La Fenomenologia e ...

L’EMERGENZA DELLA VITA E DELLA VERITA’. A MICHEL HENRY (1922-2002), IN MEMORIA. Una presentazione del suo lavoro "C’est Moi la Vérité" (1996) e una conversazione (2001) sulla psicoanalisi con Sergio Benvenuto - a cura di Federico La Sala

mercoledì 7 novembre 2007.
 


-  L’emergenza dell’inconscio
-  nel pensiero dell’Occidente.
-  Conversazione con Michel Henry

di SERGIO BENVENUTO *

Prof. Henry, Lei ha scritto un libro, Genealogia della psicoanalisi, che di fatto è un libro sull’emergenza dell’inconscio nel pensiero occidentale.

L’idea dell’emergenza dell’inconscio in Occidente nasce dal mio lavoro fenomenologico. Perché la fenomenologia riflette non sui diversi fenomeni, ma su quello che fa di ciascuno di essi un fenomeno, cioè sulla fenomenalità, su ciò che a un certo momento nella filosofia classica si è chiamato «coscienza». Ora questo è un problema fondamentale, perché sia che la si pensi esplicitamente, sia che la si faccia intervenire senza porvi attenzione, è la fenomenalità che fa da supporto ai fenomeni e fa sì che qualcosa si mostri a noi in modo che possiamo parlarne. In rapporto all’inconscio la fenomenalità è un tema o un’affermazione paradossale. Infatti, se si prende come criterio la definizione classica di fenomenalità in termini di coscienza, esso sembra negare puramente e semplicemente questa fenomenalità, questo apparire, senza il quale non c’è nulla: non c’è, per noi, esperienza. E allora cosa resta? Di che cosa possiamo parlare, se non c’è più niente, se non c’è più alcun dato? Per dei fenomenologi, i quali pensano che ogni discorso filosofico debba poggiare su un dato, l’affermazione stessa di un inconscio pone una specie di aporia. Che cosa significa parlare, pensare, se nulla si mostra? Perciò ho voluto chiarire il paradosso dell’inconscio a partire dai presupposti fenomenologici del mio pensiero.

Lei comincia la Sua analisi dal cogito di Descartes, che considera una fonte di questo pensiero dell’inconscio.

Il cogito cartesiano appare lontano in rapporto alla psicoanalisi, e al pensiero del XX secolo. Ma è una fonte, come Lei dice, che non si può occultare, per la buona ragione che non soltanto l’inconscio della psicoanalisi, ma ogni forma di pensiero nel XX secolo ha messo in questione il cogito di Descartes. E con la messa in questione del cogito di Descartes, veniva messa in questione la fenomenalità. Si voleva dire così non che la fenomenalità non esiste -- perché sarebbe impossibile -- ma che è un’apparenza, che è ingannevole. Perciò, invece di intenderla come un suolo sicuro per il nostro pensiero e per le nostre pratiche intellettuali, bisogna mettere in dubbio la fenomenalità. È stata la famosa «età del sospetto», come diceva Ricœur, cioè la contestazione di un momento in cui, al contrario, la filosofia aveva voluto fondarsi su una fenomenalità indubitabile. Perché in fondo il cogito è questo, è l’affermazione di una fenomenalità, di un apparire assolutamente incontestabile, sul quale si può fare affidamento.

Questo apparire non è un apparire qualsiasi, è un apparire a me stesso e innanzi tutto il mio apparire a me stesso. «Io penso» vuol dire: io appaio a me stesso e questo apparire a me stesso è assolutamente indiscutibile. Su questa certezza riposa tutto il sapere che posso acquisire su me stesso e sul mondo. Secondo Descartes, in quanto ho una conoscenza certa di me stesso e di tutti gli strumenti del conoscere, tutto quello che conosco beneficia di questa certezza invincibile che porto in me. Di conseguenza, se il pensiero del XX secolo, nel suo insieme, mette in questione il cogito di Descartes, mette in questione quello che è stato considerato dalla filosofia classica moderna, ma non da quella contemporanea, come un fondamento certo. Dunque tutto è rimesso in questione: è l’età del sospetto.

Quindi si mette in questione il cogito di Descartes, che serviva di fondamento non soltanto al nostro pensiero, ma alla verità di tutta la nostra esperienza. Allora bisogna domandarsi perché questa verità viene messa in questione da tutto il pensiero moderno, e bisogna inoltre domandarsi in primo luogo se si è compreso quello che Descartes voleva dire affermando il cogito. Questo è stato uno dei primi temi della mia riflessione, al quale ho dedicato tre capitoli di Genealogia della psicoanalisi. C’è stato sul cogito di Descartes un gravissimo malinteso: si è creduto che il cogito -- e d’altronde è questo il senso della parola latina -- volesse dire «io penso», nel senso che «mi rappresento [qualcosa]», nel senso che «ho delle evidenze» e [in primo luogo] ho l’evidenza della mia esistenza. Ora una evidenza è qualcosa che si vede, ed è qualcosa che si vede in modo tale che non se ne possa dubitare. Così l’esperienza sensibile per il senso comune appare indubitabile. Io vedo bene che sono qui in una stanza, che Le parlo, che vicino a me c’è una lampada, ecc. E poi ci sono altre evidenze, quelle razionali. Vedo che in un cerchio tutti i raggi sono eguali, vedo che «2+3=5» e vedo pure che, se penso, sono, perché, se non esistessi, non potrei pensare. Ecco che cos’è il cogito per i lettori di Descartes e per il pensiero moderno.

Sfortunatamente o fortunatamente, con il cogito Descartes dice esattamente il contrario. Descartes dice: dubito di tutto quello che vedo. Dubito non soltanto di tutto quello che vedo con gli occhi della carne, con i miei sensi -- e il dubbio sul giudizio dei sensi era noto fin dall’Antichità -- ma dubito anche delle verità razionali. È qui che Descartes dice: «Supponiamo un dio che fosse un genio maligno e volesse ingannarmi quando credo che 2+3=5; ebbene io sarei ingannato, sarei nell’errore e il mio pensiero, il mio vedere intelligibile non varrebbe niente».

A questo punto Descartes riformula il cogito in un modo strano, a cui non si è prestata sufficiente attenzione. Vediamo come. Proprio nel momento in cui qualsiasi vedere è messo in dubbio, Descartes deve trovare il fondamento incrollabile di cui è alla ricerca. Questo fondamento appare ne Le passioni dell’anima, all’articolo 24, in cui Descartes fa l’ipotesi del sogno, e dice: quando vedo o immagino in sogno questa o quella cosa, è tutto falso. Ora il sogno ha una parte importante nella psicoanalisi. Il sogno è una specie di allucinazione. Io mi vedo correre sul marciapiede dietro un treno che parte, ma nella realtà non c’è marciapiede né treno. A questo punto Descartes dice: «dubito di tutto quello che vedo». E allora cosa resta? E subito dopo c’è una frase che trovo fantastica, e che invalida tutte le critiche che il pensiero moderno gli ha mosso. Dice Descartes: se in un sogno provo tristezza o un’altra passione qualsiasi, angoscia per esempio, benché si tratti di un sogno, quella passione esiste. Esiste in quanto io la provo. Se provo paura, nel momento in cui non resta più niente del mondo, perché ho dubitato di tutto, di tutto ciò di cui si può dubitare, ecco qualcosa di cui non posso dubitare: il fatto che ogni sentimento -- se mi attengo non a quello che ne racconto, ma a quello che provo -- ogni affetto, è indubitabile. Qui troviamo il vero cogito di Descartes: l’«io penso» è un «io sento». Il sentire testimonia di sé in un modo così incontestabile, che se provo un dolore, mi possono dare tutte le spiegazioni di questo mondo, ma per tutto il tempo che durerà il dolore continuerò a soffrire. Su questo nessuno mi potrà ingannare, il dolore non mente, tutto ciò che è dell’ordine del dolore non mente. Questo modo della rivelazione è rimasto occultato.

Quindi, quando La Senne proponeva il suo «soffro, dunque sono» non era poi così lontano da Descartes. Comunque Freud ne L’interpretazione dei sogni dice la stessa cosa: che il sentimento in un sogno non è mai interpretabile, latente e manifesto coincidono. Si possono interpretare le immagini, quello che si vede, nel sogno, ma non l’affetto -- che è sempre autentico. Se in un sogno una scena bellissima mi crea invece angoscia, la scena va interpretata in modo da rendere comprensibile quella mia angoscia.

