ARTE: IN DONO A CARD. CAFFARRA MINIATURA PRIMA ENCICLICA PAPA
(AGI) - Bologna, 15 giu. 2009 -In occasione dell’apertura dell’Anno Sacerdotale, la Fondazione Marilena Ferrari-FMR donera’ all’Arcidiocesi di Bologna l’opera d’arte totale in forma di libro: Deus caritas est, trascrizione manuale della prima Enciclica di Sua Santita’ Benedetto XVI. L’opera, recante la firma autografa del Papa, sara’ consegnata al Cardinale Carlo Caffarra giovedi’ 18 giugno, al termine del Vespro delle ore 19.00 nella Chiesa del Sacro Cuore di Bologna.
"Deus caritas est" nasce con l’obiettivo di "rivestire di bellezza le parole del Santo Padre". L’opera si ispira all’antica tradizione degli scriptoria monastici ed e’ il frutto del sapiente lavoro che i maestri artigiani svolgono per la Casa editrice d’arte Marilena Ferrari-FMR.
Il risultato e’ un’opera interamente realizzata a mano, miniata e calligrafata sul modello di quelle realizzate nelle grandi officine rinascimentali. Anche la speciale carta in chiffon di cotone, come la copertina interamente rivestita da 25 kg d’argento cesellato, costituiscono l’esempio dell’eccellenza del "fare italiano".
"Deus caritas est" e’ realizzata in soli 5 esemplari, fuori commercio. Il primo esemplare e’ stato donato lo scorso novembre a Papa Benedetto XVI in occasione di un’udienza privata con Marilena Ferrari e tutti i maestri artigiani che hanno partecipato alla realizzazione dell’opera. La prossima donazione sara’ in settembre alla cattedrale di Madrid, mentre il prossimo anno l’opera volera’ oltreoceano alla cattedrale St. Patrick a New York.
L’esemplare destinato all’Arcidiocesi di Bologna sara’ esposto al pubblico presso la "Galleria d’Arte Moderna - Raccolta Lercaro", nell’Istituto Veritatis Splendor, e sara’ visibile dal 20 giugno al 12 luglio prima di essere definitivamente posta nella Cattedrale di San Pietro a Bologna.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
AI CERCATORI DEL MESSAGGIO EVANGELICO. Una nota sulla "lettera" perduta.
[I Corinthii 13] *
13:1 Si linguis hominum loquar, et angelorum, charitatem autem non habeam, factus sum velut æs sonans, aut cymbalum tinniens.
[...]
13:13 Nunc autem manent, fides, spes, charitas: tria hæc. maior autem horum est charitas.
Dallo Stato sovrano allo Stato partecipato
di Paolo Prodi (Il Mulino, 19 dicembre 2016) *
In un precedente intervento su questa rivista, ho avanzato la tesi che la riduzione del problema delle pensioni a dilemma tra sistema retributivo e sistema contributivo ‒ come avviene non solo nella stampa e nei talk show, ma anche in interventi di autorevoli esperti ‒ è deviante e pericoloso particolarmente in questo momento storico: quando stiamo già abbandonando, con la rivoluzione tecnologica, il sistema della fabbrica e delle strutture burocratiche sulle quali si era costruito il Welfare State nell’Ottocento, con il coinvolgimento dei lavoratori e delle imprese. Il ricorso alla tassazione generale, al fisco, diventa invece inevitabile e urgente quando le figure del produttore-lavoratore e del consumatore non coincidono più.
Ora penso sia inevitabile ampliare il discorso con una seconda tesi, mettendo in discussione le conseguenze che questa diagnosi ha ‒ se è vera ‒ nel processo generale di superamento del moderno Stato sovrano di diritto. Senza affrontare il problema della crisi dello Stato nazionale nel mondo globalizzato, devo precisare come punto di partenza che per me è in crisi lo «Stato sovrano», non lo «Stato» considerato come realtà che muta attraverso i secoli e che, persa la sovranità tradizionale, sta cercando nuove funzioni. Non si tratta di un mutamento solo di pelle, ma di una metamorfosi che sta investendo sia il potere politico sia quello economico (nonché il sacro, sembra): pensiamo ai fondi sovrani o, forse in senso inverso, al capitalismo di Stato cinese.
È entrata dunque in crisi la sovranità statale, ma con questa anche, secondo l’espressione che era così cara all’amico Roberto Ruffilli, la sovranità del cittadino che sta perdendo con la crisi della rappresentanza politica la sua identità collettiva, la sua personalità sociale senza che nessuno possa fare da arbitro. Quando si parla di crisi della politica mi sembra che anche gli esperti politologi, sia negli interventi più tecnici sia sulla stampa, si limitino, sulle orme dei nostri classici sino a Norberto Bobbio, a grandi discorsi sui sintomi della malattia, senza vedere che la crisi ha le sue radici proprio nella non-partecipazione e non viceversa, nella perdita soprattutto del collante collettivo che un tempo era costituito dalla «Patria».
Per fare un esempio che sembra marginale ‒ ma che non lo è ‒ se io dovessi scegliere una data periodologica per segnare, almeno per l’Italia, un passaggio epocale, io sceglierei il 2005 come anno in cui fu decisa l’abolizione della leva militare obbligatoria: se non si deve più morire per la Patria, mi sembra che tutto il resto diventi secondario.
Venuto meno questo collante, mi sembra che il rapporto tra detentori del potere economico e del potere politico sia radicalmente cambiato dal paradigma che è nato dalle rivoluzioni industriali dei secoli precedenti: è caduta l’ideologia della rivoluzione che ad esse era collegata ma non certo l’idea di rivoluzione come progetto di una nuova società.
La distinzione tra destra e sinistra è messa in causa non perché sia venuta meno, ma perché è venuto meno il rapporto storico, del quale la Rivoluzione francese era stata la massima espressione, tra che ne aveva caratterizzato il successo nel passaggio dal sistema feudale a quello della proprietà.
Da questo punto di vista, le proposte che oggi vengono avanzate non affrontano in nessun modo i mutamenti che procedono con il nuovo capitalismo finanziario. Anche le proposte di un reddito di cittadinanza sembrano partire dalla coda anziché dalla testa del problema; così come il taglio delle pensioni più alte con l’invocazione della solidarietà risulta totalmente al di fuori di ogni logica giuridica nell’ordinamento attuale, anche se malformazioni ereditate dai cosiddetti «diritti acquisiti» possono essere corrette nel breve termine.
L’intervento pubblico organico deve essere basato su un ripensamento della fiscalità generale non per statalizzare, ma ancor più quando si vuole alleggerire il peso del welfare sullo Stato e ricorrere ai corpi intermedi e al volontariato.
Qui si toccano naturalmente i punti più profondi della crisi della democratica parlamentare e dei nuovi populismi. L’obiettivo della politica è ora certamente l’acquisizione del consenso, e non possiamo fermarci alle strutture di rappresentanza parlamentare. Dobbiamo forse arretrare e riflettere ancora una volta sulle origini della democrazia nella Grecia antica: l’acquisto del consenso da parte dei detentori del potere non ha più confini né geografici né di comunicazione nelle nuove cosmopoli (anche il tema delle frodi fiscali può essere evasivo).
*
[Riproduciamo un articolo uscito il 15 giugno 2016. Anche questo breve intervento, come tutte le cose pubblicate da Paolo Prodi per questa rivista, siasu carta sia sul sito, testimoniano una instancabile curiosità per un mondo in continua e faticosa trasformazione. Le sue riflessioni, a partire dallo straordinario lavoro di storico, venivano spesso condivise con alcuni amici e, per fortuna di tutti, si traducevano quasi sempre in scrittura. L’opera di Paolo Prodi è quasi interamente patrimonio del «suo» Mulino, che gli deve molto quanto a lavoro intellettuale e di animatore culturale.]
Morto a Bologna Paolo Prodi, fratello di Romano
Docente e fondatore de ’Il Mulino’, fratello ex premier Romano
di Redazione ANSA *
(ANSA) - BOLOGNA, 17 DIC - Scomparso a Bologna nella serata di ieri, a 84 anni, Paolo Prodi, fratello dell’ex presidente del Consiglio e della Commissione Europea, Romano Prodi. Storico, intellettuale, è stato docente universitario a Trento, Roma e all’Alma Mater di Bologna, oltre ad essere fondatore della casa editrice ’Il Mulino’ e ex deputato.
Una cerimonia in ricordo di Paolo Prodi è in programma all’Archiginnasio di Bologna alle 10.30 di lunedì 19 dicembre. Seguirà il funerale religioso, probabilmente alle 11.30, nella Chiesa di San Benedetto in via Indipendenza 64. "ll professor Paolo Prodi era uno storico di riferimento dell’Alma Mater - ricorda -. Nel suo percorso di ricerca aveva posto al centro due poli distinti quello del sacro e quello del potere politico considerando la dialettica tra di essi un elemento chiave per interpretare la storia dell’Occidente. Alla passione per gli studi e per l’insegnamento aveva saputo coniugare una passione per le istituzioni universitarie avendo ricoperto il ruolo di Rettore all’Università di Trento e di Preside all’Università di Bologna. Alla famiglia l’abbraccio sincero di tutta la comunità accademica bolognese".
Molti i mesasaggi di cordoglio del mondo politico ed accademico.
"Partecipo con animo commosso e con profondo rispetto al cordoglio per la scomparsa del Professor Paolo Prodi. È stato personalità eminente della cultura italiana del Novecento per l’accuratezza e finezza dei suoi studi, e in particolar modo di quelli dedicati alla storia della Chiesa cattolica, e allo stesso tempo per il suo forte impegno civile e democratico in rapporto dialettico con la politica nazionale ed europea e in una indefettibile dedizione ad ogni causa di progresso. Le mie condoglianze ai suoi famigliari ed il mio più caldo abbraccio a Romano". Lo scrive il presidente emerito della Repubblica Giorgio Napolitano.
"Esprimo il cordoglio di tutto il Partito Democratico per la scomparsa di Paolo Prodi. La sua figura di storico, di docente universitario e intellettuale appassionato alla politica lascia un contributo importante di idee e valori per il Paese. Alla sua famiglia esprimiamo tutta la nostra vicinanza". Così Lorenzo Guerini, vicesegretario nazionale del Pd.
di Federico Fioravanti *
Il 3 giugno 1257 Bologna abolì la schiavitù. Nell’Archivio di Stato cittadino è conservato un prezioso codice che anticipa di almeno 600 anni le moderne carte dei diritti umani: si chiama Liber Paradisus, in omaggio alla prima parola del testo del documento, scritto in latino.
Il grande capolettera, una “P” ornata di disegni filigranati, precede una frase bella e solenne: “Paradisum voluptatis plantavit dominus Deus omnipotens a principio, in quo posuit hominem, quem formaverat, et ipsius corpus ornavit veste candenti, sibi donans perfectissimam et perpetuam libertatem”. “In principio il Signore piantò un paradiso di delizie, nel quale pose l’uomo che aveva formato, e aveva ornato il suo stesso corpo di una veste candeggiante, donandogli perfettissima e perpetua libertà”.
