Onfray: un bigotto anti Freud
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 05.05.2010)
Ma quante sciocchezze scrive il «filosofo» Michel Onfray nel suo ultimo saggio su Freud! Se non fosse che Onfray è ben noto per la sua «specialità» scandalismo pruriginoso e distruttivo si potrebbe parlare di un vero e proprio Malleus maleficarum contro la psicoanalisi, di caccia alle streghe.
Ma siamo in tempi di esibizionismo narcisistico e nessuno si scandalizza più di certe scomuniche, specie se vibrate da uno Sgarbi francese come Onfray, tardo epigono dell’antipsicoanalismo transalpino sulla scia del Libro nero della psicoanalisi. Però le bestialità vanno rettificate. Ad esempio ne Il crepuscolo di un idolo. L’affabulazione freudiana (tra poco per Ponte alle Grazie) ci sono affermazioni assurde.
Tipo: Freud nascose il suo debito con Nietzsche. È falso. Freud confessò il suo debito, scrivendo che non voleva leggere troppo Nietzsche, per non restarne influenzato!
Falso che Freud teorizzasse la rinuncia alla sessualità... per sublimarla nella psicoanalisi. Vero è invece che «sublimazione» significa canalizzazione e investimento (parziale) della sessualità in oggetti d’amore o in creatività. Così come è falso che Freud pensasse che «non si guarisce mai» perché non ci si può sottrarre alle «pulsioni». Non si guarisce se si negano e rimuovono le pulsioni.
Falso che Freud appoggiasse i fascismi.Credeva di poter salvare il salvabile agli inizi, e per salvare la psicoanalisi in Italia fa una innocua dedica a Mussolini in Perché la guerra. Grottesca poi l’accusa di aver inventato «l’attenzione intermittente»... per potersi appisolare in seduta. È una cosa che come è noto ha a che fare con l’immedesimazione emotiva col paziente e che richiede un certo fluttuare della mente dell’analista.
Folle infine l’accusa di antisemitismo, sol perché il Mosè di Freud non era ebreo ma egiziano. Era solo un’ipotesi. Ma conta in Mosè e il Monoteismo l’esaltazione del Dio ebraico, vera roccia dell’Autorità e della Civiltà per Freud, un gigante che la puerilità bigotta di certe accuse come quelle di Onfray ci fanno apprezzare ancora di più.
SUI TEMI: PSICOANALISI, DIRITTI UMANI,SIONISMO, NAZISMO, FASCISMO, L’UOMO MOSE’ E IL MONOTEISMO ... in rete, si cfr.:
PER LA CRITICA DELL’ANTROPOLOGIA E DELLA TEOLOGIA MAMMONICA E FARAONICA. E PER L’USCITA DA INTERI MILLENNI DI "PREISTORIA" E DI "LABIRINTO" ...
DAL DISAGIO ALLA CRISI DI CIVILTA’: FINE DEL "ROMANZO" EDIPICO DELLA CULTURA CATTOLICO-ROMANA.
Federico La Sala
***
Elisabeth Roudinesco.
Per ricostruire l’ambiente storico del fondatore della psicoanalisi mi ispirai a Le Goff
Intervista. "Insieme a Derrida organizzai nel 2000 gli Stati Generali della psicoanalisi: l’eco fu enorme, ma si spense presto"
di Fabrizio Palombi (il manifesto, Alias Domenica, 15.11.2015)
La sua biografia si aggiunge, oggi, ai numerosi studi già pubblicati in tutto il mondo su Sigmund Freud. Quale esigenza l’ha indotta a scriverla, e come riassumerebbe quel che differenzia il ‘suo’ Freud da quello di altri studiosi?
Avevo l’urgenza di studiare nuovamente Freud, in una prospettiva storica e perciò mi sono ispirata all’impostazione con la quale Jacques Le Goff ha scritto il suo libro su San Luigi, nel quale si mostra come il santo venisse pensato diversamente a seconda delle diverse epoche storiche. Volevo sottolineare la necessità e l’attualità di un nuovo «ritorno a Freud», che coinvolga, non tanto e non solo gli psicoanalisti, ma gli studiosi e il grande pubblico, oltrepassando sia le posizioni antifreudiane sia quelle idolatriche. Il mio lavoro intende evidenziare l’importanza della rivoluzione simbolica freudiana che ha inventato il soggetto moderno, il soggetto edipico.
Quando parla della necessità di un «ritorno a Freud», si richiama a una esortazione resa celebre da Jacques Lacan: in che modo la frequentazione dei testi dello psicoanalista francese ha influenzato i suoi studi su Freud?
Il ritorno di Lacan a Freud non riguardò la dimensione storica: il problema, piuttosto, era leggerlo in modo diverso da quello psicologizzante, in voga negli anni cinquanta. Non c’erano ancora, al tempo, studi approfonditi sull’ambiente viennese, mancavano circa vent’anni alla pubblicazione dello studio di Henri Ellenberger e non era disponibile il materiale conservato negli archivi della Biblioteca del Congresso di Washington, documenti che io invece ho potuto usare ampiamente e dei quali ho proposto un inventario. Un ritorno a Freud in chiave storica penso possa rappresentare anche una efficace risposta a quelle ricostruzioni diffamatorie che lo hanno descritto, di volta in volta, come cocainomane, dittatore, reazionario o filonazista.
Nella sua autobiografia, pubblicata nel 1994, lei descrive gli incontri con grandi intellettuali della seconda metà del Novecento: Lacan, Foucault, Althusser, Derrida. Quali sono i ricordi più significativi che associa a ciascuno di loro?
Lacan lo conoscevo benissimo sin da bambina, perché era un amico di mia madre, anche lei psicoanalista. Successivamente, la pubblicazione dei suoi Scritti mi permise di scoprire il clinico e l’intellettuale, che trovai straordinari. Non ho mai avuto una conoscenza personale di Foucault però ho seguito un suo seminario all’università di Vincennes: il suo duplice versante, di storico e di filosofo, gli trasmetteva un grande fascino. Althusser l’ho incontrato nel 1972: era un uomo adorabile, un amico che mi ha incoraggiato a scrivere e ha avuto un ruolo importantissimo nella mia vita. Derrida l’ho conosciuto più tardi, nel 1986, e l’ho stimato molto sebbene avessi inzialmente criticato severamente i suoi testi e il suo orientamento filosofico.
In dialogo con Jacques Derrida ha scritto un libro, intitolato «Quale domani?», il cui primo capitolo riprende la questione dell’eredità, molto cara al filosofo francese. Anche lei concepisce i suoi lavori storici, e dunque questa recente biografia di Freud, come un lascito necessario a orientare le nuove generazioni?
Derrida ci ha lasciato una grande eredità insegnandoci che il modo migliore per essere fedeli a un maestro è quello di essergli infedeli: bisogna essere capaci di ammirare e di criticare contemporaneamente un autore per scriverne qualcosa d’interessante. Una delle esperienze che più mi ha segnato, nel mio rapporto con Derrida, è stata l’organizzazione degli Stati Generali della psicoanalisi nel 2000. Ne risultò una formidabile discussione, con studiosi provenienti da trentacinque paesi: al momento l’eco fu enorme, ma poi, purtroppo, andò rapidamente ad affievolirsi.