È una tesi che sostengo ne La genealogia della psicoanalisi. La problematica di Descartes, che non è stata veramente compresa, apre l’era moderna, tanto in ciò che ha di valido, quanto in ciò che ha di falso. Di che cosa dubita Descartes? Dubita della rappresentazione, cioè di quello che si vede. E quello che vediamo è sempre quello che è posto davanti a noi, quello che ci sta di fronte, in modo che possiamo vederlo, grazie alla sua distanza, sia con gli occhi della carne, sia con gli occhi dello spirito, con l’intelletto; come quando vediamo che i raggi di un cerchio sono tutti uguali, che è una verità razionale. Qui è in causa la rappresentazione. Ora il pensiero occidentale ha creduto soltanto alla rappresentazione, mentre in fin dei conti Descartes è il primo ad aver messo in questione la rappresentazione. Questo vuol dire che l’interpretazione heideggeriana di Descartes è completamente falsa: «io penso» significa tutto tranne che «io mi rappresento». E dal momento in cui Descartes ha messo in causa la rappresentazione, allora la fenomenalità, falsamente identificata con la rappresentazione, è diventata l’inconscio.

Ora, nell’articolo su L’inconscio del 1914, e in altri testi dell’epoca, Freud può introdurre il concetto d’inconscio, precisamente perché la rappresentazione sparisce. Uno dei suoi argomenti più rilevanti è il ricordo. Credo che se si guarda il mondo della rappresentazione, con la sua struttura, si vede benissimo che nel mondo della rappresentazione, davanti al mio sguardo, c’è posto solo per qualcosa, per una cosa [alla volta]. Così la radura [clairière] nella quale posso vedere limita il mio orizzonte, di modo che la cosa che vedo esce rapidamente da questa zona di luce, per cedere il posto a un’altra -- e allora è quell’altra che io vedo. Ma c’è un prezzo da pagare. Nel mondo della rappresentazione, quando vedo una cosa, non vedo tutte le altre, che sono chiamate allora rappresentazioni inconsce. A questo punto, in un primo tempo Freud dimostra l’inconscio dicendo: vi sono delle rappresentazioni alle quali io penso, ma dal momento che non ci penso più esse abbandonano il cerchio di luce della rappresentazione, che le identifica con la coscienza, diventano rappresentazioni inconsce, o ricordi, e vanno a popolare quel sacco, quel ricettacolo che è il mio inconscio. Nasce così il concetto aporetico, insostenibile, di una rappresentazione inconscia, cioè di qualcosa che è lì davanti a me, che vedo e non vedo: è il caso di tutte le rappresentazioni che vedo solo per un istante e che nell’istante successivo spariscono. Questo è il primo tempo della psicoanalisi: il momento in cui si afferma l’inconscio a proposito della rappresentazione.

La rappresentazione come modo finito dell’apparire fa nascere l’idea che la vera realtà è inconscia. Ma qual’è questa realtà vera? È importante precisamente riconoscere che è una realtà di un ordine diverso da quello della rappresentazione, che si trova nelle profondità di me stesso e che Freud chiamerà «inconscio». È invisibile, ma non nel senso di qualcosa che è provvisoriamente visibile per trapassare in una invisibilità altrettanto provvisoria, in un campo di rappresentazioni inconsce, da cui potrà tornare nella condizione di visibilità, come quando faccio un lavoro di reminiscenza o di analisi che mi permette di ritrovare dei ricordi rimossi. Ci troviamo allora in un mondo che è quello del passaggio dal rappresentato al non rappresentato, in modo tale che il non rappresentato può sempre ritornare nel rappresentato. E questo è il mondo della rappresentazione, è il mondo in quanto tale. Ma la nostra realtà è di un ordine diverso. È una realtà molto particolare, che sussiste in una condizione di invisibilità -- Freud parlerebbe di inconscio --, che non ha il potere di passare nel visibile, e che non ha nemmeno il potere di sparire, nel senso di un vuoto [divenire n.d.t.] invisibile, di un rappresentato che è là da sempre in me, invisibile. Bisogna chiamarlo allora «inconscio» o dargli piuttosto un altro nome?

Il suo vero nome è la vita. È la vita, se la vita è ciò che provo, come l’ha provata Descartes nel suo sogno, e come Freud l’ha trovata anche lui in fondo all’inconscio. È la vita come vissuto, ma invisibile, qualcosa che provo senza che possa venire mai sotto il mio sguardo. Tutti i miei vissuti sono di quest’ordine. Un’angoscia la provo, ma non la vedo. Forse è destinata a modificare il mio sguardo, anzi lo farà certamente, modificherà completamente il mondo della rappresentazione -- è uno dei grandi temi di Freud, ma era stato già un tema di Schopenhauer e di Nietzsche. Ma l’angoscia in se stessa è di un altro ordine, non è dell’ordine della rappresentazione, e tuttavia è me stesso, è la mia vita.

Allora dovremmo ritornare all’emergenza, nel pensiero occidentale, di questo tema essenziale della vita e del mondo-della-vita. Dovremmo risalire a ciò che è monte di Freud -- a Kant e a Schopenhauer -- per vedere come si sviluppa questa centralità crescente del tema della vita e quindi degli affetti nel pensiero del Novecento.

La sua domanda è essenziale, perché questo tema ha una storia. L’inconscio non ha fatto irruzione improvvisamente nel momento in cui non si è compreso il cogito. È un fatto storico che, al momento della sua formulazione, i grandi cartesiani non hanno compreso il cogito: né Malebranche, né Leibniz, né Spinoza hanno capito il cogito. Appunto perché per loro era molto difficile capirlo, hanno creduto che il cogito fosse un’evidenza e dunque una rappresentazione. E ancora Heidegger critica questo modo di intenderlo, quando dice: «io penso vuol dire io mi rap-presento», «io presento me a me stesso», «io presento me davanti a me stesso», esattamente come mi rappresento le cose del mondo. Qui c’è un controsenso massiccio.

Anche Schopenhauer pensa nel solco di Kant. Kant aveva fatto, con l’Estetica Trascendentale, una teoria della rappresentazione -- del mondo come rappresentazione. Le forme dell’intuizione sono appunto forme della rappresentazione: lo spazio nel quale le cose si dispongono davanti a me, come in questa stanza, e il tempo nel quale le cose si dispongono nel mio spirito, le une dopo le altre. E poi le categorie dell’intelletto mi permettono di collegare tutto quello che è disposto davanti a me per mezzo di sintesi che sono dell’ordine del pensiero. Forme dell’intuizione e concetti dell’intelletto costituiscono insieme l’universo della rappresentazione. Schopenhauer, che è nutrito di kantismo, ha un’intuizione folgorante: il mondo è rappresentazione, ma c’è qualcos’altro. Che altro c’è? C’è in me il voler vivere, che è totalmente diverso da una rappresentazione: è una specie di forza che mi attraversa, contro la quale non posso nulla e che è la realtà. La realtà, per esempio, della pulsione sessuale, che mi porta verso i suoi oggetti propri. La realtà del desiderio. La realtà inoltre che abita i sentimenti nella misura in cui hanno tutti un valore dinamico: per esempio l’amore, che mi porta-verso il suo oggetto, l’odio che mi fa provare ripugnanza. Questa è la nostra realtà.

Qui si gioca il destino del pensiero occidentale prima di Freud. Schopenhauer afferma che c’è qualcosa di totalmente differente dalla rappresentazione, dal mondo, e che questo qualcosa è in me. Ma siccome continua a identificare la fenomenalità, l’apparire, con la rappresentazione, dovrà dire che questa forza in me è cieca, è inconscia ed è anonima. Non a caso Freud parlerà di Schopenhauer come di un grande pensatore. E dirà: quello che Schopenhauer ha chiamato «voler vivere», io la chiamo «pulsione». Siamo di fronte a una realtà, che da questo momento -- sono testi del 1818 -- è compresa come la realtà profonda dell’uomo; mentre tutto il resto, il mondo della rappresentazione, è un mondo irreale, fantasmagorico, analogo in fondo a quello del sogno. Ed è la ragione per cui Schopenhauer accoglierà così facilmente il pensiero dell’India, perché il mondo è il velo di Maya, è apparenza, illusione. Perciò da una parte c’è il mondo della rappresentazione, che è il mondo dell’irrealtà, quello che vedo e che mi inganna continuamente, mi illude; e dall’altra c’è una realtà che mi attraversa senza che io la provi.

