"All’ eroe della cultura Mussolini
Con rispetto, Sigmund Freud"
di Massimo Ammaniti (Corriere della Sera, 03.04.1995) *
Nel libro Freud e la ricerca psicologica (a cura di R. Canestrari e P. Ricci Bitti, ed. il Mulino [1993]), c’ e’ da segnalare un episodio poco noto raccontato nel capitolo scritto dallo psicoanalista Glauco Carloni, che ripropone, in una luce probabilmente diversa, il rapporto fra psicoanalisi e fascismo. Lo scenario del racconto e’ Vienna, anche se l’ antefatto e la conclusione sono ambientati in Italia. E’ il 1933, a Vienna serpeggia un clima di allarme, perche’ si avverte anche in Austria il pericolo di una svolta autoritaria e antisemita, come da poco e’ successo in Germania con l’ avvento di Hitler. La comunita’ ebraica e’ in allarme, anche se non tutti condividono queste preoccupazioni confidando nell’ intervento della Societa’ delle Nazioni.
Ma torniamo allo scenario viennese. Tre persone provenienti dall’ Italia giungono a un indirizzo divenuto storico, Berggasse 19. E’ un grigio e austero edificio asburgico dove abita con la sua famiglia Sigmund Freud, l’ eminente psicoanalista ebreo. Freud, molto avanti negli anni e consumato da un tumore con cui sta combattendo da tempo, e’ ancora molto attivo, svolge la sua attivita’ clinica e di ricerca e scrive saggi scientifici con cui allarga la conoscenza del mondo psichico. Dei tre uno e’ un quarantenne allievo di Freud di origine triestina, Edoardo Weiss, con cui il maestro intrattiene da tempo un fitto scambio epistolare.
Insieme a lui c’ e’ un personaggio che non ha nulla a che fare con la psicoanalisi, e’ Giovacchino Forzano, uomo di teatro molto legato al regime fascista, che ha scritto addirittura delle opere teatrali in collaborazione con Mussolini. Con loro c’ e’ una giovane donna che e’ la figlia di Forzano. Che cosa fanno tutti e tre davanti al portone dello studio di Freud? La soluzione la possiamo trovare in una lettera che Freud aveva inviato a Weiss il 12 aprile, in risposta a una lettera del suo allievo che faceva riferimento a "una malata isterica grave, figlia di un importante personaggio politico". Weiss aggiungeva che la paziente, nonostante avesse gia’ raggiunto importanti miglioramenti, aveva manifestato reazioni cosi’ negative verso di lui da allarmare il padre, che aveva sollecitato un consulto con Freud.
A questa richiesta Freud rispondeva nella lettera del 12 aprile: "Per quanto riguarda la sua paziente sono pronto a fare qualsiasi cosa per giovare alla cura della signorina. Ma lei sa che questo giovamento ci si puo’ aspettare sempre solo se la paziente stessa desidera ardentemente l’ incontro. Se si lascia solo accompagnare e poi mi tratta come fa con lei, non possiamo che fare del danno". Non sappiamo che cosa si dissero durante il consulto e se soprattutto fu proprio la figlia di Forzano a volere l’ incontro, o se intervenne con insistenza l’ autorevole padre. Quello che sicuramente sappiamo e’ che al termine dell’ incontro Forzano, probabilmente affascinato dall’ autorevolezza del vecchio maestro, gli chiese un suo libro per portarlo a Mussolini con una dedica indirizzata al Capo del Governo Italiano.
Freud prese dalla sua grande libreria un libro che aveva pubblicato l’anno precedente "Warum Krieg?" (Perche’ la guerra?) e di suo pugno scrisse la dedica, naturalmente in tedesco: "A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel Governante riconosce l’ eroe della cultura". E’ difficile dare un’ adeguata interpretazione della dedica di Freud cosi’ apertamente encomiastica nei confronti di Mussolini. Weiss ritornando su questo argomento molti anni dopo riferi’ che lui si era sentito "imbarazzatissimo", perche’ sapeva che Freud non l’avrebbe rifiutata "per amor mio e della Societa’ Psicoanalitica Italiana". Ma la versione di Weiss era di parte, la sua preoccupazione era quella di dimostrare che "Freud non aveva simpatia per Mussolini" e che lui era sempre stato un antifascista.
Quello che rimane e’ la dedica sicuramente calorosa su un libro molto particolare come e’ "Perche’ la guerra?". Il libro, pubblicato proprio nel 1933, e’ un carteggio fra Einstein e Freud sul pericolo della guerra, stampato per conto della Societa’ delle Nazioni, in un momento storico in cui si cominciano ad addensare i pericoli di una nuova guerra mondiale. Probabilmente Freud confermo’ con il suo comportamento le sue teorie sulla contraddittorieta’ della psiche umana. Infatti con la mano destra scriveva una dedica particolarmente positiva, mentre con la sinistra porgeva al dittatore un libro che richiamava i pericoli della violenza e dell’ ostilita’ nei rapporti fra i popoli.
Purtroppo dopo qualche anno anche Freud fu vittima della violenza nazista, quando la Germania invase l’ Austria. Nel 1938, ormai ottantaduenne e allo stremo delle sue forze, dovette assistere alla perquisizione della sua casa da parte della Gestapo e due suoi figli furono arrestati. Il clima di Vienna era diventato irrespirabile e Freud prese la decisione di abbandonare l’ Austria. Ma il suo espatrio fu ostacolato dal nuovo governo nazista e fu necessaria una mobilitazione internazionale di uomini di stato, fra cui Roosevelt, ambasciatori e uomini di cultura per ottenere l’ autorizzazione a partire. E’ qui che in modo inatteso ricompare Forzano.
Forse memore dell’ incontro e forse ancora riconoscente per l’ interessamento di Freud, o forse anche per l’ intervento della figlia, Forzano si decide a scrivere a Mussolini una lettera in cui ne sollecitava l’ intervento: "Raccomando a Vostra Eccellenza un vecchio glorioso di 82 anni che tanta ammirazione ha per l’ Eccellenza Vostra: e’ Freud, ebreo". Ancora una volta ci manca il riscontro se la lettera di Forzano ebbe un esito positivo.
Molti anni dopo Weiss escluse un intervento diretto di Mussolini, mentre Ernst Jones, il biografo ufficiale di Freud, sembrava convinto che Mussolini in persona si fosse dato da fare per salvare il grande maestro viennese. Secondo quest’ ultima versione i rapporti fra psicoanalisi e fascismo verrebbero ad assumere sfaccettature piu’ complesse di quelle che siamo abituati a riconoscere, ulteriore riprova dell’ assunto di Freud che la natura umana e’ profondamente contraddittoria e forse per questo imprevedibile.
* Fonte: Spogli/Associazione Culturale Amore e Psiche
NIETZSCHE, LOU ANDREAS SALOME’, E IL PESANTE CARICO DELL’IMMAGINARIO PLATONICO SULLE SPALLE DELLA PSICOANALISI.
Una lettera di Freud a Lou Andreas Salomé del 25 novembre del 1914:
“[...] Non ho dubbi che l’umanità riuscirà a rimettersi anche da questa guerra; tuttavia so per certo che né io né i miei contemporanei rivedremo mai più un mondo felice.
Tutto è troppo orribile; ma quel che è più triste è che le cose vanno esattamente come avremmo dovuto immaginarle in base a quanto le attese suscitate dalla psicoanalisi ci hanno insegnato sugli uomini e sul loro comportamento.
È questo atteggiamento nei confronti del genere umano ad avermi sempre impedito di condividere il Suo sereno ottimismo. Nel segreto del mio animo ero giunto alla conclusione che, se ravvisiamo nella nostra civiltà attuale, che è di tutte la più elevata, soltanto una gigantesca ipocrisia, è evidente che non siamo organicamente idonei per questa civiltà.
Non ci resta che abdicare, e il Grande Sconosciuto, persona o cosa, che si nasconde dietro al Fato, ripeterà in futuro l’esperimento con un’altra razza.”
(cfr. Sigmund Freud - Lou Andreas Salomé, "Lettere tra Freud e Andreas Salomé (1912-1936)", Bollati Boringhieri 1990).
SUL TEMA, IN RETE, SI CFR.:
MICHEL ONFRAY, QUANTE SCIOCCHEZZE CONTRO FREUD!!! Una nota di Bruno Gravagnuolo
ELVIO FACHINELLI. Oltre Freud, una seconda rivoluzione copernicana di Federico La Sala
Mussolini e la psicoanalisi
Tra Freud e fascismo incontro impossibile
considerazioni sull’ intervento del Duce, rivelato da
Vittorio Mussolini, in difesa di Sigmund Freud, vittima
delle leggi razziali di Hitler: accostare il nome di
Freud a quello di Mussolini e’ improprio, come dimostra
l’esame dei testi del fondatore della psicanalisi
di Giuliano Gramigna (Corriere della Sera, 11.04.1993)
Niente potrebbe mettere piu’ in imbarazzo che vedere congiunto il nome di Sigmund Freud, inventore della psicoanalisi, a quello di Benito Mussolini. Ieri sul "Corriere della sera", un articolo di Matteo Collura, partendo da dichiarazioni di Vittorio Mussolini e Maurizio Chierici, accennava a un intervento del duce presso Hitler in favore di Freud, caduto sotto la minaccia diretta del nazismo dopo l’ annessione dell’ Austria alla Germania.
Non e’ una rivelazione vera e propria. Gia’ nelle pagine della biografia fondamentale di Ernest Jones, pubblicata in Italia dal Saggiatore, si fa cenno, con qualche cautela, a una de’ marche di Benito Mussolini, "o direttamente con Hitler o tramite il proprio ambasciatore a Vienna", per ottenere che non venisse rifiutato al grande psicoanalista il permesso di uscita dal Paese (come poi avvenne). Quale fonte dell’ informazione, e’ indicato Edoardo Weiss, il primo e il piu’ ardente dei freudiani d’Italia. "Probabilmente" aggiunge Jones "Mussolini si ricordò del complimento rivoltogli da Freud quattro anni prima..".
Nessuno, a quanto pare, e’ in grado di dire se l’intercessione sia stata veramente attuata, e se abbia avuto qualche influenza decisiva. In ogni caso, il 4 giugno 1938, Freud e la famiglia lasciarono finalmente Vienna, per scampare in Inghilterra. Ma vale la pena di guardare un po’ meglio dentro la natura di quel "complimento" che, a detta di Ernest Jones, avrebbe stimolato la vanita’ di Mussolini.
Nel 1933, sempre secondo il racconto della biografia, Weiss condusse a Vienna da Freud "una difficile paziente che aveva in cura: li accompagnava il padre di costei, un amico intimo di Mussolini.." (Giovacchino Forzano, pare). Il padre chiese a Freud di fare dono a Mussolini di uno dei suoi libri, con dedica. Anche per favorire Weiss, Freud consenti’: prese una copia di Perche’ la guerra? e sul frontespizio "alludendo agli scavi archeologici che Mussolini andava incrementando, scrisse: "Da un vecchio che saluta nel legislatore l’eroe della cultura". Non si commette abuso leggendo infrascritta a quella dedica ufficialmente retorica, una sorta di personalissima ironia, appunto una riserva freudiana. E’ lecito pensare che per Freud non fosse piu’ che un gesto, sostanzialmente insignificante, di cortesia convenzionale . per cosi’ dire al servizio di un amico. Strologarci sopra come espressione spontanea di un feeling ammirativo, sembra andare oltre la lettera.
