Il quesito del referendum. Questa la domanda sulla scheda: "Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private".
Stefano Rodotà sul referendum di Bologna contro le scuole private cattoliche
Consultazione giusta. Pretestuoso parlare di strategie politiche
DI STEFANO RODOTA’ (Corriere della Sera, 21.05.2013)
Caro direttore,
vorrei semplicemente ristabilire la verità dei fatti a proposito di quanto scritto ieri sul suo giornale a proposito del referendum bolognese sui finanziamenti alla scuola privata, di cui vengo additato come l’ispiratore (del che, se fosse vero, sarei assai lieto). Ma il vero ispiratore è l’articolo 33 della Costituzione, dov’è scritto che i privati possono istituire scuole «senza oneri per lo Stato». E i promotori sono i cittadini bolognesi che avviarono le procedure referendarie fin dall’anno scorso, da quel 25 di luglio 2012 quando il Comitato dei garanti comunali ne approvò i quesiti. Le firme necessarie furono depositate il 5 dicembre e il referendum fu indetto dal sindaco il 9 gennaio di quest’anno.
Dopo che la procedura era già ampiamente in corso, mi fu chiesto di presiedere il comitato referendario, cosa che accettai di buon grado. Questa cronologia è utile anche per mostrare quanto sia pretestuoso e fuorviante il tentativo di presentare questa iniziativa come parte di una strategia politica che si è venuta sviluppando solo nelle ultime settimane.
Gli argomenti contro il referendum, peraltro, sono quelli che discendono da una triste interpretazione, giuridica e politica, che ha voluto aggirare la chiara lettera della Costituzione con una operazione opportunistica e strumentale, alla quale mi sono sempre pubblicamente opposto anche quando veniva condotta dal Pci e dai suoi successori.
Distinguere «finanziamenti» da «oneri», e battezzare come «pubblico» un sistema di cui i privati sono parte integrante, sono espedienti di cui ci si dovrebbe un po’ vergognare.
Si è detto, anche dal cardinale Bagnasco, che quel finanziamento permette allo Stato di risparmiare. Non si comprende che non siamo di fronte a una questione contabile.
Si tratta della qualità dell’azione pubblica, del modo in cui lo Stato adempie ai suoi doveri nei confronti dei cittadini. La consapevolezza di questi doveri si è assai affievolita in questi anni, e le conseguenze di questa deriva sono davanti a noi.
Forse varrebbe la pena di ricordare che Piero Calamandrei definiva la scuola pubblica «un organo costituzionale». E la Costituzione stabilisce pure che lo Stato debba istituire «scuole statali per tutti gli ordini e gradi».
In tempi di crisi, questa norma dovrebbe almeno imporre che le scarse risorse disponibili siano in maniera assolutamente prioritaria destinate alla scuola pubblica in modo di garantirne la massima funzionalità possibile.
Siamo ormai così disabituati alle questioni di principio che, quando ci capitano tra i piedi, cerchiamo di liberarcene tacciandole di «ideologia».
I promotori del referendum, per fortuna di tutti, sono abituati a un altro realismo e chiedono che i principi siano rispettati al di là delle convenienze e che la legalità costituzionale venga onorata.
Stefano Rodotà
Domenica il referendum
Lo scontro sulla scuola sgretola la sinistra
Soldi ai privati? Bologna decide, sinistra a pezzi
Guccini: ”Scrivete A, per Calamandrei”
Tra i sostenitori Stefano Rodotà, Valeria Golino, Gino Strada, Isabella Ferrari, Andrea Camilleri, Corrado Augias e Michele Serra
di Emiliano Liuzzi (il Fatto, 21.05.2013)
Bologna. Come ci sia finito dentro a questo inghippo, non è chiaro: il sindaco di Bologna, Virginio Merola, è uno che pur di non avere guai è capace di condividere i pensieri di Renzi, Bersani, Prodi, D’Alema o dei ragazzi di Occupy Pd. Non brilla per protagonismo, e neppure per le decisioni.
