EBRAISMO E DEMOCRAZIA. PER LA PACE E PER IL DIALOGO, QUELLO VERO, PER "NEGARE A HITLER LA VITTORIA POSTUMA" (Emil L. Fackenheim, "Tiqqun. Riparare il mondo")

ISRAELE E IL NODO ANCORA NON SCIOLTO DI ADOLF EICHMANN. FARE CHIAREZZA: RESTITUIRE L’ONORE A KANT E RICONCILIARSI CON FREUD. Alcune note - di Federico La Sala

A EMIL L. FACKENHEIM. (...) il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?”
sabato 2 agosto 2014.
 

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.


Premessa

KANT E L’USCITA DALLO STATO DEL FARAONE, DALLO STATO DI MINORITA’.

Uscire dall’Egitto non è un giochino né una passeggiata. Mettersi sulla strada della liberazione significa attraversare il deserto, affrontare una “discesa all’Averno”! Come sa e insegna Kant, per uscire dallo stato di minorità, occorre “il coraggio di servirsi del proprio intelletto senza esser guidati da un altro”. E la cosa è difficile sia dal lato del coraggio sia dal lato del servirsi del proprio intelletto: è “difficile per ogni singolo uomo districarsi dalla minorità che per lui è diventata una seconda natura. E’ giunto perfino ad amarla”. Inoltre, a “far sì che la stragrande maggioranza degli uomini (e con essi tutto il bel sesso) ritenga il passaggio allo stato di maggiorità, oltreché difficile, anche molto pericoloso, provvedono già quei tutori che si sono assunti con tanta benevolenza l’alta sorveglianza sopra costoro”(I. Kant, Risposta alla domanda: che cosa è l’illuminismo, 1783).

Pensare è interpretare. La critica è un esame e un giudizio (I. Kant, “I sogni di un visionario spiegati con i sogni della metafisica”, 1766), per decidere in che direzione andare! Quale Legge seguire come criterio? La Legge del Faraone o la Legge di Mosè - del “Super-Io” o dell’“Oltre-Io”?

Restare in Egitto è restare minorenni per sempre. Pensare da sé, orientarsi nel pensiero, non è facile: “significa cercare in se stessi (vale a dire nella propria ragione) il criterio supremo della verità”, significa “chiedere a se stessi, in tutto ciò che si deve accogliere, se si ritiene fattibile che il fondamento in base a cui lo si accoglie, o anche la regola che consegue a quel che si accoglie, vengano elevati a principio universale dell’uso della nostra ragione. Ognuno può fare su stesso questo esperimento, e vedrà che in quest’esame la superstizione e l’esaltazione ben presto si dilegueranno, anche se egli stesso non avesse le cognizioni necessarie a confutare entrambe con argomenti oggettivi. Egli infatti si serve esclusivamente della massima dell’autoconservazione della ragione”(I. Kant, Che cosa significa orientarsi nel pensiero, 1786).

Questo esame comporta un “esame di noi stessi, il quale richiede che si scruti l’abisso del cuore sino nelle sue profondità più nascoste (...) che egli cominci a sbarazzarsi di ogni ostacolo interno (creato dalla cattiva volontà che si annida in lui), e che s’affatichi poi a sviluppare in sé le innate disposizioni di una buona volontà, che non possono mai andare interamente perdute. Soltanto la discesa all’Averno della conoscenza di noi stessi apre la via che innalza all’apoteosi” (I. Kant, La metafisica dei costumi, 1797 - Laterza, Bari 1983, p. 302).

1. GERUSALEMME, 1961: KANT, ADOLF EICHMANN, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI HEIDEGGER. L’ABBAGLIO DI HANNAH ARENDT PRIMA E DI EMIL L. FACKENHEIM DOPO.

A. ADOLF EICHMANN CHIARISCE COME E’ DIVENUTO “ADOLF EICHMANN”, MA HANNAH ARENDT TESTIMONIA CONTRO SE STESSA E BANALIZZA: “IO PENSO VERAMENTE CHE EICHMANN FOSSE UN PAGLIACCIO”(H. ARENDT, Che cosa resta? Resta la lingua materna. Conversazione di Hannah Arendt con Gunther Gaus, 1964 - in "Aut Aut", 239-240, 1990)