Viene da pensare a quell’altra chiosa, questa davvero di umorismo nero, che alcuni anni dopo Freud oppose alla dichiarazione liberatoria estirpatagli dai nazisti prima di lasciarlo partire, in cui diceva di avere avuto il migliore dei trattamenti; chiosa cosi’ concepita: "Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia".
Circa la reale disposizione di Freud nei confronti di ogni dittatura, e in particolare degli stravolgimenti cui mette capo il culto del Grande Uomo Salvatore, basta andare a rileggersi Psicologia delle masse e analisi dell’ io che, anticipatamente (1921), analizza i meccanismi eterni di quella che Gadda chiamera’ , con furore, la "funeraria priapata". In una lettera del 1927, partendo da un riferimento all’ uomo politico francese Clemenceau, Freud ammetteva: "Mi sono accorto con stupore che potrei nutrire una profonda simpatia per questo odiato nemico, e che non mi sarebbe difficile immedesimarmi in lui, cio’ che invece non mi riesce assolutamente per altri despoti, come Lenin e Mussolini...". E’ anche vero che, all’ epoca della dedica famigerata, Freud poteva illudersi che il fascismo, meglio il suo capo, servisse di difesa (anche per il destino della psicoanalisi) contro la minaccia nazista.
Ancora si puo’ pescare in Jones: "Quando Mussolini sali’ al potere, accusarono Freud di non essere ne’ nero, ne’ fascista ne’ socialista; rispose: "Bisognerebbe essere del colore della carne"...". Come la voce della ragione, la voce di Freud, anche in materia politica, puo’ sembrare fioca, "ma non ha pace finche’ non ottiene udienza". Nel secolo, che e’ stato il nostro, la grande figura simbolica di Sigmund Freud, e’ venuta al proscenio mentre cominciavano a scatenarsi altre figure tragiche, efferate, di delirio collettivo. La psicoanalisi poteva andare a scandagliare la radice di quei deliri. Ma che cosa sapeva ascoltare nella sua presunzione sgangherata di porsi come "prassi e pensiero", il fascismo? Ecco perche’ certo accostamento di nomi, piu’ ancora che imbarazzante, finisce per essere incongruo.
In un discorso indirizzato da Freud ai membri dell’ Associazione ebraica B’ nai B’ rit, si puo’ trovare, oltre che una rivendicazione orgogliosa della propria origine, un’ autoidentificazione etica, che ha valore anche politico, nel senso piu’ limpido del termine: "Soltanto alla mia natura di ebreo io dovevo le due qualita’ che mi erano diventate indispensabili nel lungo e difficile cammino della mia esistenza. Poiche’ ero ebreo mi ritrovai immune dai molti pregiudizi che limitavano gli altri nell’ uso del loro intelletto, e in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all’ opposizione e a rinunciare all’ accordo con la "maggioranza compatta".."
Gramigna Giuliano
Marie Bonaparte (Saint-Cloud, 2 luglio 1882 - Gassin, 21 settembre 1962):
"Was will ein Weib? Cosa vuole una donna?" (Freud)
Oggi festeggiamo il genetliaco di una donna senza la quale la psicoanalisi avrebbe avuto ben altri destini e a cui dovremmo essere tutti molto grati: questa donna si chiamava MARIE BONAPARTE. (Centro Veneto di Psicoanalisi)
Fu principessa di Grecia e di Danimarca, scrittrice, psicoanalista, abile diplomatica, donna di cultura e di grande coraggio.
Rimasta orfana poco dopo la nascita, fu una bimba intelligente e piena di intense fantasie che trascrisse in piccoli diari che intitolò "le bestialitá". Questi quaderni, esplorati in analisi, divennero poi fonti sulla sua sessualità infantile.
In tutta una prima parte della sua vita fu una giovane che si innamorava, incurante delle "imprudenze" (parola che amava) che avrebbero potuto metterla in imbarazzo in società.
Ebbe relazioni durature con Gustave Le Bon ("Psicologia delle folle", 1895) e Aristide Brian. Erano gli anni ’20 del 900 e Marie, donna colta e vivace, si interessò allo studio della sessualità femminile. Scrisse, usando uno pseudonimo, un saggio sulla frigidità in relazione alla anatomia del clitoride. Per lei, che parlava liberamente della sua anorgasmia, era molto importante che le donne provassero l’intenso piacere che il corpo poteva dare loro. Se solo fosse nata 50 anni dopo sarebbe stata considerata una attivista della liberazione sessuale delle donne e invece fu spesso derisa e chiacchierata per questo tema e per la sua vita privata. Non per questo, Marie si fermò.
Era una donna molto impegnata nel sociale e fu mecenate lungimirante di discipline nascenti come l’antropologia, l’etnologia e la sociologia.
Nel 1923, cominciò a frequentare lo psichiatra Laforgue, e incappó in un libro di un tal Sigmund Freud. Marie ne fu molto colpita e decise che voleva conoscere meglio questa nuova scienza: la Psicoanalisi.
Chiese a Laforgue di intercedere presso Freud per poter fare una analisi personale con lui. Freud non era propenso a prendere in terapia individui di così alto lignaggio e mise subito in chiaro che la principessa sarebbe trattata come ogni altro paziente: tempi, modi e lingua (tedesco o inglese) erano quel di tutti.
A 43 anni, la pronipote di Napoleone arrivó a Vienna per iniziare la seconda parte della sua vita. Restó molto impressionata dal rigore di Freud e dalla sua gentilezza. Scrive: "Sembra che sia in simpatia con tutta l’umanità che è stato capace di comprendere."
La sua analisi si comporrá di vari segmenti nel corso di alcuni anni e la principessa si appassionó al punto che sviluppó l’interesse a diventare a sua volta analista.
Marie Bonaparte si mise a tradurre in francese le opere di Freud e nel 1926 fondò, assieme ad altri 9, la Società Psicoanalitica di Parigi. Nell’ International Psychoanalytical Association (IPA) sostenne l’analisi didattica laica, aperta ai non medici. Scrisse più di 40 contributi scientifici tra cui un importante saggio sulla sessualità femminile. Il contributo della Bonaparte alla teoria psicoanalitica risiede proprio in questo testo d’avanguardia. Freud scrivendo alla Bonaparte ammetterà: "La grande domanda, alla quale nemmeno io ho saputo rispondere, è questa: che cosa vuole la donna?” (Freud 1933)
Nel tempo, Marie divenne una cara amica della famiglia Freud e seppe usare con intelligenza la propria posizione per aiutarli senza invadenze.
Durante l’inverno del 1929 la Bonaparte salvò dal fallimento economico la casa editrice fondata da Freud e intervenne altre volte affinché i testi psicoanalitici non venissero dispersi. Aveva una visione lucida della storia e fu la prima, al convegno di Weisbaden del ’32, ad esprimere pubblicamente la preoccupazione per le posizioni naziste contro la "scienza ebraica".
Di lì a breve molti analisti fuggirono in America e Marie cercò a lungo di persuadere Freud dal lasciare Vienna.
Il 30 dicembre 1936 intercetta la corrispondenza tra Freud e Fliess che la vedova Fliess, in difficoltà economica, aveva venduto ad un libraio. La Bonaparte lo acquista prima che venga spedito negli Stati Uniti. Freud chiederà all’amica di distruggere le lettere e quella fu l’unica volta che lei gli disobbedì. È grazie a lei che, a partire dal 1956, viene poi dato alle stampe.
Dobbiamo a Marie di essersi spesa con prontezza e intelligenza per salvare la vita stessa di Freud. Per anni aveva cercato di convincerlo del rischio nazista e di lasciare Vienna per riparare a Parigi. Freud però, già molto anziano e ammalato, non voleva abbandonare la sua amatissima città.
Quando il 12 marzo 1938 l’Austria venne annessa alla Germania nazista, Marie non esitò ad agire.
Il 17 marzo arrivò a Vienna per difendere, con la sua posizione diplomatica di principessa di Grecia e Danimarca, Freud e Famiglia. Dopo che l’incarcerazione di Anna da parte della Gestapo, Freud finalmente si convinse che era necessario partire. Marie, troverà il modo di organizzare tutto e in breve tempo fece ottenere i visti alla famiglia, pagò ai nazisti un ingente riscatto perché i Freud potessero partire,
con l’aiuto di Jones trovò una casa a Londra e fece anche arrivare in Inghilterra i beni di Freud. I fatti di quel salvataggio sono noti ma spesso non si nota con quanta abilità la Bonaparte seppe organizzare questa impresa in tempi così terribili.
Il 5 giugno 1938 fu lei lei ad attenderlo alla Gare de l’Est a Parigi e a ospitarlo prima della ripartenza verso l’Inghilterra. Marie era considerata di famiglia e visitò spesso Freud sia a Vienna che a Londra. Sempre a Marie dobbiamo alcune famose foto di Freud nei suoi anni più avanzati.
Dopo la morte di Sigmund e con l’avanzare della guerra, Marie dovette fuggire dall’Europa, giungendo nel ’41 in Sudafrica dove insegnò psicoanalisi all’università.
Nel dopoguerra tornò in Francia ed ebbe un ruolo fondamentale nella storia della psicoanalisi francese. In particolare si oppose strenuamente a Lacan, di cui non condivideva le scelte tecnico-teoriche e di cui aveva una pessima opinione. La Bonaparte dava molto valore allo studio dei testi di Freud e veniva soprannominata "Freud-ha-detto".
In realtà fu sempre una personalità forte all’interno della società psicoanalitica, fu capace di avere in mente sia i destino dell’istituzione sia la progressione della teoria. Fu la prima ad accostare psicoanalisi e letteratura (col suo saggio su Edgar Allan Poe), Si interessò del rapporto tra umani e animali (il suo saggio sui cani anticipa vari studi antropo-etologici e mostra una modernissima modalità di relazione con gli animali), si occupò di temi spinosi comeilungimirante e interessata a temi come la masturbazione, l’antisemitismo e la pena di morte.
Marie Bonaparte concluse il suo transito terreno nel 1962, per leucemia, lucida e ancora curiosa della vita.
Fu una donna libera e straordinaria anche se spesso sottovalutata. Dobbiamo soprattutto esserle molto grati perché seppe essere una amica, generosa e ammirevole, di Freud e della Psicoanalisi. (Centro Veneto di Psicoanalisi).
Donne nella storia: Marie Bonaparte, la principessa psicanalista
Ultima discendente di Napoleone, poi sposa infelice del figlio di un re, è stata allieva e amica di Freud. E così devota allo studio dell’inconscio, da ospitare i pazienti nella sua casa di vacanza
di MARIA TATSOS (Corriere della Sera - IO DONNA, 14 GENNAIO 2024)
Parigi, 1928. Nella sua casa di Saint-Cloud, una gentildonna siede in giardino su una sedia a sdraio dietro a un divano, sul quale è stesa un’altra donna. Parlano, ma non sono chiacchiere qualsiasi. Sono una paziente e la sua analista, che la ascolta mentre è intenta a lavorare all’uncinetto.