Un uomo diviso tra Guelfi e Ghibellini che si è trovato, causa di forza maggiore, a indire un referendum che non avrà nessun valore giuridico, ma che rischia di mettere in crisi la sua già vociante giunta: quello sui finanziamenti alle scuole private. Un milione di euro che ballano sui tavoli del palazzo comunale e che il sindaco vuol concedere e concederà, ma che la Bologna laica rispedisce al mittente.
UN FUOCHERELLO, all’inizio, che rischia di generare un incendio. Sul fronte opposto al sindaco di Bologna si sono schierati con il comitato Articolo 33 personaggi come Stefano Rodotà, Andrea Camilleri, Corrado Augias, Michele Serra, Francesco Guccini, Riccardo Scamarcio, Valeria Golino, Isabella Ferrari, Ivano Marescotti, giusto per citarne alcuni, tutti sul “non se ne parla”, niente soldi alle scuole private. Scuole che a Bologna, ma anche nel resto d’Italia, vuol dire cattoliche.
Così Merola si è trovato catapultato in una nuova campagna elettorale, solo che due anni fa aveva al fianco Pier Luigi Bersani, Romano Prodi e Vasco Errani, quello che allora sembrava essere il vertice di un governo prossimo venturo.
Questa volta invece i suoi principali alleati sono un cardinale, l’arcivescovo Carlo Caffarra, il Pdl, la Lega Nord, impegnatissima nel montare gazebo ovunque tra le vie medievali, con tanto di palloncini verdi. Un mix di genti a dir poco singolare: uomini del Carroccio, militanti del Pd, impiegati delle Coop rosse, parroci e suore, tutti insieme per convincere gli elettori a mettere la croce sulla B, quella che prevede il mantenimento del sistema integrato tra pubblico e privato. E quindi anche un sostanzioso finanziamento alle scuole d’infanzia convenzionate. Non un euro di più, non un euro di meno.
Tutti gli altri sono per il no al sostegno comunale dell’educazione privata, che tradotto sulla scheda elettorale vuol dire opzione A. E tutti gli altri vuol dire Sel, principale alleato al Pd in giunta, quello che la tiene in piedi, il Movimento 5 stelle, con i suoi due consiglieri comunali, Massimo Bugani e Marco Piazza, intellettuali, attori, personalità della cosiddetta società civile, molto poco politici.
Un muro contro il quale il sindaco di Bologna, la città simbolo del Pd che fu, rischia di sbattere contro. Perché il referendum, essendo puramente consultivo, non avrà nessuna conseguenza immediata e non è detto che, in caso di vittoria del comitato referendario, l’amministrazione debba invertire la rotta.
Anzi. Merola può benissimo andare avanti per la sua strada. Sarà più difficile, in questo, convincere i suoi alleati, i vendoliani, che comunque gli hanno garantito che - almeno per ora - non hanno alcuna intenzione di far cadere la giunta e rischiare un altro commissariamento dopo quello già vissuto (e non bene) con Anna Maria Cancellieri.
Una consultazione che per il momento sta dividendo molto. Due nomi su tutti: Romano Prodi e Francesco Guccini. Da sempre, il maestrone di Pavana, come lo chiamano a Bologna, sostiene il professore: lo ha fatto nel corso delle campagne elettorali, lo avrebbe voluto come sindaco di Bologna, candidato premier, presidente della Repubblica. Ieri Guccini - che nella sua vita, oltre a scrivere canzoni, è stato insegnante alla Dickinson College - ha preso una posizione netta: “Entrare nella scuola pubblica è il primo passo di ogni individuo che voglia imparare l’alterità e la condivisione. Ed è il primo passo di ogni essere umano per diventare uomo, per diventare donna”.
Prodi, da Addis Abeba, dove è al lavoro per l’Onu, spiega invece che il “referendum si doveva evitare perché apre in modo improprio un dibattito che va oltre i ristretti limiti del quesito. Il mio voto per i finanziamenti alla scuola privata è motivato da una ragione di buonsenso: perché bocciare un accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che tutto sommato ha permesso con un modesto impiego di mezzi di ampliare il numero di bambini ammessi alla scuola d’infanzia? ”.
