La Francia va verso il divieto del burqa e del niqab nei luoghi pubblici. La commissione di studio istituita dal Parlamento francese ha infatti raccomandato che il velo islamico che copre interamente il volto delle donne sia vietato in tutte le scuole, gli ospedali, i trasporti pubblici e negli uffici statali. Il burqa, è la conclusione del rapporto, offende i valori nazionali della Francia.
Secondo anticipazioni di stampa, le conclusioni della commissione suggeriscono il varo di una norma che vieti il burqa e il niqab negli esercizi e servizi pubblici, ma che non estenda questo divieto a tutti gli spazi pubblici, data l’assenza di unanimità su questo aspetto. In un rapporto di 200 pagine, dai toni prudenti, che concludono sei mesi di lavori, la commissione si studio presieduta dal deputato comunista André Gerin stabilisce 18 raccomandazioni di vario ordine.
Sul piano strettamente normativo, la proposta faro consiste nell’adozione di una "disposizione che vieti di dissimulare il proprio viso nei servizi pubblici". Il rapporto raccomanda di "optare per uno strumento legislativo" che possa anche essere declinato "per via amministrativa". Questo dispositivo potrebbe in particolare essere applicato nei trasporti pubblici e nei dintorni delle scuole. "La conseguenza della violazione di questa regola non sarebbe di natura penale ma consisterebbe in un rifiuto di corrispondere il servizio richiesto". La commissione di studio non arriva a suggerire un "divieto generale e assoluto del velo integrale negli spazi pubblici" perché "non esiste al riguardo unanimità".
Il rapporto sottolinea come una legge di questa fatta "sollevi comunque questioni giuridiche complesse", poiché comporta una "limitazione dell’esrcizio di una libertà fondamentale, la liberta di opinione, nella totalità dello spazio pubblico"; di qui il rischio di una censura da parte del consiglio costituzionale o di una condanna da parte della corte europea dei diritti dell’uomo.
* la Repubblica, 26 gennaio 2010
“Il burqa offende la repubblica” e Parigi vota il divieto
Ma non lo porta nessuno: solo 350 donne in tutto il paese
di Gianni Marsilli (il Fatto, 27.01.2010)
Burqa da vietare sicuramente nei “luoghi pubblici”: treni, autobus, ospedali, università, uffici comunali. Burqa da vietare probabilmente in tutti gli “spazi pubblici”: strade, piazze, giardini. Burqa che in ogni caso “offende i valori della Repubblica” degradando la donna, dissimulando volti e corpi e identità. Burqa da mettere all’indice, auspicabilmente, con una legge “ad hoc” ancora da scrivere. Sono queste le conclusioni dei lavori dell’apposita commissione parlamentare francese, presentate ieri mattina. E’ stato un parto molto travagliato, a destra come a sinistra. Il tema scotta, divide, offende.
A sbatterlo sul tavolo era stato in giugno André Gerin, deputato comunista del Rodano. Gli era venuto subito dietro Éric Raoult, deputato dell’Ump, il partito del presidente. In questi mesi hanno lavorato in grande armonia: il comunista ha presieduto la commissione, il gollista gli ha fatto da attivissimo vice. I socialisti son rimasti a guardare la strana coppia, annusando opportunismo elettorale a buon mercato: se è vero che “la Francia intera è contro”, come dicono le conclusioni, perché allora bombardare il burqa sul palcoscenico nazionale?