La psicoanalisi era ancora una scienza giovane in quegli anni, ma questa immagine basta a farci capire che l’analista doveva essere un tipo originale. Più che per denaro, lavorava per amore della disciplina. Al punto di farsi portare i pazienti dal suo autista. E quando lasciava la casa di Parigi per trasferirsi nella sua dimora di vacanza di Saint Tropez, ospitava alcuni di loro per proseguire l’analisi.
Questa bizzarra tricoteuse è in realtà una delle figure chiave della storia della psicoanalisi. Marie Bonaparte è stata allieva prediletta di Sigmund Freud. L’ultima Bonaparte, come lei stessa si è definita in un suo scritto, è stata anche altezza reale grazie alle nozze con il principe Giorgio di Grecia e di Danimarca, e attraverso di lui imparentata con le monarchie più in vista d’Europa. Una ragazza ricca, con una volontà di ferro e il desiderio di svolgere una professione all’epoca poco opportuna per una signora del suo rango. La sua vita, ricostruita dalla sua biografa Célia Bertin in Marie Bonaparte. La principessa della psicoanalisi (edito da Odoya), è avvincente come un romanzo. Un’anima irrequieta del Novecento, con una vita costellata di momenti gioiosi da privilegiata ma anche da sprazzi di infelicità.
Il padre distante, la nonna vera matrigna
Marie nasce il 2 luglio 1882. Nelle sue vene scorre il sangue del grande condottiero corso: il bisnonno Luciano era fratello di Napoleone. Pietro Napoleone, il suo rampollo dalla vita turbolenta, aveva sposato la figlia di un operaio, Nina, che l’aveva sopportato pur di godere di un’ascesa sociale, finendo per proiettare tutte le sue ambizioni sull’unico figlio, Roland. È lei che decide le nozze di Roland con una ricca ereditiera, Marie Félix Blanc, figlia del proprietario del Casinò di Montecarlo. La giovane rimane incinta ma muore a soli 22 anni un mese dopo aver messo al mondo una bambina. La piccola orfana è l’erede universale delle ricchezze della madre.
«Alla mia vecchia nonna non interessavano i bambini» scriverà Marie, che è affidata a balie e bambinaie. Il padre è preso dai suoi studi, mentre la nonna, autentica manipolatrice, è interessata solo a esercitare il suo potere sul figlio. L’infanzia di Marie è una lotta costante per ottenere invano l’attenzione del genitore. «Sembra che per la maggior parte del tempo sia stato a disagio con la figlia», scrive Bertin. «Ineluttabilmente, gli ricordava sua moglie, da lui così poco amata». La nonna, che poteva essere un rifugio affettivo, è invece una vera matrigna: nella sua testa di popolana, per diventare un’aristocratica la nipote deve saper stare da sola. Così la condanna a un’infanzia e poi a un’adolescenza priva di contatti con coetanei e gestita da ferree istitutrici. Crescendo, Marie incolpa il suo essere donna se nessuno apprezza la sua intelligenza. Si vede brutta e come tutte le adolescenti è innamorata dell’amore.
La trappola scatta proprio fra le mura domestiche e ha la fisionomia di Antoine Leandri, 38 anni, segretario corso del padre. Insieme alla moglie Angela, la plagia e chiede 100mila franchi per non divulgare le lettere d’amore che la ragazzina gli ha scritto. La vicenda si risolve quando Marie ha ormai 21 anni con il pagamento del riscatto, la restituzione delle epistole e una delusione cocente che la giovane si porterà dietro per tutta la vita.
Intanto il brutto anatroccolo si è tramutato in una graziosa ereditiera, il cui cruccio è non avere il diploma che le consentirebbe di realizzare il suo sogno: studiare medicina. Anche senza l’appoggio della madre nel frattempo scomparsa, Roland Bonaparte rimane convinto che gli studi non servano a nulla per una donna. Per una principessa come sua figlia occorre il marito giusto. Niente di meglio che il figlio di un re e di una granduchessa Romanov: Giorgio di Grecia e di Danimarca, ufficiale dagli occhi chiari, un po’ calvo ma di bella presenza. Lui la corteggia con discrezione e Marie accetta di sposarlo. Il 12 dicembre 1907 ad Atene le nozze si svolgono con il rito greco-ortodosso.
Può essere l’inizio di una fiaba, con una giovane donna che finalmente riceve dal marito quell’amore che suo padre le ha negato. Invece si apre una nuova pagina esistenziale, non meno complicata. «Eravamo di razze diverse. Non solo per il colore dei capelli, ma anche per le risonanze della mente e del cuore», scriverà in seguito.
Un matrimonio di facciata
Giorgio non si sottrae ai doveri coniugali, tant’è che già un anno dopo le nozze nasce Pietro (1908-1980), seguito da Eugenia (1910-1989), ma la principessa - per quanto inesperta - capisce che c’è qualcosa che non va, in quel marito così algido e restio a ogni gesto affettuoso. La soluzione del mistero è davanti ai suoi occhi. Si chiama Valdemar, è lo zio di suo marito, maggiore di lui di soli dieci anni, e suo migliore amico. Giorgio passa tutte le estati nel suo castello di Bernstorff, in Danimarca, e poco alla volta Marie coglie la verità: Giorgio è innamorato dello zio da quando aveva 14 anni. Ovviamente anche Valdemar ha una moglie, rassegnata alla loro relazione, e dei figli.
Marie, che nel frattempo si è adattata al suo nuovo ruolo di madre e di principessa reale, con infiniti viaggi e impegni ufficiali, archivia per sempre il suo desiderio di amore nei confronti del marito: vivranno vite parallele, incontrandosi solo in alcuni momenti, e Giorgio accetterà di conoscere e frequentare occasionalmente alcuni degli amanti di Marie. Per mezzo secolo, fino alla morte di lui, resteranno ufficialmente una coppia e insieme affronteranno momenti critici, dai dissidi di Giorgio con il figlio Pietro per il suo matrimonio con Irene, una russa divorziata, all’esilio in Sudafrica nel 1941, quando in Europa dilagano i nazisti. Ma l’amore Marie lo andrà a cercare altrove. «Nel periodo fra i miei 30 e i miei 50 anni, ho avuto due compagni. Il primo (...) avrebbe potuto essermi padre; nessuno mi ha mai amata quanto lui. Il secondo era come un fratello maggiore, ed è quello che ho amato di più e più a lungo» scrive Bonaparte.
Mentre sull’Europa si addensano le nubi che porteranno al primo conflitto mondiale, la principessa conosce il politico francese Aristide Briand, undici volte presidente del Consiglio, che per cinque anni le offre il suo amore. E quando la storia con lui finisce, nella vita di Marie entra X, sposato e medico celebre, di cui non rivelerà mai il nome.
L’intesa tra l’anziano maestro e la “prinzessin”
La libertà di cui gode consente alla Bonaparte di dedicarsi alla scrittura e di avvicinarsi alla psicoanalisi. «La prima volta che lesse Freud ebbe una specie di rivelazione» dice Bertin. Il suo status economico le consentiva di soddisfare ogni suo desiderio. Incluso quello di farsi ricevere da Sigmund Freud a Vienna e iniziare con lui l’analisi. L’intesa fra l’anziano maestro e la “prinzessin” è immediata: lei ricambia la sua stima con una devozione assoluta che farà di lei la vestale dell’ortodossia freudiana durante gli anni in cui la nuova disciplina si sedimenta, si discute della pratica e della preparazione degli analisti, si creano gli istituti di psicoanalisi.
Marie scrive, traduce, frequenta la famiglia Freud. È una madre spesso assente in questa fase della sua vita, ma sta finalmente ottenendo ciò che desiderava: diventare un’analista. Per quanto ligia alle idee del maestro, fa di testa sua quando decide di farsi operare per guarire la frigidità che l’affligge: l’obiettivo è avvicinare la clitoride alla vagina. Non si accontenterà di un unico intervento, ma ritenterà più volte, senza successo però. In seguito, gli studi di Masters e Johnson proveranno l’errore della chirurgia della frigidità caldeggiata da Marie. Alla Bonaparte, però, resta il merito di aver portato alla ribalta un tema ancora tabù in un suo articolo del 1924: il pari diritto delle donne al piacere.
La principessa ha 57 anni quando diventa nonna di Tatiana, figlia di Eugenia, che avrà in seguito altri due bimbi, Porgie e Carlo Alessandro. È ancora una forza della natura, e lo sarà fino alla fine, senza risparmiarsi battaglie appassionate, come la difesa del criminale americano Caryl Chessman, che la vedrà in prima linea all’età di 78 anni contro la pena di morte. O la guerra con lo psicoanalista Jacques Lacan, suo acerrimo nemico. Marie ha girato il globo in anni in cui viaggiare era più complicato e ha nutrito una costante e profonda curiosità per il sapere, che l’ha spinta a incontrare menti eccelse, come il filosofo Jean-Paul Sartre o la scrittrice svedese Selma Lagerlöf.
La principessa di Grecia e di Danimarca, zia di Filippo d’Inghilterra, soccomberà a una leucemia all’età di 80 anni il 21 settembre 1962, restando convinta fino alla fine di essere stata dotata da madre natura di una mente quasi maschile. Era una donna del suo tempo, condizionata dagli stereotipi degli anni della sua giovinezza. E anche la sua visione del piacere femminile resta ancorata a quella del suo maestro. A 60 anni dalla sua morte, le neuroscienze hanno dischiuso nuovi orizzonti, in cui il cervello e la sessualità delle donne non hanno più nulla da invidiare agli uomini.
CULTURA E SOCIETÀ - CINEMA E PSICOANALISI...
di G. Jodice.
Recensione di Giorgio Mattei
Il legame tra psicoanalisi e poesia risale agli albori della disciplina che ha per oggetto lo studio dell’inconscio. A più riprese, Freud ha fatto riferimento alle opere di Shakespeare, Goethe e altri poeti per chiarire i concetti che andava scoprendo nella pratica clinica, e ha approfondito in un saggio “quella personalità ben strana che è il poeta” (Freud, 1908).
Pertanto, la visione de “Il cattivo poeta” si impone quasi come una necessità, anche perché narra gli ultimi anni di vita di uno dei massimi poeti italiani, Gabriele D’Annunzio. Si tratta di un film splendido e necessario.
È splendido per molteplici ragioni, che risiedono nell’alchimia che origina dall’intreccio tra sceneggiatura, regia e interpretazione di tutto il cast di attrici e attori (notevole Sergio Castellitto nel ruolo del poeta). Ne risulta una narrazione per immagini avvincente, impreziosita dalle vedute del Lago di Garda, e dalle numerose scene girate dentro alla Prioria del Vittoriale degli Italiani, la monumentale residenza di Gardone in cui il poeta si ritirò a vivere nel 1921.
È un film anche necessario, come tutto ciò che riguarda i poeti e le loro vite, e come tutto quanto affronta quella ferita mai pienamente elaborata che è il fascismo.