“La conferenza di Wannsee, ovvero Ponzio Pilato”. Nel capitolo settimo di La banalità del male (Feltrinelli, Milano 2007) Hannah Arendt affronta “il discorso sulla coscienza” di Adolf Eichmann. Seguendo il filo delle sue dichiarazioni, ella scrive che il vero e proprio punto di svolta della sua vita,“il momento cruciale”, avvenne “nel gennaio del 1942, quando ebbe luogo la conferenza che i nazisti usarono chiamare dei segretari di Stato, ma che oggi è più nota con nome di Conferenza di Wannsee, dal sobborgo di Berlino in cui fu convocata da Himmler” (p. 120):

“(...) quella giornata fu indimenticabile per Eichmann. Benché egli avesse fatto del suo meglio per contribuire alla soluzione finale, fino ad allora aveva sempre nutrito qualche dubbio su “una soluzione cosí violenta e cruenta”. Ora questi dubbi furono fugati. “Qui, a questa conferenza, avevano parlato i personaggi piú illustri, i papi del Terzo Reich”. Ora egli vide con i propri occhi e udí con le proprie orecchie che non soltanto Hitler, non soltanto Heydrich o la “sfinge” Muller, non soltanto le SS o il partito, ma i piú qualificati esponenti dei buoni vecchi servizi civili si disputavano l’onore di dirigere questa “crudele” operazione. “In quel momento mi sentii una specie di Ponzio Pilato, mi sentii libero da ogni colpa”. Chi era lui, Eichmann, per ergersi a giudice? Chi era lui per permettersi di “avere idee proprie”? Orbene: egli non fu né il primo né l’ultimo ad essere rovinato dalla modestia.

Così la sua attività prese un nuovo indirizzo, divenendo ben presto un lavoro spicciolo, di tutti i giorni. Se prima egli era stato un esperto in “emigrazione forzata”, ora diventò un esperto di “evacuazione forzata”. In un paese dopo l’altro gli ebrei dovettero farsi schedare, furono costretti a portare il distintivo giallo per essere riconoscibili a prima vista, furono rastrellati e deportati e i vari convogli vennero spediti a questo o a quel campo di sterminio dell’Europa orientale, a seconda del “posto” disponibile in quel dato momento” (p. 122 - c.vi miei, fls).

“I doveri di un cittadino ligio alla legge” - dell’Imperatore-Dio. Nel capitolo ottavo, il resoconto prosegue, e così inizia:

“Eichmann ebbe dunque molte occasioni di sentirsi come Ponzio Pilato, e col passare dei mesi e degli anni non ebbe più bisogno di pensare. Così stavano le cose, questa era la nuova regola, e qualunque cosa facesse, a suo avviso la faceva come cittadino ligio alla legge. Alla polizia e alla Corte disse e ripeté di aver fatto il suo dovere, di avere obbedito non soltanto a ordini, ma anche alla legge.

Eichmann aveva la vaga sensazione che questa fosse una distinzione importante, ma né la difesa né i giudici cercarono di sviscerare tale punto. Oltre ad aver fatto quello che a suo giudizio era il dovere di un cittadino ligio alla legge, egli aveva anche agito in base a ordini - preoccupandosi sempre di essere“coperto” -, e perciò ora si smarrì completamente e finì con l’insistere alternativamente sui pregi e sui difetti dell’obbedienza cieca, ossia dell’“obbedienza cadaverica”, Kadauergehorsam, come la chiamava lui.

La prima volta che Eichmann mostrò di rendersi vagamente conto che il suo caso era un po’ diverso da quello del soldato che esegue ordini criminosi per natura e per intenti, fu durante l’istruttoria, quando improvvisamente dichiarò con gran foga di aver sempre vissuto secondo i principî dell’etica kantiana, e in particolare conformemente a una definizione kantiana del dovere.

L’affermazione era veramente enorme, e anche incomprensibile, poiché l’etica di Kant si fonda soprattutto sulla facoltà di giudizio dell’uomo, facoltà che esclude la cieca obbedienza. Il giudice istruttore non approfondì l’argomento, ma il giudice Raveh, vuoi per curiosità, vuoi perché indignato che Eichmann avesse osato tirare in ballo il nome di Kant a proposito dei suoi misfatti, decise di chiedere chiarimenti all’imputato. E con sorpresa di tutti Eichmann se ne uscì con una definizione più o meno esatta dell’imperativo categorico: “Quando ho parlato di Kant, intendevo dire che il principio della mia volontà deve essere sempre tale da poter divenire il principio di leggi generali” (il che non vale, per esempio, nel caso del furto o dell’omicidio, poiché il ladro e l’omicida non possono desiderare di vivere sotto un sistema giuridico che dia agli altri il diritto di derubarli o di assassinarli).