Dopo, ho avuto la sensazione che gli psicoanalisti si siano ritirati dalla vita intellettuale e scientifica pubblica, rifugiandosi nelle proprie scuole, incapaci di rispondere, nel senso derridiano, alle grandi questioni poste dagli Stati Generali: è il sintomo di una più generale loro inadeguatezza a fronteggiare l’altezza delle trasformazioni del mondo contemporaneo. Hanno condotto battaglie molto giuste contro gli eccessi della psichiatrizzazione e quelli dei trattamenti farmacologici senza però riuscire a rilanciare un confronto culturale con i nuovi problemi e saperi che sono andati affermandosi negli ultimi decenni. Alcuni hanno pensato di trovare conforto nelle neuroscienze: una scorciatoia teorica alla quale non sono favorevole perché dissolve l’autonomia e la specificità della psicoanalisi. Altri hanno attuato una sorta di ripiegamento estetizzante e apolitico, dedicandosi soprattutto agli studi letterari. Oggi si accontentano di essere psicoterapeuti senza interessarsi più alle questioni storiche e teoriche.
Lei racconta di aver seguito le lezioni tenute da Gilles Deleuze, di cui ricorre quest’anno il ventennale della morte, poco prima dell’uscita dell’Anti-Edipo nel 1972: come lo ricorda?
Sì, sono stata un’allieva di Deleuze all’università di Vincennes: era un insegnante straordinario, che riusciva a far saltare ogni forma di dogmatismo. Non ero d’accordo con lui su molte cose e, in particolare, sulla sua proposta di interpretare l’inconscio come fabbrica e non come tragedia. Le tesi dell’Anti-Edipo, ferma restando la grandezza del libro e il valore della sua scrittura, sono secondo me piuttosto insostenibili.
La ricerca storica sul passato recente si avvale dell’analisi dei documenti ma anche della voce dei testimoni diretti. Quanto hanno contato per lei le fonti, e quanto i testimoni? E come pensa si potrà andare avanti nella ricostruzione storica, per esempio della Shoah, ma non solo, ora che la generazione dei testimoni si va estinguendo?
Oggi, in tutto il mondo, sono rimaste poche le persone che hanno potuto conoscere Freud nella loro infanzia. Nella mia biografia, le testimonianze dirette hanno contato pochissimo anche se mi sono avvalsa del grande lavoro fatto da Kurt Eissler che ne ha trascritte tante. Al contrario, nel lavoro che ho dedicato a Lacan, ho potuto contare su duecento testimonianze di persone che l’avevano conosciuto. Si teme che la scomparsa degli ultimi sopravvissuti alla Shoah possa provocare un indebolimento della memoria collettiva di questa immane tragedia. Credo si tratti di una paura infondata perché i testimoni hanno già raccontato le loro dolorose vicende, che sono state trascritte. Non credo assolutamente che la morte degli ultimi sopravvissuti ai campi di sterminio potrà agevolare l’antisemitismo.
Lei torna sulla sua avversione a ogni forma di discriminazione e, in particolare, all’antisemitismo, anche nel capitolo della sua biografia dedicata a Freud intitolato «Di fronte a Hitler». La recente pubblicazione dei «Quaderni neri» di Heidegger ha ridimensionato la sua considerazione del filosofo tedesco?
Sono serena di fronte a questa questione, forse perché non sono mai stata heideggeriana. Il nazismo di Heidegger era già conosciuto fin dal 1933 e questo ha provocato un dramma imponendo subito a Karl Jaspers, Hannah Arendt e ai contemporanei di Heidegger un’inquietante domanda: in che modo l’autore di Essere e tempo ha potuto trovare nel nazismo una consonanza con il suo pensiero? Nel secondo dopoguerra tentò di presentarsi come una vittima mentendo sul suo passato nazista, ciò che ne fa ai miei occhi una persona esecrabile: si atteggiava a vittima senza aver mai speso una sola parola sullo sterminio degli ebrei. Ma è grottesco che in Francia si debba affrontare un affaire Heidegger, ogni dieci anni. -Ciclicamente si sostiene che è stata nascosta la compromissione di Heidegger con il nazismo; ma è una mistificazione. Il brutto libro di Victor Farias, pubblicato nel 1987 e dedicato a questo problema, non deve essere letto solo come un attacco contro il filosofo tedesco ma anche contro Derrida, considerato come uno dei massimi esponenti dello heideggerismo francese.
I Quaderni neri aggravano la posizione di Heidegger non solo per il loro contenuto antisemita ma per la loro collocazione nella successione dei volumi delle sue opere complete. Facendoli stampare nell’ultima parte delle Gesamtausgabe Heidegger stesso ha contribuito a nazificare per la posterità la sua opera che, invece, può essere letta in un’altra luce.
Ho toccato questo problema in alcune pagine del mio libro riguardanti l’antisemitismo di Heidegger che, tra l’altro, detestava Freud, perché sosteneva fosse il fondatore di un modo di pensiero, incompatibile con quello dell’essere, che tendeva a spiegare ogni cosa in termini puramente istintuali. Non credo che la filosofia di Heidegger sia completamente indenne dalle sue scelte politiche, anche se, come ha detto Derrida, la si può leggere in un altro modo: a condizione farsi carico di questo problema spaventoso.
Sta per terminare il 2015, l’anno in cui il saggio freudiano sull’«inconscio» ha compiuto un secolo, segnando una svolta fondamentale nel sapere sull’uomo. A suo parere, esistono ancora, da un punto di vista teorico, margini di lavoro sul concetto di ‘inconscio’?
Sicuramente ce ne sono molti anche se non condivido alcuni di quelli al centro dell’attuale dibattito psicoanalitico. Penso, innanzitutto, alla questione dell’inconscio originario, un ‘oltre’ l’inconscio, che sarebbe all’origine della psicosi; è una prospettiva di ricerca che riconduce il dibattito sul trauma e la seduzione infantile a un’interpretazione giustamente abbandonata da Freud. Credo si tratti di una china pericolosa che ha condotto alcuni, come Jeffrey M. Masson negli Stati Uniti, a interpretare tutti i traumi infantili come effetti di abusi di tipo sessuale. Un altro tipo di ricerca sull’inconscio, molto attuale, lo interpreta in senso neurologico e cognitivo tentando di trovare nei neuroni la conferma di alcune ipotesi di Freud. Non credo sia una strada giusta perché si confrontano indebitamente oggetti di studio appartenenti a ambiti completamente diversi: di certo non è possibile trovare la sede dell’inconscio psicoanalitico nei neuroni.
“Addio al vecchio complesso di Edipo. La neuroscienza non sa che farsene”
Saggio dello psichiatra Orbecchi: è ora di rottamare la psicanalisi di Freud
di Gabriele Beccaria (La Stampa, 10.03.2015)
Un secolo sul lettino e stiamo così così. Ma le nostre anime non sono state abbandonate. Anzi. La psicoterapia del futuro è già tra noi. Scintillante di scoperte, ci sta esplorando e promette - lei sì - di guarirci, rivoluzionando l’idea di mente e di personalità. E facendo molto meglio del padre-padrone Freud.