Le statistiche sembrano dare ragione alle diffidenze dei socialisti. L’estate scorsa venne reso noto, e confermato dal ministero degli Interni, un rapporto dei servizi d’informazione. Vi si potevano leggere cifre non certo allarmanti. In Francia le donne che vivono coperte dal niqab dalla testa ai piedi, viso compreso, a casa e in pubblico, non sono più di 357. Una maggioranza di queste, inoltre, lo fa volontariamente, sulla base di una scelta religiosa di ispirazione salafita, molto radicale, e spesso di una certa volontà di sfida alla società e alla famiglia: il burqa un po’ come i piercing che spuntano dalle labbra, le orecchie, le sopracciglia, il naso. L’80 per cento di queste donne hanno meno di trent’anni, il 26 per cento sono francesi convertite all’islam. E’ da queste percentuali che sono nate ieri reazioni come quella di Jamel Debbouze, volto del cinema e della tv tra i più popolari: “Il burqa non è neanche un epifenomeno, concerne 250 persone. Che non vengano a romperci i coglioni con questa roba. Si tratta di xenofobia, voilà. E quelli che vanno in quella direzione sono dei razzisti”. Jamel ha dato voce a modo suo a un timore molto diffuso nella vastissima (quasi cinque milioni) comunità di origine nordafricana di Francia: che ancora una volta si prendano a pretesto singoli e rarissimi episodi per stigmatizzare “i musulmani” o “gli arabi”. Anche un moderato come Dalil Boubakeur, rettore della Grande Moschea di Parigi e interlocutore costante di Sarkozy, trova che “non c’è motivo di lanciare una grande riflessione nazionale, non vedo l’emergere di un fenomeno fondamentalista”.
André Gerin, il presidente della commissione, ritiene invece che i burqa in circolazione siano molto più numerosi, circa duemila, e oltretutto in costante ascesa. Non che cambi un granché, la cifra resta marginale, e poi c’è questo inghippo della “libera scelta” di molte di queste donne, che potrebbe far cassare un’eventuale legge da parte della Corte costituzionale. Ma c’è soprattutto, ben annidato sotto la proclamazione dei grandi principi che tutti condividono, un corposo interesse politico nell’agitare la questione. E’ questo che hanno denunciato i socialisti (non tutti, alcuni sono per una drastica legge), decidendo di non prendere parte alla votazione in seno alla commissione “a meno che non si fermi il dibattito sull’identità nazionale”. Perché il tutto, identità e burqa, fa parte indubbiamente del pacchetto con il quale Sarkozy si presenta alle regionali di marzo, che avranno valore di voto di mid-term. Vero è che il dibattito sull’identità nazionale, lanciato in novembre in tutte le prefetture e destinato a concludersi tra qualche settimana con gli “stati generali”, è servito più ad escludere e aizzare che ad integrare.
Citiamo ancora Jamel Debbouze, che evidentemente, da ragazzo di banlieue di origine marocchina, non ne può più: “E’ stato un dibattito schizofrenico: ma insomma, io dovrei ancora giustificare il fatto che abito nel mio paese? La Francia ha anche un volto nuovo, che assomiglia stranamente al mio”. L’accusa di sterilità culturale e di elettoralismo non sembra tuttavia frenare il treno in marcia: la presidenza della commissione ha auspicato caldamente che della spinosa faccenda si faccia carico adesso il governo, presentando una sua proposta di legge.
Nicolas Sarkozy non ha ancora dato indicazioni precise sulla strada da intraprendere. Certo, ha fatto sentire la sua voce per condannare l’uso del burqa, e ci mancherebbe: “Non è il benvenuto in Francia”, aveva già detto nel giugno scorso suscitando l’immediata reazione di al Qaeda che aveva diffuso uno dei suoi video pieni di promesse di morte. Il terreno è minato e percorso da violente tensioni. Sta a lui fare in modo che il burqa, da detestabile e umiliante aggeggio, non diventi paradossalmente simbolo di libertà.
Se lo Stato laico invade le identità
di Michele Ainis (La Stampa, 27 gennaio 2010)
C’è una domanda che sale subito alle labbra, ora che la Francia s’avvia a vietare il burqa nei principali luoghi pubblici: sarebbe giusto importare ai nostri lidi il medesimo divieto? Sarebbe in sé desiderabile? E c’è un principio costituzionale sul quale possa fondarsi quel divieto? Quest’ultimo profilo chiama in causa la laicità delle nostre istituzioni, che a propria volta la Consulta (nel 1989) ha eretto a principio supremo dell’ordinamento giuridico italiano.