Se avessimo il tempo di entrare nei particolari, vedremmo qualche contraddizione nei testi di Schopenhauer. Egli ha detto dapprima che la volontà si prova da sé stessa e che la volontà è la stessa cosa del corpo -- ma qui si tratta del corpo soggettivo, del corpo come io lo vivo e che è irrappresentabile. E d’altro lato c’è la rappresentazione, il solo centro della luce. A questo punto l’equazione del mondo moderno è già posta: o la luce della rappresentazione, del pensiero, del mondo, o l’inconscio. Schopenhauer afferma dunque la realtà dell’inconscio in forma contraddittoria. In un primo tempo dà significato alla prova del voler vivere in me, dicendo che in fondo il voler vivere, la volontà -- che qui non ha niente a che vedere con la volontà intellettuale del pensiero classico -- è qualcosa come un modo di apparire. C’è una sua frase straordinaria che mi sembra di una verità intemporale: il nostro corpo appare a se stesso in due modi. Da un lato appare a se stesso come un oggetto nel mondo della rappresentazione -- e in effetti vedo il mio corpo, la mia mano, posso toccarli. Ma d’altro lato appare a se stesso senza vedersi, dall’interno, nel desiderio, negli affetti, nella sofferenza, nell’angoscia, nella volontà di vita.

Si può dire che la rappresentazione, secondo Schopenhauer -- e secondo noi che lo leggiamo -- è il soggetto come oggetto della scienza, il soggetto come oggetto della psicologia scientifica, o sedicente tale?

Si può dire. E del resto nell’evoluzione ulteriore di Schopenhauer ci sarà un momento in cui lo dirà. Ma quello che importa per la formazione del pensiero moderno è questo chiasmo straordinario: da un lato l’irreale che è la luce e il visibile, e dall’altro il reale che sprofonda nell’inconscio. Questo grande chiasmo è ripreso da Nietzsche, che bisogna vedere come punto di riferimento intermedio, tra Schopenhauer e Freud, benché Freud sia molto più vicino a Schopenhauer che a Nietzsche. Allora in Nietzsche c’è uno sforzo, che trovo patetico e appassionante, per salvare la vita. Schematizzando un po’, Nietzsche in fondo accetta le tesi di Schopenhauer sulla rappresentazione. C’è un mondo della rappresentazione, che nel suo universo mitologico che usa, sarà la figura di Apollo. Apollo è il regno delle forme visibili, il regno della bellezza, ed è anche il regno di tutto ciò che si svela davanti a noi e che può avere una funzione di rasserenamento. Rasserenamento perché c’è un altro regno, quello del volere, che in Nietzsche diventa volontà di potenza. Ma è notevole che Nietzsche più spesso definisce quest’altro regno in termini di pathos: è il regno di Dioniso, e Dioniso è essenzialmente la nostra vita compresa essenzialmente come un soffrire...

E un godere anche!

... che è al tempo stesso un godere. E qui siamo davanti ad una delle grandi intuizioni di Nietzsche. Lei ha ragione di sottolinearla: è l’ambivalenza dell’affettività nelle profondità di noi stessi, un’ambivalenza che si può comprendere. Ne L’essenza della manifestazione ho tentato di proporre una spiegazione capace di rendere pienamente intelligibile questa ambivalenza. Nietzsche si contenta, per così dire, di darne degli esempi storici particolarmente pertinenti: la crudeltà, per esempio. Che cos’è la crudeltà? È il piacere di far soffrire. Nietzsche insiste nel mostrare come tanto nella Grecia primitiva quanto nel Medio Evo c’erano delle cerimonie il cui motivo era di offrirsi il piacere che la sofferenza dell’altro ci procura. Nel Medio Evo le pubbliche esecuzioni erano grandi feste. Vi si andava non solo per vedere impiccare qualcuno, ma anche per vederlo torturare. Si andava in massa a vedere spettacoli che sono per noi moderni, sensibili alla pietà, intollerabili. Ora per Nietzsche la forza e la grandezza dell’uomo consistono nel fatto che in lui si trova il piacere della sofferenza. Allora, in Nietzsche il nesso tra la sofferenza e il piacere si interiorizza straordinariamente, prefigurando temi freudiani. Non soltanto mi posso procurare uno straordinario godimento con la sofferenza dell’altro, ma posso rendermi anche in un certo senso scultore di me stesso e, per farmi soffrire, intagliare la mia propria carne. Ne derivano i grandi fenomeni della cattiva coscienza, del disgusto di sé, nei quali mi compiaccio nonostante tutto, perché racchiudono una gioia propria. Ma in definitiva il problema che Nietzsche non ha posto e che non è il caso di affrontare qui, è quello della comprensione interna del soffrire e del godere. Perché esiste originariamente questa connessione sul piano della vita? Questo è uno dei grandi problemi che abbiamo ereditato dal momento in cui Schopenhauer ha formulato l’antinomia tra la rappresentazione irreale e questo mondo oscuro che è il nostro.

In che senso Lei dice che Nietzsche ha salvato la vita?

Credo che il grande merito di Nietzsche sia di aver restituito alla vita la sua dimensione fenomenologica. Perché al limite l’affermazione secondo cui la vita è inconscia è priva di senso. Vivere è innanzitutto provare sé stessi [s’éprouver], sentirsi. Questo è vero già per la modalità più semplice della vita. Se si considera un’impressione di piacere, che senso potrebbe avere un piacere che non si provasse? La poltrona, che non si percepisce [ne s’éprouve], non prova né piacere né dolore, anche se le assestiamo un colpo d’ascia. Perciò spingere al limite l’affermazione che la vita è inconscia è un non senso. Dunque immenso è il merito di Nietzsche, in quanto non ha dato una definizione fenomenologica della vita in termini di rappresentazione -- cioè di quella messa a distanza grazie a cui lo sguardo diventa possibile -- ma ha dato piuttosto una definizione della fenomenalità in termini di affettività, di pathos. Una figura come quella di Dioniso, che soffre e gode insieme, è essenzialmente quella di un vivente. Perché piacere e dolore sono a mio avviso le modalità primarie della vita. La vita è in primo luogo il piacere o il dolore, è il bisogno, ma il bisogno è penoso, esiste solo sul piano affettivo. Se un bisogno non fosse sentito, non sarebbe nulla.

Dunque c’è in Nietzsche una volontà profonda di rifare della vita qualcosa di splendido, e di comprendere che questo splendore proviene dal fatto che è una rivelazione, anzi un’autorivelazione, perché ogni affetto si rivela da sé, sente se stesso. Abbiamo una prova di questo carattere fenomenologico della vita, del tutto opposto a un abbandono all’inconscio, all’oscurità, all’anonimato, qual si trova in Schopenhauer e parzialmente anche in Freud. La prova di questo valore di rivelazione della vita è che Nietzsche ha fatto della vita la fonte dei valori. Mentre in Schopenhauer era una fonte di assurdità, mentre in Freud sarà spesso una fonte di deliri, follie, fantasmi di ogni genere, in Nietzsche la vita è il principio dei valori. La vita crea i valori: per Nietzsche non ci sono valori nella natura, nelle cose, è la vita che conferisce loro un valore, dunque la vita è il principio delle valutazioni. Perciò la questione fondamentale che bisogna porre è: perché quel principio di valutazione, che è la vita, ha esso stesso un valore? Perché la vita ha un valore. E perché la vita per Nietzsche in fin dei conti ha un valore? Perché è felice di vivere, perché il sentire se stessi [s’éprouver soi-même], che è proprio dei vivi e che ci sarà ritirato quando saremo morti, è una cosa straordinaria.

In Nietzsche la vita è analizzata attraverso un certo numero di figure. Una delle figure principali attraverso cui Nietzsche analizza la vita, sono i nobili. Nietzsche fa dire ai nobili: «noi nobili, i buoni, i felici...» Ciò che giustifica la vita è dunque la felicità. Per questo bisogna difenderla contro tutti i processi che la attaccano, il più terribile dei quali, secondo Nietzsche, è il processo per cui la vita stessa si rivolge contro di sé. Questa è una delle scoperte più geniali di Nietzsche: l’aver riconosciuto nell’esperienza umana dei processi d’autodistruzione. E nel momento in cui ha scorto questi processi di autodistruzione, tra i quali il suicidio non è che una figura esteriore, Nietzsche si è ritratto inorridito, dicendo: che strana bestia l’uomo, che distrugge sé stesso! Ora, questi processi di autodistruzione sono all’opera nella cattiva coscienza, nel sentimento di colpa, in tutto ciò che ingenera disgusto verso se stessi, stanchezza, malessere. Esiste per Nietzsche una malattia della vita, ma la cosa più terribile è che questa malattia della vita è anche coscienza della sofferenza. Soltanto non è più una sofferenza che porta verso la vita, ma una volontà di autodistruzione. Perciò in Nietzsche la sofferenza ha un doppio ruolo: andare verso la vita per mettersi alla prova [s’éprouver soi-même], mentre poi comincia il terribile processo di autodistruzione, che abbiamo sotto i nostri occhi anche nel mondo moderno.

Che cosa pensa della celebre interpretazione deleuziana del pensiero di Nietzsche -- in Nietzsche et la philosophie -- in termini di conflitto tra forze attive e forze reattive?