A raccontare il Rinascimento della psicoterapia è il saggio Biologia dell’Anima, (Bollati Boringhieri, pp. 187, €18). E stavolta non c’entrano improbabili terapie in forma di blitz o app sospese tra il tecnologico e il miracoloso. L’universo che racconta Maurilio Orbecchi assomiglia all’albero della vita di Darwin: a partire dalla radice evoluzionistica nei rami si intrecciano tante discipline, dalla psicologia animale alle neuroscienze, proiettandoci in una dimensione inimmaginabile per la psicanalisi: dimentichiamo tabù dell’incesto e complessi edipici. Solo da poco abbiamo capito che siamo creature ibride. Complicate. Un po’ angeliche e un po’ diaboliche, altruiste ed egoiste, in cui i poli della cognizione e dell’affettività sfumano l’uno nell’altro. Freud, che credeva nel «perverso polimorfo», ne sarebbe sconcertato.
Orbecchi, da psicoterapeuta, lei delinea un’inedita «cura dell’anima»: ma funziona? E come?
«Stiamo entrando in una nuova era attraverso una concezione trasversale: invece del classico modello isolato, come quello di Freud o Jung, assistiamo alla convergenza di diverse scuole di psicoterapia su uno schema comune, che nasce dalle scienze della vita e del cervello».
Chi sono i nuovi «maestri»?
«È una psicoterapia che nasce dal “basso”, ma con il contributo di tanti studiosi: per esempio l’americano Philip Bromberg, l’australiano Russell Meares, l’ungherese Peter Fonagy, gli italiani Giovanni Liotti e Vittorio Lingiardi».
Ammetterà che si è agli albori: non è così?
«Nei saggi “standard” di psicoterapia non si trova ancora, per esempio, una relazione chiara tra l’evoluzione e i modelli interpretativi psicoterapeutici. Il mio libro vuole colmare una lacuna e dimostrare come la teoria dell’evoluzione e la psicologia animale gettano luce su aspetti importanti della psicologia e psicopatologia della mente: sono aspetti che si rivelano diversi da quelli immaginati da Freud e Jung».
Niente complesso di Edipo?
«No. Perché dobbiamo immaginare fattori di nevrosi specifici per gli esseri umani, come, appunto, il desiderio incestuoso del complesso edipico, quando le carenze affettive e i maltrattamenti spiegano le nevrosi in tutti i mammiferi sociali? Oppure: perché immaginare in noi una pulsione di morte, quando di questa non c’è traccia nei primati non umani, mentre risentiamo dell’ossessione animale della dominanza che è alla base di tanti conflitti della nostra specie? O ancora: perché pensare che cerchiamo lo status per sublimare il mancato appagamento sessuale, quando nel mondo animale la ricerca di status avviene anche per ottenere maggiore disponibilità sessuale? Non occorre più evocare narrazioni mitologiche».
E allora come si guarirà?
«Partendo dalla consapevolezza che le guarigioni non avvengono attraverso i vecchi modelli interpretativi. Alcuni vengono addirittura invertiti: il paziente non cambia perché ha capito, ma capisce perché è cambiato grazie a un rapporto empatico, prima che cognitivo, con lo psicoterapeuta».
È il contrario dell’assunto freudiano che imponeva la distanza tra medico e paziente?
«Contraddice quell’assunto. Freud sosteneva di guarire l’inconscio attraverso la coscienza con la celebre frase “Là dove c’era l’Es ci sarà l’Io”. Il suo era un approccio cognitivo. Oggi, invece, l’approccio tende a diventare affettivo».
E l’idea di mente si trasforma: in che senso ha una struttura dissociativa?
«Freud credeva nell’Io unitario, ma oggi si è dimostrata l’esistenza di tanti processi psicobiologici che collaborano tra loro, con funzioni diverse, e che nel loro lavorìo generano una sensazione solo apparente di Io unitario: come avevano intuito William James e Pierre Janet, qualsiasi scelta facciamo scontentiamo qualche parte del nostro “parlamento interiore”. Se normalmente coordiniamo le parti, la cosa non ci riesce quando ci sono dei traumi, in età infantile o da adulti, senza dimenticare il ruolo di genetica ed epigenetica».
Nel libro lei «rimuove» l’interpretazione dei sogni: perché?
«Il tema resta aperto e la scienza dà risposte diverse: se abbiano un significato o se siano solo frammenti di eventi. Personalmente li uso in senso ermeneutico: facendo lavorare il paziente sulla costruzione di un senso».
“Freud è un po’ invecchiato ma la sua cura aiuta ancora”
Secondo lo psichiatra Maurilio Orbecchi “l’analisi è morta”
Gli risponde Antonio Ferro, presidente della Società psicoanalitica
di Egle Santolini (La Stampa, 11.03.2015)
Ogni tanto, ogni poco, ad Antonino Ferro tocca il compito di replicare a chi dà per spacciata la psicoanalisi. In Italia è probabilmente il meglio accreditato a farlo, come presidente della Società Psicoanalitica Italiana, considerata la freudianamente più ortodossa. Eppure, come scoprirete tra poco, le classificazioni troppo rigide non servono a una comprensione del tema.
Ferro, ci risiamo. Nella sua Biologia dell’Anima, e in un’intervista a La Stampa di ieri, Maurilio Orbecchi mette una croce sopra alla cura freudiana.
«Mi verrebbe da dire che dev’essere ben viva e che deve continuare a dare un gran fastidio, la psicoanalisi, se in tanti si ostinano a voler vederla morta. Invece è in ottima salute, serve e continua a far star meglio le persone: il che è l’elemento decisivo. Le pare che continuerei a esercitarla se non funzionasse? Il problema, semmai, mi sembra un altro. E cioè: di quale psicoanalisi stiamo parlando?»
Di quella, immagino, nata a Vienna un centinaio di anni fa.
«Appunto. Che Freud ci ha lasciato come un organismo vivo, in continua evoluzione, e che nel giro di un secolo ha saputo adattarsi ai cambiamenti. Secondo lei avrebbe senso che un infettivologo del 2015 si dicesse pasteuriano? È la medesima cosa. Il rito classico, come uno se l’immagina, sopravvive soltanto in certe roccaforti lefreviane. Pensi per esempio allo stereotipo dell’analista neutro, che resta muto per decine di sedute».
Quello da barzelletta, da vignetta del New Yorker.
«Appunto. Una figura che non esiste più, se si escludono quelle famose enclave tradizionaliste. L’analisi è fondamentalmente la storia di una relazione, di un lavoro a due in cui si costruisce e si narra insieme. Ed è la relazione a guarire».
Ma non è sempre stato così?
«In teoria. Però agli albori della disciplina quello che prevaleva era una forte asimmetria fra paziente e terapeuta, con un’accentuazione dell’aspetto interpretativo e l’analista un po’ in veste sacerdotale. L’inconscio era considerato come un’isola inespugnabile, una specie di Alcatraz. E il sogno come un apriscatole».
Questa deve spiegarcela meglio.
«Ha presente quegli apriscatole antiquati, con cui facevi un buco nella lattina finendo sempre per tagliarti? Ecco: il sogno, “la via regia all’inconscio”, secondo la vecchia definizione, veniva usato un po’ in questo modo. Oggi si è capito che il male, la sofferenza, vengono da ciò che nei sogni non è nemmeno contemplato: elementi non espressi, non pensati, non elaborati».