Non stupisce la dichiarazione di Prodi: nonostante la distanza abissale che si è creata tra lui e il Pd, quello del finanziamento alle scuole private è un provvedimento voluto dal suo governo il 5 agosto 1997. Se la partita fosse decisa dagli intellettuali il fronte del no avrebbe già vinto. Oltre a Prodi, di nomi spendibili il sindaco di Bologna ne ha ben pochi: Maurizio Lupi, Maurizio Gasparri, Stefano Zamagni, Giuliano Cazzola, Antonio Polito e pochi altri.
Previsioni? Per ora non ne circolano. Certo è che in una città come Bologna, la Curia e quello che fu il “partitone” la fanno da padrone. È sempre stato così, dal dopoguerra a oggi. Poteri che hanno sempre dialogato, seppur mai in pubblico, e che per la prima volta nella storia repubblicana si trovano ad amoreggiare senza nascondersi.
Contro l’ideologia
423 bambini esclusi nel 2012
“Il diritto è all’istruzione. Gratuita”
di Francesca Coin (il Fatto, 21.05.2013) *
Il Corriere della Sera di ieri ospitava in prima pagina un articolo di Antonio Polito sul referendum consultivo sui finanziamenti pubblici alle scuole paritarie private previsto a Bologna per il 26 maggio. Polito usa toni allarmistici che poco rappresentano i contenuti e il significato della campagna referendaria, nonché i principi dei cittadini che vi partecipano.
LA CAMPAGNA sul finanziamento pubblico alle scuole paritarie private nasce qualche anno fa dalla preoccupazione di quelle famiglie costrette a confrontarsi ogni anno con l’esclusione scolastica dei loro figli. I tagli alla scuola e una rapida riforma hanno infatti colpito duramente la scuola pubblica.
A Bologna il problema più grave è stata l’incapacità del sistema integrato della scuola per l’infanzia di garantire un posto a scuola a tutti i bambini di Bologna.
Nel 2012, 423 bambini non hanno avuto accesso alla scuola per l’infanzia. E alla fine, nonostante il Comune abbia improvvisato soluzioni d’emergenza, 103 di loro sono rimasti a casa. Altre famiglie sono state costrette a iscrivere i loro figli a una scuola privata, spesso confessionale.
Sul Corriere, invece, Polito sostiene che “il referendum punta ad abbattere il sistema integrato di scuola pubblica e scuola paritaria che fu avviato in Emilia più di vent’anni fa”.
La campagna referendaria in realtà non ha mai assunto toni duri, tanto meno contro i privati. Si limita a sostenere quanto prescritto dall’articolo 33 della Costituzione, come diceva Piero Calamandrei “la scuola pubblica è il prius, quella privata è il posterius”. O per usare le parole dell’onorevole Luigi Preti nell’Assemblea Costituente nel 1947, “sarebbe un paradosso che lo Stato, che non ha nemmeno abbastanza denaro per le proprie scuole, dovesse in qualche modo finanziare delle scuole non statali”.
PER FAR FRONTE alle esigenze di tutte le famiglie ed eliminare le liste d’attesa nella scuola pubblica a Bologna servirebbero 12 nuove sezioni a un costo di 90 mila euro a sezione, come dimostra le delibera comunale del 9 ottobre 2012.
Questa cifra corrisponde esattamente a quella che al momento viene data alle scuole private: 1 milione e 80 mila euro. La richiesta dei referendari, dunque, è semplice: prima di divagare assicuriamoci che i diritti vengano garantiti. Altrimenti la “libertà di scelta” di cui parla Polito non è affatto garantita. Non vi è libertà di scelta quando l’istruzione diventa un servizio a pagamento.
Va ricordato che il referendum del 26 maggio non è abrogativo, bensì consultivo: interroga la cittadinanza su quale sia la destinazione più opportuna dei fondi pubblici.
Per fare questo, il Comitato Referendario ha chiesto il supporto di illustri costituzionalisti, come il professor Stefano Rodotà che, lungi dall’ispirare il referendum, come ha scritto Polito, ha messo le sue competenze a servizio della campagna, divenendone presidente onorario.