L’unico limite è rappresentato da un atteggiamento eccessivamente indulgente nei confronti di D’Annunzio, che sembra mirare alla riabilitazione di una delle figure più controverse della nostra cultura, come se per fare da contrappeso a decenni in cui egli è stato spesso ridicolizzato e sminuito (in primis, per ragioni politiche) ci si dovesse ora sbilanciare nella direzione opposta. Ciò pare in linea con la nostra contemporaneità, pur non rappresentando una necessità storica: tutta la poesia italiana del Novecento testimonia della imprescindibilità di questo grande poeta.
A partire dalla visione del film si delinea un interessante parallelismo. Come ogni poeta non può evitare di confrontarsi (e al limite scontrarsi) con D’Annunzio, così un italiano non può evitare di fare i conti con quella ferita storica che è il fascismo. Un fenomeno sociopolitico tutto nostrano, una forma atroce e antesignana di “made in Italy”, poi esportata nel resto d’Europa. Ricordo che i miei anziani, che vivevano poveri in quella che allora era una piccola città emiliana, non temevano i tedeschi: temevano gli italiani. Forse la mancata elaborazione del fascismo come fatto storico e psicologico rappresenta uno degli aspetti, tra gli altri, che ha reso l’Italia un “paese mancato” (Crainz, 2003).
Tornando al film, il titolo, a prima vista, lascia spiazzati. Chi è “il cattivo poeta”? Forse si tratta di D’Annunzio, “cattivo poeta” nella misura in cui non appoggia l’Asse Roma-Berlino. Oppure di Mussolini, “cattivo poeta” che divora e dilania il linguaggio dannunziano, adulterandolo con la violenza squadrista. Ma anche Giovanni Comini (magistralmente interpretato da Francesco Patanè), appena promosso federale di Brescia e introdotto al Vittoriale come spia, diventerà, dopo l’incontro con D’Annunzio, un “cattivo poeta.”
Ho voluto richiamare l’attenzione solo su alcuni dei molteplici temi che si offrono alla riflessione, anche di tipo psicoanalitico, ma ce ne sono altri, tra i quali la psicologia delle masse e il complesso del padre (Freud, 1921; Zoja, 2000), oppure l’economia psichica alla base delle dipendenze, davvero molteplici nella vita del poeta (McDougall, 1995).
Un ulteriore elemento di fascinazione per il film, che mi preme di ricordare, è rappresentato dalla sua capacità di parlare al presente. In una scena, il camerata Giovanni Comini, rivolto alla donna che ama, afferma: “Mussolini è l’unico che ha il coraggio di dire le cose e la forza per realizzarle.” Più avanti, è il poeta abruzzese ad affermare: “Sono tempi dal cielo chiuso, senza nessun indizio di certezza.” Frasi, queste, che con minimi aggiustamenti potrebbero essere udite anche oggi.
Riferimenti bibliografici
Crainz G. (2003). Il paese mancato. Dal miracolo economico agli anni Ottanta. Torino, Donzelli.
Freud S. (1907). Il poeta e la fantasia. OSF, 5. Torino, Boringhieri, 1989.
Freud S. (1921). Psicologia delle masse e analisi dell’Io. OSF, Torino, Boringhieri, 1989.
McDougall, J. (1995). Eros. Le deviazioni del desiderio. Milano, Raffaello Cortina, 1997.
Zoja E. (2000). Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre. Torino, Boringhieri.
* Società Psicoanalitica Italiana - SPIweb 26/10/21 (ripresa parziale - senza trailer).
NOTA:
PSICOANALISI E "PSICOLOGIA DI MASSA DEL FASCISMO" (Wilhelm Reich, 1933).
STORIA E MEMORIA: "D’Annunzio: The First Duce" (Michel Ledeen, 2001).
RICOMINCIARE A PENSARE DA CAPO!
FORSE è bene ricordare anche LA DEDICA DI FREUD A MUSSOLINI sul volumetto del Carteggio con Einstein, intitolato "Perché la guerra?" (!933) E IL LAVORO DI ELVIO FACHINELLI sulla" FRECCIA FERMA", sul nesso tra una SOCIETA’ ARCAICA, la NEVROSI OSSESSIVA, E il FASCISMO del 1979.
Federico La Sala
Il caso Wilson
di Giancarlo Alfano *
Nel 1930, durante un periodo di degenza a Berlino, Freud riceve la visita di un ambasciatore e uomo politico americano, William C. Bullit, che gli rivela di avere in animo di scrivere un libro sui protagonisti degli accordi di Versailles, con cui si risolse la Prima guerra mondiale (nel contempo, in verità, gettando le basi per la Seconda). Tra questi c’era il Presidente degli Stati Uniti, Thomas Woodrow Wilson, universalmente noto per essere stato colui che concepì e sostenne - al punto da perdere di vista l’effettivo equilibrio politico complessivo che gli accordi avrebbero dovuto garantire - il progetto della Società delle Nazioni.
A questa notizia Freud si riprese improvvisamente dall’abbattimento che lo affliggeva in quei giorni (temeva infatti di avere solo poco tempo da vivere) e propose all’amico americano di scrivere insieme a lui un libro dedicato al Presidente. Quasi dieci anni dopo - una pausa dovuta forse a un disaccordo dovuto alle rispettive posizioni religiose - il padre della psicoanalisi avrebbe sottoscritto la versione definitiva dello scritto, pubblicato poi soltanto dopo la morte della seconda moglie di Wilson.
Quel libro, Il caso Wilson, appare adesso in Italia per le cure di Davide Tarizzo, che non esita a definirlo «una gemma»: sia «della letteratura psicoanalitica», sia «della storiografia novecentesca». -Personalmente non saprei dire se la seconda affermazione è del tutto condivisibile ma certo si tratta di un libro molto interessante, che sollecita nel lettore una serie di riflessioni sull’incidenza culturale e politica della psicoanalisi.
Come spiega il curatore nella sua elegante introduzione, il libro a doppia firma è stato infatti a lungo oggetto di imbarazzo, se non proprio di un’esplicita avversione: per la pochezza dei risultati o per lo stesso atteggiamento di Freud (apertamente ostile a Wilson). Tarizzo preferisce parlare a questo proposito di una «resistenza» dei lettori, che individua nell’incertezza con cui si è portato avanti il compito, indicato più volte dallo stesso Freud (soprattutto nella seconda parte della sua produzione), di applicare la psicoanalisi alle questioni più generali della vita umana.
L’idea del curatore è chiarita sin dall’epigrafe, tratta dal grande libro di Keynes sulle Conseguenze economiche della pace (1919), in cui l’economista osserva che il rapporto del Presidente con l’elaborazione del Trattato di Pace «tocca[va] sul vivo un complesso freudiano». Ed è proprio per la dimensione politica che è oggi importante leggere questo libro: così strano per chi conosce la scrittura freudiana, così analitico, a volte pedissequo, a tratti pedante. In esso infatti, al di là delle intenzioni del suo collaboratore, Sigmund Freud volle proseguire la riflessione avviata nel 1921 con Psicologia della masse e analisi dell’io, passando a un caso concreto - e anzi della massima rilevanza - di leadership contemporeanea.
Un caso che non assomigliava per niente all’immagine del padre primordiale disegnata nell’oramai lontano Totem e tabù (1912-13), e che anzi si segnalava per un’evidente debolezza di carattere del protagonista, pur mostrando - e con grande evidenza - che bastano pochi elementi per influenzare e trascinare le masse: pochi elementi che possono anche essere l’espressione stessa di quella debolezza.
È il frutto più impressionante dello studio freudiano, privo di ogni empatia per il personaggio di cui si occupa, in cui riconosce - nelle parole del curatore - «il mago indiscutibile dell’autoinganno». Gli ultimi capitoli del libro, almeno a partire dal XXXIII, seguono «il progressivo avvicinamento di Wilson al collasso fisico e mentale», dalla firma del Trattato di Versailles, 28 giugno 1919, al crollo del 26 settembre dello stesso anno. -È il racconto spietato del conflitto, nell’inconscio del Presidente, tra «la passività e l’attività aggressiva nei confronti del padre»; il conflitto tra la spinta narcisistica a proporsi come il Dio Figlio che porta, in ossequio al mandato di Dio Padre, la Pace tra gli uomini (cosa che, peraltro, gli uomini gli riconobbero con deliranti dimostrazioni di affetto) e la deriva depressiva di chi si vede tradito e reso incapace di agire.
Il caso Wilson si presenta allora davvero come l’altra faccia della Psicologia delle masse: se nel 1921 Freud aveva individuato lo spirito gregario delle masse e il legame ipnotico con il leader, dieci anni dopo egli lavorò sui processi psicologici di un leader effettivo, mostrando in che modo quei processi producessero leadership, tenendo insieme forza e debolezza, carisma e pochezza di carattere. Quello politico, evidentemente, è una degli aspetti della ricerca di Freud che dobbiamo ancora imparare a capire.
Sigmund Freud - William C. Bullit
Il caso Wilson
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Sarah Manocchio
Cronopio, 2014, 286 pp.
€ 19,00
Sigmund Freud
Psicologia della masse e analisi dell’io
a cura di Davide Tarizzo, traduzione di Enrico Ganni
Einaudi, 2013, LI-86 pp.
€ 16,00
* Fonte: Alfabeta-2, 6 giugno 2014
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
LA STORIA DEL FASCISMO E RENZO DE FELICE: LA NECESSITÀ DI RICOMINCIARE DA "CAPO"! I. BENITO MUSSOLINI E MARGHERITA SARFATTI - II. ARNALDO MUSSOLINI E MADDALENA SANTORO.
Federico La Sala
COSTITUZIONE E INSEGNAMENTO....
Censurare Céline non ferma il razzismo
di Daniela Ranieri (Il Fatto, 25.01.2018)
La decisione della casa editrice francese Gallimard di non pubblicare più gli Scritti polemici di Louis-Ferdinand Céline dopo la gragnola di polemiche che ne sono seguite non è, a nostro avviso, un coscienzioso atto di profilassi anti-antisemita, bensì un grave sintomo dei tempi.
Gli scritti, che contengono i pamphlet più virulenti di Céline (Bagatelle per un massacro, del 1937, La scuola dei cadaveri del ’38 e La bella rogna del ’41) finora conservati dalla vedova ultracentenaria Lucette e mai pubblicati, sono stati ritenuti troppo scandalosi per essere stampati e venduti nelle librerie di Francia. I sopravvissuti alla Shoah li hanno definiti “un’incitazione all’odio razziale”, e il governo, nella persona del delegato interministeriale contro il razzismo, ha convocato l’editore, che è stato costretto ad annunciare la “mancanza delle condizioni di serenità” per lavorare su una materia tanto incandescente. E così, contrariamente a quanto avvenuto in Germania nel 2016 quando uscì l’edizione critica del Mein Kampf di Hitler, gli scritti odiosi e radicali di Céline non vedranno la luce.