Non la usate più l’interpretazione dei sogni?
«Può capitare. Succede che qualche volta un sogno lo si ri-narri assieme, lo si dipani come un racconto, lavorandoci insieme. Ma abbiamo tanti altri strumenti a disposizione, e lo scopo non è tanto quello di “interpretare”, quanto quello di instaurare un assetto affettivo con il paziente, di mantenersi sulla sua lunghezza d’onda. Quello che cura è l’aspetto emotivo della faccenda: in psicoanalisi, conta più la pancia della testa».
Il che tra l’altro leva alla terapia viennese quell’aura punitiva, da rigido collegio mitteleuropeo, che ogni tanto ancora la circonda. A proposito di vecchio armamentario, Orbecchi è particolarmente tranchant con il complesso di Edipo. Che, secondo lui, non esiste...
«Si tenga forte: quando sono con un paziente, penso a quello che mi sta dicendo e non a Edipo».
...e rifiuta il concetto di pulsione di morte, sostenendo che non ve n’è traccia nei primati non umani.
«Si tenga ancora più forte: nella mia esperienza professionale, non ho mai avuto il piacere di essere presentato alla pulsione di morte. So che molti miei colleghi ci lavorano a fondo, ma non è il mio caso. Crede che per questo sia passibile di espulsione dalla Spi? ».
Un caso interessante, visto che ne è, ancora per due anni, il presidente.
«Forse con quell’espressione si intende un insieme di sofferenze non trasformate, non elaborate, che sono appunto ciò che fa soffrire il paziente e con cui, quelle sì, facciamo i conti tutti i giorni. Ma non sono le vecchie formule ad aiutare a guarire».
Veniamo a un altro argomento di Orbecchi, il più deciso. La nemesi della psicoanalisi arriverebbe dalle neuroscienze, che fornirebbero tutte le spiegazioni sfuggite a Freud e ai suoi eredi.
«Considero le neuroscienze come universi meravigliosi, e tenga conto che io nasco come neurochimico. Resta il fatto che tra le neuroscienze e la sofferenza delle persone si apre una distanza siderale. Quello che può aiutare, piuttosto, è la neuropsicofarmacologia. Soprattutto da quando la psicoanalisi si occupa di patologie particolarmente severe: è frequente che, in una prima fase, ci si affidi a due terapeuti diversi, uno che cura con le parole e l’altro con i farmaci, fino a quando il paziente non sia in grado di fare a meno delle medicine. Gliel’ho detto: è un mondo che progredisce ogni giorno. Non confondiamo un vecchio carretto con un’astronave».
Così il processo a Freud finisce con l’assoluzione
di Luciana Sica (la Repubblica, 18.04.2012)
Freud non è un truffatore, né un impostore e neppure ha abusato della credulità popolare. Mille e 20 gli innocentisti, 170 i colpevolisti - secondo il verdetto della giuria popolare: il pubblico che partecipa al "Processo a Sigmund Freud". Sala Sinopoli dell’Auditorium di Roma strapiena l’altra sera, eppure l’ingresso non è gratuito, costa anzi quindici euro.
Per ottenere la condanna o l’assoluzione dell’illustre imputato, vestono la toga giuristi di gran fama. A cominciare dal presidente della Corte, Giuseppe Ayala, che alla fine scandirà la sua sentenza: "La colpevolezza non appare provata in alcun modo". L’avvocato difensore è Gianluca Tognozzi. Pubblico ministero: Luca Tescaroli. C’è anche Freud, in carne ed ossa, si fa per dire: l’attore Edoardo Siravo. A un giornalista, Alessandro Barbano, tocca invece il ruolo di Jung, un testimone assai tifoso del maestro viennese, e anche piuttosto impertinente: al Pm che gli chiede conto di malattie e guarigioni vere o presunte, risponde "Lei crede di essere completamente sano, signor Pubblico ministero?".
Serata godibilissima, sempre sul filo dell’ironia, mai uno sbadiglio in tre ore di dibattimento. Della psicoanalisi si parla in modo approssimativo, ma fa niente: le valutazioni contrapposte risultano interessantissime a chi ne sa qualcosa e a chi ne sa niente.
Aldilà dei capi d’imputazione, Freud sembra soprattutto accusato di essere una specie di erotomane, un uomo fissato con il sesso, che tutto - ma proprio tutto riconduce a quella cosa lì. La parola che risuona più spesso è "libido", e pazienza se mai nessuno ne parli come di una "pulsione di vita". Il divertimento si fa esilarante quando il termine viene applicato alla sessualità femminile, a quelle povere bambine "evirate", alle donne condannate - loro sì - all’invidia del pene. La requisitoria non tiene in gran conto quel che è stato un rompicapo per Freud, la dichiarata enigmaticità del "continente nero", quella domanda irrisolta e poi ripresa da Lacan: "Che cosa vuole una donna?". Niente da fare: Freud avrebbe sentenziato una volta per tutte che alle signore manca qualcosa di cui sentono tanto la mancanza.
A quel punto, Tognozzi - nella sua grintosissima arringa - ha buon gioco a demolire l’argomento e a strappare un applauso con una battuta: «L’invidia del pene... ma non sarà un problema maschile, non è un rovello degli uomini?". Ed è lui a citare Repubblica, quel "Manifesto" che definiva la psicoanalisi una scienza a statuto speciale, perché fatalmente a entrare in gioco è anche la fondatezza epistemologica del sapere freudiano.
Peccato solo che di analisti romani, almeno riconoscibili, non se n’è vista l’ombra. Peccato, perché avrebbero colto qual è la percezione della psicoanalisi nello sguardo di un pubblico medioalto. E magari avrebbero rubato qualcosa all’attore un po’ gigione che si è divertito a citare Mark Twain, per dire di chi si ostina a intonare il requiem per Freud. A un giornale che per errore aveva annunciato la sua morte, lo scrittore inviò un telegramma di grande humour: "La notizia del mio decesso - scrisse - è fortemente esagerata".
Esce il libro scritto dal filosofo contro il padre della psicanalisi.
Ecco le sue parole e le risposte degli studiosi italiani
L’attacco: "Era un inventore di casi clinici, un depressivo e un antisemita"
L’accusa di Onfray: "un impostore"
la difesa degli allievi: "Solo gossip"
Le repliche: "La nostra disciplina non avrà cambiato il mondo ma può aiutare le persone"
di Luciana Sica (la Repubblica, 08.04.2011)
Con vena iconoclasta il filosofo francese Michel Onfray ha scritto un libro di seicento pagine per dire che Freud è stato un borghese reazionario, bugiardo, falsario, omofobo, fallocrate e ammiratore di Mussolini. Crepuscolo di un idolo s’intitola: in Francia è uscito un anno fa da Grasset, e - tra invettive e anatemi, accuse e controaccuse - è stato al centro di una violentissima polemica in bella mostra sulle prime pagine di Le Monde e Libération, sulle copertine di riviste come Le Point, L’Express, Nouvel Observateur.