L’atto di liberazione è motivato da ragioni teologiche: Dio ha creato l’uomo libero e poiché la disobbedienza originale di Adamo lo ha reso schiavo del peccato, lo ha riscattato tramite suo figlio, Gesù Cristo, che si è fatto uomo.
Il documento notarile rese ufficiale la “manumissio”, una emancipazione resa possibile da un riscatto in denaro.
Il decreto fu firmato un anno prima, il 25 agosto del 1256, dal Podestà e dal Capitano del Popolo nel corso di una cerimonia pubblica alla quale presero parte migliaia di persone festanti. Le trattative furono lunghe e complesse. Ma dopo un anno, il 3 giugno 1257, l’atto diventò operativo. Il Comune pagò tre rate per complessive 53.014 lire per indennizzare i proprietari di 5.855 persone: erano tutti i servi della gleba che risiedevano all’interno del territorio bolognese. Soltanto la famiglia Prendiparte, proprietaria dell’omonima torre cittadina, “possedeva” più di 200 servi. A ogni bambino fu attribuito un valore di 10 lire. Chi aveva più di 14 anni fu riscattato con 10 lire d’argento.
I servi della gleba erano considerati tali per nascita, incatenati per tutta la vita alla zolla di terra (gleba in latino) che non potevano abbandonare, per nessuna ragione, senza il consenso del padrone del terreno.
Una condizione umana senza via d’uscita, di poco migliore di quella degli schiavi dell’antica Roma. I servi della gleba potevano essere venduti, insieme alla terra alla quale erano legati. Possedevano solo piccoli beni mobili e potevano sposarsi soltanto con persone che vivevano, come loro, all’interno della proprietà.
Il padrone dei fondi era, di fatto, anche il signore assoluto delle loro esistenze. Alle famiglie proprietarie l’uso del terreno andava pagato con il raccolto dei campi e con tutta un’altra serie di corvées. I servi dovevano versare anche le “decime” per il mantenimento del clero. E avevano mille altri obblighi e limitazioni.
Il Liber Paradisus, per legge, mutò questo stato sociale. Diede speranza ai manenti, i coloni di condizione servile legati da un contratto alle terre padronali. E anche ai cosiddetti “servi di masnada”, che costituivano i piccoli eserciti signorili.
Quattro notai stilarono quattro elenchi, uno per ogni quartiere, con quattro preamboli.
Regista di tutta l’operazione fu Rolandino de’ Passaggeri (1215 - 1300), uno dei più celebri giuristi medievali, massima autorità nella scienza e tecnica del documento notarile, di cui rinnovò i formulari con un grande rigore scientifico.
Nel documento si possono leggere importanti dichiarazioni di principio. Una su tutte: “Nella nostra città possano vivere solo uomini liberi”. Si prendono impegni solenni: “Spezzare le catene della servitù”. Si parla, a più riprese, di “restituire alla libertà originaria uomini che da principio la natura generò liberi e il diritto delle genti sottopose poi al giogo della schiavitù...”.
Bologna all’epoca era una delle più grandi città d’Europa, sede della prima è più importante università del mondo, frequentata da più di duemila studenti che non producevano ma consumavano. Il denaro fresco muoveva l’economia. Nacquero allora i nuovi mercati cittadini e i canali navigabili.
La città aveva addosso gli occhi del mondo. Nel palazzo del Podestà, dopo la battaglia di Fossalta del 1249, viveva prigioniero Enzo, figlio dell’imperatore Federico II di Svevia. L’economia della città e del suo contado stava mutando pelle rapidamente insieme alla società feudale di derivazione carolingia, fino ad allora sostenuta dalle attività agricole dei castelli, indipendenti l’uno dall’altro. Ma il lavoro autonomo rendeva la famiglia contadina assai più produttiva grazie alla selezione di nuove sementi e a diverse innovazioni tecniche.
La liberazione proclamata nel Liber Paradisus non fu solo un “beau geste” del governo cittadino. Servì a sanare molte situazioni giuridiche causate dai matrimoni misti tra cittadini liberi e servi.
Più cittadini liberi voleva dire anche più contribuenti. Era il prezzo della libertà. Non a caso, il Comune vietò ai servi liberati di spostarsi fuori dal territorio delle diocesi di appartenenza. In alcuni casi i servi vennero raccolti in località “franche”, libere dalla giurisdizione delle grandi famiglie. Si svilupparono così, al confine del territorio, in prossimità delle aree controllate dalla nemica Modena, paesi come Castelfranco, ai quali la città di Bologna concesse particolari condizioni fiscali.
Il riscatto dei servi rafforzava il Comune. E il mantenimento delle famiglie contadine sui campi garantiva la produttività dei terreni. In città arrivava una maggiore quantità di prodotti.
Bologna fu il primo Comune in Italia ad attuare la liberazione dei servi della gleba.
Altre città, come Vercelli, Assisi e Parma, si mossero nella stessa direzione. A Vercelli, come in altri luoghi, per legge, “la città dava la libertà”: la posizione dei servi della gleba che si rifugiavano nel centro abitato veniva regolarizzata dopo un certo periodo di tempo. Lo stesso avveniva a Parma, dove i nuovi cittadini venivano accolti come uomini liberi dopo 10 anni di permanenza .
Oggi la piazza che ospita palazzo Bonaccorso, la nuova sede del Comune di Bologna, si chiama “Piazza Liber Paradisus”. L’edificio porta il nome del podestà Bonaccorso da Soresina che redasse i documenti raccolti nel Liber.
Un affresco di Adolfo De Carolis esposto nel salone del Palazzo del Podestà ricorda ai bolognesi e ai turisti lo storico affrancamento dei servi.
In Russia la servitù della gleba venne abolita nel 1861, dallo zar Alessandro II, circa 50 anni più tardi rispetto al resto d’Europa. La fine della pratica della schiavitù degli esseri umani fu certificata dalla Costituzione degli Stati Uniti soltanto nel 1865. Il Brasile arrivò invece alla fatidica decisione nel 1888, con la “Lei Áurea” promulgata dalla principessa reale Isabella.
Per milioni di altri vecchi e nuovi schiavi, a distanza di secoli, il Paradiso è invece ancora un sogno lontano.
FONTE: FESTIVAL DEL MEDIOEVO
DELLA LINGUA E DELLA POLITICA D’ITALIA. DANTE: L’UNIVERSALE MONARCHIA DEL RETTO AMORE. Per una rilettura del "De Vulgari Eloquentia" e della "Monarchia". Liber Paradisus [Bologna, 1257]:
Quest’ atto ricorda la manomissione effettuata dal comune di Bologna di servi e serve della gleba: lo si deve chiamare giustamente Paradiso.
[Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici [...]->http://www.lavocedifiore.org/SPIP/article.php3?id_article=3987]
*
L’Arca dell’Alleanza del Logos e il codice di Melchisedech.
La Fenomenologia dello Spirito... dei “Due Soli”. Ipotesi di rilettura della “Divina Commedia”.
IL “PARADISO IN TERRA”, LA “MEMORIA” DI ABY WARBURG, E LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN. *
C’ERA UNA VOLTA IL PARADISO SEGNATO SULLE CARTE. “Il paradiso in terra. Mappe del giardino dell’Eden”, (Bruno Mondadori, Milano, 2007) di Alessandro Scafi è per molti versi un’opera sorprendente - soprattutto per l’essere il lavoro di un “Lecturer in Medieval and Renaissance Cultural History” presso il Warburg Institute di Londra.
Muovendo dalla storica acquisizione che la “gran parte delle mappe medievali contengono un riferimento visivo al giardino dell’Eden”, egli cerca di rispondere alla domanda su quali siano state “le condizioni che hanno reso possibile la cartografia del paradiso”. Lo scopo del suo libro, infatti, è quello di “visitare il nostro passato come si fa con un paese straniero, tentando di effettuare la visita con la massima apertura mentale e il massimo rispetto” e cercare di esplorare e scoprire - premesso che “chi metteva il paradiso su una carta aveva le sue buone ragioni” - queste “buone ragioni” (p.7).
Se è vero - come egli stesso sostiene - che “ieri segnare il paradiso su una carta significava una confessione dei limiti della ragione una dichiarazione di fede in un Dio che interveniva nell’arena geografica della storia”, e, altrettanto, che “oggi una mappa che tra le ragioni del mondo comprenda anche il paradiso sembra dover richiedere uno slancio di fantasia o uno sforzo di immaginazione”, è da pensare che l’Autore - alla luce del suo percorso e, ancor di più, delle sue stesse conclusioni - ha trovato molte e grandi difficoltà e che - per dirlo “con una parola-chiave dell’orizzonte di Aby Warburg - che la Memoria (“Mnemosyne”) gli ha giocato un brutto scherzo!
Nell’ Epilogo, con il titolo “Paradiso allora, paradiso ora”, dopo aver premesso in esergo la seguente citazione:
“Sarebbe difficile trovare un qualsiasi argomento in tutta la storia delle idee che abbia invitato a formulare così tante ipotesi, per poi smentirle tutte e renderle assolutamente inutili, come ha fatto il giardino dell’Eden (...) Sono state proposte teorie dopo teorie, ma non è stata trovata nessuna veramente convincente (...) Il luogo dell’Eden sarà sempre classificato, insieme alla quadratura del cerchio e all’interpretazione della profezia non avverata, tra quei problemi irrisolti - forse insolubili - che esercitano un fascino così pieno di mistero” (William A. Wright, Eden, in Smith, Dictionary of the Bible, 1863),
Scafi così comincia: “Per cercare di capire la cartografia del paradiso abbiamo compiuto un lungo viaggio nel tempo. Siamo partiti dagli albori del cristianesimo e, passando attraverso il Medioevo, il Rinascimento e la Riforma, siamo arrivati ai giorni nostri. Abbiamo incontrato il paradiso terrestre in una grande varietà di forme, sia descritto a parole sia sagomato dalle linee di una carta”.
E ormai stanco del percorso fatto, nello sforzo di non farsi accecare dalla varietà delle forme e di (farci!) cogliere l’essenziale (il “dio”) che nei “dettagli” si “nasconde”, così ricorda e prosegue: “Come si è visto, localizzare il paradiso terrestre descritto dalla Genesi non era soltanto un problema geografico, e tutti coloro che hanno voluto interpretare il racconto del peccato di Adamo si sono trovati di fronte ai grandi interrogativi sul destino ultimo dell’uomo”. E, a chiusura del discorso e a esclusione di ulteriori domande in questa nebbiosa direzione metafisica ed escatologica, così precisa: “Non c’è meravigliarsi, allora, che le risposte offerte da tanti secoli di tradizione cristiana siano state formulate e riformulate, con il passare del tempo, in maniera così diversa”!