Non sono d’accordo con questa interpretazione, che Deleuze ha dato come soluzione a un problema nietzscheano cui non abbiamo ancora fatto allusione: quello dei forti e dei deboli. Per Nietzsche nei forti -- poiché la vita è volontà di potenza, e qui sta la sua differenza con Schopenhauer -- non c’è alcuna mancanza, ma piuttosto una specie di sovrabbondanza, che gode di sé stessa, una forma di felicità. Quindi si deve pensare che i forti sono felici perché hanno appunto il sentimento di questa pienezza che è la vita. Ma allora perché ci sono dei deboli? Interviene a questo punto l’interpretazione di Deleuze, perché ci sono per lui delle forze differenti quantitativamente. E dal momento in cui una forza più forte incontra una forza più debole, la forza più debole diventa reattiva nei confronti della forza più forte, e così nasce il risentimento e tutto l’insieme dei processi reattivi. È un’interpretazione celebre, perché il libro di Deleuze ha avuto a suo tempo a Parigi un’accoglienza molto favorevole, ma che non condivido. Perché non spiega veramente la debolezza dei deboli, perché ci sono degli esseri nei quali la forza sarebbe presente in una quantità inferiore a quella che è presente nei forti. Ebbene, in Nietzsche la forza in quanto tale non è mai segnata dalla debolezza. Poi c’è in Nietzsche un’altra straordinaria analisi della debolezza: quella del prete ascetico. Perché è vero che ci sono dei forti e dei deboli in Nietzsche, e si può ben considerare questo come un dato, misterioso d’altronde; ma poiché ci sono due forze anche nel discorso di Deleuze, la debolezza non può venire che da una decisione della vita, della forza vitale, di rivolgersi contro se stessa. E perché la vita dovrebbe rivolgersi contro sé stessa? Perché soffre. Dunque la debolezza s’insinua nella forza, nel momento in cui la forza, invece di accettare la sofferenza, le si rivolta contro con un atteggiamento suicida per distruggersi. Nasce a questo punto la debolezza: questa non è un dato primo, ma un atteggiamento metafisico, il quale promana dal fatto che la vita si rivolge contro se stessa. Dunque nel prete ascetico troviamo questo fatto straordinario: l’ascetico si mette alla testa del gregge dei deboli, perché quello che c’è di straordinario nei deboli è che continuano, nonostante tutto, a lottare. Una delle affermazioni più abissali di Nietzsche è che in fondo alla debolezza c’è una forza, in se stessa infinita. Dunque i deboli entrano in lotta con i forti con questa forza infinita, di cui il prete ascetico è depositario. Per questo essi devono inventare delle strategie, devono far credere ai forti che è male quello che fanno, che la forza è cattiva, e che la debolezza dei deboli, dei malati, è buona e che bisogna curarli. È questa l’inversione dei valori a cui procedono i deboli, ma una volta che l’hanno effettuata, quello che permette loro di battere i forti è il fatto che la forza che resta in fondo a loro stessi è in qualche modo più forte che nei forti, perché è minacciata. A quel punto gli istinti più profondi della vita fanno sì che in realtà i deboli abbiano la meglio sui forti. È questo uno dei paradossi di Nietzsche. Bisognerebbe poter entrare più a fondo in questa straordinaria descrizione.

E quindi arriva Freud. Anche Freud vuole, come Nietzsche, salvare la vita?

Credo che l’atteggiamento di Freud sia ugualmente ambiguo. Ma si può trovare una risposta precisa alla Sua domanda solo se si interroga il famoso Progetto di una psicologia scientifica del 1895. È un progetto estremamente interessante, perché in esso Freud propone una spiegazione scientifica dell’attività psichica, che in realtà è una descrizione del sistema neuronale. In questo senso è veramente moderna, può essere ricollegata con certe tendenze attuali delle neuroscienze. Qui Freud dice che il sistema neuronale si divide in due: un sistema j e un sistema y. Ciò che caratterizza i neuroni è che ce ne sono di due specie. Una specie è quelli sottoposti agli stimoli esterni e che determinano una serie di comportamenti atti a fuggire il pericolo esterno -- perché lo si può fuggire, ci si può sottrarre alla sua azione, e ci sono molto modi per farlo. Ma il vero pericolo per Freud, come per Schopenhauer e Nietzsche, è interiore. Sfortunatamente ci sono dei neuroni la cui caratteristica è l’autoeccitazione, nel senso che subiscono un’eccitazione non già esogena, ma endogena. E quest’eccitazione interiore è terribile -- non c’è niente da fare. E questo determina per Freud l’entropia. Per lui c’è un’eccitazione del sistema neuronale che da parte sua tende soltanto a liquidare le eccitazioni. Siccome l’eccitazione è qualcosa di fastidioso, il sistema neuronale tende verso una quantità d’energia Q = 0, cioè verso uno stato di inerzia o di morte. Di conseguenza tutta la teoria dell’attività psichica costruita sul modello neuronale è centrata sulla fuga dall’eccitazione. Perché secondo Freud l’eccitazione produce nel sistema neuronale, e dunque nell’attività psichica, una sofferenza, «il malessere del bisogno» avrebbe detto Schopenhauer, il malessere del desiderio, la libido, che diventa insopportabile man mano che le quantità di eccitazione aumentano. Che cosa bisogna fare allora? Liquidare le eccitazioni, e a questo fine bisogna tentar di portare il sistema neuronale -- e dunque il sistema psichico che ne è il calco -- verso uno stato Q = 0.

Bisogna insomma liquidare le eccitazioni che ci provocano il malessere -- è ancora Schopenhauer -- e per liquidare il malessere bisogna sopprimere le eccitazioni. Ma in fondo per non provare malessere bisogna essere una poltrona o un paio di scarpe -- è un sistema di morte. Perciò credo che alla fine l’apparizione nella metapsicologia della pulsione di morte non è dovuta al caso, ed è proprio questo aspetto del pensiero di Freud che non accetto. Di fronte a questo Freud ho la stessa reazione -- se mi passa il confronto -- di Nietzsche di fronte a Schopenhauer. Credo che la vita è buona e dunque penso che non si tratti di liquidare le nostre affezioni. Si tratta al contrario, come per Kandinsky, di ottenere che la vita divenga più intensa, e che sempre più senta se stessa [s’éprouve elle-même]. Credo che tutte le grandi opere d’arte hanno per effetto non già di permettere alla vita di liquidare la sua libido, ma al contrario di pervenire a gradi di felicità e di gioia, che tendono verso una specie di assoluta beatitudine.

Si può obbiettare tuttavia che questa liquidazione della libido corrisponde per Freud alla sua soddisfazione, corrisponde a un godimento. Per Freud il fatto di liquidare la libido è piacevole.

Lei ha ragione. Ci sono due momenti nella risposta di Freud, poiché ha dato lui stesso una risposta alla Sua domanda. C’è il momento in cui il godimento è l’attenuazione dell’eccitazione, quindi non la sopprime -- Freud dice che è impossibile sopprimerla. Il godimento la fa tornare a uno stato stazionario, secondo il principio di costanza non di morte, e di conseguenza deve soddisfare, nella misura del possibile, le pulsioni, il bisogno. A quel punto si trova una specie di equilibrio, preferibile al desiderio. Questa è una prima risposta. E poi ce n’è un’altra, molto diversa, che interviene alla fine, sulla quale ha riflettuto specialmente

Paul Ricœur nel suo bel libro su Freud: arriva improvvisamente Eros. In questo mondo in cui regna, in cui spande il suo dominio la pulsione di morte, arriva improvvisamente Eros -- non si sa da dove, né perché -- a riattivare la vita, a rianimare la scena. Eros è l’amore in tutti i sensi della parola, che ridà alla vita quel carattere di attività che, nonostante tutto, le è inerente. Credo che qui Freud abbia senza dubbio ragione; ma è anche vero, come ha notato Ricœur, che qui c’è una falla o faglia [faille] nel discorso freudiano, in quanto il principio di Eros cade in un certo senso dal cielo.

Comunque, a Suo avviso, Freud costituisce veramente un superamento della filosofia classica della rappresentazione, o è piuttosto un compromesso tra la riscoperta della vita come fatto buono e la visione classica? Forse Freud resta a metà strada tra classicismo e dionisismo?