Nelle librerie italiane, il saggio di Onfray contro «l’affabulazione freudiana» arriva mercoledì prossimo (tradotto da Ponte alle Grazie), ma è improbabile che qui da noi possa avere l’effetto di un ciclone, scatenando la stessa ira furente dell’élite intellettuale parigina, decisamente incline a escludere ogni equivalenza tra il fondatore della psicoanalisi e il più volgare degli impostori. Aldilà delle reazioni più o meno composte, Crepuscolo di un idolo è un meticolosissimo quaderno delle doglianze, una dissacrazione che non risparmia nessun dettaglio. Per dirla con Onfray la tesi di fondo della sua «opera» sarebbe nietzschiana: «La filosofia - così si è espresso - è sempre la confessione dell’autore, la sua autobiografia, e ciò vale anche per Freud».
Sarà, ma alcuni capi d’imputazione risultano sconcertanti. Qualche esempio del furibondo j’accuse contro il maestro viennese: Freud intanto è stato un cocainomane depressivo, onanista, incestuoso, tanto ossessionato dal sesso della madre d’allargare all’universo mondo la sua personale patologia edipica. E poi: un adepto di occultismo, un inventore di casi clinici, un antisemita perché il suo Mosè non era ebreo, e in più un sostenitore dei fascismi per quella nota dedica a Mussolini in Perché la guerra? - il carteggio con Einstein. Addirittura sarebbe stato il teorico dell’«attenzione fluttuante», per potersi appisolare durante le sedute! E ancora, imperdonabile, era un mascalzone che andava a letto con la cognata, «subito dopo aver fissato, come cardine della sua dottrina, la rinuncia alla sessualità al fine di sublimare la libido nella creazione della psicoanalisi».
«Che Freud andasse a letto con Minna Bernays, a me lo rende anche più simpatico. Questa storia l’ho già letta quattro anni fa, sul New York Times. C’era anche la «prova»: la registrazione dei due fedifraghi in un albergo lussuoso delle Alpi svizzere, dove si presentarono come marito e moglie e occuparono una stanza matrimoniale... Dunque Freud tradiva Martha, e allora? Questo toglie qualcosa alle sue scoperte?»: i gossip sulla vita privata di Freud divertono Nino Ferro, che rappresenterà l’Europa al congresso dell’International Psychoanalytical Association, in programma il prossimo agosto a Città del Messico. Un po’ difficile farlo parlare «seriamente», per la sua ilarità e anche perché se c’è un analista che non considera Freud un idolo, è proprio lui. Infatti dice: «Questo libro magari sarà una reazione a quel clima di sacralità che c’è in Francia intorno a Freud, una vera idolatria, una sorta di feticizzazione del suo pensiero che fa dell’opera freudiana un Corano... La mia invece è una visione minimalista della psicoanalisi, che considero quanto di meglio sia stato trovato come rimedio alla sofferenza psichica. E sono radicalmente freudiano, ma nel metodo, mettendo continuamente da parte ciò che so a favore di quanto devo scoprire».
Da sempre la psicoanalisi è oggetto di critiche feroci, alcune molto serie firmate Popper o Grünbaum, e negli ultimi anni - sulla scia del Libro nero della psicoanalisi (Fazi, 2006) - di volta in volta ai più lugubri de profundis («Freud è morto») hanno fatto seguito sorprendenti resurrezioni («Il ritorno di Freud»).
«È un fenomeno ricorrente. Ogni tanto libri e giornali, con tono apocalittico, intonano il requiem per la psicoanalisi e smitizzano il suo fondatore»: a dirlo con un filo d’insofferenza è Simona Argentieri, che tra l’altro figura nel Comitato scientifico di un dizionario appena uscito della Treccani (Cervello Mente Psiche). «Capita che alcuni si aggrappano a una grande figura come quella di Freud, idealizzata sia pure in negativo, per sviluppare qualche esile ideuzza. Non credo ci si debba affannare troppo per le critiche, in genere di modesto spessore, tanto più che la nostra disciplina è in sé una teoria della crisi permanente. Il problema è la confusione che generano, senza distinguere tra scuole e percorsi formativi. Ormai ogni cura basata sull’ascolto viene disinvoltamente definita «psicanalisi», accomunando tutti in un costume di eccessiva presenza mediatica. Compresi quelli che - per dirla con Freud - pur denigrandoci, scaldano la loro minestrina al nostro fuoco... La psicoanalisi non avrà cambiato il mondo, tuttavia talvolta un analista - con lento, anonimo, laborioso miracolo - può cambiare la vita di una persona».
Si avventura in un paradosso Antonio Di Ciaccia, nome legato alla cura dell’opera di Lacan (in settembre uscirà da Einaudi il seminario del ‘72-73, quello sul godimento femminile, intitolato Ancora). È lui, che ha firmato la prefazione dell’Antilibro nero della psicoanalisi (Quodlibet, 2007), a dire qui: «Mica male mettere in discussione Freud. Il pericolo è piuttosto la calma piatta, il conformismo degli analisti, l’eccessivo adeguamento alle attese sociali, culturali... Che poi ci sia una profonda ambivalenza nei confronti della psicoanalisi non può sorprendere, perché c’è un «qualcosa» che vuole ignorare il nostro mondo ossessionato dalla razionalità. E questo «qualcosa» - spaventoso, eppure attraente e così assolutamente condizionante - è l’inconscio che Freud ha fatto parlare».
La psicanalista Roudinesco attacca il filosofo per le sue critiche a Freud
"Caro Onfray tu sei di destra"
"Un testo pieno di errori e frutto di antichi pregiudizi contro il fondatore della psicanalisi"
di Fabio Gambaro (la Repubblica, 21.05.2010)
PARIGI. Il ciclone Michel Onfray continua a scuotere il mondo della cultura francese. Da quando un mese fa il suo violento saggio contro Freud Le crépuscule d’une idole (Grasset), è arrivato nelle librerie, il filosofo iconoclasta è al centro di una violentissima polemica, fatta di accuse e contraccuse, invettive e anatemi. Non passa giorno senza nuove prese di posizione attorno alle 600 pagine del suo libro tutto teso a presentare l’inventore della psicanalisi come un borghese reazionario, fallocrate, omofobo e ammiratore di Mussolini. Nel paese di Jacques Lacan e Françoise Dolto, dove la psicanalisi è una vera e propria istituzione, tali attacchi sono sembrati una provocazione intenzionale. Motivo per cui in molti - da Alain Badiou a Julia Kristeva - hanno condannato un’opera tanto politicamente scorretta.
Tra le voci levatesi contro Onfray, c’è anche quella di Elisabeth Roudinesco, la storica della psicanalisi autrice di molti saggi, tra cui anche una biografia di Lacan. La studiosa, che ha già stroncato Le crépuscule d’une idole dalle pagine di Le Monde, sta ora per mandare in libreria Mais pourquoi tant de haine? (da Seuil, giovedì 27 maggio), un pamphlet di un centinaio di pagine contro il volume di Onfray. Pur riconoscendo la necessità di criticare «il dogmatismo degli analisti dell’inconscio e delle loro scuole, e perfino la teoria freudiana, che non deve mai essere considerata un corpus sacro», Elisabeth Roudinesco non mostra alcuna indulgenza per Onfray, accusato di aver scritto un testo «zeppo d’errori e dicerie», impregnato d’odio allo stato puro e fondato solamente sulla negazione della realtà».