LA RINASCITA DELLA “HYBRIS” ANTICA: I MODERNI. L’attenzione di Scafi, nonostante ogni buona intenzione, è conquistata da altro: “Quello che colpisce, invece, è il modo in cui, a partire dal Rinascimento e dalla Riforma, ogni autore che si sia cimentato sull’argomento si è sempre industriato a ridicolizzare le teorie dei suoi predecessori. Scrivere sul paradiso sembrava richiedere sempre una carrellata preliminare sulle stravaganze precedenti, per bollare come insostenibili tutte le teorie pregresse e quindi proporre la propria soluzione, che si auspicava definitiva”. E così sintetizza e generalizza: “L’abitudine di presentare, in un’ironica rassegna, le assurdità e gli errori del passato è diventata così un topos che è durato fino ad oggi”; e, ancora, precisa: “A ben vedere, si possono rintracciare già nella tarda antichità le avvisaglie di questa pratica post-rinascimentale”(p. 306).
Colpito da questa “evidenza” e da questa “scoperta”, egli prosegue con l’antica e moderna ‘tracotanza’ (il “folle volo”) a narrare la sua “odissea”, aggiorna il numero della “varietà delle forme” delle mappe del giardino dell’Eden, e, senza alcun timore e tremore, completa la sua personale “ironica rassegna”, - con una “carrellata” sulle ultime e ultimissime “stravaganze”, su quelle degli artisti russi Ilya ed Emilia Kabakov, coi loro “progetti singolari e fantasiosi” (in particolare, “Il paradiso sotto il soffitto”), che Scafi così commenta:
“MAPPING PARADISE”. Questa è la conclusione di "A History of Heaven on Earth”: per dirla in breve, una pietra tombale sull’idea stessa del “paradiso in terra”, e non solo sulle “carte” dei Kabakov, anche se “i due artisti russi sembrano condividere il pensiero dei teologi e dei cartografi medievali”.
Che a questo “destino” dovesse approdare tutta la ricerca, nonostante le apparenze del percorso, Scafi l’aveva già ‘annunciato’, come in una “profezia che si auto-adempie”, in un breve paragrafo dedicato a Dante e alla “Commedia”, intitolato “Un volo poetico in paradiso”, dove - separata “poesia” e “non poesia” - così pontifica:
Fin qui, niente di speciale: il suo punto di approdo è lo stesso di “chi scrive di storia per il grande pubblico” e degli “storici di professione”(p. 7)! E la sua “storia dell’arte” cartografica del “paradiso in terra” di “oggi”, alla fin fine, potrebbe benissimo essere collocata, in una possibile ristampa, nel “Dictionary of the Bible” di “ieri” (1863).
LA SCALA DEGLI INDIANI PUEBLO E LA “MEMORIA” DEL PARADISO DI ABI WARBURG. Per “ironia della sorte”, quasi cento anni prima della mostra dei Kabokov a Londra (1998), nel 1896, Aby Warburg è nel Nuovo Messico e in Arizona, incontra gli indiani Pueblo e - come poi racconterà e cercherà di descrivere con disegni e foto nel 1923 (cfr. “Il rituale del serpente”, Adelphi, Milano, 2005) - conosce elementi della loro cosmologia, un universo “concepito come una casa”, con il tetto con “le falde a forma di scala”, una “casa-universo identica alla propria casa a gradini, nella quale si entra per mezzo di una scala”, e comprende quanto è importante per l’uomo “la felicità del gradino”, il salire (“l’excelsior dell’uomo, il quale dalla terra tende al cielo”). E, al contempo, sempre nel 1896 (il 26 giugno), ad un suo amico, così scrive:
Warburg rimase persuaso di ciò sino alla fine. Ma se fu questo suo atteggiamento ad allontanarlo dagli esteti e anche dagli storici dell’arte, fu il suo intenso interesse - come cita, scrive, e commenta Ernst H. Gombrich (cfr. Aby Warburg. Una biografia intellettuale, Feltrinelli, Milano, 2003, pp 274) - per le questioni psicologiche fondamentali ad avvicinarlo a una generazione che aveva assimilato la lezione di Freud e si rendeva sempre più conto dell’immensa complessità della mente umana. E qui la fama di Warburg non si basa certo su un fraintendimento.
IL PARADISO E L’ANGELO DELLO STORIA. LA LEZIONE DI WALTER BENJAMIN:
"Articolare storicamente il passato non significa conoscerlo "come propriamente è stato". Significa impadronirsi di un ricordo come esso balena nell’istante di un pericolo [...] In ogni epoca bisogna cercare di strappare la tradizione al conformismo che è in procinto di sopraffarla. Il Messia non viene solo come redentore, ma come vincitore dell’Anticristo. Solo quello storico ha il dono di accendere nel passato la favilla della speranza, che è penetrato dall’idea che anche i morti non saranno al sicuro dal nemico, se egli vince. E questo nemico non ha smesso di vincere"(Tesi di filosofia della storia).
*
Allegato:
“LIBER PARADISUS” (BOLOGNA, 1257):
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici (...).
Bologna: "Per una Chiesa di tutti, soprattutto dei poveri"
Succede al cardinale Caffarra, che ringrazia il Pontefice. E’ stato nominato da Papa Francesco, ha sessant’anni: "Misericordia e ascolto, sennò si vedono solo guai..." *
BOLOGNA - Matteo Zuppi, 60 anni, è il nuovo arcivescovo di Bologna. Sostituirà il cardinale Carlo Caffarra. Assistente ecclesiastico della Comunità di Sant’Egidio, Zuppi era vescovo ausiliare per il settore centro della diocesi di Roma. La sua nomina è stata comunicata alla Curia bolognese dallo stesso Caffarra, che a sua volta è stato nominato amministratore apostolico fino all’ingresso del successore.
Ecco le sue prime parole di saluto alla sua "nuova" città: "Voglio provare, con voi, a guardare il mondo e ogni uomo ancora con quella simpatia immensa, volendo la Chiesa di tutti, proprio di tutti, ma sempre particolarmente dei poveri". Nella sua dichiarazione Zuppi più volte richiama il Concilio Vaticano II, monsignor Romero e Giovanni XXIII, per ricordare che "Gesù non condanna ma usa misericordia. Senza ascolto e senza misericordia si finisce tristemente per vedere, certo sempre con tanto zelo per la religione, solo rovine e guai". E questo già sembra essere un fortissimo segno di discontinuità col passato recente della Curia bolognese, arroccata da decenni su posizione sempre più conservatrici e chiuse.
In un’intervista Nettuno Tv ha sottolineato ulteriormente la sua intenzione di "ascoltare tutte le domande della città", in particolare le voci della "sofferenza, dell’incertezza e delle difficoltà" perché essere attenti a queste istanze "aiuterà tutti quanti a essere migliori".
Infine anche una battuta: "Mi perdonerete qualche inflessione romana. Ma c’è una parola che imparerò subito, perché voi la pronunciate con un accento che mi ha sempre ricordato un tratto molto materno: ’teneressa’. E’ quella che chiedo alla Madonna di San Luca, perché mi e ci protegga".
L’addio di Caffarra. L’arcivescovo uscente ha espresso al Santo Padre, anche a nome dell’Arcidiocesi, "la più viva gratitudine per la nomina del nuovo arcivescovo, di cui sono note la fede e lo zelo pastorale, e all’arcivescovo eletto il primo saluto dell’intera Arcidiocesi". Monsignor Giovanni Silvagni, vicario della Diocesi, ha espresso al Cardinale Carlo Caffarra "la commossa gratitudine della Chiesa bolognese per il lungo e fecondo ministero pastorale impreziosito da un ricco magistero dottrinale, e vissuto con totale dedizione e senza risparmio di energie per amore di Cristo e della Chiesa".
Il benvenuto del sindaco. "Rivolgo a Mons. Matteo Maria Zuppi le mie più sincere congratulazioni per l’incarico - afferma Virginio Merola in una nota -. In questo preciso momento storico, caratterizzato da un aumento della povertà e del numero delle famiglie in difficoltà, senza reddito e senza casa, la storia di Zuppi ci conforta nel lavoro che le istituzioni civili e religiose, insieme, dovranno affrontare nei prossimi mesi, per rispondere alle molteplici esigenze che arrivano dalla nostra comunità, seguendo il sentiero di solidarietà, accoglienza e vicinanza ai più poveri della società indicato da Papa Francesco. Sono convinto che la collaborazione non mancherà. A nome della città di Bologna auguro al Vescovo Zuppi un buon lavoro".
Le lodi della comunità di Sant’Egidio. Di Zuppi, dice la comunità di Sant’Egidio, che lo ha avuto come assistente ecclesiastico, "abbiamo apprezzato negli anni le sua grandi qualità umane, l’impegno con i poveri come parroco a trastevere e nella periferia di Roma, il suo lavoro per la pace in Africa e altrove, la sua capacità di amicizia con tutti".
Le reazioni. Le sue basi culturali e le sue declinazioni "porteranno beneficio non solo alla Chiesa bolognese, ma a tutta la nostra città" dice Simonetta Saliera, presidente dell’Assemblea legislativa, che ricorda anche Caffarra per "l’opera e la passione con cui ha svolto il suo magistero episcopale in questi travagliati anni".
La sua vita. Come annuncia il bollettino della Santa sede, monsignor Zuppi è nato a roma l’11 ottobre 1955. E’ entrato nel seminario di Palestrina e ha seguito i corsi di preparazione al sacerdozio all’Università Lateranense, dove ha conseguito il baccellierato in teologia. Si è laureato, inoltre, in Lettere e filosofia all’Università di Roma, con una tesi in storia del cristianesimo. Poi la lunga "carriera" nel mondo ecclesiastico e l’impegno con la comunità di Sant’Egidio, fino alla nomina a vescovo titolare di Villanova e ausiliare di Roma il 31 gennaio 2012. Ha ricevuto la consacrazione episcopale il 14 aprile dello stesso anno.
Il più antico rotolo ebraico
scoperto a Bologna: ha otto secoli
Era custodito nella Biblioteca universitaria, si credeva risalisse solo al XVII secolo ma un docente dei Beni culturali dell’Alma Mater ne ha individuato la corretta datazione: "E’ la copia intera del Pentateuco più vecchia esistente al mondo"
di ILARIA VENTURI *
Il più antico rotolo esistente del Pentateuco ebraico è stato scoperto alla Biblioteca universitaria di Bologna. Il documento era conservato negli archivi, ritenuto di scarso valore perché si credeva fosse risalente al secolo XVII. Quasi per caso, nello scorso febbraio, è finito nelle mani del professor Mauro Perani, docente di Ebraico del dipartimento di Beni culturali dell’Alma Mater, incaricato di redigere il nuovo catalogo dei manoscritti ebraici della biblioteca. Di qui la scoperta: il rotolo della Torah è stato in realtà vergato in un periodo compreso tra il 1155 e il 1225 e risulta essere, dunque, il più antico rotolo ebraico completo dei primi cinque libri della Bibbia, dalla Genesi al Deuteronomio. Perani non ha dubbi: “Esistono codici o frammenti di rotoli più antichi, questo è il rotolo più antico intero, un esemplare di immenso valore, la cui importanza per gli studiosi è evidente anche a un pubblico non specializzato”.