Spiace che una campagna così partecipata, appassionata e calorosa possa diventare pretesto per un’agenda politica altra. Polito dice che “nelle urne bolognesi si fronteggiano per la prima volta gli inediti schieramenti che si sono creati in parlamento, Pd e Pdl insieme da un lato, Sel e Movimento Cinque Stelle dall’altro”.
Non è così. Alle urne questo 26 maggio i cittadini voteranno per difendere la scuola pubblica e la Costituzione. Ogni altra interpretazione è pretestuosa e fallace.
* docente di Sociologia all’Università di Venezia
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
Il voto sulle scuole cattoliche a Bologna
Il sindaco: manterrò le convenzioni
Prodi: no, si rispetti il referendum
di Franco Giubilei (La Stampa, 28.05.2013)
Mentre i promotori del referendum brindano a quel quasi 60% che ha scelto di destinare alla scuola pubblica il finanziamento riservato alle paritarie cattoliche convenzionate, e adesso chiedono al comune di decidere di conseguenza, dall’altra parte si aggrappano al fatto che alle urne si sia presentato solo un bolognese su tre (il 28,71%, per la precisione).
Il giorno dopo lascia una coda di malumori striscianti soprattutto nel fronte del B, cioè del no al dirottamento dei contributi, per capirci, quella strana alleanza che andava dal sindaco Merola al Pd - tutt’altro che compatto) -, dal Pdl alla Lega, dalla Cisl a Romano Prodi, fino al presidente della Cei Bagnasco.
Il sindaco da un lato abbozza, «non possiamo ignorare la richiesta di scuola pubblica», ma dall’altro tiene duro sulla sua linea: «Bologna non deve rinunciare al sistema delle convenzioni con le scuole materne private», un sistema che «può essere migliorato ma non abolito».
La conclusione salomonica arriva davanti al consiglio comunale: «Nessuno ha vinto o perso in modo definitivo, dire che A (i referendari) ha vinto e che B ha perso sarebbe giusto e incontrovertibile solo nel caso di un referendum decisionale e non consultivo come questo. Lavorerò perché nessuno venga messo da parte e per tenere conto di chi ha votato A». Tradotto: «La maggioranza non è a rischio è a rischio il fatto di non interpretare in modo corretto il risultato di questo referendum».
Già, ma intanto la crepa all’interno della maggioranza che sostiene la giunta si allarga, tant’è vero che Sel - fra i sostenitori del comitato Articolo 33 -, risponde a stretto giro: «Caro sindaco, se non è in discussione il sistema delle convenzioni cos’è esattamente in discussione? Questo è ciò su cui avremo una particolare attenzione» avverte la capogruppo in consiglio Cathy La Torre, che per essere più chiara aggiunge: «Le deleghe non sono più in bianco e il nostro gruppo non perderà occasione di ricordarlo a questa amministrazione». Anche perché i 50mila che sono andati a votare A «sono anche una bella metà di chi ha sostenuto il sindaco» e sarebbe un «errore tragico» ignorare questa «richiesta di partecipazione».
E mentre la Lega tende una mano interessata al sindaco, ricordando che in caso venisse a mancare l’apporto di Sel alla giunta il Carroccio ha lo stesso numero di consiglieri dei vendoliani - «siamo quattro e quattro...», ha alluso ieri -, un nome eccellente del fronte del B come Romano Prodi commenta sibillino: «I referendum si accolgono. Si accolgono. Io ero per l’opzione B, ha vinto l’opzione A». No comment sulla decisione di Merola di mantenere comunque la convenzione con le scuole paritarie private, e un accenno ai problemi che attendono l’amministrazione felsinea: «È un referendum che ha raccolto i voti di coloro che più erano interessati, con un’eredità di forti problemi e forti tensioni».
Ora la palla avvelenata passa al consiglio comunale, che avrà tre mesi di tempo per decidere se cambiare la convenzione. Nel frattempo, i vincitori del comitato passano all’attacco col filosofo Stefano Bonaga: «Parlare di flop (per la bassa affluenza, ndr) è antipatico. Un apparato bestiale ha portato a votare solo 35.000 persone». E l’attore Ivano Marescotti: «Merola si dimetta».