L’autore de Le crépuscule d’une idole, secondo la Roudinesco, «attribuisce al fondatore della psicanalisi le proprie ossessioni», riducendone la riflessione «all’odio dei padri e all’ammirazione delle madri, per poterle sedurre sessualmente» e riabiliterebbe di fatto «il discorso dell’estrema destra francese». Come proverebbe anche la sua insistenza nel volersi contrapporre alle élite intellettuali parigine, di cui gli psicanalisti sarebbero la quintessenza.
Accuse naturalmente respinte dall’interessato, il cui volume, grazie anche alle polemiche, ha già venduto quasi 150.000 copie ed è da tre settimane al primo posto delle classifiche. E per continuare ad opporsi ai suoi detrattori, Onfray pubblica ora un libretto fuori commercio, Freud, une chronologie sans légende, in cui condensa le discusse tesi del suo libro. Insomma, la battaglia attorno a Le crépuscule d’une idole, che in Italia verrà tradotto da Ponte alle Grazie, sembra destinata a durare ancora a lungo.
Mussolini e la psicoanalisi
Tra Freud e fascismo incontro impossibile
considerazioni sull’ intervento del Duce, rivelato da
Vittorio Mussolini, in difesa di Sigmund Freud, vittima
delle leggi razziali di Hitler: accostare il nome di
Freud a quello di Mussolini e’ improprio, come dimostra
l’ esame dei testi del fondatore della psicanalisi
di Giuliano Gramigna (Corriwere della Sera, 11.04.1993)
Niente potrebbe mettere piu’ in imbarazzo che vedere congiunto il nome di Sigmund Freud, inventore della psicoanalisi, a quello di Benito Mussolini. Ieri sul "Corriere della sera", un articolo di Matteo Collura, partendo da dichiarazioni di Vittorio Mussolini e Maurizio Chierici, accennava a un intervento del duce presso Hitler in favore di Freud, caduto sotto la minaccia diretta del nazismo dopo l’ annessione dell’ Austria alla Germania.
Non e’ una rivelazione vera e propria. Gia’ nelle pagine della biografia fondamentale di Ernest Jones, pubblicata in Italia dal Saggiatore, si fa cenno, con qualche cautela, a una de’ marche di Benito Mussolini, "o direttamente con Hitler o tramite il proprio ambasciatore a Vienna", per ottenere che non venisse rifiutato al grande psicoanalista il permesso di uscita dal Paese (come poi avvenne). Quale fonte dell’ informazione, e’ indicato Edoardo Weiss, il primo e il piu’ ardente dei freudiani d’ Italia. "Probabilmente" aggiunge Jones "Mussolini si ricordò del complimento rivoltogli da Freud quattro anni prima..".
Nessuno, a quanto pare, e’ in grado di dire se l’intercessione sia stata veramente attuata, e se abbia avuto qualche influenza decisiva. In ogni caso, il 4 giugno 1938, Freud e la famiglia lasciarono finalmente Vienna, per scampare in Inghilterra. Ma vale la pena di guardare un po’ meglio dentro la natura di quel "complimento" che, a detta di Ernest Jones, avrebbe stimolato la vanita’ di Mussolini.
Nel 1933, sempre secondo il racconto della biografia, Weiss condusse a Vienna da Freud "una difficile paziente che aveva in cura: li accompagnava il padre di costei, un amico intimo di Mussolini.." (Giovacchino Forzano, pare). Il padre chiese a Freud di fare dono a Mussolini di uno dei suoi libri, con dedica. Anche per favorire Weiss, Freud consenti’: prese una copia di Perche’ la guerra? e sul frontespizio "alludendo agli scavi archeologici che Mussolini andava incrementando, scrisse: "Da un vecchio che saluta nel legislatore l’ eroe della cultura". Non si commette abuso leggendo infrascritta a quella dedica ufficialmente retorica, una sorta di personalissima ironia, appunto una riserva freudiana. E’ lecito pensare che per Freud non fosse piu’ che un gesto, sostanzialmente insignificante, di cortesia convenzionale . per cosi’ dire al servizio di un amico. Strologarci sopra come espressione spontanea di un feeling ammirativo, sembra andare oltre la lettera.
Viene da pensare a quell’ altra chiosa, questa davvero di umorismo nero, che alcuni anni dopo Freud oppose alla dichiarazione liberatoria estirpatagli dai nazisti prima di lasciarlo partire, in cui diceva di avere avuto il migliore dei trattamenti; chiosa cosi’ concepita: "Posso vivamente raccomandare la Gestapo a chicchessia".
Circa la reale disposizione di Freud nei confronti di ogni dittatura, e in particolare degli stravolgimenti cui mette capo il culto del Grande Uomo Salvatore, basta andare a rileggersi Psicologia delle masse e analisi dell’ io che, anticipatamente (1921), analizza i meccanismi eterni di quella che Gadda chiamera’ , con furore, la "funeraria priapata". In una lettera del 1927, partendo da un riferimento all’ uomo politico francese Clemenceau, Freud ammetteva: "Mi sono accorto con stupore che potrei nutrire una profonda simpatia per questo odiato nemico, e che non mi sarebbe difficile immedesimarmi in lui, cio’ che invece non mi riesce assolutamente per altri despoti, come Lenin e Mussolini...". E’ anche vero che, all’ epoca della dedica famigerata, Freud poteva illudersi che il fascismo, meglio il suo capo, servisse di difesa (anche per il destino della psicoanalisi) contro la minaccia nazista.
Ancora si puo’ pescare in Jones: "Quando Mussolini sali’ al potere, accusarono Freud di non essere ne’ nero, ne’ fascista ne’ socialista; rispose: "Bisognerebbe essere del colore della carne"...". Come la voce della ragione, la voce di Freud, anche in materia politica, puo’ sembrare fioca, "ma non ha pace finche’ non ottiene udienza". Nel secolo, che e’ stato il nostro, la grande figura simbolica di Sigmund Freud, e’ venuta al proscenio mentre cominciavano a scatenarsi altre figure tragiche, efferate, di delirio collettivo. La psicoanalisi poteva andare a scandagliare la radice di quei deliri. Ma che cosa sapeva ascoltare nella sua presunzione sgangherata di porsi come "prassi e pensiero", il fascismo? Ecco perche’ certo accostamento di nomi, piu’ ancora che imbarazzante, finisce per essere incongruo.
In un discorso indirizzato da Freud ai membri dell’ Associazione ebraica B’ nai B’ rit, si puo’ trovare, oltre che una rivendicazione orgogliosa della propria origine, un’ autoidentificazione etica, che ha valore anche politico, nel senso piu’ limpido del termine: "Soltanto alla mia natura di ebreo io dovevo le due qualita’ che mi erano diventate indispensabili nel lungo e difficile cammino della mia esistenza. Poiche’ ero ebreo mi ritrovai immune dai molti pregiudizi che limitavano gli altri nell’ uso del loro intelletto, e in quanto ebreo, fui sempre pronto a passare all’ opposizione e a rinunciare all’ accordo con la "maggioranza compatta".."