La scrittura è su 36 metri di morbida pelle ovina. Il documento reca la segnatura “Rotolo 2”. La sua antichità non era stata riconosciuta da Leonello Modona, un ebreo originario di Cento, che lavorò per anni come bibliotecario nella sede universitaria bolognese, il quale nel suo catalogo del 1889 lo riteneva risalente al secolo XVII. La vera datazione, secondo il professor Perani, è invece ben diversa, ed è risultata chiara da un esame testuale e paleografico. La grafia orientale, infatti, molto elegante e raffinata non rispetta le regole fissate dal filosofo talmudista Maimonide, morto nel 1204. “La normativa rabbinica relativa alla scrittura del Pentateuco non viene rispettata, appaiono caratteristiche grafiche assolutamente proibite ai copisti dopo la codificazione maimonidea”, spiega il docente. “Da qui si desume che è stato scritto prima”.
Una tesi confermata da due analisi con il Carbonio 14 eseguite dal Centro di datazione del dipartimento di ingegneria dell’innovazione dell’università del Salento e dal Radiocarbon Dating Laboratory dell’Università dell’Illinois. “Una scoperta emozionante, destinata a passare alla storia. Abbiamo subito informato il ministero dei Beni culturali che si è congratulato”, spiega la direttrice della biblioteca settecentesca Biancastella Antonino. Ora il documento sarà digitalizzato e conservato nella stanza blindata, in attesa di essere messo in mostra.
Romano Prodi contro Francesco Guccini:
il referendum sulla scuola che spacca Bologna
Endorsement del professore, in campo per mantenere il finanziamento alle scuole materne private: "E’ un accordo che funziona benissimo, perché bocciarlo?". In campo anche il cantautore, che invece scandisce: "Difendere la scuola pubblica" *
BOLOGNA - Scende in campo anche Romano Prodi in merito al referendum di domenica 26 maggio nel quale si dovrà decidere se il Comune dovrà continuare o no a finanziare le scuole materne private con un milione di euro l’anno. Il Professore, senza molti giri di parole, dice che voterà "B", ovvero l’opzione che mantiene la convenzione tra pubblico e privato. La stessa che hanno auspicato personalità come il cardinale Bagnasco. "Se, come spero, riuscirò a tornare in tempo da Addis Abeba, domenica prossima voterò sui quesiti riguardanti le scuole dell’infanzia e voterò l’opzione B" scrive l’ex premier sul suo sito.
Ma, a pochi minuti di distanza, arriva anche il messaggio di Francesco Guccini a sostegno dei referendari: "Accompagno con il cuore la vostra campagna". Un sostegno non isolato, quello del cantautore, visto che il primo firmatario dell’appello per la "A" è Stefano Rodotà. Insomma, non è solo uno scontro politico ma anche uno scontro di simboli per Bologna, mentre l’atmosfera si fa incandescente.
Prodi spiega anche il perché della sua scelta, partendo da una premessa: "Dico subito che, a mio parere, il referendum si doveva evitare perché apre in modo improprio un dibattito che va oltre i ristretti limiti del quesito stesso". E continua: "Il mio voto è motivato da una semplice ragione di buon senso: perchè bocciare un accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che, tutto sommato, ha permesso , con un modesto impiego di mezzi, di ampliare almeno un po’ il numero dei bambini ammessi alla scuola dell’infanzia e ha impedito dannose contrapposizioni? Ritengo che sia un accordo di interesse generale".
Il professore critica poi il comitato referendario, che si batte per l’eliminazione dei contributi alle materne private: "La motivazione più forte di chi vota l’opzione A è che i mezzi forniti alla scuola statale e comunale siano così scarsi che le casse comunali non possono allargare il loro impegno al di fuori del loro stretto ambito. Credo tuttavia che le restrizioni che oggi drammaticamente limitano l’azione del Comune e in generale penalizzano la scuola siano dovute a una errata gerarchia nella soluzione dei problemi del Paese e non ad accordi di questo tipo".
Il messaggio di Guccini ai referendari. "Sono qui con il cuore ad accompagnare la vostra campagna - scrive invece il cantautore Francesco Guccini al Comitato articolo 33, che si batte per l’abolizione del finanziamento alle materne private -. Questa sera sono a Pistoia a discutere di viaggi e incontri ai Dialoghi sull’Uomo e questa coincidenza mi porta a pensare proprio alla scuola - e alla scuola dell’infanzia, pubblica laica e plurale - come uno dei luoghi fondamentali dove l’uomo prende forma e inizia il suo viaggio. Entrare alla scuola pubblica, ove si opera senza discriminazioni e senza indirizzi confessionali, è il primo passo di ogni individuo che voglia imparare l’alterità e la condivisione; è il primo passo di ogni essere umano per diventare uomo, per diventare donna... Insomma, non posso non fare mia la lezione di Piero Calamandrei, quella contenuta nel suo celebre Discorso in difesa della scuola nazionale, e da quelle parole traggo il mio augurio e il mio saluto per tutti voi: "Bisogna, amici, continuare a difendere nelle scuole la Resistenza e la continuità della coscienza morale."
"Con le paritarie si aiutano le donne a lavorare". Dalle colonne di Bologna sette, il settimanale di Avvenire, si difende il sistema integrato pubblico-privato perché sono un modo per aiutare le donne ad andare a lavorare. Nell’editoriale, a firma di Paolo Cavana, si contesta tanto il quesito "equivoco" del referendum quanto "il richiamo al principio di laicità". Infatti, "il quesito referendario ha per oggetto un segmento dell’offerta formativa, quello delle scuole dell’infanzia, non ricompreso nella fascia dell’istruzione obbligatoria e gratuita, la sola garantita dallo Stato". Del resto le scuole dell’infanzia "assolvono ad un compito non tanto di istruzione quanto di socializzazione primaria dei bambini, consentendo inoltre ai genitori e in particolare alla madre di poter accedere al mondo del lavoro". Perciò "l’attuale sistema, che rende accessibile la scuola dell’infanzia ad un maggior numero di bambini, risponde anche ad un interesse, costituzionalmente tutelato, della donna lavoratrice", garantito appunto dall’articolo 37. Tutti "valori e principi" questi, conclude poco dopo Cavana, "che i promotori del referendum sembrano aver completamente dimenticato".
"Difendere il lavoro"
l’omelia di Caffarra
L’arcivescovo di Bologna celebra messa in occasione di San Giuseppe lavoratore in un’azienda a Pianoro. E chiede "decisioni sagge e forti" da parte del potere politico *
"La persona trascende ogni sistema che essa stessa ha prodotto. Servono decisioni sapienti e forti. Non possiamo dimenticare certo che la situazione attuale ha messo lo Stato di fronte a vere e proprie limitazioni della sua sovranità. Tuttavia questa congiuntura deve portarci a non sottovalutare la necessità di istituzioni politiche solide e ad un ripensamento e rinnovata valutazione del potere politico".
E’ il passaggio centrale dell’omelia, in occasione della Festa di S. Giuseppe lavoratore, pronunciata dal cardinale Carlo Caffarra durante una messa tenuta oggi nell’azienda Marchesini Group a Pianoro.
Secondo l’arcivescovo di Bologna, "la stella polare della dignità della persona deve orientare tutti ad affermare, difendere, perseguire quale priorità assoluta l’obiettivo dell’accesso al lavoro e del suo mantenimento, per tutti. Sarebbe segno di miopia anche da parte della semplice ragione economica, pensare e decidere di rendere il Paese più competitivo a livello interno ed internazionale negando quella priorità. Non mi devo addentrare, il Vescovo non lo deve fare, nella modalità anche legislativa per salvaguardare la priorità suddetta. Chiedo solo di guardare ai ’costi umani’, che sono già sotto gli occhi di tutti, quando quella salvaguardia è disattesa. E i costi umani finiscono sempre per essere anche fra l’altro costi economici".
"La stella polare della dignità della persona - ha aggiunto Caffarra - esige da parte di tutti una grande opera di sapienza. La matrice culturale di cui è ancora in larga misura impastata la dottrina dell’economia e dello Stato, quella utilitaristica, deve essere abbandonata: troppi danni essa ha causato. Sulla base di quella matrice l’Occidente ha costruito una casa per l’uomo nella quale questi non può vivere una buona vita. E’ una casa sempre più inospitale".
* la Repubblica/Bologna, 01 maggio 2012
Dalla, il compagno in chiesa rompe il velo dell’ipocrisia
di Michele Serra (la Repubblica, 5 marzo 2012)
Con la compostezza, il dolore e la legittimità di un vedovo, il giovane Marco Alemanno ha reso pubblico omaggio al suo uomo e maestro Lucio Dalla in San Petronio, dopo l’eucaristia, se non rompendo almeno scheggiando il monolito di ipocrisia che grava, nell’ufficialità cattolica, sul "disordine etico" nelle sue varie forme, l’omosessualità sopra ogni altra.
È importante prenderne atto. Anche se è altrettanto importante sapere che fuori dalla basilica, nel denso, sconfinato abbraccio che i bolognesi hanno dedicato a Dalla, i suoi costumi privati non costituivano motivo di dibattito. Se non per lodare e rimpiangere la dimestichezza di strada e di osteria che Dalla aveva con "chiunque", il suo promiscuo prendere e dare parole, tempo e compagnia, la sua disponibilità umana. Ma dentro San Petronio la vita privata di Lucio, la sua omosessualità pure così poco ostentata, e mai rivendicata, creava un grumo che Bologna ha provveduto a sciogliere nella sua maniera, che è compromissoria, strutturalmente consociativa. Città rossa e vicecapitale del Papato, massonica e curiale, borghese e comunista. Un consociativismo interpretato al meglio (cioè senza malizia, per pura apertura di spirito) proprio da Dalla, che era amico quasi di tutti, interessato quasi a tutti. Non avere nemici è molto raramente un merito. Nel suo caso lo era.
In ogni modo si capisce che quel grumo, specie per una Curia che da Biffi in poi si è guadagnata una fama piuttosto retriva, non era semplice da gestire. Il vescovo non era presente, il numero due neppure, "altri impegni" incombevano e sarebbe infierire domandarsi quale impegno, ieri, fosse più impellente, per ogni singolo abitante della città di Bologna, di andare a salutare Lucio. L’omelia è stata affidata al padre domenicano Bernardo Boschi, amico personale del cantante, che non avendo zavorre istituzionali sulle spalle ha potuto e saputo essere affettuoso, rispettoso e libero, dunque prossimo alla città e ai suoi sentimenti.
L’ingrato compito di mettere qualche puntino sulle "i", per controbilanciare la quasi sorprendente "normalità" di una cerimonia così solenne, e insieme così semplice, nella quale il solo laico a prendere la parola, a parte il teologo Vito Mancuso, è stato il compagno di Dalla; quel compito ingrato, dicevo, se l’è caricato in spalla il numero tre della Curia, monsignor Cavina, che nel suo breve discorso introduttivo ha voluto ricordare che «chi desidera accostarsi al sacramento dell’Eucarestia non deve trovarsi in uno stato di vita che contraddice il sacramento».
