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DIRITTI E POLITICA. "SANA LAICITA’, SANA RELIGIOSITA’". RIAPRIRE IL DIALOGO SUI VALORI DELLA VITA - di Stefano Rodotà - selezione a cura di san Federico La Sala

giovedì 11 maggio 2006.
 

[...] Bisogna riprendere una discussione costituzionale, perché ai principi e ai diritti sanciti nella prima parte della Costituzione si contrappongono valori cristiani di cui si afferma in modo perentorio l’essenzialità e l’irrinunciabililità. Viene così sostanzialmente negata una doppia legittimità: quella dello Stato di intervenire autonomamente in una serie di materie; quella dei singoli di autodeterminarsi nelle questioni riguardanti vita e salute (come vogliono gli articoli 13 e 32 della Costituzione, richiamati proprio nel caso Welby), di costruire liberamente la propria personalità (lo dice l’articolo 2), di veder tutelate le scelte esistenziali nella diversità delle formazioni sociali (sempre l’articolo 2, qui a proposito delle unioni di fatto). Se questa linea trovasse accoglimento, anche parziale, il quadro istituzionale della Repubblica sarebbe drammaticamente modificato.

La via d’uscita da questi travagli e da questi dilemmi non può essere quella, vecchia, del riconoscimento ai singoli parlamentari della libertà di coscienza. Non è la loro libertà a dover essere salvaguardata, ma quella di ciascuno di noi. "La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana", dice con il suo bel linguaggio la Costituzione proprio nell’articolo 32. E’ la coscienza individuale, con i suoi tormenti, a dover essere rispettata da un legislatore al quale si addice la sobrietà e, nei casi limite, il silenzio. Inoltre, convenendo che vi sia un’area "indecidibile" per il legislatore e rimessa alle decisioni individuali nel quadro di principi generali, si troverebbe una regola capace di evitare conflitti laceranti là dove una o più delle parti politiche faccia riferimento a valori ritenuti non negoziabili. [...]

RIAPRIRE IL DIALOGO SUI VALORI DELLA VITA

di Stefano Rodotà (La Repubblica, 10.05.2006)

Diciamo la verità. L’ormai noto dialogo sulla vita tra il cardinale Carlo Maria Martini e il chirurgo Ignazio Marino, è un buon documento "relativista", nel senso che manifesta la possibilità di un confronto che non trasformi i valori in pregiudizio, ideologia, fondamentalismo. Quindi aperture limitate, ma significative, su fecondazione eterologa, contraccezione, adozione da parte di persone sole, aborto, direttive sulla fine della vita.

Battute a parte, vale la pena di tornare su quel dialogo per cercar di trarre qualche auspicio sul modo in cui la legislatura appena iniziata dovrebbe affrontare i temi dell’esistenza di ciascuno di noi nella dimensione sempre più complessa segnata dall’innovazione scientifica e tecnologica. E subito una considerazione. Sul modo in cui i due interlocutori affrontano specifiche questioni si può certo essere critici (penso in particolare ad alcune faticose e contraddittorie argomentazioni, quasi espedienti, per quanto riguarda l’adozione da parte di persone sole e le cellule staminali). Ma il tono della discussione e gli argomenti adoperati sono lontanissimi dall’approssimazione con la quale si discusse in Parlamento sulla procreazione assistita e dall’aggressività che ha segnato la campagna elettorale di chi fu contrario al referendum su quella legge.

Intendiamoci. Non si dicono cose sostanzialmente nuove. In più di un caso, anzi, si riecheggiano argomenti che, nelle discussioni passate, erano stati avanzati proprio da chi si opponeva alle posizioni fondamentaliste. E questo è un buon segno, non solo perché così si prendono le distanze da orientamenti ufficiali delle gerarchie ecclesiastiche, ma soprattutto perché si fa un passo concreto verso l’individuazione di aree dove è possibile il confronto libero e la ricerca di soluzioni comuni non è bloccata da chiusure pregiudiziali.