Rispondendo ad altre domande, Eichmann rivelò di aver letto la Critica della ragion pratica di Kant, e quindi procedette a spiegare che quando era stato incaricato di attuare la soluzione finale aveva smesso di vivere secondo i principî kantiani, e che ne aveva avuto coscienza, e che si era consolato pensando che non era più “padrone delle proprie azioni”, che non poteva far nulla per “cambiare le cose”.

Alla Corte non disse però che in questo periodo “di crimini legalizzati dallo Stato” - così ora lo chiamava - non solo aveva abbandonato la formula kantiana in quanto non più applicabile, ma l’aveva distorta facendola divenire: “agisci come se il principio delle tue azioni fosse quello stesso del legislatore o della legge del tuo paese”, ovvero, come suonava la definizione che dell’“imperativo categorico nel Terzo Reich” aveva dato Hans Frank e che lui probabilmente conosceva: “agisci in una maniera che il Fuhrer, se conoscesse le tue azioni, approverebbe” (Die Technik des Staates, 1942, pp. 15-16).

Certo, Kant non si era mai sognato di dire una cosa simile; al contrario, per lui ogni uomo diveniva un legislatore nel momento stesso in cui cominciava ad agire: usando la “ragion pratica” ciascuno trova i principî che potrebbero e dovrebbero essere i principî della legge. Ma è anche vero che l’inconsapevole distorsione di Eichmann era in armonia con quella che lo stesso Eichmann chiamava la teoria di Kant “ad uso privato della povera gente”. In questa versione ad uso privato, tutto ciò che restava dello spirito kantiano era che l’uomo deve fare qualcosa di più che obbedire alla legge, deve andare al di là della semplice obbedienza e identificare la propria volontà col principio che sta dietro la legge - la fonte da cui la legge è scaturita. Nella filosofia di Kant fonte era la ragion pratica; questa, per Eichmann, era la volontà del Fuhrer.

Buona parte della spaventosa precisione con cui fu attuata la soluzione finale (una precisione che l’osservatore comune considera tipicamente tedesca o comunque caratteristica del perfetto burocrate) si può appunto ricondurre alla strana idea, effettivamente molto diffusa in Germania, che essere ligi alla legge non significa semplicemente obbedire,ma anche agire come se si fosse il legislatore che ha stilato la legge a cui si obbedisce. Da qui la convinzione che occorra fare di più di ciò che impone il dovere.

Qualunque ruolo abbia avuto Kant nella formazione della mentalità dell’ “uomo qualunque” in Germania, non c’è il minimo dubbio che in una cosa Eichmann seguì realmente i precetti kantiani: una legge è una legge e non ci possono essere eccezioni. A Gerusalemme egli ammise di aver fatto un’eccezione in due casi, nel periodo in cui “ottanta milioni di tedeschi” avevano ciascuno “il suo bravo ebreo”, aveva aiutato una cugina mezza ebrea e una coppia di ebrei viennesi, cedendo alle raccomandazioni di suo “zio”.

Questa incoerenza era ancora un ricordo spiacevole, per lui, e così durante l’interrogatorio dichiarò, quasi per scusarsi, di aver “confessato le sue colpe” ai superiori. Agli occhi dei giudici questa ostinazione lo condannò più di tante altre cose meno incomprensibili, ma ai suoi occhi era proprio questa durezza che lo giustificava, così come un tempo era valsa a tacitare quel poco di coscienza che ancora poteva avere. Niente eccezioni: questa era la prova che lui aveva sempre agito contro le proprie “inclinazioni”, fossero esse ispirate dal sentimento o dall’interesse; questa era la prova che lui aveva fatto sempre il proprio “dovere” (...)" (pp142.144).

B.COME L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DIVENTA L’IMPERATIVO CATEGORICO DI EICHMANN?

Emil L. Fackenheim, nel suo lavoro “Tiqqun. Riparare il mondo”, Medusa Edizioni, Milano, 2010) scrive: “Quando un ebreo pensa a Hitler, ricorda il Faraone, Amalek, Haman: quest’ultimo forse è quello che si avvicina di più al dittatore tedesco. Il Faraone aveva reso schiavi gli Israeliti. Amalek attaccava i più deboli. Ma fu Haman che pianificò di uccidere tutti gli ebrei” (p. 25). Al centro della sua riflessione filosofica e teologica - a partire dal nostro presente storico, dopo Auschwitz e dopo la nascita dello Stato di Israele - è proprio lo sforzo di negare al Faraone, a Hitler, la vittoria postuma.