È vero: Bagatelle per un massacro è un libro pieno d’odio. Per Céline, gli ebrei sono “quelli che contano”, “non i decoratori, i giardinieri, i facchini, gli sterratori, i fabbri, i mutilati, i portinai... insomma... la manovalanza... No! Ma tutti quelli che ordinano... che decidono... che intascano... affaristi, direttori, tutti giudei... completamente, semi, un quarto di giudei”. (Come si vede, è facile procurarsi una copia non autorizzata del libro anche senza il permesso dall’alto). La sua è una farneticante rivolta contro “il potere”, scritta tre anni prima che i nazisti annunciassero “la soluzione finale”.
Ma quale logica sottende la scelta di equiparare l’espressione dell’odio, fosse anche la più ributtante, all’azione d’odio, che esistono leggi per perseguire e galere per contenere?
Quale, se non quella di ammettere che le istituzioni democratiche (e in esse la scuola) hanno fallito la loro missione e temono che le parole di uno scrittore possano farle crollare? Che non hanno più gli strumenti per insegnare la Storia se non quello della messa all’indice dei libri sgraditi, versione sterile e “corretta” dei roghi nazisti?
Pensare che inibire la conoscenza di Céline possa frenare i rigurgiti di antisemitismo presuppone la considerazione dei lettori come di eterni fanciulli ai quali vadano vietate le letture oscene. È la pratica preferita dall’Inquisizione, e non ha mai significato progresso. La messa al bando si fonda sulla tesi del contagio: chiunque tocchi il maledetto Céline, ne inala l’infezione e la porta nel mondo.
Sennonché i libri di Céline, da Viaggio al termine della notte a Rigodon, sono di una incontroversa grandezza, veri capolavori di rigore, fantasia allucinatoria, abiezione e cristalizzazione ossessiva. Gli scritti che Gallimard rinuncia a pubblicare sono un documento che appartiene all’umanità, davanti al quale si prova incanto, repulsione e vertigine. Perché privare il lettore dell’esperienza etica e estetica di venire in contatto e se necessario alle mani con esso?
Martin Heidegger, il filosofo tedesco che giurò fedeltà al Terzo Reich, era antisemita. I quaderni neri ne sono una testimonianza agghiacciante. Vietiamo il suo insegnamento nelle università? Richard Wagner organizzava con la moglie Cosima cene con i peggiori editori di fine Ottocento (disprezzati da Nietzsche) per discettare di quanto fossero pericolosi gli ebrei. Distruggiamo il Lohengrin? Lo Shylock di Shakespeare è un usuraio ebreo di fine Cinquecento pronto a tagliare “una libbra esatta della bella carne” dal corpo di Antonio per riscuotere un debito. Chiediamo a Nardella di trasformare Shylock in un norvergese luterano, in un cubano sincretico, in un musulmano? (Dio ne scampi).
Difficile credere che i fascistelli che oggi impestano le città occidentali, per avere forza dei loro non-argomenti, leggano Céline traendo ispirazione dalla sua scrittura sublime e oscena. O che dopo la lettura de La bella rogna una persona sana di mente vada in giro a negare o giustificare i campi di sterminio. O che l’ignorante candidato della Lega Fontana, che farnetica di “razza bianca”, sia un acuto compendiatore di Céline.
La strada per un rifiuto eterno dell’antisemitismo non è la censura, né l’oblio a cui non la scelta libera dei lettori, ma una censura “dall’alto” vuole consegnare le opere antisemite. Al contrario, la strada per formare una coscienza critica nelle generazioni a venire è la conoscenza.
La letteratura non è edificante, non è la somma dei manuali di educazione civica di una società. È sperimentazione, affronto, effrazione; è il tentativo di descrivere l’esperienza del limite, e compito dell’arte più grande è metterci di fronte a ciò che c’è di abissale in noi, proprio perché sia chiaro, anche nel modo più violento, che niente di ciò che umano ci è estraneo.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
I LIBRI DI "STORIA" E LE "DOMANDE DI UN LETTORE OPERAIO" - DI BERTOLT BRECHT
EICHMANN A GERUSALEMME (1961). “come fu possibile la hitlerizzazione dell’Imperativo Categorico di Kant? E perché è ancora attuale oggi?” (Emil L. Fackenheim, Tiqqun. Riparare il mondo).
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
RIPENSARE L’EUROPA. PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO.
FILOSOFIA, E TEOLOGIA POLITICA DELLA’ "ANDRO-POLOGIA" ATEA E DEVOTA....*
Riflessioni (in)attuali
Uno sguardo psicoanalitico sulla vita comune
Buondì Motta: vivere con l’asteroide sopra la testa
di Sarantis Thanopulos (Psychiatry on line, 11 settembre, 2017)
Buondì Motta, lo spot pubblicitario della nota azienda dolciaria, ha provocato uno scontro tra chi lo accusa di essere scorretto e offensivo e chi ne difende l’originalità e il sottile senso dell’ironia. Lo spot è un video ambientato nel giardino/parco di una bella villa. Inizia con una bambina che chiede alla madre una colazione leggera ma invitante, che coniughi leggerezza e golosità. La madre ribatte che una cosa simile non esiste. “Possa un’asteroide colpirmi se esiste!”, aggiunge. Puntualmente arriva un’asteroide e la polverizza, aprendo un cratere nel giardino. In una seconda versione dello spot il posto della madre è preso dal padre.
L’intento dei realizzatori del video è ovviamente manipolativo. Il pubblicitario di tendenza oggi associa il prodotto da vendere a una cosa emotivamente forte che aggancia visceralmente lo spettatore. Crea così una dipendenza dal prodotto in modo indiretto. Usa raffinati mezzi di condizionamento psichico che Pavlov gli invidierebbe. Questi mezzi non derivano dalla sua “creatività”, vengono prevalentemente da un apposito campo di ricerca sull’induzione di comportamenti a cui anche Trump si è rivolto per la sua campagna elettorale. Lo studio dei comportamenti e della loro prevedibilità ha ceduto il posto alla scienza della loro costruzione che li rende riproducibili a piacere. Nulla è lasciato all’imprevedibilità e al caso.
Buondì Motta ha nel suo mirino gli spot del “Mulino bianco”. Punta (senza l’ironia che gli è stata attribuita) a una clientela “trendy” che si immagina privilegiata nel voler abbinare lusso, leggerezza e invitante golosità e si esprime (dalla culla pare) con un linguaggio di maniera, supposto elegante. Incurante di mostrare che i prodotti Motta si abbinino effettivamente a questa percezione di sé, va per le spicce e ricorre agli effetti forti.
L’emozione negativa può essere più efficiente di quella positiva: essendo più shoccante tende ad essere anche più persistente. Cosa di meglio da servire a tavola, dell’angoscia della catastrofe naturale che attualmente si mescola finemente dentro di noi con la paura dell’incidente terroristico? Se poi la si coniuga con il conflitto con i genitori sui limiti del piacere e con l’inconscio desiderio di ucciderli, che sovverte nella nostra psiche l’ordine del mondo, il cerchio si chiude. Le merendine Motta possono entrare nel circuito della domanda di strumenti di gratificazione immediata e pacificazione/silenziamento dei sensi che rassicurano e consolano. Il condizionamento ha trovato l’aggancio con la compensazione.
Giocare con l’inconscio, violando la determinazione psichica dei comportamenti per sottoporli a ragioni di opportunità, ha i suoi inconvenienti. Finisce per rivelare la natura vera di un sistema di relazioni fondato sulla comunicazione pubblicitaria che preclude il reale incontro. La dissoluzione delle relazioni erotiche (colpite nella loro profondità) scava un vuoto nella femminilità (l’apertura all’inconsueto), ben rappresentato nello spot dal cratere finale nel giardino di casa (simbolo della sessualità femminile). Si è creato un mondo senza legami di reciprocità che eludendo il conflitto e il dolore sta sprofondando (profezia involontaria dei pubblicitari di Buondì Motta) in una violenza insensata, autodistruttiva.
Questo mondo, che pur di imbrigliare l’imprevisto è disposto a pagare il prezzo della cecità (l’incapacità di vedere al di là del suo naso), sta producendo la più temibile delle casualità: l’impazzimento del suo funzionamento. Vive nella paura che un asteroide (proiezione all’esterno della sua follia) possa cascargli sulla testa.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
FREUD, KANT, E L’IDEOLOGIA DEL SUPERUOMO. ALLA RADICE DEI SOGNI DELLA TEOLOGIA POLITICA EUROPEA ATEA E DEVOTA.
Federico La Sala
Il nazismo secondo Heidegger: «Hitler risveglia il nostro popolo»
Esce il 17 ottobre in Germania per Herder un carteggio inedito con il fratello Fritz
Il filosofo aveva letto «Mein Kampf» e apprezzava l’istinto politico del Führer
di DONATELLA DI CESARE (Corriere dlla Sera, 13.10.2016)
-***Il filosofo Martin Heidegger (1889-1976, a sinistra) con il fratello Fritz nel luglio 1961 presso la canonica di Schwandorf (archivio Heinrich Heidegger)
Lieber Fritz, «Caro Fritz, sembra che la Germania si risvegli, che comprenda il suo destino. Desidero che tu legga il libro di Hitler, che è debole negli iniziali capitoli autobiografici. Nessuno può ormai contestare che quest’uomo possieda, e abbia sempre posseduto, un sicuro istinto politico, quando noi tutti eravamo ancora obnubilati. Il movimento nazionalsocialista si arricchirà, in futuro, di nuove ulteriori forze. Non si tratta più di meschina politica di partito - ne va piuttosto della salvezza o del tramonto dell’Europa e della cultura occidentale».
Questa lettera del 18 dicembre 1931 fa parte del carteggio tra Martin Heidegger e il fratello minore Fritz, che esce il 17 ottobre in Germania dalla casa editrice Herder. Il volume, curato da Walter Homolka e Arnulf Heidegger, contiene anche una raccolta cospicua di interventi firmati da filosofi, scrittori, intellettuali sul tema dell’antisemitismo. Il carteggio, che occupa più di cento pagine, è la grande novità editoriale che farà certamente discutere. Le lettere vanno dal 1930 al 1949 - un periodo decisivo per la Germania, per Heidegger, per il suo pensiero. Anche se il carteggio non è completo (si può però leggere il resto nell’Archivio di Marbach), la pubblicazione ha grande rilievo perché, dopo i Quaderni neri, diviene accessibile un’altra significativa fonte che può far luce sull’impegno politico di Heidegger.
Oltre a offrire uno spaccato della vita privata, le lettere fanno emergere lo stretto rapporto tra i due fratelli, che si rivela un forte sodalizio intellettuale. Sorprende la figura di Fritz, del quale si sapeva poco: soltanto che era rimasto sempre a Messkirch, il villaggio natìo, che una balbuzie gli aveva impedito di proseguire gli studi, che ciò aveva paradossalmente acuito il suo senso per la lingua, al punto che si era fatto una certa fama per i giochi di parole e le arguzie. Il ritratto del saggio giullare, che di mestiere faceva, suo malgrado, l’impiegato di banca, viene corretto dal carteggio.
Fritz Heidegger appare una figura di primo piano. A lui Martin affida i manoscritti delle sue opere, affinché vengano riletti, rivisti, ricopiati e messi al sicuro. Fritz ammira il fratello, ne segue con orgoglio il successo, lo difende. È il suo migliore amico. Già Hannah Arendt aveva scritto: «L’unica persona che ha realmente è il fratello». Ma Fritz è anche un interlocutore nei temi filosofi e politici.