L’amaca
di Michele Serra (la Repubblica, 25.05.2013)
Chi sostiene (come il Pd di Bologna, come Romano Prodi, come il ministro dell’Istruzione Carrozza) che è necessario finanziare con fondi pubblici anche le scuole private paritarie, ha le sue ottime ragioni.
È possibile che dal punto di vista tecnico-amministrativo queste ragioni siano perfino più solide di quelle che animano i cittadini che, a Bologna, hanno promosso il referendum di domani contro il finanziamento alle private paritarie.
E allora come mai uno schieramento che sulla carta è politicamente molto più debole minaccia di poter vincere il referendum, o di andarci molto vicino?
Per una ragione molto semplice: perché la domanda (inascoltata) che milioni di cittadini di sinistra muovono ai loro rappresentanti è fissare almeno una manciata di princìpi, e poi rispettarli.
Uno di questi princìpi è la laicità dello Stato. Un altro è l’istruzione pubblica (non “privata paritaria”: pubblica) per tutti. È vero che i princìpi hanno un costo: economico e politico. Ma ha un costo, enorme, anche dimenticarsi di rispettarli. Considerarli sempre negoziabili. Sempre rimandabili. Mai fondanti e mai strategici, in una parola sola: ininfluenti.
Il referendum di domani, ben al di là del risultato, aiuterà il Pd, non solo bolognese, a quantificare qual è il costo dell’omissione sistematica dei princìpi.
Il suo discorso contro la chiusura della sua scuola pubblica
Governo e Ministero difendano la scuola pubblica, laica e inclusiva *
"Alla Ministra Carrozza chiedo di difendere la scuola pubblica, laica e inclusiva anziché schierarsi a senso unico a favore delle scuole private paritarie". Replica così Domenico Pantaleo alle recenti affermazioni rese ai giornalisti dal Ministro dell’Istruzione riguardo i fondi comunali per le scuole paritarie.
"Proprio perché bisogna occuparsi delle bambine e dei bambini - prosegue il segretario generale della FLC CGIL - dovrebbe assicurare le risorse per generalizzare la scuola dell’infanzia. Siamo di fronte ad una drammatica emergenza in tante parti del Paese e molti enti locali, a partire da Bologna, non riescono più a garantire l’offerta pubblica e chiedono giustamente la statizzazione delle scuole dell’infanzia comunali. Questi sono i fatti!".
"Anche per questa ragione - conclude Pantaleo - la FLC CGIL sostiene il referendum consultivo promosso a Bologna dal Comitato art. 33. Quel referendum parla anche al Governo Letta e alla Ministra Carrozza per restituire alla scuola pubblica la dignità e la qualità che le spettano".
FLC CGIL nazionale
LIBERTA’ E GIUSTIZIA. Il manifesto 18 maggio 2013
Non è cosa vostra
Da anni, ormai, sotto la maschera della ricerca di efficienza si tenta di cambiare il senso della Costituzione: da strumento di democrazia a garanzia di oligarchie. Non dobbiamo perdere di vista questo, che è il punto essenziale. Non è in gioco solo una forma di governo che, per motivi tecnici, può piacere più di un’altra. L’uguaglianza, la giustizia sociale, la protezione dei deboli e di coloro che la crisi ha posto ai margini della società, la trasparenza del potere e la responsabilità dei governanti sono caratteri della democrazia, cioè del governo diffuso tra i molti. L’oligarchia è il regime della disuguaglianza, del privilegio, del potere nascosto e irresponsabile, cioè del governo concentrato tra i pochi che si difendono dal cambiamento, sempre gli stessi che si riproducono per connivenze e clientele. Parlando di oligarchie, non si deve pensare solo alla politica, ma al complesso d’interessi nazionali e internazionali, economico-finanziari e militari, che nella politica trovano la loro garanzia di perpetuità e i loro equilibri.