E tuttavia, per una volta almeno, meglio non affidarsi troppo alle parole, sia pure quelle scolpite sulle tavole di bronzo della legge. Nel panorama contemporaneo s’incontrano Costituzioni che si proclamano espressamente laiche (in Francia, in Russia, in Turchia), altre che viceversa s’aprono con l’invocatio dei (in Irlanda, in Grecia, in Svizzera, in Germania), pur essendo - talvolta - più laiche e liberali delle prime. D’altronde nel Regno Unito l’esistenza di una chiesa di Stato non offusca la laicità di quell’ordinamento, mentre la superlaica Francia spende palate di quattrini per finanziare il clero. Il fatto è che la laicità, come la democrazia, si lascia declinare in mille guise.
Per misurarla bisogna valutarne le concrete applicazioni, più che le dichiarazioni di principio. Il modello francese è tra i più intransigenti nel vietare i simboli d’appartenenza religiosa, e infatti dal 2004 oltralpe c’è una legge che impedisce d’indossare a scuola non solo il velo islamico, ma pure la kippah o una croce un po’ troppo vistosa. Proviamo allora a soppesare gli argomenti a favore o contro tale soluzione. E proviamo a farlo - giustappunto - laicamente, senza preconcetti ideologici né tanto meno religiosi.
Primo: la sicurezza. Se ti copri fino ai piedi con un vestito afghano, come potrò esser certo che non nascondi sotto il burqa qualche chilo di tritolo? E come farò a identificarti, se del tuo volto posso vedere solo gli occhi? Preoccupazione legittima, ma allora per simmetria dovremmo proibire anche il passamontagna, il casco dei motociclisti, la maschera di Paperino a Carnevale. Dovremmo impedire la circolazione ai signori troppo intabarrati, con questo freddo poi, come si fa. No, non è la sicurezza l’alibi di ferro per importare quel divieto, lo prova il fatto che esso non s’estende ad altri tipi di mascheramento. E del resto consentire il burqa non significa consentire d’incollarlo al corpo con il mastice, se un poliziotto ti chiede di sollevarlo per guardarti dritto in faccia, tu comunque hai l’obbligo di farlo.
Secondo: la tutela delle islamiche rispetto alla prepotenza del gruppo cui appartengono. Difatti il burqa evoca un atto di sottomissione, la condizione della donna come figlia di un dio minore. Vero, due volte vero; ma siamo certi che sia giusto proibirlo anche quando chi l’indossa abbia deciso spontaneamente di vestirsene? Non c’è forse l’ombra di un imperialismo culturale in tale atteggiamento? Non puzza un po’ di Stato etico, non è paternalistica l’idea che i pubblici poteri debbano liberare gli individui dai condizionamenti sociali o familiari? E perché allora non vietare pure il battesimo ai minori, la circoncisione dei bambini ebrei, la prima comunione? No, l’identità - di singolo e di gruppo - è sempre il frutto di una scelta, mai di un’imposizione; è questione culturale, che va aggredita quindi con strumenti culturali, non attraverso il bastone della legge.
Sempre ammesso che sia desiderabile forgiare una società omogenea come un plotone militare. Ci aveva provato Mao Tse-tung, ordinando ai cinesi d’indossare tutti la medesima divisa. La nostra idea di laicità è l’opposto, muove dal diritto di vestirci un po’ come ci pare. Un Carnevale che dura tutto l’anno.
Il velo dell’ipocrisia in difesa dell’identità
di Giuliana Sgrena (il manifesto, 28 gennaio 2010)
Sembra un dibattito surreale dopo che qualcuno aveva giustificato una guerra per eliminare il burqa. Era solo un subdolo pretesto, con esito grottesco, giocato sulla pelle delle donne, visto che il burqa non si porta più solo in Afghanistan ma anche in Europa. Dalla Francia la discussione sul divieto - per legge - dell’uso del burqa e del niqab (veli integrali con la sola differenza che il primo ha una rete all’altezza degli occhi e il secondo lascia una fessura) rimbalza in Italia.