L’ulteriore grande sorpresa del carteggio sta nell’importanza che riveste Hitler. Fin qui non si sapeva se Heidegger lo avesse letto e molti negavano. Ora è chiaro che dal 1931 al 1933 Hitler diventa addirittura tema di dibattito tra i due fratelli. Fritz si mostra poco convinto. Resta perplesso quando Martin gli spedisce in regalo Mein Kampf; ma promette che lo leggerà. Gli confessa tuttavia il suo «disgusto» per la politica volgare, l’esigenza di giudicare autonomamente gli eventi. I fratelli concordano, però, nel considerare ineluttabile la fine della Repubblica di Weimar e della socialdemocrazia. Solo che Fritz vede nel tracollo finanziario della Germania, oberata dai debiti, l’occasione colta dal nazionalismo di Hitler. La sua analisi politica è più prudente. Martin invece insiste; gli spedisce lo scritto propagandistico di Beumenburg La Germania in catene e gli consiglia la lettura del romanzo di Hans Grimm Popolo senza spazio. E commenta: «Chi non lo sa, può imparare qui che cosa vuol dire patria per il nostro popolo». Di fronte alle «inibizioni» del fratello verso il nazismo, Martin prende una posizione netta. Nel 1932 afferma che, nonostante tutti gli errori, «occorre essere dalla parte dei nazisti e di Hitler. Ti manderò il suo nuovo discorso».
La novità delle lettere sta proprio nella fermezza che Heidegger mostra. E in una adesione che appare incondizionata. Divenuto rettore a Friburgo, racconta in una lettera del 4 maggio del 1933: «Sono entrato ieri nel partito, non solo per intima convinzione (...). In questo momento è necessario pensare non tanto a se stessi, quanto al destino del popolo tedesco». E rivolto al fratello: «Se non ti sei ancora deciso, vorrei che ti preparassi interiormente per fare il tuo ingresso».
Negli anni successivi affiorano le delusioni e le amarezze di Heidegger. Più cauto, più pacato, Fritz guarda gli eventi con una certa distanza. Nel luglio del 1941 giudica «problematica» la vittoria tedesca, mentre qualche mese dopo Martin calcola la distanza dell’esercito da Mosca: «Solo 30 chilometri!». Quando l’isolamento politico, filosofico, soprattutto umano, tormenta e angustia il filosofo, Fritz gli resta accanto. Lo sostiene; legge i suoi scritti. «Ho iniziato a studiare la Storia dell’essere, frase per frase». Si capisce perché Heidegger vada spesso a Messkirch e, quando è lontano, spedisce al fratello una lettera dopo l’altra. Ricorda la loro infanzia, apprezza quel forte legame fraterno, parla delle loro passeggiate lungo il sentiero di campagna.
A lui si rivolge nel febbraio del 1946 da Badenweiler, vicino Friburgo, dove è ricoverato nella clinica psichiatrica. Non è chiaro che cosa lo «spirito del mondo» intenda fare dei tedeschi, né perché voglia servirsi, per i suoi disegni, degli americani. Lieber Fritz - gli scrive - «nell’epoca della spaesatezza», in cui nessuno più è a casa, nel tempo della «piattezza planetaria», resta la possibilità di una dimora. Per lui è quel rapporto con il fratello. «La dimora resta, Fritz; siamo noi a rifondarla».
Antonio Giuliano. Ricordi di un archeologo: “Per tutta la vita ho studiato il passato mi sento un esodato dalla tecnologia” (di Antonio Gnoli):
[...] Freud fu un appassionato di mondo antico e di archeologia, in particolare.
"Non capiva sempre l’importanza di quello che vedeva. E spesso acquistava oggetti insignificanti sul piano formale. Un suo consulente fu Emanuel Loewy, che detenne a Roma la prima cattedra di archeologia. Era viennese come Freud. Parlava un italiano buffissimo. Questo a detta di Roberto Longhi che seguì alcune sue lezioni al museo dei Gessi a Testaccio".
Buffe in che senso?
"Si esprimeva in un italiano appreso dai libri, artificioso. Nel 1915, allo scoppio della guerra, Loewy si rifugiò in Svizzera, come austriaco non voleva combattere contro l’Italia. Il mio professore Giulio Quirino Giglioli, suo allievo, gli fece avere una pensione, in anni in cui gli austriaci non erano visti di buon occhio". [...]
FILOSOFIA E PSICOANALISI: A GLORIA ETERNA DI FREUD. Con l’aiuto di Edipo, ha gettato una grande luce su Mosè e con l’aiuto di Mosè ha gettato una grande luce su Edipo. Con questo doppio movimento, egli ha liberato il cielo - e la terra....
Se dopo il Padre viene uccisa anche la Legge
All’inizio il capofamiglia sedeva sul trono e governava per il suo godimento. Poi i figli presero il potere e il loro rimorso creò le regole-totem del nuovo ordine. Nacque così il patto sociale con il suo tabù: nessuno occuperà in modo arbitrario il trono vuoto. Ora quel vuoto non solo non è riempito ma ha perso ogni significato
di Massimo Recalcati (la Repubblica, 03.01.2016)
Il nostro tempo sembra cancellare ogni forma di tabù. La disinibizione e l’assenza di vergogna e di senso di colpa trionfano alla faccia del vecchio uomo del Novecento ancora preso dai grandi dissidi morali tra il bene ed il male, le ragioni individuali e quelle della Storia, il progresso e la tradizione, gli Ideali e la pulsione.
Le lacerazioni tragiche del Novecento hanno lasciato il posto ad un disincanto generalizzato che sembra aver annullato l’esperienza angosciata del tabù. Una vignetta clinica può darci il senso di quello che sta accadendo. È il caso di un giovane che, insieme a dei suoi compagni, nel corso di una rapina, ha ucciso brutalmente un anziano. Nel colloquio in carcere con lo psicologo dichiara che dopo aver commesso il crimine non ha avvertito alcun senso di colpa. La sua giornata è scivolata via come se niente fosse. Ha dormito profondamente, la mattina ha fatto colazione e si è recato normalmente a scuola. Tutto era come prima. Non siamo di fronte alla lacerazione dostoevskijana tra il senso della Legge e la sua trasgressione colpevole. Il delitto non sembra più in rapporto all’esigenza morale del castigo; la colpa non divora il criminale, non lo costringe all’insonnia, non lo tormenta.
Mentre l’uomo dostoevskijano vive il dramma dell’infrazione della Legge, il giovane criminale, dopo aver compiuto il delitto, si reca tranquillamente a scuola ridendo e scherzando con i suoi amici. Egli vive un altro genere di angoscia. Quale? La confida allo psicologo: la vertigine che lo ha assalito il giorno successivo al crimine - dopo essere stato arrestato - scaturisce dalla sensazione della inesistenza della Legge; ovvero, dalla percezione che tutto, senza la Legge, è diventato possibile; anche l’uccisione spietata di un uomo per qualche euro. Diversamente dall’uomo dostoevskijano che sprofonda nell’abisso del senso di colpa di fronte al volto severo e inflessibile della Legge, per questo giovane assassino l’angoscia scaturisce dalla dimensione totalmente inconsistente della Legge.
Siamo di fronte a un’esperienza che rovescia la genesi del tabù così come Freud l’aveva concepita nel 1913 in uno dei suoi testi più visionari qual è Totem e Tabù. In quel libro, sulle orme di Darwin, il padre della psicoanalisi aveva immaginato che la prima forma organizzata di vita umana avesse come protagonista un padre titanico, geloso e crudele, possessore di tutte le donne (il Padre dell’orda), che confondeva arbitrariamente la Legge col proprio godimento. Di fronte a questa tirannia permanente i figli-fratelli, ai quali era proibito l’accesso alle donne, decidono di allearsi uccidendo il padre e divorando il suo corpo in un pasto tribale. Il fatto che i fratelli si cibino delle carni del padre manifesta tutta l’ambivalenza del loro legame al padre: ucciso in quanto oggetto d’odio, ma sbranato in quanto oggetto d’amore affinché la sua potenza illimitata possa essere incorporata dai suoi figli.
Il termine “rimorso” trova qui il suo significato più profondo: divorando il corpo del padre temuto ma amato, i figli si sentono morsi dalla colpa. L’esito del rimorso è l’instaurazione del totem: il padre morto continua a vivere sebbene non più nella forma della tirannia capricciosa, ma in quella dell’autorità simbolica incarnata nel totem.
La sua morte è, dunque, all’origine del senso stesso della Legge; il totem diviene, al tempo stesso, oggetto di venerazione e di angoscia, commemorando l’assassinio del padre e il rimorso che esso ha suscitato. Da quel momento in poi, si instaura il divieto dell’incesto che obbliga tutti i figli all’esogamia. Il senso della Legge sorge come effetto retroattivo dell’atto parricida: mentre in Edipo il parricidio infrange la Legge conducendo il figlio verso l’abisso dell’incesto e della distruzione, in Totem e Tabù esso genera la Legge.
La vita democratica della Comunità si rende possibile solo attraverso il tabù che sorge in seguito all’uccisione del padre. È solo la morte del padre che pretende di essere la Legge, di fare coincidere la Legge con la sua volontà di godimento, a costituire la condizione della nascita di una Legge più umana e della Cultura stessa. Il patto sociale sostituisce il caos della violenza; la pulsione deve sublimarsi nel riconoscimento di una Legge che, trovando il suo fondamento nel padre morto, vale per tutti, non è più Legge ad personam. Nessuno può occupare il posto del padre morto perché si tratta di un posto destinato a rimanere vuoto. I totalitarismi del Novecento e i fondamentalismi di ogni genere mostrano, a rovescio, l’inferno che può generarsi dal suo riempimento fanatico.
Nel nostro tempo il rischio però non è quello di riempire il vuoto lasciato dal padre morto, ma, nella dissoluzione neo-libertina di ogni tabù, di fare venire meno il rispetto verso la Legge. È la vertigine che assale il giovane assassino: non esiste un argine, un limite, una barriera che possa contenere il suo atto. In questo modo l’assenza della Legge sembra diventare l’unica forma della Legge; se tutto diventa possibile, se dopo aver compiuto un crimine efferato tutto resta come prima - senza senso di colpa e senza rimorsi - non sarebbe forse necessario rivalorizzare il tabù come effetto della Legge?
In principio era il Logos (non il "Logo")!!!
Le radici dell’Eu-ropa e il "fascismo" (di tutte le ispirazioni). Il "gioco" di ogni progetto e "duce" autoritario è stato sempre questo: "AF-FASCInARE" E "AG-GIOGARE" IL POPOLO. NELLO AJELLO ed EMILIO GENTILE fanno il punto sul "LOGO" DI MUSSOLINI.
HEIDEGGER, KANT, E LA MISERIA DELLA FILOSOFIA - OGGI.
RIPENSARE L’ EUROPA!!! CHE COSA SIGNIFICA ESSERE "EU-ROPEUO".