Ora, di fronte alle difficoltà di salvaguardare questi equilibri e alla volontà di rinnovamento che in molte recenti occasioni si è manifestata nella società italiana, è evidente la pulsione che si è impadronita di chi sta al vertice della politica: si vuole “razionalizzare” le istituzioni in senso oligarchico. Invece di aprirle alla democrazia, le si vuole chiudere o, almeno, congelare. L’incredibile decisione di confermare al suo posto il Presidente della Repubblica uscente è l’inequivoca rappresentazione d’un sistema di complicità che vuole sopravvivere senza cambiare. L’ancora più incredibile applauso, commosso e grato, che ha salutato quella rielezione - rielezione che a qualunque osservatore sarebbe dovuta apparire una disfatta - è la dimostrazione del sentimento di scampato pericolo. Ogni sistema di potere a rischio, o per incapacità di mediare le sue interne contraddizioni o per la pressione esterna da parte di chi ne è escluso, reagisce con l’istinto di sopravvivenza. Ma le riforme, in questo contesto, non possono essere altro che mosse ostili. Per questo, di fronte alla retorica riformista, noi diciamo: in queste condizioni, le vostre riforme non saranno che contro-riforme e il fossato che vi separa dalla democrazia si allargherà. Contro gli accordi che nascondono contro-riforme, noi, per parte nostra, useremo tutti gli strumenti per impedirle e chiediamo a coloro che siedono in Parlamento di prendere posizione con chiarezza e impegnativamente e di garantire comunque la possibilità per gli elettori di esprimersi con il referendum, se e quando fosse il momento.
Soprattutto, a chi si propone di cambiare la Costituzione si deve chiedere: qual è il mandato che vi autorizza? Il potere costituente non vi appartiene affatto. Siete stati eletti per stare sotto, non sopra la Costituzione. Se pretendete di stare sopra, mancate di legittimità, siete usurpatori. Se proprio non vogliamo usare parole grosse, diciamo che siete come la ranocchia che cerca di gonfiarsi per diventare bue. Non è la prima volta. E’ già accaduto. Ma ciò significa forse che ciò che è illegittimo sia perciò diventato legittimo?
Per questo, difenderemo la Costituzione come cosa di tutti e ci opporremo a coloro che la considerano cosa loro. La costituzione della democrazia è, per così dire, il vestito di tutta la società; non è l’armatura del potere di chi ne dispone. La mentalità dominante tra i tanti, finora velleitari, “costituenti” che si sono succeduti nel tempo nel nostro Paese, è stata questa: di fronte alle difficoltà incontrate e al discredito accumulato, invece di cambiare se stessi, mettere sotto accusa la Costituzione. La colpa è sua! Non sarà invece che la colpa è vostra o, meglio, della vostra concezione della politica e degli interessi che vi muovono?
Su un punto, poi, deve farsi chiarezza per evitare gli inganni. Chi vuol cambiare, normalmente, è un innovatore e le novità sono la linfa vitale della vita politica. Per questo, gli innovatori godono d’una posizione pregiudiziale di vantaggio. Ma, esiste anche un riformismo gattopardesco di segno contrario: si può voler cambiare le istituzioni per bloccare la vita politica e salvaguardare un sistema di potere in affanno. Allora, il movimentismo istituzionale equivale alla stasi politica. La stasi solo apparentemente è pace: è la quiete prima della tempesta.
* * *
Anche noi siamo per la pace; vediamo che il nostro Paese ha bisogno di pacificazione, pur se esitiamo a usare questa parola, corrotta ormai dall’abuso. Sappiamo però, anche, che la pace è esigente, molto esigente. Non può esistere senza condizioni. Dice la Saggezza Antica: “su tre cose si regge il mondo: la giustizia, la verità e la pace”. E commenta così: in realtà sono una cosa sola, perché la giustizia si appoggia sulla verità e alla giustizia e alla verità segue la pace. La pace è la conseguenza della verità e della giustizia. Altrimenti, pacificare significa solo zittire chi vuole verità e giustizia, per nascondere segreti, inganni e ingiustizie e continuare come prima. Non è questa la pace di cui il nostro Paese ha bisogno.