Ma, se questo è il problema e l’obiettivo, è decisamente grave che un ‘architetto’, che va alla ricerca di nuovi “fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah”, metta fuori campo il contributo di Freud e, in particolare, il suo ultimo lavoro:“L’uomo Mosè e la religione monoteistica” (1938). E dice di una più generale e sintomatica assenza di controllo critico sul suo intero percorso e sulla sua proposta di ‘costruzione’. Non essendo stato giusto con Freud, non lo è stato nemmeno con Kant, il filosofo dell’”uscita dallo stato di minorità” (o, se si vuole, dall’Egitto). E così anche con Mosè - e con se stesso!

Pur essendo fermamente convinto che “solo tenendo saldamenti fermi nel contempo “è” e “non dover essere”, il pensiero può guadagnare una sopravvivenza autentica”, che “il pensiero cioè deve assumere la forma della resistenza”, e, ancora, che “il pensiero resistente deve puntare oltre la sfera totale del pensiero, a una resitenza che non sia solo nel “mero” pensiero, ma in un’azione pubblica, in una vita in carne e ossa” (op.cit., p.208), alla fine, finisce anch’egli nel cadere nella trappola della “dottrina - largamente citata, largamente diffusa, largamente accettata della banalità del male” (op.cit., p. 206).

In una “Lezione pronunciata l’11 aprile 1993 presso l’Università Martin Luther di Halle-Wittenberg”, dal titolo “Auschwitz come sfida alla filosofia e alla teologia”, Fackenheim dice e scrive: “L’anno è il 1961. Il famigerato omicida di massa Adolph Eichmann (...) catturato dagli agenti israeliani e tratto da Buenos Aires in Israele, è (...) sotto processo a Gerusalemme. Il processo si stava protraendo di molto. A un certo punto i giudici chiedono conto all’accusato delle sue convinzioni personali, e questi menziona l’etica di Kant. I giudici devono aver sobbalzato (...) Tutti e tre erano tedeschi di origine, e in quanto tali dovevano avere una certa dimestichezza con Kant. Uno di essi, Yitzhak Rawe, non riuscì a trattenersi: Potrebbe Eichmann spiegare la filosofia morale di Kant? E con sorpresa di tutti, l’accusato diede una sintesi confusa ma in qualche modo adeguato. L’uomo che probabilmente passerà alla storia come il più grande organizzatore di omicidi di massa, conosceva, credeva e talvolta metteva in pratica pezzi dell’insegnamento di Immanuel Kant, il più grande filosofo tedesco” (cfr. Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo. I fondamenti del pensiero ebraico dopo la Shoah, Milano, Medusa, 2010, , p. 290).

Fackenheim resta abbagliato. Comprende - e condivide con Hannah Arendt (op. cit., p. 300, nota 3) - che “Per Eichmann «Legge» in fin dei conti significava una sola cosa Fuhrerbefehl [ordine del Fuhrer], chiaro netto, inequivocabile. Che avesse letto o no il libro di Hans Frank, imputato nel processo di Norimberga, La tecnica dello Stato, egli obbedì a quella nuova, originale versione dell’Imperativo Categorico promossa dall’autorevole pensatore: «Agisci in modo tale che il Fuhrer, se conoscesse la tua azione, approverebbe»”(op. cit., p. 291). Ma - come Hannah Arendt - non riesce a capire, e il suo precetto di “negare al Faraone la vittoria postuma” diventa solo un ennesimo ‘precetto’.

Tuttavia, se il nodo non sciolto sta come una montagna su tutto il suo lavoro, ha il merito di aver ri-proposto la domanda decisiva: “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (op. cit., p. 293). E non è poco!

Federico La Sala (10.11.2011)


Sul tema, per ulteriori approfondimenti, si cfr.:

KANT, IL “MOSE’ DELLA NAZIONE TEDESCA” E LE ORIGINI DELL’“IMPERATIVO CATEGORICO” DI HEIDEGGER E DI EICHMANN. Alcune note

KANT, UN ALTRO KANT. LA LEZIONE DI MICHEL FOUCAULT E LA SORPRESA DI JURGEN HABERMAS.

CONTRO KANT (E MOSE’), UN FREUD CIECO. Negata la lezione del “Tu devi” di Kant, Freud riesce a liberarsi a stento dal “Super-Io” Faraonico.

FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.


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