Una prima conclusione, allora. Se davvero vogliamo uscire dalla regressione culturale e politica nella quale siamo stati trascinati in questi anni, è indispensabile cambiare registro Martini e Marino ci dicono che non ci sono steccati da abbattere. Sono entrambi cattolici, ma parlano il linguaggio della ragione, rendono evidente che su molti punti, anche determinanti, non siamo di fronte ad insuperabili questioni di fede. Fanno emergere con nettezza, anche se con parole pacate, le insensatezze che segnano, ad esempio, una legge come quella sulla procreazione assistita. E così confermano che il metodo ideologico, come ben sapevamo, non solo produce forzature autoritarie, ma cattive regole.

Vero destinatario di queste indicazioni dovrebbe esse il nuovo Parlamento. Non sarà facile, il clima generale non è propizio, ma forse l’essersi lasciati alle spalle la fase elettorale, con la rincorsa ad ogni costo del voto cattolico, dovrebbe rendere meno incombente «il rischio di cadere in facili contrapposizioni e strumentalizzazioni che non portano alcun vantaggio se non quello di creare fratture nella società» (così il cardinal Martini). Le fratture sono già state provocate, e compito di chi vuol governare con occhio lungimirante è quello di cercar di comporle, non di far finta che non ci siano state. Se, ad esempio, non si ha l’intelligenza politica necessaria per raccogliere le fondate suggestioni critiche riguardanti le norme sulla procreazione assistita, la legge continuerà ad essere aggirata dal "turismo procreativo", con una permanente delegittimazione del Parlamento, e permarrà uno stato di conflittualità sociale.

Questo accade perché è viva tra moltissimi cittadini la consapevolezza d’essere stati strumentalizzati, d’aver subito per ragioni di convenienza politica o ideologica la negazione di loro diritti e di aver ragione di ritenere che si voglia ancora proiettare nel futuro una attitudine proibizionista. Leggiamo di nuovo le parole di Martini: «a mio avviso non serviranno tanto i divieti e i no, soprattutto se prematuri, anche se servirà qualche volta saperli dire». Rivolto alla Chiesa, questo monito dovrebbe esser fatto proprio anche dal Parlamento. Oggi, e non in Italia soltanto, uno dei grandi temi di riflessione riguarda proprio i limiti del diritto, i casi e le modalità del ricorso legittimo allo strumento legislativo. Di fronte ai dilemmi posti dalla scienza si continua a pensare che la soluzione politica sia rappresentata dal riconoscere a ciascun parlamentare la libertà di coscienza al momento della decisione. Si trascura così il cuore del problema, che consiste appunto in una valutazione preventiva intorno al "se" della decisione, all’opportunità stessa del legiferare quando la coscienza da rispettare non è quella di deputati e senatori, ma quella delle donne e degli uomini che devono poter governare la loro esistenza. E che, quindi, non devono essere espropriati della libertà di decisione, ma messi in grado di esercitarla responsabilmente, allo stesso modo degli scienziati, per i quali «non si tratta di appellarsi alla fede o alla religione ma di puntare su una presa di coscienza» (così Ignazio Marino). La democrazia è anche sobrietà e rispetto.

Per rimuovere i pesanti macigni posti sulla via del riconoscimento della libertà delle persone, e per tornare ad una discussione sui valori che li misuri sempre sulla concretezza e sui drammi dell’esistenza, conviene considerare più da vicino l’intero sistema delle regole. Qui si scoprono opportunità che, curiosamente, nel dialogo tra Marino e Martini vengono talvolta ignorate. Per il cosiddetto testamento biologico, ad esempio, non vi è una decisione da prendere. Il Parlamento italiano lo ha già fatto nel 2001 quando ha ratificato la Convenzione sulla biomedicina e i diritti dell’uomo. Qui, all’articolo 9, si stabilisce esplicitamente che «per gli interventi medici su un paziente che al momento dell’intervento non è in grado di manifestare la sua volontà, devono essere presi in considerazione i desideri da lui precedentemente espressi». Si potrà discutere su qualche dettaglio, ma la sostanza è lì, nettamente espressa.