Credo che Freud sia molto vicino a Schopenhauer. C’è in lui l’affermazione decisiva, cui assento pienamente, che il fondo del nostro essere non è dell’ordine della rappresentazione, che la rappresentazione è una irrealtà, e che la nostra realtà si trova nelle profondità dell’inconscio. Ma in fondo all’inconscio ci sono due cose in conflitto. Da un lato c’è l’affetto, di cui Freud ha detto -- in una nota marginale che mi sembra magnifica -- che non è mai inconscio, nel senso che l’affetto prova se stesso [s’éprouve]. Ma d’altro lato c’è in Freud una teoria dell’inconscio che ci fa restare dal lato della rappresentazione. Poiché in fondo, nei testi del 1912 e 1914, è attraverso la rappresentazione inconscia che l’inconscio ritrova diritto di cittadinanza. Mentre per quello che riguarda la realtà profonda, c’è anche in Freud una contraddizione: da una parte c’è un inconscio che, al limite, è assoluto; e dall’altra c’è un affetto che è per lui, come per me, il fondo della vita. È degno di nota che nell’ultima formulazione della cura analitica è in questione una storia di affetti. A questo proposito Freud ha avuto delle intuizioni di una profondità ammirevole, per esempio nella sua teoria dell’angoscia. Egli pone l’angoscia sul percorso di tutti gli affetti. Ogni affetto, prima di realizzarsi, nel momento in cui non ha trovato ancora il suo adempimento, quando è in qualche modo abbandonato al semplice peso che esercita su se stesso, muta in angoscia. E l’angoscia non è superata finché l’amore non trova una nuova incarnazione. Qui Freud, in rapporto alla filosofia classica, ha esplorato un dominio essenziale.

Filosoficamente parlando, qual è secondo lei la differenza essenziale tra l’angoscia di Freud e quella di Heidegger?

L’angoscia di Freud mi sembra molto più vicina alla realtà. Direi che è molto più vicina all’angoscia di Kierkegaard che a quella di Heidegger -- o se preferisce, mi sento molto più vicino alla descrizione kierkegaardiana dell’angoscia che a quella di Heidegger. Perché per Heidegger l’angoscia ci mette alla presenza del mondo; mentre per Freud, così come per Kierkegaard, l’angoscia sorge nel rapporto di sé [du soi] a se stesso. Più precisamente, sorge dal soffrire puro, nel quale la vita si dà a se stessa e nel quale la sofferenza del malessere si dà se stessa. Il peso del bisogno, quando diventa intollerabile, fa sorgere l’angoscia. Dunque l’angoscia nasce in Freud dal rapporto dell’io con sé stesso. In alcune frasi Freud lo dice esplicitamente: l’io non può più sopportarsi. Mentre in Heidegger l’angoscia mi mette in rapporto col mondo. Ma io non credo che questo rapporto col mondo angosci veramente la gente, tanto più che questa frase di Heidegger -- «l’angoscia mi pone di fronte al nulla» -- è ripresa da Kierkegaard, nel quale però ha un senso completamente diverso. Ho detto «il nulla», perché Heidegger, come Hegel, identifica il mondo con il nulla. Il mondo è quest’orizzonte di visibilità in cui non c’è ancora niente e nel cui campo le cose si mostrano. Allora qui c’è uno spostamento completo dall’angoscia della vita, che è quella di Kierkegaard e di Freud, verso un’angoscia del mondo, che mi sembra meno pertinente.

Si può tuttavia obiettare che anche per Freud l’angoscia è relazione con un oggetto. Specialmente quando egli parla di angoscia fobica: c’è un oggetto fobico, un oggetto esterno è fonte di angoscia.

Si. Ma in Freud l’angoscia, per scaricarsi, cerca un oggetto. L’oggetto fobico, che non ha niente a che vedere con la situazione reale, è semplicemente un modo per proiettare fuori di sé il peso insopportabile dell’angoscia. Dunque l’oggetto fobico è una specie di inganno che l’angoscia tende a se stessa per sfuggire a se stessa. Ma non è l’oggetto fobico che permette all’angoscia di liberarsi di se stessa. Solo un’autentica trasformazione dell’affetto sul piano dell’affetto permette all’angoscia di liberarsi di se stessa. È un’autotrasformazione della vita che potrà sbloccare la situazione -- per esempio poter amare di nuovo, senza proiezioni ingannevoli. In queste proiezioni consiste la malattia. È curiosa questa malattia che cerca di fuggire l’angoscia nel mondo della rappresentazione, e si chiude in una via senza uscita, e continuerà a restarvi chiusa fin tanto che non avrà ritrovato la vera via che Freud indica nella cura: l’abreazione dell’evento affettivo traumatico. Bisogna ripartire da questo evento traumatico per trovare la soluzione sul piano della vita e della realtà, accettando il piano della realtà, ritrovando sul piano della realtà una ragione di vivere, cioè un’attualizzazione della nostra potenza affettiva.

Una domanda meno filosofica: la Sua simpatia per il pensiero di Freud si estende anche all’odierna pratica della psicoanalisi? In pratica, consiglierebbe ad un caro amico che avesse dei problemi di andare da un analista?

Credo che la pratica psicoanalitica abbia seguito due vie. Ha seguito una prima via che era la via stessa della filosofia occidentale, la via dei Greci: la via della conoscenza, della presa di coscienza. Si pensava che il soggetto, prendendo coscienza dell’evento traumatico, se ne sarebbe potuto liberare. E ci si è accorti nel corso del lavoro analitico che prendere coscienza dell’evento traumatico, che spesso era d’altronde affabulato, immaginario, a volte inventato dall’analista o dall’analizzante, non portava a niente. Di conseguenza il lavoro analitico ha in realtà cambiato completamente natura, come è stato messo in evidenza da Mikel Dvorák-*** nei suoi notevoli lavori su Freud. È precisamente nella stessa cura analitica, sul piano dell’affetto e dunque della realtà della vita, mediante una modificazione dell’affetto e non lavorando sulla rappresentazione, che la cura potrà avanzare piuttosto che bloccarsi. Credo che sia possibile una convergenza con questo modo di intendere la psicoanalisi.

Lei ha lavorato a lungo anche su Marx. Ci può dire qualcosa su affinità e differenze tra Marx e Freud?

Credo che su Marx circolino gli stessi controsensi che su Freud. Si è assegnato Marx all’«età del sospetto», come ha detto Ricœur. Come Freud, Marx sarebbe un pensatore che ci fa sospettare dei nostri discorsi. La soluzione, per Marx come per Freud, si troverebbe sul piano della realtà. Io per dieci anni non ho fatto altro che leggere Marx. E quello che invece ho trovato di notevole in Marx, e che ho scoperto per caso, è che alla radice della realtà egli pone un corpo soggettivo. Lo dice non soltanto negli scritti giovanili, ma anche negli ultimi manoscritti, che sono ammirevoli, e che sono andati a costituire il Libro III del Capitale. Per Marx tutte le spiegazioni partono dal lavoro, che è un modo dell’attività corporea -- qui si ritrova Schopenhauer. Ma questo lavoro è inteso come lavoro soggettivo e non inconscio; perché dopo tutto, se soprattutto il lavoro del XIX secolo -- fisicamente molto duro -- era penoso, allora non era inconscio. I computer e le macchine non lavorano. Le si possono far «lavorare» quanto si vuole, ma in un altro senso.

Il lavoro umano è soggettivo, individuale, vivente. È soggettivo in quanto sofferente -- ma può essere anche felice. Il lavoro umano è individuale -- mentre una forza anonima non è individuale. E dire che il lavoro umano è vivente vuol dire che sente se stesso [s’éprouve]. Se avessi qui i tardi manoscritti di Marx, Le potrei mostrare che ogni volta che egli definisce l’uomo, parla sempre di «forza soggettiva del lavoro vivo». E quando questo tema interviene nei manoscritti, Marx lo scrive sempre in corsivo. Per costruire l’economia, si è dovuto quantificare -- cosa impossibile -- e qualificare -- cosa altrettanto impossibile -- questo lavoro soggettivo e vivo. Impossibile perché non si può quantificare e qualificare un’esistenza, una sofferenza, l’amore -- a meno che non si tratti di prostituzione, e forse nemmeno in questo caso. Dunque la realtà umana è in fondo sempre la stessa, anche se la studiamo nei campi così diversi della psicopatologia e della vita economica.

Copyright © 2004 Sergio Benvenuto

Intervista fatta a Parigi il 30 gennaio 2001.

Sergio Benvenuto. «L’emergenza dell’inconscio nel pensiero dell’Occidente. Conversazione con Michel Henry». Dialegesthai. Rivista telematica di filosofia [in linea], anno 6 (2004) [inserito il 1º settembre 2004], disponibile su World Wide Web: , [45 KB], ISSN 1128-5478.



-  C’est Moi la Vérité,

-  Le Seuil, 1996

Outre son thème central, cet essai précise le rapport de l’individu à l’essence sur les points suivants: la naissance; l’ipséité (le soi qui vient dans la vie est-il mon soi ou celui de la vie?); l’agir; autrui; le langage.