Non siamo né i velleitari né i giacobini che ci dipingono. Non crediamo affatto al regno perfetto della Verità e della Giustizia sulla terra. Sappiamo bene che la politica non si fa con i paternoster e temiamo i fanatici della virtù rigeneratrice. Ma da qui a tutto accettar tacendo, il passo è troppo lungo. Siamo disposti alla pacificazione, ma a condizione che, nelle forme e con i mezzi della democrazia, si abbia come fine la ricerca della verità e la promozione della giustizia. Altrimenti, pacificazione è parola al vento. La pacificazione non è un sentimento o una predica, ma è una politica. È, dunque, una cosa molto concreta, difficile e impegnativa, perché non significa stare tutti insieme in un patto di connivenza. Significa combattere le zone oscure del potere, le sue illegalità, i suoi privilegi e le sue immunità; significa operare per la giustizia in favore del riequilibrio delle posizioni sociali, della riduzione delle disuguaglianze, dei diritti dei più deboli, di coloro che la crisi economica ha ridotto allo stremo, spingendoli ai margini della società. Solo questa è pacificazione operosa e veritiera.
Si dice che le “riforme istituzionali e costituzionali” hanno questo scopo. Ma, noi temiamo che, dietro alcune riforme “neutre”, semplificatrici e razionalizzatrici (numero dei parlamentari, province, bicameralismo), ve ne siano altre, pronte a saltar fuori quando se ne presenti l’occasione propizia, le quali con la pacificazione non hanno a che vedere. Piuttosto, hanno a che vedere con ciò che si denomina “normalizzazione”.
* * *
La procedura. Esiste, nella Costituzione (art. 138) una procedura prevista per la sua “revisione”. Ma oggi se ne immagina un’altra, farraginosa e facente capo a un’assemblea, chiamata “convenzione”. Si sta cercando la via per una spallata per la quale le procedure ordinarie, per la volontà impotente delle forze politiche, non sono sufficienti? Già il nome induce al dubbio che di ben altro che di una “revisione” si tratti. Le “convenzioni costituzionali” (a iniziare da quella di Filadelfia del 1787) possono essere convocate con limitati compiti riformatori, ma poi prendono la mano e pretendono di essere “costituenti”, cioè di scrivere nuove costituzioni. Il fatto poi che qualcuno abbia fatto riferimento a una “Commissione dei 75”, come la “Commissione per la Costituzione” che elaborò ex novo la vigente Costituzione del 1947, non fa che rafforzare questa supposizione, confermata dal fatto che ritorna il linguaggio e la mentalità della “grande riforma”. Par di capire che si voglia la riscrittura ex novo dell’architettura della politica.
L’odierna procedura - da quel poco che si capisce e dal molto che non si capisce - è un miscuglio in cui sono messi insieme parlamentari ed “esperti”, scelti dai partiti, presumibilmente in proporzione alle forze che compongono il Parlamento. Il prodotto dovrebbe passare per le commissioni “affari costituzionali” e giungere alle Camere, separate o riunite (presumibilmente per superare l’ostilità del Senato), per concludersi con l’approvazione, non senza una concessione alla democrazia del web. Il voto finale dovrebbe essere un “prendere o lasciare” (su tutto il “pacchetto” o sulle singole parti, non si sa), senza possibilità di emendamento. Poiché un tale procedimento è totalmente estraneo alla Costituzione vigente, le è anzi contrario, s’immagina che poi, con una legge costituzionale si ratificherà l’accaduto.