Gramigna Giuliano
Psicoanalisi e fascismo: un episodio inedito
"All’ eroe della cultura Mussolini
Con rispetto, Sigmund Freud"
di Massimo Ammaniti (Corriere della Sera, 03.04.1995) *
Nel libro Freud e la ricerca psicologica (a cura di R. Canestrari e P. Ricci Bitti, ed. il Mulino), c’ e’ da segnalare un episodio poco noto raccontato nel capitolo scritto dallo psicoanalista Glauco Carloni, che ripropone, in una luce probabilmente diversa, il rapporto fra psicoanalisi e fascismo. Lo scenario del racconto e’ Vienna, anche se l’ antefatto e la conclusione sono ambientati in Italia. E’ il 1933, a Vienna serpeggia un clima di allarme, perche’ si avverte anche in Austria il pericolo di una svolta autoritaria e antisemita, come da poco e’ successo in Germania con l’ avvento di Hitler. La comunita’ ebraica e’ in allarme, anche se non tutti condividono queste preoccupazioni confidando nell’ intervento della Societa’ delle Nazioni.
Ma torniamo allo scenario viennese. Tre persone provenienti dall’ Italia giungono a un indirizzo divenuto storico, Berggasse 19. E’ un grigio e austero edificio asburgico dove abita con la sua famiglia Sigmund Freud, l’ eminente psicoanalista ebreo. Freud, molto avanti negli anni e consumato da un tumore con cui sta combattendo da tempo, e’ ancora molto attivo, svolge la sua attivita’ clinica e di ricerca e scrive saggi scientifici con cui allarga la conoscenza del mondo psichico. Dei tre uno e’ un quarantenne allievo di Freud di origine triestina, Edoardo Weiss, con cui il maestro intrattiene da tempo un fitto scambio epistolare.
Insieme a lui c’ e’ un personaggio che non ha nulla a che fare con la psicoanalisi, e’ Giovacchino Forzano, uomo di teatro molto legato al regime fascista, che ha scritto addirittura delle opere teatrali in collaborazione con Mussolini. Con loro c’ e’ una giovane donna che e’ la figlia di Forzano. Che cosa fanno tutti e tre davanti al portone dello studio di Freud? La soluzione la possiamo trovare in una lettera che Freud aveva inviato a Weiss il 12 aprile, in risposta a una lettera del suo allievo che faceva riferimento a "una malata isterica grave, figlia di un importante personaggio politico". Weiss aggiungeva che la paziente, nonostante avesse gia’ raggiunto importanti miglioramenti, aveva manifestato reazioni cosi’ negative verso di lui da allarmare il padre, che aveva sollecitato un consulto con Freud.
A questa richiesta Freud rispondeva nella lettera del 12 aprile: "Per quanto riguarda la sua paziente sono pronto a fare qualsiasi cosa per giovare alla cura della signorina. Ma lei sa che questo giovamento ci si puo’ aspettare sempre solo se la paziente stessa desidera ardentemente l’ incontro. Se si lascia solo accompagnare e poi mi tratta come fa con lei, non possiamo che fare del danno". Non sappiamo che cosa si dissero durante il consulto e se soprattutto fu proprio la figlia di Forzano a volere l’ incontro, o se intervenne con insistenza l’ autorevole padre. Quello che sicuramente sappiamo e’ che al termine dell’ incontro Forzano, probabilmente affascinato dall’ autorevolezza del vecchio maestro, gli chiese un suo libro per portarlo a Mussolini con una dedica indirizzata al Capo del Governo Italiano.
Freud prese dalla sua grande libreria un libro che aveva pubblicato l’ anno precedente "Warum Krieg?" (Perche’ la guerra?) e di suo pugno scrisse la dedica, naturalmente in tedesco: "A Benito Mussolini coi rispettosi saluti di un vecchio che nel Governante riconosce l’ eroe della cultura". E’ difficile dare un’ adeguata interpretazione della dedica di Freud cosi’ apertamente encomiastica nei confronti di Mussolini. Weiss ritornando su questo argomento molti anni dopo riferi’ che lui si era sentito "imbarazzatissimo", perche’ sapeva che Freud non l’ avrebbe rifiutata "per amor mio e della Societa’ Psicoanalitica Italiana". Ma la versione di Weiss era di parte, la sua preoccupazione era quella di dimostrare che "Freud non aveva simpatia per Mussolini" e che lui era sempre stato un antifascista.
Quello che rimane e’ la dedica sicuramente calorosa su un libro molto particolare come e’ "Perche’ la guerra?". Il libro, pubblicato proprio nel 1933, e’ un carteggio fra Einstein e Freud sul pericolo della guerra, stampato per conto della Societa’ delle Nazioni, in un momento storico in cui si cominciano ad addensare i pericoli di una nuova guerra mondiale. Probabilmente Freud confermo’ con il suo comportamento le sue teorie sulla contraddittorieta’ della psiche umana. Infatti con la mano destra scriveva una dedica particolarmente positiva, mentre con la sinistra porgeva al dittatore un libro che richiamava i pericoli della violenza e dell’ ostilita’ nei rapporti fra i popoli.
Purtroppo dopo qualche anno anche Freud fu vittima della violenza nazista, quando la Germania invase l’ Austria. Nel 1938, ormai ottantaduenne e allo stremo delle sue forze, dovette assistere alla perquisizione della sua casa da parte della Gestapo e due suoi figli furono arrestati. Il clima di Vienna era diventato irrespirabile e Freud prese la decisione di abbandonare l’ Austria. Ma il suo espatrio fu ostacolato dal nuovo governo nazista e fu necessaria una mobilitazione internazionale di uomini di stato, fra cui Roosevelt, ambasciatori e uomini di cultura per ottenere l’ autorizzazione a partire. E’ qui che in modo inatteso ricompare Forzano.
Forse memore dell’ incontro e forse ancora riconoscente per l’ interessamento di Freud, o forse anche per l’ intervento della figlia, Forzano si decide a scrivere a Mussolini una lettera in cui ne sollecitava l’ intervento: "Raccomando a Vostra Eccellenza un vecchio glorioso di 82 anni che tanta ammirazione ha per l’ Eccellenza Vostra: e’ Freud, ebreo". Ancora una volta ci manca il riscontro se la lettera di Forzano ebbe un esito positivo.
Molti anni dopo Weiss escluse un intervento diretto di Mussolini, mentre Ernst Jones, il biografo ufficiale di Freud, sembrava convinto che Mussolini in persona si fosse dato da fare per salvare il grande maestro viennese. Secondo quest’ ultima versione i rapporti fra psicoanalisi e fascismo verrebbero ad assumere sfaccettature piu’ complesse di quelle che siamo abituati a riconoscere, ulteriore riprova dell’ assunto di Freud che la natura umana e’ profondamente contraddittoria e forse per questo imprevedibile.
La politica secondo Freud
di Fabio Della Pergola, risponde Luigi Cancrini
Il filosofo francese Onfray ha suscitato scalpore in Francia per il suo attacco all’icona Freud. Elisabeth Roudinesco continua invece ad accreditarlo al campo progressista, separando il suo pensiero dalle sue simpatie politiche verso la destra che in quegli anni preparava l’avvento di fascismo e nazismo.