Introduction

Ce que le Christianisme considère comme la vérité diffère du concept moderne de vérité. Un vigoureux préalable méthodologique exclut que la connaissance de celui-ci dépende des textes qui en parlent. Seule la référence du texte à la réalité fait la vérité de celui-ci. Cette vérité ne peut non plus être réduite à la « vérité » problématique de l’histoire, incapable de saisir la réalité des individus et dont l’événement dont elle se veut témoin répète l’impuissance de l’événement à se poser dans l’être. Ces incapacités sont formulées dans le Nouveau Testament qui affirme que seule la Vérité qui est la sienne peut rendre témoignage d’elle-même.

-  I - La vérité du monde,
-  II - La vérité du Christianisme,
-  III - Cette vérité qui s’appelle la Vie

Ces chapitres sont conçus de façon antithétique. Est disqualifiée la vérité du monde qui prévaut depuis la Grèce - et que L’Essence de la manifestation avait rudement critiquée : si tout ce qui se montre dans la lumière est tenu pour vrai, c’est le monde qui désigne la vérité et non la façon dont celle-ci se montre, conception portée à l’absolu par la philosophie de la conscience. La vérité du monde n’est en réalité qu’auto production du dehors comme condition de visibilité.

D’autre part cet au-dehors est pris dans le flux du temps (critique qui vise Heidegger). Soumise à la loi d’apparition des choses, la vérité du monde jette celles-ci hors d’elles-mêmes, les vide de leur chair dans un faire-voir qui est destruction.

Dans la vérité du Christianisme au contraire la vérité n’a pas à se diviser entre elle-même et ce qu’elle montre. En elle il n’y a ni voir ni vu, elle est matière phénoménologique pure, concerne le fait de se montrer, non le phénomène. Dieu est cette révélation pure qui ne révèle rien d’autre que soi et le Christianisme est donation en partage aux hommes de l’auto-révélation de Dieu.

Cette auto-révélation se produit dans la vie dont elle constitue l’essence, la vie n’étant rien d’autre que ce qui s’auto-révèle. Cette vie n’est pas dans le monde, elle se tient en soi, s’éprouve sans distance, hors monde, hors pensée, hors rapport conscience-objet, sans différence, condition pour qu’elle s’éprouve. Son mode de révélation est chair d’un pathos, non structure formelle. D’où la première équation du Christianisme : Dieu est Vie, l’essence de la Vie est Dieu.

M.H. recense les trois façons contemporaines qui dépouillent la vie de son auto-révélation:

1 - le scientisme actuel, qui laisse de côté la question capitale de l’ipséité et oublie que ce qui en nous voit ou touche, n’est ni l’œil, ni la main, mais la vie. Quant à la biologie, elle ne s’intéresse plus à la vie, bien que le biologiste sache ce qu’elle est, joie, angoisse etc.

2 - la conception de Heidegger qui réduit la manifestation du vivant à son apparition sous forme d’étant dans l’éclaircie du monde.

3 - La déviation du freudisme qui pense que la conscience réside dans la représentation, avec cette conséquence, la vie n’est que force aveugle, inconsciente, source de ravages.

Antithèse de ces dévalorisations, le Christianisme estime que la Vie est plus que le vivant et qu’elle le précède. Phénoménologiquement, c’est de la Vie transcendantale qu’il faut partir. D’où l’importance de la naissance, de la génération de l’homme comme fils de Dieu et de celle de l’Archi-Fils qui est le premier vivant (archi- vient du grec archè, commencement).

IV - L’auto génération de la Vie comme génération du premier vivant

Ce chapitre important traite de l’origine et de l’ipséité qui fait l’objet des trois chapitres suivants. Ici il est question de l’ipséité originelle dont L’Essence de la manifestation avait déjà traité.

Pour le Christianisme, il n’y a qu’une seule Vie, agissante, puissance d’engendrement immanente à tout ce qui vit. Elle est l’essence de Dieu lui-même, un Dieu qui n’est pas pensé par l’esprit, comme le croyait Saint Anselme. Le vivant parvient dans la vie en s’identifiant à son auto révélation. La vie n’est pas, le concept d’être est à congédier. Elle advient et ne cesse d’advenir. Elle n’est pas non plus un milieu phénoménologique où baigne tout ce qui est vivant, ni un monde intérieur qui serait l’antithèse du monde de l’au-dehors. «Dans l’accomplissement éternel de ce procès, la vie se jette en soi, s’écrase contre soi, s’éprouve soi-même, jouit de soi, produisant sa propre essence». Telle est la dynamique de l’ipséité qui s’effectue comme pathos et constitue «la chair affective» de cette révélation. S’éprouver soi-même signifie éprouver ce qui n’est en sa chair rien d’autre que ce qui l’éprouve. Cette identité de l’éprouvant et de l’éprouvé est l’essence originelle de l’ipséité.

Le Père est le mouvement que rien ne précède, et dont nul ne connaît le nom. Il engendre éternellement le Fils, ce premier vivant en l’Ipséité originaire duquel le Père s’éprouve lui-même. Comme le Père, le Fils est Logos, Verbe. Sa naissance ne se produit pas à l’intérieur d’une vie préexistante, elle est élément co-constituant du surgissement de la vie. L’engendrement du Père et du Fils ne font qu’un.

V - Phénoménologie du Christ

La naissance non mondaine du Christ signifie que toute naissance est transcendantale, générée dans la Vie absolue car le vouloir du monde est incapable d’engendrer la vie, il la présuppose. Le Père est « dans les cieux », c’est-à-dire invisible. La Vie n’apparaît dans aucun monde, «Personne n’a jamais vu Dieu». D’où le rejet violent par le Christ de sa généalogie humaine: «Avant qu’Abraham fut, Moi je suis.» Cette conception de la naissance qui fait de l’Archi-Fils un étranger au monde et à sa temporalité propre est cause du drame dont le Christianisme est l’histoire, car dans la vérité du monde le Christ n’est qu’un homme parmi les autres et ce qu’il dit passe pour blasphème.

Le Prologue de Jean explique la Trinité dans cette perspective d’une phénoménologie de l’invisible: Archi-génération transcendantale de l’Archi-Fils, le Verbe étant l’accomplissement de la révélation, auto-engendrement de la vie qui « se fait chair » sous la forme d’une Ipséité essentielle, celle du Premier Vivant, aussi ancien qu’elle. La proposition, «En lui était la Vie», désigne l’intériorité phénoménologique réciproque du Père et du Fils, ce qui n’existe jamais dans la génération humaine.

La signification du Christianisme est prise dans une phénoménologie, puisqu’il s’agit de rendre le Père manifeste, révélation qui se fait dans un mouvement sans fin grâce au Fils incarné, le Christ ne disant rien d’autre que ce que dit « Celui qui m’a envoyé ». Mais pas plus que le Père, le Fils ne peut se montrer dans le monde en tant que tel. Le système autarcique constitué par la relation de la Vie et du premier vivant signifie qu’il n’est d’accès au Christ que dans la Vie. Le Christianisme n’enseigne rien d’autre que cela et défait la conception de l’homme comme être du monde, il est Fils de Dieu.

VI - L’homme en tant que «Fils de Dieu»

Ce chapitre capital s’attaque à la question très rarement abordée par les philosophes, celle de l’ipséité individuelle.

Point central du Christianisme, l’homme n’est pas un être du monde, ni au sens réaliste naïf, ni au sens philosophique commun qui voit en l’homme un être doué de raison - appartenance que maintient la religion quand elle le comprend comme un être non pas engendré mais créé, c’est-à-dire tenant ses lois de l’apparaître, confusion que répète la christologie quand elle tente d’expliquer l’union dans le Christ de deux natures hétérogènes, l’une humaine, l’autre divine, alors que le Christ n’a jamais parlé de lui-même comme d’un homme - et que l’homme n’existait pas quand lui, le Christ, a procédé de l’auto-engendrement de la vie.

En tant que fils de Dieu, l’homme participe aussi de l’essence de la vie. Il doit être pensé à partir du Christ, car la Vie a le même sens pour Dieu, le Christ et l’homme. Or si l’homme est porteur de l’essence divine, en quoi diffère-t-il de Dieu ou du Christ puisqu’il est ce Soi singulier engendré dans l’auto-engendrement de la Vie absolue - c’est-à-dire cette épreuve qui est ipséité ?

Il faut donc distinguer deux concepts de l’auto-affection - affection signifiant manifestation, ce qui se donne à moi dans mon expérience. Il y a auto-affection quand ce qui affecte est le même que ce qui est auto-affecté, ie. quand la vie constitue elle-même le contenu de son affection (cf. § 31 L’Essence de la manifestation). L’auto-affection est donc acosmique, mais il faut dissocier les modalités du moi transcendantal vivant, l’Archi-Fils et l’essence phénoménologique de cette Vie absolue.