La Francia non è nuova a simili divieti, con una legge del 2005 sono già stati aboliti i simboli religiosi nelle scuole e nei luoghi pubblici. Eppure il dibattito sul burqa è forse più teso di allora. Da parte dei fautori del relativismo culturale si invoca la «libertà di espressione» mentre il presidente Sarkozy si oppone al burqa perché «offende i valori della Repubblica». Il burqa innanzitutto offende la dignità della donna, poi anche i valori della repubblica se intesi come i valori universali nati dalla rivoluzione francese.
Chi difende il burqa o il velo in nome dell’identità, della tradizione o della religione lo fa per ipocrisia o per ignoranza. Sappiamo che le tradizioni si superano (non avevamo forse anche in Italia il fazzoletto in testa, il tabù della verginità e le attenuanti per il delitto d’onore?), che il corano non prescrive l’uso del velo e tanto meno del burqa, vietato anche dal gran muftì di al Azhar, la massima autorità sunnita, e infine che l’unica identità riconoscibile dietro un simile simulacro è quella wahabita, la versione più integralista dell’islam che è religione di stato in Arabia saudita. Che si diffonde in tutto il mondo a suon di petrodollari.
Il problema è dunque se vogliamo aiutare donne, come noi, ad affermare i loro diritti o sostenere un sistema patriarcal-tribal-religioso sessista che usa il velo come controllo della sessualità della donna. Con il velo la donna deve garantire l’onore del maschio nascondendo le parti del suo corpo che potrebbero indurlo in tentazione. E se cade in tentazione è sempre la donna a pagare con il delitto d’«onore».
Anche l’Italia, che non ha mai avuto una politica sulla migrazione (affrontata solo in termini umanitari o di sicurezza), si trova ad affrontare la questione del burqa. Dal punto di vista della sicurezza (riconoscibilità della persona) c’è già una legge del 1975 che vieta di andare con il viso coperto, anche se l’applicazione viene lasciata alla discrezionalità dei funzionari. Ma qui non si tratta tanto di sicurezza quanto dei diritti delle donne, gli stessi che noi abbiamo faticosamente conquistato e che ogni giorno vengono messi in discussione. Non possiamo permettere a donne di essere private della possibilità di comunicare con il mondo in cui vivono perché isolate da un velo.
Lo si può fare con una legge? In Italia probabilmente no, perché non siamo un paese laico, ma terra disseminata di simboli e superstizioni religiose: invece di aiutare queste donne finiremmo per renderle doppiamente vittime. Occorre prima garantire loro gli stessi nostri diritti per pretendere il rispetto delle nostre leggi. Solo giustizia e uguaglianza possono eliminare la violazione dei diritti e l’intolleranza.
I vescovi contro Sarkozy
“Il burqa non va vietato”
di Giacomo Galeazzi (La Stampa, 2 febbraio 2010)
Come i vescovi svizzeri hanno criticato il «no» ai minareti, così ora quelli francesi protestano per il burqa negato. «Se la Francia dovesse legiferare in questa direzione, si otterrebbe sulle donne musulmane l’effetto contrario a quello ricercato, cioè di far rinchiudere in casa quelle poche che portano il velo integrale», si legge in una nota pubblicata ieri a nome della Conferenza episcopale da monsignor Michel Santier, vescovo di Créteil, presidente del Consiglio per le relazioni interreligiose.