Indicazioni concrete per quanto riguarda la fine della vita possono poi essere tratte da diverse norme, da regole del codice di deontologia medica, da decisioni giudiziarie. L’accanimento terapeutico è proscritto, e si tratta piuttosto di sciogliere dubbi interpretativi, come quelli che riguardano l’interruzione di trattamenti di sostegno vitale, quelli che furono all’origine delle controversie sul caso di Terry Schiavo e che, in Italia, riguardano l’interminata odissea di Eluana Englaro. Su questo tema esistono le conclusioni di una commissione istituita da Umberto Veronesi quand’era ministro della Sanità. Perché non riprenderle in considerazione?

Andando solo apparentemente fuori del seminato, perché si tratta pur sempre di questioni di vita, si può ricordare che anche nella controversa materia dei Pacs esistono principi già accettati dal Parlamento italiano che, votando la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ha chiaramente accettato la distinzione tra il matrimonio tradizionale ed altre forme di costituzione della famiglia, anche tra persone dello stesso sesso, com’è detto nell’articolo 9. E questa interpretazione è stata acquisita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo con una sentenza del 2002, che ha abbandonato gli orientamenti restrittivi adottati precedentemente dalla stessa Corte.

Ragionando seriamente sulla realtà e sulle norme, dunque, si potrebbe uscire dalle strettoie soffocanti del recente passato e sottrarsi al ritornello, ripetuto da troppe parti, della deriva zapaterista. La Spagna e Zapatero non piacciono? Diamo uno sguardo al Belgio, allora, e lì scopriremo norme sul suicidio assistito, sui Pacs, sulle adozioni da parte di gay? Dobbiamo guardarci anche da una deriva belga? O queste sono tutte manifestazioni concrete di un uso non oppressivo della legge sul quale tutti dobbiamo senza più indugi ragionare?


I DIRITTI E LA POLITICA

di Stefano Rodotà (La Repubblica, 27/12/2006)

Le politiche dei diritti civili generano conflitti, scavano fossati, alimentano polemiche spesso strumentali. Lo ha confermato la vicenda drammatica di Piergiorgio Welby. E le divisioni non passano soltanto tra maggioranza e opposizione. Si manifestano all’interno dei due poli, sono create e adoperate nell’infinita guerriglia che accompagna il cammino travagliato verso il Partito democratico.

A queste difficoltà si cerca di sfuggire negandole o aggirandole. Il Presidente del consiglio dice che gli italiani non sono interessati alle unioni di fatto o ai temi del morire con dignità, ma alle questioni economiche. I saggi incaricati della stesura del manifesto del Partito democratico rimuovono la questione della laicità, rifugiandosi in ciò che si ricava da una antica sentenza della Corte costituzionale.

Ma queste non sono soltanto fughe dalla realtà. Sono errori politici, figli di una perdurante presunzione che fa ritenere che l’agenda politica sia affare di un ceto ristretto, che può farla e disfarla a proprio piacimento ascoltando, invece della voce dei cittadini, quella dei consulenti per la comunicazione e l’immagine. Una politica cosmetica prende così il posto di quella vera, ma non ce la fa più a nascondere vecchiaia e rughe.

Non è la prepotenza dei radicali o l’enfasi dei mezzi d’informazione a mettere le questioni di vita al centro della scena politica e sociale. Basta guardarsi intorno per rendersi subito conto che di questi temi si discute intensamente ovunque, che i parlamenti intervengono con misura, che i giudici adattano a situazioni concrete principi generali e mantengono così in sintonia il sistema giuridico con le esigenze che via via si manifestano nella società. Negli Stati Uniti si è detto che le ultime elezioni di novembre hanno visto una più ampia partecipazione anche perché erano accompagnate da referendum su matrimoni gay e suicidio assistito, aborto e salario minimo, dunque proprio dai temi che hanno individuato una nuova, e non più eludibile, dimensione della libertà e della dignità delle persone.