Il y a donc un concept « fort » d’auto-affection ( naturant) : la génération par soi de la Vie qui définit elle-même le contenu de sa propre affection et se le donne à elle-même. Cette auto-donation qui est auto-révélation est un pathos affectif qui a posé son propre contenu. Cette auto-affection forte est le propre de Dieu.

Le concept « faible » d’auto-affection est un naturé. En tant que Moi transcendantal vivant, je puise aussi mon essence dans l’auto-affection. Je suis moi-même l’affecté et ce qui affecte, le sujet de l’affection et son contenu, tout est moi, le senti, le touché, le voulu, le désiré, le pensé. Mais cette auto-affection n’est pas mon fait.

Quel est le rapport de ces deux sens ? Dans le sens faible, le Soi singulier que je suis ne s’éprouve lui-même qu’à l’intérieur du mouvement par lequel la Vie se jette en soi et jouit de soi dans le procès éternel de son auto-affection absolue. D’où, parce que c’est un pathos, la passivité de ce soi singulier que je suis, passif à l’égard de soi parce que passif à l’égard du procès éternel de la vie qui ne cesse de l’engendrer. C’est cette passivité qui fait de ce soi un moi - ipséité qui n’est pas un attribut métaphysique posé sur la pensée. Cette passivité engendre des modalités pathétiques comme l’angoisse, angoisse qui tente de se fuir. Ecrasée sous son propre poids, elle tente de se changer soi-même - principe de toute action - , sa souffrance peut ainsi se métamorphoser en joie.

Intermédiaire entre Dieu et l’homme, mais consubstantiel au Père, le Christ appartient au procès fort. Le rapport de l’homme transcendantal à Dieu n’est pas direct mais médié par le Christ : grâce à l’Ipséité de ce premier Soi, la place est ouverte à tout vivant, son ipséité est possible. Fils de Dieu, le vivant ne peut l’être qu’en tant que Fils dans le Fils.

VII - L’homme en tant que «Fils dans le Fils»

Le statut de l’ipséité individuelle, auto-affection « faible », est métaphoriquement exposé dans la parabole, relatée par Jean, du berger et de ses brebis : c’est dans l’Ipséité originaire du Fils, par une relation d’engendrement acosmique et intemporelle, que chaque homme puise son ipséité personnelle. Le Christ n’est pas seulement le medium entre l’homme et Dieu, il est le medium entre chaque moi et lui-même, conférant à ce moi une concrétude phénoménologique, une chair. Aussi « le berger » connaît-il le nom de chacune de ses brebis, il est la porte, ie. « l’accès à tout moi transcendantal réside dans une Ipséité plus ancienne que lui », Ipséité qui est l’herbe que paissent les brebis, c’est-à-dire que chaque moi s’accroît de lui-même.

Ce processus a une conséquence capitale : la relation des vivants entre eux n’est plus dans l’extériorité du monde mais dans l’archi-génération de la Vie : il est impossible de parvenir jusqu’à l’autre, de l’atteindre, sinon à travers le Christ, de le frapper sans frapper celui-ci. Or le voleur qui, dans la parabole, s’approprie ce qui ne lui appartient pas, le possède quand même : quoi qu’il fasse, tout moi fait usage d’une ipséité dans le pouvoir de laquelle il n’entre pour rien. Aussi les ouvriers de la onzième heure seront-ils payés de la même façon que ceux qui ont travaillé tout le jour.

L’extrême originalité de la pensée chrétienne de l’Individu est d’avoir d’entrée de jeu lié la conception de l’Individu avec la Vie, relation qui est dans la Vie dont elle est l’engendrement constant. Son ipséité est pour chacun la condition essentielle de son identification à la Vie universelle donnée en sa chair phénoménologique. Tout soi est singulier. « L’homme naturel » n’existe pas, ce qui individualise n’est nulle part dans l’au-dehors. Priorité de l’essence : « C’est moi qui vous ai choisis ».

VIII - L’oubli par l’homme de sa condition de Fils: «Moi, je»; «Moi, ego»(Chapitre capital pour le statut du sujet)

Pourquoi les hommes sont-ils si malheureux en dépit de leur ascendant? Or c’est justement à partir de l’ipséité que s’éclaire l’oubli. L’ignorance de l’homme s’enracine dans le procès même en lequel la vie génère en soi le moi de tout vivant. C’est dans la naissance du moi que se tient la raison cachée de l’oubli. S’éprouvant passivement sur le fond de cette Ipséité originelle de la Vie qui le donne à lui-même, le moi se trouve être plus que ce qui se désigne comme un moi: entrant en possession de lui-même, il entre en possession de pouvoirs (du corps, de l’esprit), il peut les exercer. Car le « je peux » ne fait que définir l’essence du « je ». Toutefois ce « je » n’y est pour rien, la source des pouvoirs est le Soi de l’Archi-Fils.

Une fois entré en possession de son être propre, le « je » se sent libre de déployer tel de ses pouvoirs. De passif originairement, l’ego devient actif - et libre parce qu’il n’est rien du monde, son Ipséité n’appartenant qu’à la Vie. Ainsi naît l’illusion transcendantale de l’ego qui se prend pour le fondement de son être, oublie sa condition de Fils. Celui qui soulève un poids croit que c’est lui qui le soulève... et le don des pouvoirs est réel.

De plus, la dissimulation de la Vie invisible dans l’ego lui ouvre l’espace du monde, l’ego ne s’intéresse qu’à ce qui est hors de lui - même s’il ne se soucie en réalité que de lui-même. L’égoïsme transcendantal lui fait oublier sa condition et l’emplit de ce Souci que le Christianisme nomme convoitise.

Il est toutefois une cause plus essentielle de l’oubli : incapable de prendre place devant son propre regard, la Vie est sans mémoire, elle est l’Immémorial parce que jamais séparée de soi par une intentionnalité. Il faut rejeter les conceptions classiques qui fondent sur la mémoire les possibilités du moi : la mémoire détruit l’essence de la vie, déploie l’écart de la distance du passé. Le Soi n’est possible que radicalement immanent, sans visage.

C’est ainsi que l’oubli par l’homme de la condition de Fils n’est pas un argument contre celle-ci mais sa conséquence et sa preuve. Il y a donc deux oublis : bien qu’oubliant le Soi qui l’installe en lui-même, l’ego n’en est pas moins immergé en lui-même à son insu. Le second oubli porte sur ce qui est advenu avant qu’on soit, l’antécédence de la Vie, l’Immémorial absolu.

IX - La seconde naissance

Le salut pour le Christianisme est de surmonter cet oubli radical, ie. de naître une seconde fois, mais ce salut ne relève ni du savoir ni d’une prise de conscience libératrice. Les preuves de l’existence de Dieu (Saint Anselme etc.) sont absurdes : se constituer en tribunal et alors que l’essence de Dieu est sa présence invisible, son auto-révélation originelle, le soumettre à une preuve sous la lumière du monde. D’accès au vivant, il n’est que dans la vie.

D’où l’aporie : comment l’homme peut-il atteindre l’Avant absolu de l’auto-engendrement de la vie en laquelle il est engendré ?

A la différence de la philosophie classique où le temps est identifié au surgissement phénoménologique du monde, la temporalité du Christianisme permet de saisir la relation de notre naissance à l’Avant qui la précède : le rapport à l’Avant n’est pas distance mais pathos. Ce rapport est chair de la vie qui est mouvement, venue en soi qui ne se sépare jamais de soi.

La relation du vivant à la Vie ne peut donc se rompre, comme le montre la parabole du Fils prodigue. Certes celui-ci avait oublié. Mais l’immanence de la Vie absolue dans la vie singulière de l’ego fait qu’une seconde naissance peut s’accomplir en faveur d’une autotransformation de la vie selon ses lois propres : elle consiste dans un faire, l’éthique chrétienne refusant l’ordre de la parole et de la connaissance. Ce faire est retour à l’auto-engendrement de la vie, conformément à la volonté du Père. Dieu est vie, le Soi vivant laisse la vie s’accomplir en lui comme la vie de Dieu lui-même. Seuls les actes comptent, comme celui du Bon Samaritain ou des œuvres de miséricorde.

Le salut est une seconde naissance, entrée dans une vie nouvelle, le « Je peux » étant donné par la Vie. Cet agir de miséricorde repose sur l’oubli de soi, parce que l’ego y est reconduit au pouvoir de la Vie absolue qui le donne à lui-même. Dans ce nouvel agir, le soi retrouve la puissance dont il est né - l’agir mondain de l’ego est remplacé par l’agir originel de la Vie.