Freud sperava in Mussolini contro Hitler
di Dino Messina (Corriere La Lettura 13.10.2013)
Alla fine di aprile 1933 Sigmund Freud ricevette nel suo studio viennese una visita dall’Italia. Era il suo allievo Edoardo Weiss, con il drammaturgo Giovacchino Forzano, noto per aver scritto con Benito Mussolini il dramma Campo di maggio, sui cento giorni di Napoleone, e la figlia dello scrittore, Concetta, per cui era stato chiesto un consulto. Un appuntamento di ordinaria amministrazione, se non fosse che tra Forzano e Freud avvenne uno scambio di libri. L’italiano regalò al grande medico una copia di Campo di maggio con la dedica «a Sigmund Freud che renderà migliore il mondo, con ammirazione e riconoscenza Benito Mussolini und G. Forzano».
Non si sa se il Duce sapesse di questa iniziativa del suo coautore, ma è certo che Freud ringraziò e inviò al capo del fascismo l’opuscolo che aveva scritto a quattro mani con Albert Einstein, Perché la guerra? Suona strana la scelta di donare un volume pacifista a un assertore della «violenza purificatrice», ma sembra stonata anche la dedica di Freud: «A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel detentore del potere riconosce l’eroe della civiltà».
Attorno a questo episodio Roberto Zapperi ha costruito l’interessante saggio Freud e Mussolini. La psicoanalisi in Italia durante il regime fascista (Franco Angeli, pp. 140, € 18), che è la migliore risposta alle accuse contro Freud mosse da Michel Onfray nel suo Crepuscolo di un idolo (Ponte alle Grazie).
Freud, a differenza di quel che scrive il filosofo francese, non ebbe mai simpatie verso il fascismo. Allora perché una dedica così altisonante verso il capo di un regime che lo considerava alla stregua di un sovversivo, tanto che dal 1930 pendeva una sorta di mandato di cattura contro di lui? Freud aveva visitato molte volte Roma e amava l’archeologia. Ma il vero motivo dell’elogio sta nelle speranze che il grande viennese riponeva nella politica di Mussolini verso l’Austria. Considerava l’Italia fascista un baluardo contro l’annessione da parte della Germania, che poi avvenne nel 1938. Quel che temeva più di ogni altra cosa Freud era l’antisemitismo dei nazisti. E negli anni precedenti all’esilio prendeva in considerazione con realismo ogni pur debole alternativa.
Il Duce: vade retro Freud
di Nicola Tranfaglia (il Fatto, 10.06.2011)
Un paese dominato da una dittatura ignorante, che fuori d’Italia non conosce neppure Freud, che diffida e respinge la nuova scienza psicanalitica che sta per conquistare gli Stati Uniti, che discrimina gli ebrei e chi sta a sinistra, che, insomma, è fuori del mondo civile occidentale. Questo emerge dai documenti degli anni Trenta che emergono dai nostri archivi se li si legge con attenzione.
È DI PARTICOLARE interesse in questa Italia, che sembra finalmente aver cominciato a svegliarsi (dopo diciassette anni di populismo autoritario) leggere un rapporto riservato che il ministero degli Esteri, guidato da Mussolini, invia al Questore di Roma e alla Direzione Generale di Polizia il 26 aprile 1935, a proposito dell’autorizzazione, richiesta dallo psicologo italiano Emilio Servadio, di aderire alla Società Psicoanalitica di Vienna e alla Società Psicoanalitica Internazionale. Il Rapporto - ora custodito nell’Archivio centrale dello Stato - mette in luce con chiarezza due problemi presenti in quel momento.
Primo: l’avversione pregiudiziale dell’Italia fascista verso quello che viene chiamato, con termini italiani, il dottor Sigismondo Freud, per ragioni razziali, ma anche per le sue opinioni politiche vicine alla sinistra, i socialdemocratici e i comunisti. (Il documento accenna anche a un’amicizia di Freud per l’anarchico antifascista italiano Camillo Berneri, che sarà ucciso in Spagna dai comunisti nel 1937).
Il secondo problema è la diffidenza della dittatura, ma anche della cultura ufficiale italiana (basta leggere La psicanalisi nella cultura italiana di Michel David da Bollati Boringhieri nel 1966 per rendersene conto), nei confronti della psicologia e della psicanalisi di cui, nel rapporto del ministero, emerge un accenno eloquente quando si dice all’inizio: “Mi risulta che si tratta di una scienza, seriamente combattuta da luminari nel campo delle malattie nervose, con a capo quella celebrità che risponde al nome del professore Werner Jauregg”.E si aggiunge che “effettivamente la psicanalisi non ha messo finora piede nel sacrario dell’Università di Vienna. La psicoanalisi, come predicata dal suo creatore, dottor Sigismondo Freud, è considerata qui più sotto l’aspetto reclamistico e affaristico. Il Freud gode fama di buon medico e di non cattivo psichiatra, ma non anche di una celebrità”.
Ma quali sono le ragioni che avanza il rapporto diplomatico per negare, come dirà nelle ultime righe, l’autorizzazione richiesta dal dottor Servadio di aderire alle due associazioni psicoanalitiche?
La prima ragione è indiretta, ma importante per i funzionari fascisti. Il rapporto ricorda che l’8 agosto 1930 la direzione della “Goethe Preiss-Stiftung” di Francoforte aveva assegnato al dott. Freud il premio di 10.000 marchi per i suoi meriti nel campo psicoanalitico. E riporta il fatto, politicamente significativo, che “il giornale di sinistra viennese Tag, nel suo numero del 9 agosto 1930, comunicava, con evidente compiacimento, che questa premiazione serviva a comprovare come il Freud godesse all’estero di un prestigio, che in patria gli veniva negato”. E si aggiunge ancora per chi non lo avesse capito “che la direzione di Francoforte de la “Goethe” era allora in mano di ebrei e di orientati a sinistra.”
Insomma, il documento mette insieme la connotazione “razziale”, presente nell’Italia fascista, molto prima delle leggi razziali del 1938, come cercavano invano di negare i maggiori esponenti del revisionismo storico in Italia fino agli ultimi anni, e quell’orientamento a sinistra che si attribuisce a Freud e altri medici che fanno parte della direzione della sua associazione psicoanalitica, a cominciare da sua figlia Anna Freud e dal dottor Paolo Feder come dal dottor Ervino Subak e dal figlio di Feder, Ernesto, tutti indiziati, secondo i funzionari, di rapporti stretti con il partito socialdemocratico austriaco e con le riviste che a quel partito facevano riferimento.
È QUESTA LA RAGIONE di fondo per negare l’autorizzazione al dottor Servadio di aderire a quelle associazioni e di condannare, per così dire, l’attività di Freud e dei suoi amici. Il ministero degli Esteri, come la direzione della polizia, nulla dicono sulle dispute scientifiche né sul valore della psicanalisi, ma gli orientamenti politici e razziali dei medici vicini a Freud sono sufficienti per vietare al medico italiano, per giunta di origine ebraica (si ricorda che “la madre del dr Servadio, senza voler con ciò toccare la sua onorabilità, sembra essere israelita”) di aderire alla scienza creata da Freud.
In sintesi un documento esemplare del fascismo al potere nel quale l’accusa a Freud è di essere ebreo e di sinistra e perciò sgradito e inaccettabile per il fascismo e il dottor Servadio lo diventerebbe qualora aderisse alla Società psicanalitica viennese.
L’ITALIA COL BAVAGLIO: LA SOLUZIONE FINALE, "I PAPI", E I NIPOTI DI "PILATO" EICHMANN.
Berlusconi cita Mussolini all’Ocse
"Io non ho nessun potere"
Durante la conferenza stampa a Parigi il presidente del Consiglio riporta una frase dai diari del Duce. Poi afferma che malgrado la manovra il suo gradimento è al 62%. L’Idv: "Si rpenda un periodo di riposo" *
PARIGI - Conferenza stampa del vertice Ocse a Parigi. L’Italia è presidente di turno. E Berlusconi cita i diari di Benito Mussolini. ""Come primo ministro non ho mai avuto la sensazione di essere al potere, quando ero imprenditore e avevo 56mila collaboratori avevo la sensazione di avere del potere. In una vera democrazia sono al servizio di tutti, tutti mi possono criticare e magari anche insultare. Chi è in questa posizione non ha veramente potere", dice il presidente del Consiglio. Poi tira in ballo i diari del Duce, letti "recentemente": "Oso citarvi una frase di colui che era considerato come un grande dittatore: dicono che ho potere, ma io non ho nessun potere, forse ce l’hanno i gerarchi, ma non io. Io posso solo decidere se far andare il mio cavallo a destra o a sinistra, ma nient’altro". "Lo stesso succede a me, tanto che tutti hanno il diritto sia di criticarmi che di insultarmi...", aggiunge il premier. "Quindi - conclude - il potere se esiste non esiste addosso a coloro che reggono le sorti dei governo dei vari Paesi". Il che non impedisce che Berlusconi vanti durante la conferenza stampa un gradimento altissimo: "Malgrado la manovra di sacrificio, il mio apprezzamento come primo ministro è oltre il 62%".
Le parole di Berlusconi suscitano immediate reazioni in Italia. "Citare Mussolini durante l’incontro dell’Ocse a Parigi - commenta il portavoce dell’Idv Leoluca Orlando - è l’ennesima gaffe internazionale di un capo del governo che scherza su tutto, ormai privo di ogni freno inibitorio". E ancora: "Quello del presidente del Consiglio è l’atteggiamento di chi vive una profonda condizione di insicurezza. Noi riteniamo che Berlusconi debba dimettersi oppure si debba concedere un periodo di riposo per il bene dell’Italia. Limiti i danni che sta facendo alle credibilità del nostro Paese e ai diritti degli italiani e ci risparmi almeno il saluto romano e la camicia nera".
Per il presidente dei Verdi Angelo Bonelli, "le parole pronunciate da Berlusconi a Parigi suonano come un’umiliazione della democrazia e della Costituzione su cui il presidente del Consiglio ha giurato e che, lo ricordiamo, nasce proprio dalla vittoria sul fascismo". "Con l’autoparagone a Benito Mussolini - prosegue - Berlusconi conferma la sua tentazione di voler creare le condizioni per una svolta autoritaria, accentrando in sé tutti i poteri, e dimostra che il rischio concreto di una svolta antidemocratica in Italia esiste".
* la Repubblica, 27 maggio 2010
L’ITALIA, Il "MONOTEISMO" DELLA COSTITUZIONE, E IL "BAAL-LISMO" DEL MENTITORE (1994-2010). IL SONNO DELLA RAGIONE COSTITUZIONALE GENERA MOSTRI, ATEI E DEVOTI ...
L’UNITA’ INDIVISIBILE DELLA REPUBBLICA E L’UNITA’ DEI CITTADINI: QUALE RAPPORTO? QUALE "UNITA’" SI VUOLE COSTRUIRE E CUSTODIRE?! QUELLA DELL’"UNO" DELLA LEGGE E DEL DIRITTO O QUELLA DELL’"UNO" DEL FUORILEGGE E DELLA MENZOGNA? QUALE UNITA’ DA CUSTORIRE. Una nota di Michele Ainis
(...) l’esperienza insegna che i valori costituzionali possono venire erosi gradualmente, in forme oblique, attraverso una pioggia d’episodi minori che in conclusione ne faccia marcire le radici. E questo pericolo chiama in causa non solo il Capo dello Stato, bensì ciascuno di noi, la vigilanza di ogni cittadino (...)