RISPOSTA Freud, come molti scienziati del suo tempo, non si è mai interessato alle lotte di partito. Sul piano politico, tuttavia, ha espresso idee importanti sulla follia della guerra (efficacemente riassunte in uno scambio di lettere con Einstein) e sui rischi collegati alla mobilitazione emozionale del grande gruppo. Chi visita la casa in cui lavorò a Vienna si incontra ancora oggi con i pensieri suscitati, in un uomo saggio e tranquillo, dalla cerimonia dell’Anschluss, l’annessione dell’Austria al Reich, i cui echi arrivavano fino alla sua finestra: dolorose riflessioni suscitando sulla regressione della folla che acclamava il discorso delirante di Hitler. Malato e distrutto dalla consapevolezza amara del disastro cui il mondo stava andando incontro, Freud fu aiutato a fuggire verso Parigi e Londra pochi giorni dopo. La testimonianza più semplice e più chiara del valore progressista del suo pensiero, del resto, al di là di quello che ne pensa un dissacratore professionale come Onfray, è quella del rogo in cui i nazisti cercarono inutilmente di distruggere quello che lui aveva capito e scritto sull’uomo e sul funzionamento della mente umana.
* l’Unità. 10.05.2010
Nel caso interessasse, questa è la versione originale della mia lettera a Cancrini:
"Il filosofo francese Onfray ha suscitato scalpore in Francia per il suo attacco all’icona Freud, sollevando forti reazioni soprattutto su Libération dove Elisabeth Roudinesco lo accusa di rilanciare “un discorso di estrema destra”. Ma “Freud non si considerava affatto un uomo di sinistra. So che ha sempre votato per un partito liberale austriaco di centro-destra”, sono parole proprio della studiosa, una profonda conoscitrice del pensiero freudiano, in un’intervista del 1994, in cui si arrampica sugli specchi per distinguere e separare il ‘pensiero’ del padre della psicanalisi, accreditandolo comunque al campo progressista, dalle sue simpatie politiche verso la destra che in quegli anni, vale la pena di ricordarlo, preparava l’avvento di fascismo e nazismo. Separare il pensiero dalla prassi personale sembra essere un antico vizio, in particolare di sinistra per cui la coerenza tra ‘essere’ e ‘pensare’ non solo non è ritenuta necessaria, ma sembra addirittura essere superflua. Lei che ne pensa ?"
Buon lavoro!
Freud la polemica. Intervista a Massimo Fagioli, lo psichiatra dell’Analisi collettiva
di Carlo Patrignani *
La partita con Sigmund Freud e la psicoanalisi lo psichiatra Massimo Fagioli l’ha chiusa, passandoci dentro, prestissimo e nel 1970, dopo la sbornia rivoluzionaria del ’68 autodistruttivo, con la pubblicazione di Istinto di Morte e Conoscenza , ha posto le basi teoriche, le fondamenta, della prassi di ‘cura, ricerca e formazione’ che dal 1975 è l’Analisi Collettiva.
Oggi, 40 anni dopo, Fagioli, espulso dalla Spi, la Società Italiana di Psicoanalisi, nel 1976, intanto aveva dato alle stampe La Marionetta e il Burattino e Teoria della nascita e castrazione umana, assiste allo scontro frontale, un po’ incredulo (“poteva avere una validità 40 anni fa”), un po’ divertito (“Ma Freud è un cadavere dal 1939!”), un po’ incuriosito (“perché all’alba del 2010 e a sinistra?”), fatto “di insulti, rabbie e odii personali”, suscitato in Francia dall’uscita del libro Crépuscule d’une idole. L’affabulation freudienne del filosofo post anarchico Michel Onfray.
Messo sotto accusa da filosofi, intellettuali e psicoanalisti di ‘sinistra’ (Elisabeth Roudinesco, Bernard-Henri Levy, Julia Kristeva, Alain de Mijolla), Onfray, che vede nel ‘socialismo utopistico’ di Proudhon, una possibile rifondazione della sinistra, li ha bollati come ‘ammuffiti del ‘68’. “A me è sempre interessato il pensiero di Freud - attacca Fagioli - e ricordo che in Italia, rispetto a Francia e Stati Uniti, arrivo’ tardissimo nel ‘68, prima non era conosciuto. Non mi sono mai occupato dei suoi comportamenti, di quel che faceva nella vita privata: ho letto le sue opere, poi ci sono andato dentro a questa storia della psicoanalisi, ma prestissimo mi sono reso conto che era tutto un imbroglio, un pensiero falso, che Freud non aveva scoperto nessun inconscio. Lo definiva inconoscibile: ma se è inconoscibile come fai a dire che hai scoperto l’inconscio? Poi non aveva nessuna idea di cura (“figurarsi se poteva esser proponibile la guarigione!”) per cui non ho esitato a definirlo un imbecille”.
Era il 12 marzo 1978 e - ricorda lo psichiatra - ‘Freud è un imbecille’ comparve su uno dei maggiori quotidiani italiani, il Corriere della Sera. “Questo accadeva quando già erano iniziati i seminari, sempre affollatissimi e pubblici, dell’Analisi Collettiva”, nota lo psichiatra che tuttora proseguono “speditamente e su ben altri argomenti: “il comunismo, il cristianesimo, il socialismo, il logos occidentale”.
Ormai gli insulti dei primi anni che investirono gratuitamente Fagioli da parte di certi ambienti politico-mediatici che facevano riferimento alla ‘sinistra’, appartengono alla storia di questa ‘ricerca’ sulla quale non ci sono mai state critiche nel merito. “Al limite qualche interesse posso trovarlo nel Freud fascista o che intrattiene rapporti con il regime nazista - osserva Fagioli - ma poi, a ben pensarci, sono fatti noti: con il nazismo, Heidegger ci è andato più a fondo di Freud stesso”. Insomma, siamo in presenza di un Freud, “imbecille e stupido che non ha scoperto nessun inconscio, lo riteneva naturalmente perverso, che non conosce la pulsione di annullamento, la negazione, il desiderio, che definisce i sogni allucinazioni, quando è ben noto che l’allucinazione è assenza di immagini, mentre le immagini che compaiono nel sonno quando non c’è coscienza, comportamento e linguaggio articolato, vanno interpretate perché sono pensiero”. Tutto si basa, “sul ricordo cosciente, sulle libere associazioni, di latente non c’è nulla”, osserva ancora Fagioli. Nei fatti pero’ questa falsa impostazione ha impedito e impedisce qualsiasi ‘ricerca’ sulla malattia mentale.
E Freud continua ad esser osannato e difeso da una certa sinistra, perché? “Questa è una ricerca affascinante: il comunismo ha ignorato ed annullato l’inconscio, lo stesso ha fatto e fa il cristianesimo - risponde Fagioli - per cui l’inconscio o non esiste o è il Male. E l’identità umana allora starebbe nella Ragione: no, le cose non stanno cosi’. L’identità umana non è la Ragione: bisogna volgere la ricerca verso cio’ che non è Ragione, l’irrazionale”. E qui, “si inserisce - conclude Fagioli - il rapporto uomo-donna, il riconoscimento del ‘diverso da se’’’ che, sia Freud, il comunismo, il ‘68 e il cristianesimo, un po’ quindi la cultura dominante, hanno escluso e tentano di escludere.
Carlo Patrignani