L’episcopato esprime innanzitutto «dispiacere» per il fatto che il Parlamento non abbia «creduto necessario ascoltare il parere dei responsabili religiosi cristiani ed ebrei, nel momento in cui è stata prestata attenzione all’opinione di altre correnti di pensiero». E aggiunge: «Avremmo meritato quanto meno una risposta alle nostre richieste». La Conferenza episcopale rilancia quanto già dichiarato dal presidente del Consiglio nazionale del culto musulmano, Mohammed Moussaoui, e cioè che «il velo integrale non è segno religioso e che il Corano non chiede che sia portato dalle donne».
La Chiesa ritiene che sulla delicata questione «la ragione deve prevalere». Innanzitutto il numero delle donne che usano il velo integrale è «molto limitato». Inoltre, «le decisioni prese non devono contribuire a stigmatizzare i credenti musulmani». Infine, «c’è da essere scettici sull’opportunità di una legge che non risolve la questione». Se un testo di legge fosse adottato, «il rischio per le donne musulmane che portano il velo integrale è quello che non escano più di casa e siano ancora più marginalizzate». Il risultato, così, «sarebbe contrario all’effetto ricercato e condurrebbe, per reazione, a un aumento del numero delle donne che indossano questo tipo di abito». Per questo i vescovi lanciano un appello: «I cittadini francesi, e tra loro i cattolici, non devono lasciarsi prendere dalla paura e dalla teoria dello scontro delle civiltà». È essenziale «distinguere tra la maggioranza dei cittadini musulmani che chiedono di poter praticare liberamente il loro culto e una minoranza che, richiamandosi all’Islam, cerca di destabilizzare le democrazie». Dunque, «se vogliamo che i cristiani in situazione di minoranza nei Paesi a maggioranza musulmana dispongano di tutti i loro diritti, noi dobbiamo nel nostro Paese rispettare i diritti di tutti i credenti all’esercizio del loro culto».
Solo «il dialogo nella verità tra credenti permette di superare i pregiudizi reciproci». Il cammino «sarà lungo ed esigente», ma «la via del rispetto reciproco permetterà di migliorare la convivenza in Francia».
Non c’è autorità che tenga senza giustizia sociale
di Jean-François Bouthors, editore e scrittore
in “La Croix” del 26 agosto 2010 (traduzione: www.finesettimana.org)
“Francia, che cosa hai fatto del tuo battesimo?”Quando Papa Giovanni Paolo II, in occasione della sua prima visita nel nostro paese, aveva lanciato questo vigoroso interrogativo, esso era stato ricevuto a denti stretti. Certo, nel 1980 la frequentazione delle chiese era in diminuzione e la crisi delle vocazioni si faceva già sentire, ma, in realtà, il paese si riconosceva ancora ampiamente erede di ciò che possiamo chiamare l’umanesimo ebraico-cristiano.
Decisamente c’è motivo di pensare che questa eredità sia oggi in declino. Il problema non è quello dell’appartenenza religiosa né quello di sapere che cosa si intende con la parola Dio. Non si tratta di ricostruire oggi una “Francia cattolica”. Ciò che viene messo in discussione è un insegnamento etico multimillenario, che ci ha resi ciò che siamo. Uno di maggiori insegnamenti della tradizione biblica non è la frequentazione dei templi o i riti religiosi, ma il rispetto della giustizia, l’accoglienza del debole e dello straniero. “La legge e i profeti” ci dicono che un popolo, una società, una nazione che schernisce la giustizia, disprezza il debole, maltratta lo straniero, inesorabilmente si perde.
Ecco dove siamo arrivati. Da tre decenni un rapporto con il denaro per così dire “disinibito” ha aumentato le disuguaglianze in proporzioni inimmaginabili negli anni ’60-’70. La presentazione ossessiva della ricchezza come un ideale irrinunciabile ha creato delle frustrazioni gigantesche, mentre la ghettizzazione sociale richiudeva popolazioni intere nella sensazione di essere senza futuro. Si è realizzata l’alchimia di una deriva delinquenziale senza che fosse rimesso in discussione il progetto nazionale. In un’epoca in cui, per fortuna, non c’è più posto per un progetto rivoluzionario, il sentimento di ingiustizia si esprime nella defezione sociale. In una società in cui lo Stato non è più l’espressione di una solidarietà nazionale vera, dove solo l’avventura individuale sembra essere una via di salvezza, a coloro a cui la normalità sembra inaccessibile restano solo le fughe in avanti patologiche. Il terreno è maturo per il radicamento sociale della criminalità. È quello che sembrano scoprire i nostri dirigenti politici, mentre tale evoluzione non è affatto sorprendente.