La postmodernità secondo Bauman
di Zygmunt Bauman
Anticipiamo un brano del libro di "Modernità e ambivalenza" pubblicato da Bollati Boringhieri e in uscita in questi giorni. *
Il crollo delle "grandi narrazioni" (come le definisce Lyotard) - il dissolversi della fede nelle corti d’appello sovraindividuali e sovracomunitarie - è stato visto con timore da molti osservatori, come un invito a una situazione del tipo "tutto va bene", alla permissività universale e dunque, alla fine, alla rinuncia a ogni ordine morale e sociale. Memori della massima di Dostoevskij «Se Dio non esiste, tutto è permesso», e dell’identificazione durkheimiana del comportamento asociale con l’indebolirsi del consenso collettivo, siamo giunti a credere che, a meno che un’autorità imponente e indiscussa - sacra o secolare, politica o filosofica - non incomba su ogni individuo, il futuro ci riserverà probabilmente anarchia e carneficina universale. Questa credenza ha efficacemente sostenuto la moderna determinazione a instaurare un ordine artificiale: un progetto che sospettava di ogni spontaneità finché non se ne provava l’innocenza; un progetto che metteva al bando tutto ciò che non era esplicitamente prescritto e identificava l’ambivalenza con il caos, con la "fine della civiltà" così come la conosciamo e potremmo immaginarla.
Forse la paura scaturiva dalla coscienza repressa che il progetto era condannato fin dal principio; forse era coltivata deliberatamente, dal momento che svolgeva l’utile ruolo di baluardo emotivo contro il dissenso; forse era solo un effetto collaterale, un ripensamento intellettuale nato dalla pratica sociopolitica della crociata culturale e dell’assimilazione forzata. In un modo o nell’altro, la modernità decisa a demolire ogni differenza non autorizzata e tutti i modelli di vita ribelli non poteva che concepire l’orrore per la deviazione e trasformare la deviazione in sinonimo di diversità. Come commentano Adorno e Horkheimer, la cicatrice intellettuale ed emotiva permanente lasciata dal progetto filosofico e dalla pratica politica della modernità è stata la paura del vuoto; e il vuoto era l’assenza di uno standard vincolante, inequivocabile e applicabile a livello universale.
Della popolare paura del vuoto, dell’ansia nata dall’assenza di istruzioni chiare che non lascino nulla alla straziante necessità della scelta, siamo informati dai racconti preoccupati degli intellettuali, interpreti designati o autodesignati dell’esperienza sociale. I narratori però non sono mai assenti dalla loro narrazione, ed è un compito disperato quello di provare a separare la loro presenza dalle loro storie. È possibile che in generale ci fosse una vita fuori dalla filosofia, e che questa vita non condividesse le preoccupazioni dei narratori; che se la passasse piuttosto bene anche senza essere disciplinata da standard di verità, bontà e bellezza provati razionalmente e approvati filosoficamente.
È possibile persino che molta di questa vita fosse vivibile, ordinata e morale proprio perché non era ritoccata, manipolata e corrotta dagli agenti autoproclamati della "necessità universale". Ma non c’è dubbio sul fatto che una particolare forma di vita non possa passarsela bene senza il sostegno di standard universalmente vincolanti e apoditticamente validi: si tratta della forma di vita dei narratori stessi (più precisamente, la forma di vita che contiene le storie narrate per gran parte della storia moderna).
È stata soprattutto quella forma di vita a perdere il suo fondamento una volta che i poteri sociali hanno abbandonato le loro ambizioni ecumeniche, e a sentirsi dunque minacciata più di chiunque altro dal dissolversi delle aspettative universalistiche. Finché i poteri moderni si sono aggrappati con risolutezza all’intenzione di costruire un ordine più efficace, guidato dalla ragione e dunque in definitiva universale, gli intellettuali non hanno avuto grande difficoltà ad articolare la loro rivendicazione a un ruolo cruciale nel processo: l’universalità era il loro dominio e il loro campo di specializzazione.
Finché i poteri moderni hanno insistito sull’eliminazione dell’ambivalenza come misura del miglioramento sociale, gli intellettuali hanno potuto considerare il loro lavoro - la promozione di una razionalità universalmente valida - come veicolo principale e forza trainante del progresso. Finché i poteri moderni hanno continuato a denigrare, mettere al bando e sfrattare l’Altro, il diverso, l’ambivalente, gli intellettuali hanno potuto contare su un massivo supporto alla loro autorità di giudicare e di distinguere il vero dal falso, la conoscenza dalla mera opinione.
Come il protagonista adolescente dell’Orfeo di Jean Cocteau, convinto che il sole non sorgesse senza la serenata della sua chitarra, gli intellettuali si sono convinti che il fato della moralità, della vita civile e dell’ordine sociale dipendesse dalla loro soluzione del problema dell’universalità: dalla loro capacità di fornire la prova decisiva e definitiva del fatto che il "dovere" umano sia inequivocabile, e che la sua inequivocabilità abbia fondamenti incrollabili e totalmente affidabili.
Questa convinzione si è tradotta in due credenze complementari: che non ci sarebbe stato niente di buono nel mondo, a meno che non ne fosse provata la necessità; e che provare questa necessità, se e quando ci si fosse riusciti, avrebbe avuto sul mondo un effetto simile a quello attribuito agli atti legislativi di un governante: avrebbe sostituito il caos con l’ordine e reso trasparente ciò che era opaco.
L’effetto più spettacolare e durevole dell’ultima battaglia della verità assoluta non è stato tanto la sua inconcludenza, derivante come direbbero alcuni dagli errori di progetto, ma la sua totale irrilevanza per il destino mondano di verità e bontà. Questo destino è stato deciso molto lontano dalle scrivanie dei filosofi, giù nel mondo della vita quotidiana dove infuriavano le lotte per la libertà politica e dove si spingevano avanti e si ricacciavano indietro i confini dell’ambizione statale di legiferare sull’ordine sociale, di definire, segregare, organizzare, costringere e reprimere.
* la Repubblica, 12 maggio 2010
Il regno dei barbari
L’era moderna in Italia è finita, dice Scalfari Ma la vera domanda è un altra: sono gli invasori incolti ad aver vinto o è la sinistra ad aver perso?
di Nicola Tranfaglia (l’Unità, 18.05.2010)
Eugenio Scalfari, ospite in una trasmissione televisiva per il suo ultimo libro, ha detto che in Italia l’era moderna è finita e che siamo in un’età contemporanea abitata e dominata dai barbari. Constatazione condivisibile ma fino a un certo punto. Chi ha vissuto con strumenti storici la crisi del vecchio sistema politico del ’92-94 e l’ascesa di Berlusconi non può dimenticare che sono stati proprio molti “moderni”, di cui parla Scalfari, a favorire l’arrivo dei barbari con i loro gravi errori a sinistra come, altrettanto, a destra. E ancora, mentre i barbari ormai impazzano, assistiamo ai soliti scontri tra moderni che assomigliano ai barbari e ripetono all’infinito le vecchie lotte di potere, sempre le stesse.
Affronta la contraddizione di questo periodo con armi più leggere, ma per certi versi più efficaci, un giornalista colto come Piero Dorfles, immaginando di essere un dinosauro di fronte ai barbari di oggi e scrivendo un saggio assai godibile che si intitola Il ritorno del dinosauro. Una difesa della cultura (Garzanti, pp.205, 18 euro) e che mette in luce l’atteggiamento molto negativo delle classi dirigenti, soprattutto di governo, sull’istruzione, sull’università e sulla ricerca, quindi sulla cultura degli italiani.
Da questo punto di vista, vale la pena parlare di un documento straordinario come il Carteggio Pannunzio-Salvemini 1949-1957 (pp 190) edito dall’Archivio Storico della Camera dei Deputati, che rievoca l’incontro felice che si realizza in un periodo difficile, come quello del dopoguerra caratterizzato da un’aspra guerra fredda in cui è immersa l’Italia, tra lo storico pugliese Salvemini, appena tornato dal lungo esilio americano per sfuggire al fascismo, e il giornalista italiano Mario Pannunzio che aveva ripudiato il passato fascista e credeva a una repubblica democratica come quella costruita dall’Italia con la Costituzione del 1948.
Le diffidenze iniziali, che pure c’erano state nel primo incontro, erano state fugate dalla comune volontà delle due personalità che avevano una fede comune nella democrazia occidentale dopo lo scoppio della guerra fredda e Salvemini decide di collaborare al Mondo, il nuovo settimanale fondato da Pannunzio che rappresenta, come osserva a ragione Massimo Teodori nel suo saggio introduttivo, «la reazione alla crisi della forze di democrazia laica emarginate nel 1948» dal governo De Gasperi che si preparava a sostenere, con la cosiddetta “legge truffa” una battaglia mortale il 18 aprile 1948 con i partiti socialista e comunista costretti dalla guerra fredda a passare all’opposizione anche per la loro vicinanza all’Unione Sovietica.
In quello scontro la Democrazia Cristiana non vinse, perché la legge truffa non scattò, ma riuscì a tenere all’opposizione i partiti della sinistra e si aprì un scontro a lungo termine tra le esigenze costituzionali dell’opposizione e le ragioni della democrazia repubblicana. Il settimanale di Pannunzio, a sua volta, tenne diritta la barra tra la battaglia per i diritti civili e una democrazia avanzata, continuando peraltro a difendere le ragioni dell’alleanza occidentale contro il blocco orientale e filosovietico.
Il carteggio è ricco di notizie sulle grandi campagne giornalistiche condotte dal settimanale per un’Italia consapevole della sua migliore tradizione democratica e furono alla base di quei convegni del Mondo sulla libera concorrenza, sui monopoli, sullo Stato imprenditore, sulla corruzione, sulle interferenze del Vaticano, che avrebbero preparato, assai meglio di altri dibattiti, la nascita del centro-sinistra e di quella che negli anni sessanta sarebbe stata, pur con le sue inevitabili contraddizioni, la stagione delle riforme possibili nella difficile situazione internazionale.
Furono l’espressione di una mentalità illuministica (su cui sono preziose le Lezioni illuministiche di Enzo Ferrone edite da Laterza (200 pagine, 22 euro) che oggi manca nelle classi dirigenti e che è all’origine, non soltanto del fanatismo e degli scontri feroci all’interno della classe politica, ma anche di un tatticismo esasperato che ha sostituito, grazie al tramonto delle grandi ideologie palingenetiche, il modo di agire dei governi e dei partiti. Capita spesso anche a chi scrive di aver nostalgia di quella grande stagione di tre secoli fa in cui un gruppo di illuministi in Francia, ma anche in Italia, superò l’epoca feudale e l’ancien regime e aprì la strada alla modernità e alla democrazia. Ma possiamo sperare, oggi, in un ritorno dell’illuminismo?