Concetto che, rivolto alla cerchia di amici di Lucio presenti in chiesa, e ai tanti "freaks" che affollavano chiesa e sagrato anche in memoria della dimestichezza che avevano con Dalla, e Dalla con loro, faceva sorridere: più che severo appariva pateticamente inutile, perché dello "stato di vita" delle persone, dell’essere canoniche o non canoniche le loro scelte amorose e affettive, a Lucio non importava un fico secco, né si sarebbe mai sognato, nelle sue recenti e purtroppo finali incursioni nella teologia, di stabilire se a Dio le scelte sessuali interessino quanto interessano a molti preti.
Comunque - e tutto sommato è il classico lieto fine - il breve monito di monsignor Cavina a tutela dell’eucaristia e contro gli "stati di vita che contraddicono quel sacramento" (?!) è passato quasi inosservato e inascoltato. Come un dettaglio burocratico.
Marco Alemanno ha incarnato in una chiesa, e in una cerimonia che più pubblica non si sarebbe potuto, tutta la dignità di un amore tra uomini. Semmai, c’è da domandarsi quanti omosessuali cattolici meno famosi, e meno protetti dal carisma dell’arte, abbiano potuto sentirsi allo stesso modo membri della loro comunità.
L’augurio è che la breve orazione di Marco per Lucio costituisca un precedente. Per gli omosessuali non cattolici, il dettato clericale in materia non costituisce il benché minimo problema: francamente se ne infischiano. Ma per gli omosessuali cattolici lo costituisce, eccome. Ed è a loro, vedendo Marco Alemanno pregare per il suo uomo accanto all’altare, che corre il pensiero di tutte le persone di buona volontà.
di Enzo Bianchi (la Repubblica, 5 marzo 2012)
Di una cosa era certissimo: che c’è l’al di là, l’oltre la morte, "il secondo tempo", la vita per sempre. Ancora recentemente mi aveva ripetuto: "Questa vita è solo l’anticamera, il bello deve venire!". Ho conosciuto Lucio una sera a Bologna nel 1971, giovani della medesima età (uno nato appena ventiquattr’ore prima dell’altro), e siamo subito diventati amici. Da allora incontri, conversazioni, telefonate, discorsi a tavola, mie visite a casa sua e ultimamente anche sue venute a Bose... Lucio era amabile perché umanissimo: nei rapporti con le persone, certo, ma anche nel suo pensare, nel suo poetare, nel suo abitare il tempo della vita per trovare in esso ciò che davvero conta, ciò che rimane, ciò che è eterno: perché "è eterno anche un minuto, ogni bacio ricevuto dalla gente che ho amato".
Tante volte assieme abbiamo parlato dell’Amore e Lucio ha voluto che fossi io a presentare a Torino nel dicembre scorso il suo ultimo album: "Questo è amore". "Cos’è l’amore?", mi chiedeva in un modo che pareva ossessivo. Non che non lo sapesse, ma voleva sempre mettersi alla prova, interrogarsi per verificare se i suoi rapporti, i suoi amori erano Amore. "Vorrei capire che cos’è l’amore, dov’è che si prende, dov’è che si dà": non sono versi frivoli, non sono parole leggere, sono invece l’espressione della sua appassionata ricerca dell’amore.
Ci sono persone che per tutta la vita cercano solo l’amore, fino a essere vittime dell’amore che inseguono in modi a volte incomprensibili per gli altri. Lucio era una di queste persone: cercava l’amore, ma soprattutto credeva all’amore. Quando avevo qualche conferenza a Bologna lui, se era in città, non mancava mai, leggeva i miei libri, mi mandava messaggi per commentarli e sempre il cuore del discorso tornava a questa sua fede nell’amore. Gli piaceva sentirsi ripetere che "l’amore vince la morte", che nel cristianesimo proprio questo è il fondamento della fede: la morte, infatti, resta per tutti un enigma ed esige di essere vinta. Ma da chi? Dall’amore.
E nel ricordare Lucio vorrei aggiungere anche una parola sulla sua fede: mi raccontava che da ragazzo aveva avuto come confessore padre Pio e che più tardi, grazie ai domenicani di Bologna aveva potuto accompagnare la sua vita con la fede. Non rinnegava neppure alcune "devozioni", perché la sua era una fede semplice e umile, come quella di un bambino, ma una fede salda, carica di speranza.
Nella mia amicizia con lui, ultimamente c’era anche la presenza cara di Marco Alemanno, l’amico sempre accanto che con la sua "arte" permetteva a Lucio di sperare contro ogni solitudine: "Buonanotte anima mia, adesso spengo la luce e così sia!". Buonanotte, Lucio, dormi, riposa nell’Amore, perché è certo che, come cantavi tu, "se Dio esiste voi, voi vi ritroverete là, là. Amore". Sì, Lucio, ci ritroveremo là, nell’Amore.
La Chiesa e Dalla il muro abbattuto
di Marco Politi (il Fatto Quotidiano, 7 marzo 2012)
Alla fine resta il simbolo potente dei funerali di Dalla, che segnano il crollo del muro tenacemente difeso dalla Chiesa per anni e anni nei confronti dell’omosessualità. La Chiesa cattolica vive di simboli. E ora un solo segno rimane scolpito nella memoria collettiva: la curia arcivescovile di Bologna non ha avuto il coraggio di impedire solenni esequie cristiane ad un gay praticante. Non ha avuto la forza di negare il discorso funebre - praticamente a pochi metri dall’altare - al suo compagno innamorato. Non ha nemmeno potuto usare l’omelia per censurare il “peccatore” affidato alla “misericordia” dell’Aldilà. Il Muro di Berlino si è sbriciolato quando i dirigenti della Ddr hanno ammesso che non c’erano più armi per tenerlo in piedi.
Così è successo a Bologna. Dinanzi al corpo di un credente discreto si sono frantumate le tortuose distinzioni, solitamente invocate, tra il rispetto per l’essere umano e la condanna inappellabile del “grave disordine morale” rappresentato (per il catechismo ratzingeriano) dalla condotta omosessuale. Da oggi in ogni diocesi i familiari e i compagni o le compagne di un cristiano gay rivendicheranno il diritto ad avere esequie eguali.
Per capire l’impatto dell’evento va ricordato che se Milano nei decenni trascorsi è stata con i suoi cardinali Martini e Tettamanzi la capitale di un cattolicesimo che voleva respirare oltre i dogmi dottrinali, Bologna all’opposto è stata la casamatta di una interpretazione regressiva della dottrina. Ancora poche settimane fa il cardinale Caffarra chiedeva il ritiro delle associazioni cattoliche dalla consulta familiare cittadina, perché il Comune si era permesso di invitarvi una rappresentanza gay.
Domenica le barricate anti-gay ecclesiastiche si sono liquefatte nella constatazione che, rispetto al percorso spirituale di Dalla, le sue relazioni e il suo orientamento sessuale erano totalmente nonrilevanti. Anzi, nel susseguirsi di testimonianze commosse sul mondo interiore di Lucio - da parte di francescani, domenicani e di un monaco pensatore come Enzo Bianchi - è apparsa ancora più siderale la distanza tra il sentire reale dei cattolici italiani e l’irrigidirsi inutile (e muto) della gerarchia ecclesiastica.
Su Avvenire la lettrice Nerella Buggio scrive che le scelte di Dalla non riguardano nessuno “perché siamo liberi e ognuno è libero di fare le scelte più opportune; se si tratta di un cattolico sarà eventualmente un problema suo, se la vedrà con il suo confessore e con Dio, non spetta certo a noi giudicarlo...”. Il terreno su cui si incrociano in Italia laicità e cattolicesimo profondo è questo.
Lo stesso cardinale Bagnasco, rovesciando la linea tenuta da Ruini sul caso Welby, lo rende evidente quando dichiara che “di fronte ai morti preghiamo gli uni per gli altri, sempre”. Ora il punto non è passare il tempo a discutere dell’ipocrisia della Chiesa istituzionale o del perché gli italiani siano abituati a gestire senza outing i propri affari personali.
La questione da affrontare è un’altra. Se persino i vertici ecclesiastici avvertono l’insostenibilità della pubblica riprovazione di una vita gay, non si comprende perché lo Stato italiano tardi ancora a varare una legge che riconosca a due partner omosessuali di stringere pubblicamente un patto di vita in comune.
L’accordo trasversale per un contratto tipo Pacs era già pronto in Parlamento nel 2004 (convergenti Franco Grillini per il centrosinistra e Dario Rivolta di Forza Italia). La maggioranza del Paese era d’accordo. Poi il cardinale Ruini bloccò tutto. Si allinearono supini Berlusconi e co. e quegli eterni segmenti di centro-sinistra, che confondono fede e subalternità al Vaticano. Il Parlamento resterà inerte oggi in un’Italia ancora più evoluta? Sarebbe notevole se un centinaio di parlamentari bipartisan, dando un senso al 4 marzo, rilanciassero una legge per le coppie di fatto. Pier Ferdinando Casini, che ha assistito ai funerali non certo con l’imbarazzo di pregare per una persona “contro-natura”, potrebbe firmare anche lui in nome del futuro Partito della Nazione.
"Che errore contrapporre Chiesa e gay l’omosessualità è anche tra preti e vescovi"
intervista a Vito Mancuso
a cura di Valerio Varesi (la Repubblica” - Bologna, 7 marzo 2012)
Anziché il silenzio rispettoso per la morte, quale strascico del funerale di Lucio Dalla, arriva il bailamme della polemica. Da una parte i gay, memori delle processioni mariane deviate per non sfilare davanti alla loro sede al Cassero di Porta Saragozza, che accusano la Chiesa bolognese di ipocrisia. Dall’altra padre Bernardo Boschi, il confessore dell’artista, che controbatte gridando alla vendetta. In mezzo la memoria del cantautore sulla quale in troppi vogliono appiccicare un ’etichetta. Vito Mancuso, teologo e amico di Dalla, che lo ospitò in autunno nella sua casa di via D ’Azeglio, fugge dalle contrapposizioni e dai giochi di fazione: «Se non usciamo dalla logica degli schieramenti non ne verremo mai fuori. È un vizio tipicamente italiano quello di cercare sempre la contrapposizione mettendosi da una parte contro un’altra senza considerare la singola umanità. Bisogna rifiutare questo gioco» spiega.
Secondo lei è giustificata l’accusa di ipocrisia lanciata nei confronti della Chiesa?
«Intanto interroghiamoci su cos’è la Chiesa. Credo che sia tante cose. È l’arcivescovo Carlo Caffarra che non si presenta, ma anche Enzo Bianchi che parte dal profondo Piemonte e scende fino a Bologna per salutare il suo amico. La Chiesa è anche i francescani che sono stati presenti con un messaggio del loro massimo rappresentante e con due padri venuti da Assisi».
Stiamo parlando della Chiesa bolognese. Di padre Boschi che autorizza implicitamente a pensare agli schieramenti quando parla di vendetta del mondo gay...
«E secondo me ha fatto male. Io non avrei mai detto quelle parole perché in questo modo commette lo stesso errore di chi cerca la contrapposizione. E poi anche il mondo gay si dice in molti modi. Un conto sono le accuse a Dalla di Aldo Busi, un conto la vicinanza di Benedetto Zacchiroli. Rifiuto ogni strumentalizzazione dei casi umani per portare avanti la propria battaglia. Considero tutto ciò un modo violento di stare nel mondo. Su questa falsariga non si incontreranno mai gli altri».