Dalle nostre parti continuiamo ad accumulare ritardi, a ripetere la giaculatoria della "deriva zapaterista" da evitare, ad avvolgere di parole i problemi cercando di congelarli in formulette all’interno di un chilometrico programma elettorale. Poi un giorno arriva Piergiorgio Welby, fa saltare equilibrismi e compromessi e sconvolge il tran-tran politico, come fece nel 1955 Rosa Parks rifiutando di cedere il posto ad un bianco nella zona riservata di un autobus di Montgomery, Alabama, così rendendo non più rinviabile la questione della segregazione razziale.

Per affrontare una situazione così mobile e complessa, servirebbe una cultura adeguata, che non c’è. Lo riconosce lo stesso mondo politico, e dintorni, che affannosamente crea centri studi e fondazioni, riviste e scuole di politica, ma ancora sembra che tutto questo serva soprattutto a rafforzare identità incerte, a manifestare in modo ancora più evidente la parzialità di ciascuno, rendendo così difficile il confronto e il dialogo. La verità è che il circuito tra politica e cultura si è interrotto da tempo. Le oligarchie politiche, sempre più aggressive e insicure, vivono con diffidenza il rapporto con il mondo degli studi, preferendo consiglieri compiacenti.

Non è sempre stato così. Se si torna con la memoria alle vere stagioni riformatrici, ci si imbatte, per fare solo qualche esempio, nello statuto dei lavoratori, per il quale si riconosce giustamente grande merito a Gino Giugni, che con la sua persona rese evidente il rapporto profondo, e niente affatto strumentale, che s’era istituito tra sindacato e nuova scuola di diritto del lavoro; nella chiusura dei manicomi, nella "Legge Basaglia", che porta appunto il nome non di un parlamentare, ma dell’esponente di punta della critica alle "istituzioni totali"; nella riforma del diritto di famiglia, che sarebbe stata impossibile senza un rinnovamento degli studi di diritto civile che permise di travolgere le resistenze di chi, arroccato intorno ad una interpretazione chiusa della norma costituzionale sulla famiglia fondata sul matrimonio, voleva impedire il riconoscimento di pari diritti ai figli nati fuori di esso (oggi quella logica chiusa e impietosa torna nella resistenza al riconoscimento delle unioni di fatto). Certo, in quelle occasioni altro era l’ambiente sociale, altro il ruolo dei partiti politici. Ma buona politica e buona cultura trovavano momenti di sintonia, e questo contribuiva ad evitare che le distanze tra politica e società divenissero troppo marcate.

Questo aspetto del problema è divenuto particolarmente importante perché si sta svolgendo una vera lotta per l’egemonia culturale, protagonista la Chiesa. Non si tratta di misurare il grado di "ingerenza" accettabile, di discutere intorno al ruolo della religione nella sfera pubblica, valutando così la legittimità di quello che, con cadenze ormai quotidiane, dicono il Pontefice e i cardinali. Bisogna riprendere una discussione costituzionale, perché ai principi e ai diritti sanciti nella prima parte della Costituzione si contrappongono valori cristiani di cui si afferma in modo perentorio l’essenzialità e l’irrinunciabililità. Viene così sostanzialmente negata una doppia legittimità: quella dello Stato di intervenire autonomamente in una serie di materie; quella dei singoli di autodeterminarsi nelle questioni riguardanti vita e salute (come vogliono gli articoli 13 e 32 della Costituzione, richiamati proprio nel caso Welby), di costruire liberamente la propria personalità (lo dice l’articolo 2), di veder tutelate le scelte esistenziali nella diversità delle formazioni sociali (sempre l’articolo 2, qui a proposito delle unioni di fatto). Se questa linea trovasse accoglimento, anche parziale, il quadro istituzionale della Repubblica sarebbe drammaticamente modificato.