X - L’éthique chrétienne XI - Les paradoxes du Christianisme

Ce chapitre X définit le principe de cette éthique, à la lumière duquel sont ensuite expliquées les affirmations paradoxales du Christianisme qui déterminent la possibilité d’une seconde naissance. Celle-ci implique un faire qui n’a rien à voir avec la réalisation objective d’un projet subjectif mais où réalité et action se situent dans l’auto transformation pathétique de la vie, un agir transcendantal qui n’obéit qu’à la donation à soi de la Vie absolue. La Loi nouvelle n’est plus une norme idéale, extérieure, son Commandement est la Vie, condition d’accomplissement pour l’homme de son essence - ce que Jean appelle amour de Dieu. Loin de résulter du Commandement, l’amour en est la présupposition - à l’inverse de la morale du devoir kantien.

C’est à partir des écrits de Jean et des Béatitudes que doivent se lire les intuitions fondatrices qui en rendent intelligibles les paradoxes car elle réfèrent à la structure interne de la vie( chap. XI) :

1 - La duplicité de l’apparaître : tout se montre à nous de deux façons, de même que notre corps. Il y a d’un côté la vérité pathétique et inextatique de la Vie, de l’autre l’horizon de visibilité du monde, sa vérité extatique. Cette coexistence peut donner lieu à un comportement comme la feinte de l’hypocrisie qui joue sur cette duplicité que démasque le Christianisme en renversant une connaissance rationnelle fondée sur la perception : « ceux qui n’ont pas la connaissance n’entreront pas au royaume de Dieu ».

2 - L’intuition de la structure antinomique de la vie, qu’expriment les paradoxes des Béatitudes. « Heureux ceux qui souffrent » exprime la co-appartenance originelle du souffrir et du jouir, la réversibilité du premier dans le second, un se subir soi-même qui est en même temps entrée en possession de soi. C’est cette structure réversible du pathos qui fonde le sens des Béatitudes, car la plénitude de la vie - « malheur aux riches » - peut céder la place au Désir qu’aucun objet ne viendra combler.

3 - Différence qui sépare la Vie du vivant : la malédiction, « malheur à vous qui êtes repus » s’adresse à ceux qui, oubliant leur condition, éprouvent la vie comme leur bien propre. Car il y a la Faim, la grande Déchirure, « ce manque terrifiant en chaque ego de ce qui le donne à lui-même », que seule peut apaiser la Vie absolue dans la seconde naissance.

4 - Situation aporétique : la différence entre l’auto-affection de la Vie absolue qui s’apporte elle-même en soi et celle de l’ego, donné à lui-même sans y être pour rien et qui est « submergé par l’hyperpuissance de la vie », parce qu’en fait il n’y a qu’une auto-affection, celle de la Vie absolue. D’où la situation paradoxale de l’ego qui n’existe point par soi : « Celui qui aura trouvé la vie pour lui la perdra et celui qui aura perdu la vie à cause de moi la trouvera »

XII - La Parole de Dieu. Les Ecritures

Ce chapitre revient sur ce qui a été écarté au début - fiabilité des textes du Nouveau testament, histoire etc. - et traite de ce dernier paradoxe : les Ecritures revendiquant la transmission de la Parole de Dieu, comment surmonter la carence ontologique du langage ? En réalité, il faut distinguer la parole humaine de cette autre Parole qui ne comprend ni signifiant ni signifié, ne vient pas d’un locuteur, est antérieure à tout interlocuteur et qui nous permet de comprendre les Ecritures. Car la parole humaine doit prendre appui sur le langage qui ne peut dire la chose que s’il la donne à voir, relève de la vérité du monde et crée un écart avec ce qu’il désigne. Cette parole est incapable de nous mettre en rapport avec la Vie qui ne se montre dans aucun dehors, exclut l’irréalité et ne connaît que la plénitude du vivre.

Comment la Parole divine révèle-t-elle et que dit-elle ? Elle est Logos de Vie, se révèle elle-même dans sa phénoménalité pathétique et ne révèle rien d’autre. Elle ne soutient aucune référence aux choses de ce monde, elle n’est pas action mais génération qui est auto-génération. Elle parle au commencement dans ce Logos qui est auto-révélation comme Parole. Elle est amour et dit à chaque vivant sa propre vie, « j’entends à jamais le bruit de ma naissance ». Car ce n’est pas la Parole des Ecritures qui nous donne à entendre la Parole de la Vie, c’est elle en nous engendrant qui réalise sa propre vérité.

Pourquoi le Christ a-t-il dit cela dans une parole d’homme ? A cause de l’oubli par ce dernier de la condition de Fils, car l’essence phénoménologique de la vie « est le plus grand Oubli, l’Immémorial auquel aucune pensée ne conduit [ ]Seul le Dieu peut nous faire croire en lui, mais il habite notre propre chair.. »

XIII - Le Christianisme et le monde

L’objection majeure faite au Christianisme de détourner l’homme de ce monde est ici balayée. Ce reproche a été notamment formulé par le jeune Hegel avec sa critique de « la belle âme » qui brise la réalité en un invisible qui est pur vide, opposé à la réalité visible. C’est oublier que le Christianisme n’a rien de vaporeux, la seule réalité pour lui est la vie. Et c’est parce que la vie est invisible que la réalité l’est également : faim, souffrance, plaisir, angoisse, ennui, ivresse s’éprouvent hors monde. L’éthique chrétienne se fonde sur l’agir qui constitue l’action effective, non un processus objectif mais un « je peux » individuel, édifiant dans l’invisible. Loin de méconnaître la vérité du monde, le Christianisme la circonscrit. Il constitue la voie d’accès qui conduit à ce qui est réel dans le monde et qui ne doit rien à l’apparaître de celui-ci. M.H. cite à l’appui l’analyse de Marx sur le travail vivant, invisible, subjectif, individuel, qui fait la preuve de l’invisibilité de la vie.

Quant à la question d’autrui, elle doit être également soustraite à cette erreur : concevoir le rapport à autrui comme rapport à un être situé dans le monde, individu empirique porteur de caractères mondains. Autrui est un autre moi, il est Fils de Dieu et sa généalogie humaine n’a pas lieu d’être. L’autodonation de la Vie est identique en chacun. La relation à un moi quelconque présuppose notre relation avec le pouvoir qui l’a joint à lui-même. Avec cette conséquence pour l’éthique : aimer Dieu, aimer le prochain comme soi-même.

Car c’est une erreur de la philosophie moderne de penser la relation à autrui à partir de l’ego que je suis : il faut partir de la possibilité des « ego » en général, celle d’un Soi transcendantal tenant son ipséité de l’Ipséité de la Vie absolue, la relation entre les « ego » doit le céder à la relation entre les Fils, la Vie est être-en-commun.

Conclusion : Le Christianisme et le monde moderne

La pensée moderne repose sur le renforcement de l’approche traditionnelle selon laquelle l’homme est lié à la connaissance que nous pouvons en avoir, connaissance conçue comme scientifique et non comme accès de l’homme à sa propre essence. Dans le champ ouvert par la science moderne, l’homme en tant que tel n’existe pas, négation qui équivaut à celle de Dieu - réductionnisme non voulu par la science mais inévitable et effectif.

La défense de l’homme véritable, transcendantal, est la tâche de la philosophie mais la pensée moderne l’a trop oublié. Que reste-t-il de l’homme hors de la Vérité de la Vie, dans la vérité du monde, ce monde qui aujourd’hui est d’une certaine façon l’Anti-Christ et dont l’agir est réduit à la technique, faisant de l’homme un automate ?

Toutefois «les hommes voudront mourir - mais non la Vie.»

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Site officiel de Michel Henry - Responsable du site : Anne Henry



Intorno a questi temi, nel sito e in rete, si cfr.:

Una premessa .... di civiltà. La lezione di Kafka.

Chi siamo noi in realtà? Relazioni chiasmatiche e civiltà.

Sull’uscita dallo stato di minorità, oggi. L’"amore conoscitivo". In memoria di Kurt H. Wolff

La Fenomenologia dello Spirito ... dei "Due Soli"

TUTTO A "CARO-PREZZO": QUESTO "IL VANGELO CHE ABBIAMO RICEVUTO". IL VANGELO DI RATZINGER, BERTONE, RUINI, BAGNASCO E DI TUTTI I VESCOVI.

-  SVOLTA IN FRANCIA. DALLA CARITA’ ("CHARITE’") DI PASCAL ALLA CARITA’ DI PAPA RAZTINGER ("DEUS CARITAS EST", 2006), DALLA CHIAREZZA DI CARTESIO ALLA "CONFUSIO-NE" ("COMMUNIO") DI J.-L. MARION ....
-  IL PRESIDENTE SARKOZY E IL FILOSOFO J.-L. MARION: DALL’ACCOGLIENZA DELLA DIVERSITA’ ALLA DIFESA DELL’IDENTITA’, ’NAZIONALE’ E ’CATTOLICA’.


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