Quindi c’è stata strumentalizzazione anche in questo caso?
«Dalla, nella sua singolarità, ha fatto saltare tutti gli schieramenti perché non ha mai accettato di presentarsi al mondo riducendosi tutto alla sessualità. Per questo fa esplodere la logica di coloro che non pensano al singolo, ma alla parte o alla lobby».
Come considera l’assenza di Caffarra?
«Sono a Bologna da poco e ho incontrato il cardinale in una occasione rimanendo colpito dalla sua umanità. Ma proprio in virtù di questa umanità mi sarei aspettato la sua presenza in San Petronio a salutare un grande figlio di Bologna e un credente come Dalla. Però non conosco la sua agenda e la sua assenza sarà certo giustificata. Dico solo che sarebbe stato bello se ci fosse stato il sommo pastore della Chiesa bolognese».
Anche lo svolgimento della funzione ha creato qualche polemica. In particolare quel richiamo al corretto comportamento prima dell’Eucarestia. Cosa ne pensa?
«Mi ha dato molto fastidio perché lo considero un tradimento dottrinale. Non è vero che non si possa fare la Comunione in presenza di peccato. Se la coscienza sente sinceramente di poterlo fare, giurando a se stessa di confessarsi in un secondo tempo, la partecipazione all’Eucarestia è possibile. Anche perché la proibizione chiude il soffio della Grazia. Oltretutto non si capirebbe perché Gesù stigmatizzava i Farisei che si consideravano motu proprio degni della Comunione. Siamo tutti indegni di fronte alla purezza di Dio e chi si ritiene degno è lui stesso indegno. Per il resto il rito è stato complessivamente positivo».
Non trova che, in generale, ci sia ambiguità nell’atteggiamento della Chiesa verso l ’omosessualità?
«Una certa incoerenza è sempre presente a seconda che prevalga l’aspetto etico-dottrinario o laconsiderazione umana. Alla fine sono le decisioni dei singoli a spuntarla. A Mario Cal, suicida o a Versace omosessuale non sono state rifiutate le esequie».
A Piero Welby sì...
«Quella fu una decisione del cardinal Camillo Ruini di sapore politico. Il cardinal Martini non avrebbe mai compiuto un simile atto. Ma torniamo all’inizio: sono i singoli a decidere a seconda che si guardi alla dottrina o all’umano. Il pluralismo è la caratteristica e la bellezza del Cristianesimo e non a caso la Bibbia è un corpus di 73 libri. Anche i Vangeli sono quattro e talvolta in contraddizione».
Un gay dichiarato privo della fama di Dalla, sarebbe stato accettato in Chiesa?
«Io credo di sì. La Chiesa non condanna l’omosessualità in quanto tale, ma i comportamenti attivi in tal senso. Del resto l’omosessualità è interna alla Chiesa visto che ci sono parroci e vescovi che hanno questo orientamento».
ALLE ORIGINI DEL MODERNO!!! IL "LIBER PARADISUS" (BOLOGNA, 1257: *
Quest’ atto ricorda la manomissione effettuata dal comune di Bologna di servi e serve della gleba: lo si deve chiamare giustamente Paradiso.
Dio onnipotente piantò un piacevole Paradiso (giardino) e vi pose l’uomo, il cui corpo ornò di candida veste donandogli una libertà perfettissima ed eterna. Ma l’ uomo, misero, immemore della sua dignità e del dono divino, gustò del frutto proibito contro il comando del Signore. Con questo atto tirò se stesso e i suoi posteri in questa valle di lagrime e avvelenò il genere umano legandolo con le catene della schiavitù al Diavolo; cosi l’ uomo da incorruttibile divenne corruttibile, da immortale mortale, sottoposto a una gravissima schiavitù. Dio vedendo tutto il mondo perito (nella schiavitù) ebbe pietà e mandò il Figlio suo unigenito nato, per opera dello Spirito Santo, dalla Vergine madre affinché con la gloria della Sua dignità celeste rompesse i legami della nostra schiavitù e ci restituisse alla pristina libertà. Assai utilmente agisce perciò chi restituisce col beneficio della manomissione alla libertà nella quale sono nati, gli uomini che la natura crea liberi e il diritto delle genti sottopone al giogo della schiavitù.
Considerato ciò, la nobile città di Bologna, che ha sempre combattuto per la libertà, memore del passato e provvida del futuro, in onore del Redentore Gesù Cristo ha liberato pagando in danaro, tutti quelli che ha ritrovato nella città e diocesi di Bologna astretti a condizione servile; li ha dichiarati liberi e ha stabilito che d’ora in poi nessuno schiavo osi abitar nel territorio di Bologna affinché non si corrompa con qualche fermento di schiavitù una massa di uomini naturalmente liberi.
Al tempo di Bonaccorso di Soresina, podestà di Bologna, del giudice ed assessore Giacomo Grattacello, fu scritto quest’ atto, che deve essere detto Paradiso, che contiene i nomi dei servi e delle serve perché si sappia quali di essi hanno riacquistato la libertà e a qual prezzo: dodici libbre per i maggiori di tredici anni, e per le serve: otto libbre bolognesi per i minori di anni tredici [...]
* Cfr. Federico La Sala, Dante (e Bacone), alle origini del moderno!!! Pace, giustizia e libertà nell’aiuola dei mortali, Èuresis, Notizie e scritti di varia indole del Liceo classico “M.Tullio Cicerone” di Sala Consilina, Boccia editore, Salerno 1988.
colloquio con Raniero La Valle a cura di Maurizio Chierici (domani, 20 settembre 2010)
L’ultimo saggio [Paradiso e libertà] di Raniero la Valle completa la triologia pubblicata da Ponte delle Grazie: “Prima che l’amore finisca” analizza l’eredità del Novecento e “Se questo è un Dio” risponde alla questione di Dio che la modernità aveva chiuso. Quel Dio morto negli anni ’60, il Dio che la borghesia del benessere rifiuta di incontrare o nega di aver mai conosciuto.
Perché il libro riprende il filo dei saggi che lo precedono?
Perché avevo un debito. Io fin da piccolo sono stato nella Chiesa, ho patito la guerra, sono andato all’Università, ho diretto un quotidiano, ho vissuto il Concilio Vaticano II e ne ho raccontato, prima di ogni altro storico, la storia, perché ne facevo giorno per giorno la cronaca mettendo insieme notizie, documenti e testimoni. Sono stato sedici anni in Parlamento, prima al Senato poi alla Camera, ho partecipato per breve tempo al governo di Roma da un ufficio che stava sotto Marco Aurelio nella piazza del Campidoglio, ho girato molte terre, alcune in fiamme, ho conosciuto persone straordinarie di ogni mondo, scomparsa la prima moglie mi sono sposato due volte, non ho figli ma tanti nipoti e nipotini che talvolta è perfino difficile ricordarne il nome, e a questo punto qualcuno potrebbe chiedermi: “Che cosa hai capito?” A suo modo questo libro, come i due precedenti, è una risposta.
Che cosa hai capito?
Anzitutto perché ci si innamora così fortemente.
Perché?
Perché quando ad esempio nell’”Aida” un prode capitano egiziano dice a una schiava etiope che ama: “Celeste Aida”; quando nell’”Iliade” i saggi Troiani che siedono alle Porte Scee vedendo arrivare la bella Elena dicono: “è divina”; quando nel Cantico dei Cantici, che è il più bel libro della Bibbia, si dice che l’amore tra quell’uomo e quella donna “è fiamma di Dio”, ed è la sola volta che lì Dio è nominato, queste espressioni non sono iperboliche, sono vere. Vero è che la donna è divina, che l’uomo è divino. Perciò anche l’amore è divino.
Come può l’uomo essere divino? Tutta la civiltà occidentale dice che se è un uomo, non può
essere Dio.
Non è vero. In Occidente si afferma con forza la dignità, la “dignitas” dell’uomo. Ma che cos’è la “dignitas” dell’uomo se non la sua “divinitas”? È questo lo specifico umano, ciò che distingue l’uomo dagli “altri” animali, quella differenza sostanziale che nel processo evolutivo gli scienziati non riescono a trovare. Del resto nella lettera a Tito san Paolo per definire la natura buona di Dio parlava della “humanitas” di Dio: Dio è buono in quanto è “umano”. Così, in questo scambio dei linguaggi, per dire la vera natura dell’uomo si deve parlare della sua “divinitas”, nel che sta la sua dignità.
Non tutti gli uomini sono degni, se sono così capaci di male.
Gli uomini non peccherebbero, non farebbero il male, se non fossero liberi. La libertà è ciò che di Dio è in loro. Si è discusso, nella Chiesa, in che senso l’uomo fosse, come dice la Bibbia, “immagine di Dio”. La risposta prevalente (che arriva fino a Benedetto XVI) è che l’immagine sta nella ragione. Invece (lo diceva con forza San Bernardo) sta nella libertà. Perciò la libertà è santa: altro che “bieco illuminismo” come è stato scritto in recenti polemiche guelfe in Italia. Nel Duecento un editto con cui a Bologna furono liberati i servi, si chiamò “Liber Paradisus”, libro Paradiso. Il Paradiso è dunque il luogo, e gli eventi, in cui gli uomini vengono a libertà. Perciò ogni volta che gli uomini si liberano, o sono liberati, c’è più paradiso in terra, e si prepara quello celeste.
Però, se si fa il male, l’immagine di Dio si perde, e il paradiso non c’è.
No, l’immagine permane, anche se si compie ciò che è male. I teologi medievali erano fermissimi su questo. Perché una cosa è l’immagine, l’impronta divina nell’uomo, altra cosa è la somiglianza. Anche Hitler portava in sé l’immagine di Dio, ma non gli rassomigliava per niente. La somiglianza sta nell’usare la libertà per il bene, di cui non è vero che l’uomo non sia capace, nonostante le antropologie pessimistiche fondate sul peccato. Questo è dunque il senso di “Paradiso e libertà”: il Paradiso è libertà, ma la libertà si deve usare per il Paradiso.
Che cos’altro hai capito?
Ho capito che nonostante la tragica situazione in cui l’umanità è venuta oggi a cadere, anche per colpa sua, l’uomo può farcela a riprendere in mano la terra e la storia. Nel Novecento furono espresse sentenze un po’ disperate, si disse che a questo punto solo un Dio ci poteva salvare, cioè solo un miracolo. Ma l’uomo è questo miracolo. Le risorse ci sono, e sono nella natura stessa dell’uomo e della donna, come sono usciti dalle mani di Dio o, come dico nel libro, messi in vita dal “bacio di Dio”.
Ma ce la può fare l’uomo da solo?
Ce la può fare l’umanità tutta intera, perché l’umanità non è solo umana, è il corpo di Dio (“corpus Domini”, dice la Chiesa).
Ma questo non vuol dire consegnarsi alla Chiesa?