La via d’uscita da questi travagli e da questi dilemmi non può essere quella, vecchia, del riconoscimento ai singoli parlamentari della libertà di coscienza. Non è la loro libertà a dover essere salvaguardata, ma quella di ciascuno di noi. "La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana", dice con il suo bel linguaggio la Costituzione proprio nell’articolo 32. E’ la coscienza individuale, con i suoi tormenti, a dover essere rispettata da un legislatore al quale si addice la sobrietà e, nei casi limite, il silenzio. Inoltre, convenendo che vi sia un’area "indecidibile" per il legislatore e rimessa alle decisioni individuali nel quadro di principi generali, si troverebbe una regola capace di evitare conflitti laceranti là dove una o più delle parti politiche faccia riferimento a valori ritenuti non negoziabili.

Il caso Welby lascia una eredità pesante. Vi è il rischio che, con l’argomento o il pretesto della necessità di risolvere le questioni discusse in questo periodo, si rimetta in discussione quello che già è acquisito in materia di inammissibilità dell’accanimento terapeutico e di diritto al rifiuto di cure, sciogliendo qualche dubbio residuo in senso negativo e introducendo così limiti al potere individuale di governare liberamente il tempo del morire. E’ già accaduto quando si aprì in modo improvvido, e culturalmente approssimativo, il tema della procreazione medicalmente assistita, portandoci ad una legge assurdamente proibizionista.

Non si dia retta ai cattivi consiglieri che vorrebbero chiudere in definizioni rigide, in casistiche definite una volta per tutte, una nozione necessariamente fluida come "accanimento terapeutico", che proprio nell’apparente sua vaghezza trova la possibilità di adattarsi a situazioni sempre diverse, quali sono appunto quelle in cui si trova ciascun morente. Il codice deontologico già obbliga il medico ad "astenersi dall’ostinazione in trattamenti da cui non si possa fondatamente attendere un beneficio per l’assistito e/o un miglioramento della qualità della vita". E’ una indicazione chiara, che una pratica sempre più pubblica e condivisa consentirà di precisare senza impropri interventi legislativi.

Non si accetti l’interpretazione restrittiva della nozione di "trattamento" escludendo quelli di semplice sostegno vitale dalla possibilità del rifiuto. Anzi, sono proprio la ventilazione e l’idratazione forzata a trascinare la sopravvivenza oltre i limiti dell’ammissibile, rendendo obbligatorio per la persona quel che più è in contrasto con la sua dignità e che, proprio per questo, la Costituzione non ammette..

Non si adoperi la discussione parlamentare sul testamento biologico per farne uno strumento burocratico, irto di divieti e di formalismi. L’esperienza di altri paesi è limpida, fornisce dati empirici significativi, dovrebbe fugare i dubbi residui. Si risolva rapidamente questo non difficile problema, e si affronti con mente sgombra da pregiudizi l’unica questione ancora aperta, quella del suicidio assistito.

A chi teme che, insistendo sul diritto di morire con dignità, si lanci ai morenti un messaggio disperato, quasi che l’accelerare il momento della morte sia l’unica via percorribile, si chieda di abbandonare una contrapposizione astratta e fuorviante tra cultura della morte e cultura della vita, quasi che il morire non sia esso stesso momento essenziale della vita. Da questa va allontanata la sofferenza, e sempre salvaguardata la dignità. I morenti devono poter scegliere liberi da ogni forma di abbandono. Si insista, allora, sull’assistenza domiciliare, sul sostegno ai familiari, sulle cure palliative. Ma questo vuol dire impiego di risorse pubbliche, servizi in grado di garantire eguaglianza di fronte al dolore, superamento di situazioni che, in Italia, vedono da Roma in su 125 centri antidolore e solo 5 nel Mezzogiorno. L’opposto, dunque, delle derive privatistiche che ci affliggono. Qui è il legittimo campo per il legislatore, il banco di prova per una politica davvero umana.


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