Era delle più prevedibili, da alcuni anni. I francesi lo sapevano prima di loro. È proprio necessario comunque cadere nel panico e “dichiarare guerra al crimine” come se si fosse ai tempi di Al Capone o di Eliot Ness o quelli della Banda Bonnot o delle Brigate della Tigre? Nel momento in cui ci si dice che il fallimento della lotta contro i talebani in Afghanistan si spiega con la carenza di un’azione di promozione sociale ed economica e con l’eccessiva focalizzazione sulle azioni di forza, dobbiamo commettere a casa nostra lo stesso errore strategico?
La ragione di questa cecità si spiega molto bene: i nostri dirigenti, Nicolas Sarkozy per primo, non sono disposti a rimettere in discussione le enormi disuguaglianze sociali che straziano il nostro paese. Non credono che la giustizia sociale possa liberare e orientare delle energie creative, e non capiscono che occorre ricostruire un vero consenso nazionale, che in una tale situazione di ingiustizia non può essere trovato. Profondamente materialisti, conoscono solo il denaro e la forza come motori del mondo. È vero che hanno perso il contatto - ed è la stessa cosa a sinistra, nonostante le proteste - con la realtà che vivono i francesi. La guardano da lontano, ma non la vivono. E non si rendono conto che la loro parola ne è totalmente discreditata.
Credere e far credere che cacciando via qualche francese d’origine straniera, qualche rom mal educato, si risolva il disagio profondo della società francese, significa fare un discorso menzognero.
Si può sostenere che tutti i nostri mali vengono dall’infiltrazione di stranieri perversi? In realtà, questo discorso ha la funzione di evitare di operare una vero cambiamento, una rimessa in discussione dei nostri comportamenti. Il male, sono gli altri, vogliono farci credere. Eppure, la disfatta annunciata della nazionale francese di calcio deve essere letta come una parabola. I mali che minano i Bleus erano conosciuti da molto tempo, ma si è preferito fare come se niente fosse.
Quando avremo tolto la nazionalità ad una manciata di piccoli bulli, quando avremo smantellato i campi dei nomadi per lasciarli nella precarietà assoluta e avremo accompagnato alla frontiera qualche carrettata di rom, in fondo non sarà cambiato niente. Al contrario, il “terrore” messo in scena avrà solo aggravato le patologie sociali.
Perché, ed è un altro insegnamento biblico, non c’è autorità che tenga con la forza ed il terrore. Per essere rispettata, ogni autorità deve mostrare di essere giusta. Invece, non è lo stato della giustizia francese che ci può rassicurare. La sola buona notizia in merito, è che restano nel Consiglio costituzionale alcune persone determinate ad essere fedeli ai valori della Repubblica. Ciò che hanno appena fatto i saggi rimettendo in discussione i termini dell’arresto indica la strada.
Se essere cristiani ha un senso oggi, al di là della sola pratica religiosa, è senza dubbio opponendosi alla deriva nella quale il paese è finito. Non si tratta di riportare i francesi all’altare o al confessionale, e neanche di chiedere loro di rinunciare al libertinaggio, ma di mostrare che le esigenze etiche e sociali sostenute dalla tradizione biblica - che non rinchiudono nessuno in una credenza o in una sottomissione religiosa - sono infinitamente più creatrici di futuro della dialettica della forza e del denaro che ci mettono davanti oggi.