L’amore di Dio sta nella Chiesa, ma è oltre la Chiesa ed è prima della Chiesa. Non tutto comincia con la Chiesa visibile. Anche prima del Cristo storico l’umanità giungeva a salvezza, perché il Cristo, il “Verbo”, è da sempre, come il Padre. Non vedere ciò porta gravi conseguenze. GS e Comunione e Liberazione nacquero dall’idea che Cristo fosse il cominciamento assoluto, e perciò credettero che l’unica cosa necessaria fosse “essere Chiesa”, e che la loro comunità era questa Chiesa, come luogo in cui stare in continuazione di lui. A questa condizione si poteva senza remore usare il potere, prendere in appalto il mondo, con l’idea che la Chiesa stessa fosse il mondo salvato, e così le critiche al cattivo uso del potere e del mondo potevano essere tacciate di “moralismo”: e ancora lo sono, così si arriva fino a Berlusconi, e alla sua assoluzione da ogni peccato, compresi i cari, vecchi peccati “de sexto”. Ma il Cristo storico non è lo spartiacque tra l’essere e il non essere del mondo, l’essere o non essere di Dio nel mondo, egli viene dal principio e si inserisce in una storia, che non è solo quella del popolo ebreo, ma dell’umanità tutta con le sue religioni le sue civiltà e le sue culture; Gesù di Nazaret fa conoscere il Dio che c’era già prima e lo spiega agli ebrei che non l’avevano capito; e così comincia una storia nuova per tutti. La Chiesa, che nasce da lì, è distinta dal mondo, perché anch’essa deve stare a sentire quello che dice lo Spirito, ed è al servizio di questi “tutti” del mondo; rientrare nel ghetto, vuol dire tornare alla storia vecchia, e così l’umanità non ce la può fare.
E ce la può fare?
Non i singoli popoli da soli, o peggio in guerra tra loro, ma l’umanità tutta intera composta nella sua unità, nella varietà delle forme, delle politiche e delle fedi, che sono le vie di transito tra l’uno e l’altro Paradiso. Come dice il Concilio: “Unico diventa il destino della umana società senza diversificarsi più in tante storie separate”.
* Raniero La Valle, Paradiso e libertà, Ponte alle Grazie
Blocco della didattica all’Alma Mater
"Sostituiremo i ricercatori che aderiscono"
La protesta contro la Gelmini costa caro: i ricercatori dell’Università di Bologna che non terranno lezione saranno rimpiazzati da docenti a contratto. Lo ha deciso il senato accademico inviando un ultimatum che scadrà venerdì alle dodici: "Non possiamo permetterci di bloccare corsi fondamentali". La risposta: "E’ gravissimo" *
La protesta contro la Gelmini costa caro: i ricercatori dell’Università di Bologna che aderiscono al blocco della didattica saranno sostituiti da docenti a contratto, almeno quelli dei corsi fondamentali. Lo ha deciso il Senato accademico all’unanimità. Sarà spedita una lettera a tutti i presidi di facoltà che a loro volta la gireranno ai ricercatori chiedendo se hanno intenzione di aderire al blocco della didattica o meno. La risposta dovrà arrivare entro venerdì alle 12 e chi non lo farà sarà considerato come non disponibile a fare lezione. Ogni facoltà spedirà i dati raccolti alla sede centrale che deciderà quanti e quali corsi coprire con bandi per docenti a contratto. La priorità è per i corsi fondamentali. I ricercatori: "Ci rimpiazzano, è gravissimo".
La decisione. Tramite il prorettore alla didattica, Gianluca Fiorentini, l’Alma Mater fa sapere di avere fatto di tutto a sostegno dei ricercatori, a cui va "solidarietà politica e umana". Insomma, "non c’è nessuna guerra", ma chi si rifiuterà di fare lezione per protesta contro il Governo sarà rimpiazzato nella didattica. "Abbiamo il dovere di dare continuità all’attività formativa - giustifica Fiorentini - un conto è se diminuisce la qualità della didattica, un conto è il blocco totale delle lezioni. Il danno, non solo d’immagine per l’Ateneo ma anche sociale per le famiglie e la collettività, è enorme. Non possiamo creare questo danno in un momento così difficile".
L’ultimatum. I tempi sono stretti. Alcune facoltà, come Architettura, iniziano i corsi già la prossima settimana e i bandi durano minimo 15 giorni. Anche per questo i vertici dell’Alma Mater hanno deciso di non fare slittare l’inizio dei corsi a ottobre, come chiedevano i ricercatori. "L’organizzazione della didattica è molto complessa - spiega Fiorentini - se si sposta in avanti, non si recupera più. Qualche corso può iniziare con una settimana di ritardo, ma gli insegnamenti che hanno già i docenti possono partire subito". Insomma, afferma il prorettore, "adesso siamo arrivati a un punto che non possiamo più aspettare. A luglio il Senato aveva chiesto ai ricercatori di comunicare entro settembre quanti avevano deciso di aderire alla protesta. A inizio mese non erano ancora pronti, perchè era ancora in corso il dibattito interno e il rettore ha deciso di aspettare ancora, il che è un grande segnale d’attenzione". Arrivati a metà settembre l’Ateneo ha deciso che non si poteva più andare oltre e ha accelerato i tempi.
I costi per i nuovi contratti. Il bando sarà per docenti interni ed esterni all’Alma Mater e sarà finanziato con fondi straordinari (ancora non è chiaro però se a carico delle casse centrali o delle singole facoltà). Di cifre nessuno ne parla e anzi Fiorentini smentisce i tre milioni di euro di cui si era vociferato nell’assemblea dei ricercatori.
I ricercatori. Anna Maria Pisi, ricercatrice e rappresentante in Senato dell’area di Scienze biologiche, geologiche e agrarie, ha contestato già tra gli scranni dell’organo accademico la decisione avallata dal rettore Ivano Dionigi. Intervistata dall’agenzia Dire spiega: "Per me è una scelta molto grave significa che come ricercatori non valiamo niente per l’Ateneo". Tra l’altro, sottolinea, "noi ricercatori non siamo obbligati ad assumere carichi didattici. Noi siamo assunti solo per fare ricerca e le lezioni le facciamo gratuitamente". Non è però solo la prospettiva di essere sostituiti a far saltare sulla sedia i rappresentanti dei ricercatori.
Anche aver accelerato i tempi da parte dell’Ateneo ha lasciato l’amaro in bocca. "Ho chiesto di spostare il termine della risposta alla lettera a lunedì anzichè venerdì - spiega Pisi - e mi ha sostenuto anche qualche preside. Mi è stato risposto che non si poteva fare perchè non ci sarebbe stato tempo a sufficienza per i bandi. Invece aspettare un giorno in più non sarebbe stata la fine del mondo". Con questa mossa, la paura è che la protesta si possa sgonfiare. Anche se Pisi assicura che "andremo avanti comunque: è l’unica arma che abbiamo".
* la Repubblica, 14 settembre 2010
Matrimoni tra gay, la rivolta dei vescovi
di Paolo Griseri (la Repubblica, 14 febbraio 2010)
Vescovi contro la legge sui matrimoni gay. Con due distinte prese di posizione il cardinale di Bologna, Carlo Caffarra, e quello di Torino, Severino Poletto, hanno polemizzato con quei politici che vogliono regolamentare la materia in Parlamento.
L’intervento più duro è quello dell’arcivescovo di Bologna che ha scelto la forma solenne della «Nota dottrinale» per il suo altolà. Secondo Caffarra, l’equiparazione tra unioni civili e matrimonio avrebbe «una conseguenza devastante». Il politico che si dichiara favorevole a una legge simile compie un atto «gravemente immorale» poiché «se l’unione omosessuale fosse equiparata al matrimonio, significherebbe che il compito procreativo ed educativo non interessa allo Stato». Dunque «è impossibile ritenersi cattolici se si riconosce il diritto al matrimonio tra persone dello stesso sesso». L’Arcigay ha replicato subito con durezza: «Quello del cardinale è un gesto grave e provocatorio».
Che per la Chiesa il matrimonio sia finalizzato alla procreazione non è una novità. Il punto è piuttosto quanta libertà di coscienza le gerarchie intendano lasciare ai politici cattolici che si trovano a legiferare a nome di tutti gli italiani. Seguendo una strada più prudente di quella di Caffarra, il cardinale di Torino, Severino Poletto, ha ricordato ieri la dottrina della chiesa senza lanciare anatemi: «I diritti dei singoli vanno tutelati ma le unioni di fatto non devono essere equiparate al matrimonio tra uomo e donna». E al sindaco di Torino, che il 27 febbraio parteciperà all’unione tra due donne, Poletto ha risposto: «Chiamparino mi ha detto che in questo modo vuole dare un segnale al Parlamento. Non credo che sia il modo per farlo».
Notizie
Prete pedofilo, sit in sotto la curia di Bologna
Rete laica: “Caffarra risponda alle nostre domande”
venerdì, 12 febbraio 2010, 20:05
Notizia tratta dal sito: http://www.estense.com
Anche Rete Laica Bologna ha aderito al sit-in indetto dall’Associazione radicale Anticlericale.Net, oggi alle ore 18 sotto la Curia di Bologna, per protestare contro la diocesi felsinea attorno alla vicenda del prete pedofilo, condannato a Ferrara in primo grado per molestie sessuali su bambine tra i 3 e i 6 anni.
L’associazione si è recata sotto l’ufficio di Monsignor Vecchi e del Cardinale Caffarra “per portare fisicamente le domande a cui devono rispondere di fronte all’opinione pubblica”, spiega il portavoce Maurizio Cecconi, che afferma come “il documento vaticano “De delictis gravioribus” impone che la diocesi che apprende di casi di pedofilia al proprio interno informi tempestivamente la “Congregazione per la Dottrina della Fede” a Roma. Quali direttive hanno trasmesso dal Vaticano alla Curia di Bologna?”.
“Nel 2009 il Cardinale Caffarra . continua Cecconi - ha curato e pubblicato la “Carta formativa della Scuola Cattolica dell’infanzia”, in cui si legge che “il gestore e gli insegnanti delle scuole materne parrocchiali debbono condurre un’esemplare vita cristiana”.
Un’esemplare vita cristiana comprende anche le molestie sessuali sui minori? Il documento vaticano “Crimen sollicitationis” impone a “tutti coloro che a vario titolo entrano a far parte del tribunale o che per il compito che svolgono siano ammessi a venire a conoscenza dei fatti sono strettamente tenuti al più stretto segreto, su ogni cosa appresa e con chiunque, pena la scomunica “latae sententiae”, per il fatto stesso di aver violato il segreto”. E’ stato imposto il silenzio, dalla Curia di Bologna, alle educatrici, dipendenti della Curia stessa, e ai genitori delle vittime, con la minaccia della scomunica?”.
Le domande che la Rete Laica rivolge alla curia felsinea continuano chiedendo dove si trovi attualmente il prete condannato, se esercita ancora una professione a contatto con minori, qual è il suo nome e cognome (qui va detto che è la stessa legge, proprio a tutela della riservatezza delle piccole vittime, a imporne l’anonimato, ndr), se ci sono stati altri casi di pedofilia nelle scuole cattoliche della diocesi di Bologna, e perché - questa la domanda rivolta in una lettera pubblica dall’avvocato difensore delle famiglie costituitesi parti civili nel processo - la Curia non paga le provvisionali alle famiglie delle bambine vittime di molestie.
* Il Dialogo Domenica 14 Febbraio,2010 Ore: 16:05.
http://ilrestodelcarlino.ilsole24ore.com/bologna/2009/09/15/232006-nuovo_trasloco_coro_komos.shtml
BUFERA SULLA PARROCCHIA DELLA BEVERARA
Nuovo trasloco per il coro gay Komos
Lettera della Curia: ’’Liberate i locali’’
Dallo scorso luglio il coro, formato da 25 uomini e primo in Italia, si incontrava per le prove di canto in una sala della parrocchia della chiesa di San Bartolomeo della Beverara. L’altra sera il parroco ha consegnato una lettera, inviata dalla Curia, con l’invito a liberare i locali
BOLOGNA, 15 SETTEMBRE 2009 -Nuovo ’trasloco’ per il Komos, il coro omosessuale di Bologna che dallo scorso metà luglio aveva ottenuto una sala prove all’interno della chiesa di San Bartolomeo della Beverara. L’altra sera il parroco ha consegnato al direttore Paolo Montanari (nella foto) una lettera, inviata dalla Curia, con l’invito a liberare i locali.
Ma ‘’con dispiacere’’, ha aggiunto don Nildo Pirani nella lettera che gli ha consegnato. La stessa in cui, spiegando il perche’ dell’addio, ha citato un messaggio ricevuto dall’arcivescovo Carlo Caffarra il 7 agosto che, ha riferito Montanari, gli ha ricordato l’esistenza di un documento della Congregazione per la dottrina della fede sugli omosessuali datato 1986.
Dopo l’esordio a novembre nella sede dell’Arcigay bolognese, il coro aveva cambiato ‘casa’ per problemi di acustica e dissapori con l’associazione. Allora Montanari aveva bussato alla Beverara per chiedere una sala, una volta a settimana. Don Nildo, classe 1937, aveva accettato dandogli anche la chiave del salone. Fino a ieri sera. Prima delle prove, il sacerdote ha parlato con Montanari e gli ha comunicato la novita’. Poi gli ha allungato una lettera. ‘’Comunico con dispiacere l’impossibilita’ di continuare ad accogliere il vostro coro nei locali della parrocchia’’, e’ l’incipit.
E subito dopo: ‘’Questo per una precisa disposizione di una lettera della Congregazione per la dottrina della fede in data 1 ottobre 1986, che io non conoscevo, e che mi e’ stata ribadita perentoriamente dal cardinale arcivescovo in persona, con lettera a me inviata in data 7 agosto 2009’’. Infine le scuse e l’annuncio del proprio silenzio (‘’non ho niente da commentare’’). Il documento citato da Caffarra e’ una lettera che la Congregazione ha rivolto a tutti i vescovi ‘’sulla cura pastorale delle persone omosessuali’’ come si legge nel titolo del documento.
Amareggiato e deluso il direttore del coro (formato da 25 uomini, il primo in Italia solo al maschile e specializzato in musica classica) perche’ ‘’con una certa ingenuita’ ho creduto che questa sistemazione potesse durare’’. E a questo punto, lancia un appello perche’ Komos non muoia. In particolare, si rivolge ‘’al Comune e a tutte le associazioni bolognesi (nonche’ singoli cittadini)’’ per chiedere ‘’se esiste uno spazio adatto alla musica adatto a ospitarci’’
Il cardinal Caffarra caccia il coro gay dalla chiesa di San Bartolomeo Il parroco aveva accolto nella sala prove il gruppo del Komos. Oggi la lettera perentoria dell’arcivescovo di Bologna che richiama il sacerdote al rispetto delle norme contro gli omosessuali
BOLOGNA, 15 SET 2009 - Sembrava troppo bello, visti i tempi che corrono. I tempi sono quelli dei pestaggi contro persone omosessuali e delle politiche razziste e sessiste di ispirazione leghista. La bella notizia era stata che un parroco bolognese aveva deciso di accogliere il coro bolognese Kosmos, composto tutto da uomini gay (una tradizione anglosassone trapiantata da noi) nella sala prove della chiesa di san Bartolomeo della Beverara.
A richiamare don Nildo Pirani alla dura realtà addirittura una lettera del cardinale Carlo Caffarra, arcivescovo di Bologna. lo ha comunicato il sacerdote al direttore del coro Paolo Montanari motivando l’allontanamento “per una precisa disposizione di una lettera della Congregazione per la dottrina della fede in data 1 ottobre 1986, che io non conoscevo, e che mi è stata ribadita perentoriamente dal cardinale arcivescovo in persona, con lettera a me inviata in data 7 agosto 2009”.
Una “brutta notizia” comunicata “con dispiacere”, ha aggiunto don Nildo Pirani. Dopo l’esordio a novembre nella sede dell’Arcigay bolognese, il coro aveva cambiato ’casa’ per problemi di acustica. Allora Montanari aveva bussato alla Beverara per chiedere una sala, una volta a settimana. Don Nildo, classe 1937, aveva accettato dandogli anche la chiave del salone.
Fino a ieri sera. Prima delle prove, il sacerdote ha parlato con Montanari e gli ha comunicato la novità. Poi gli ha allungato una lettera. "Comunico con dispiacere l’impossibilità di continuare ad accogliere il vostro coro nei locali della parrocchia", è l’incipit. E subito dopo: "Questo per una precisa disposizione di una lettera della Congregazione per la dottrina della fede in data 1 ottobre 1986, che io non conoscevo, e che mi è stata ribadita perentoriamente dal cardinale arcivescovo in persona, con lettera a me inviata in data 7 agosto 2009". Infine le scuse e l’annuncio del proprio silenzio ("non ho niente da commentare").
Il documento citato da Caffarra è una lettera che la Congregazione ha rivolto a tutti i vescovi "sulla cura pastorale delle persone omosessuali" come si legge nel titolo del documento. Amareggiato e deluso il direttore del coro (formato da 25 uomini, il primo in Italia solo al maschile e specializzato in musica classica) perché "con una certa ingenuità ho creduto che questa sistemazione potesse durare". E a questo punto, lancia un appello perché Komos non muoia. In particolare, si rivolge "al Comune e a tutte le associazioni bolognesi (nonché singoli cittadini)" per chiedere "se esiste uno spazio adatto alla musica adatto a ospitarci".
Per la chiesa bolognese un’occasione persa di mostrare che “la cura delle persone omosessuali” non vuol dire solo discriminazione.
di m. so.
Ansa» 2009-07-01 13:09
Enciclica "Caritas in Veritate" verrà presentata il 7 luglio
CITTA’ DEL VATICANO - E’ ufficiale: il Vaticano presenterà l’enciclica del papa ’Caritas in Veritate’ il prossimo 7 luglio.
L’enciclica sarà presentata in una conferenza stampa dal card. Renato Raffaele Martino, presidente del Pontificio consiglio Giustizia e Pace, dal card. Josef Cordes, presidente del Pontificio Consiglio Cor Unum, da mons. Giampaolo Crepaldi, segretario del Pontificio consiglio Giustizia e Pace e dall’economista Stefano Zamagni. Si tratta di tutti personaggi che hanno contribuito alla stesura del testo pontificio.
Gli esperti del Vaticano sono in difficoltà e non riescono a finire
L’ultimo termine era stato fissato per lunedì prossimo
L’Enciclica in ritardo, colpa del latino
E’ troppo difficile, slitta la consegna
di Orazio La Rocca *
CITTA’ DEL VATICANO - Slitta la pubblicazione della nuova enciclica papale per colpa del latino e delle difficoltà legate alla complessità e delicatezza del testo ratzingeriano. L’atteso documento, che Benedetto XVI ha dedicato ai problemi sociali, del lavoro e della globalizzazione, avrebbe dovuto vedere la luce lunedì prossimo.
Ma la data è stata rinviata perché i prelati addetti alle traduzioni sono pochi e, quel che è peggio, sono ancora meno quelli che padroneggiano la lingua latina, malgrado le recenti aperture di Ratzinger. Inevitabile che nelle riservatissime stanze vaticane, dove sono all’opera i monsignori incaricati di tradurre i documenti papali, si respiri imbarazzo. A fare le spese di lentezze e difficoltà è proprio uno dei più attesi testi di questi giorni, la nuova enciclica di Benedetto XVI, la prima a carattere sociale, dal titolo Caritas in veritate (Amore nella verità) che tarda a vedere la luce "a causa delle difficoltà con la traduzione in latino, e la complessità del testo", si sussurra in Curia.
C’è chi lamenta, Oltretevere, che l’idioma di Cicerone sia diventato molto ostico tra i prelati pur essendo da sempre la lingua ufficiale della Chiesa cattolica e quella prediletta dal Papa: sono passati ormai due anni da quando Ratzinger l’ha rilanciato col Motu Proprio che ha liberalizzato la Messa preconciliare in latino tanto cara a lefrebvriani e tradizionalisti. "Nessun problema con inglese, francese, spagnolo, portoghese, tedesco, ma col latino sono dolori: ormai anche qui sono in pochi a conoscerlo bene", si vocifera nei palazzi pontifici, dove sull’equipe di traduttori ufficiali vigila un ristrettissimo comitato di controllo che risponde direttamente al Papa formato dall’arcivescovo Paolo Sardi e da Ingrid Stampa, la storica segretaria che Ratzinger anche da Papa ha voluto portare con sé in Vaticano.
Si allungano, dunque, i tempi della pubblicazione della terza enciclica del pontificato ratzingeriano iniziato il 19 aprile 2005, dopo le prime due del 25 dicembre 2005 (Deus Caritas Est) e del 30 novembre 2007 (Spe Salvi). L’atteso documento potrebbe ora essere presentato ufficialmente tra il 6 ed il 7 luglio, anche se la firma di Benedetto XVI porterà comunque la data del 29 giugno.
È stato Ratzinger in persona a pretendere che la versione ufficiale dell’enciclica da inviare a tutti i vescovi del mondo e alle nunziature apostoliche, fosse rigorosamente in latino, mentre con i suoi predecessori la versione nella lingua di Cicerone arrivava solo in un secondo momento. La scelta, al di là delle difficoltà di traduzione, ha comportato un superlavoro caduto interamente sulle spalle di un piccolo numero di addetti alle traduzione. Risultato: ancora ieri i testi da stampare non erano stati portati nella tipografia della Libreria Editrice Vaticana.
La terza enciclica era stata annunciata più volte nei mesi scorsi dalle autorità pontificie per il prossimo 29 giugno. Anche lo stesso Ratzinger ne ha fatto cenno in più occasioni. L’ultima volta, il 13 giugno scorso parlando ai membri della Fondazione "Centesimus Annus", organismo che si ispira ad una delle più popolari encicliche di Giovanni Paolo II.
* la Repubblica, 27 giugno 2009