Non è nemmeno il caso di commentare in dettaglio questo pasticcio annunciato: la legge costituzionale di ratifica ex post non è essa stessa la confessione che quel che intanto si fa è fuori della Costituzione? i “garanti della Costituzione” non hanno nulla da eccepire? la convenzione nascerebbe come proiezione di un parlamento eletto con una legge elettorale che, col premio di maggioranza, altera profondamente la rappresentanza, ma non s’è sempre detto che le assemblee con compiti costituenti devono essere “proporzionali”? gli “esperti”, scelti dai partiti, saranno dei “fidelizzati”? il loro compito non si ridurrà alla “copertura” delle posizioni di chi li ha scelti con quello scopo? come si esprimeranno: con una voce sola, che fa tacere i dissidenti, o con più voci? se le opinioni saranno diverse - come necessariamente dovrà essere se gli “esperti” saranno scelti senza preclusioni - che cosa aggiungerà il loro lavoro a un dibattito che, tra gli esperti, dura già da più di trent’anni? se saranno chiamati a votare, cioè a scegliere, non avremmo allora dei tecnici chiamati a esprimersi politicamente? in fine, come potrebbero i parlamentari degnamente accettare l’umiliazione del voto bloccato “sì-no” sulle proposte della Convenzione? Questi arzigogoli contraddittorii non sono forse il segno della confusione in cui si caccia la volontà, quando è impotente?
Il presidenzialismo. Nel merito della riforma, ancora una volta, dietro le quinte s’affaccia la volontà di presidenzialismo: “semi” o intero. L’argomento sul quale, da ultimo, si basano i presidenzialisti, è il seguente: i tempi della presidenza Napolitano hanno visto una trasformazione “di fatto” dell’ordinamento, in questo senso. Non è allora naturale che si costituzionalizzi, regolandolo, quanto è già avvenuto? A questo riguardo, però, occorre distinguere. Una cosa è l’espansione dell’azione presidenziale utile a preservare le istituzioni parlamentari previste dalla Costituzione, nel momento della loro difficoltà, in vista del ritorno alla normalità. Altra cosa è l’azione che prelude a trasformazioni per instaurare una diversa normalità. Queste contraddicono l’obbligo di fedeltà alla Costituzione che c’è, obbligo contratto da chi fa parte delle istituzioni. Aut, aut. Non sono rispettosi dei doveri costituzionali presidenziali, e del Presidente medesimo, i sostenitori dell’avvenuta trasformazione della “costituzione materiale”. Il “garante della Costituzione” agisce per preservarla o per trasformarla?
Noi temiamo che il presidenzialismo, quali che siano le sue formulazioni e i “modelli” di riferimento, nel nostro Paese non sarebbe una semplice variante della democrazia. Si risolverebbe in una misura non democratica, ma oligarchica. Sarebbe, anzi, la costituzionalizzazione, il coronamento della degenerazione oligarchica della nostra democrazia. Sarebbe la risposta controriformista alla domanda di partecipazione politica che si manifesta nella nostra società al tempo presente. L’investitura d’un uomo solo al potere, portatore e garante d’una costellazione d’interessi costituiti, non è precisamente l’idea di democrazia partecipativa che sta scritta nella Costituzione, alla quale siamo fedeli.
Controlli. Il senso concreto del presidenzialismo che viene proposto in questa fase della nostra vita politica si chiarisce minacciosamente anche con riguardo ad altri due temi all’ordine del giorno dei riformatori costituzionali: l’autonomia della magistratura e la libertà dell’informazione. Ogni oligarchia ha bisogno di organizzare e gestire il potere in maniera nascosta, segreta. Ma la democrazia è il regime in cui il potere pubblico è esercitato in pubblico. La pubblicità delle opere dei governanti, è la condizione della loro responsabilità. Il potere non responsabile è autocratico, non democratico. Qual è il rimedio contro la chiusura del potere politico su se stesso? È la conoscenza veritiera dei fatti. E quali sono gli strumenti di tale conoscenza? Le indagini giudiziarie e le inchieste giornalistiche.
Per nulla sorprendente è che chiunque si trovi ad esercitare un potere oligarchico sia ostile alla libertà delle une e delle altre, quando forse, invece, trovandosi all’opposizione, l’aveva difesa a spada tratta. Nulla di sorprendente: non sorprendente, ma certamente inquietante la concomitanza di proposte restrittive dell’azione giudiziaria e giornalistica con i progetti di riforma del sistema di governo. Chi ha a cuore la democrazia non può ragionare secondo la logica contingente della convenienza, ma deve difendere la libertà della pubblica opinione, indipendentemente dal fatto che questa libertà possa giovare o nuocere a questa o quella parte, a questi o quegl’interessi.
La legge elettorale. La riforma della legge vigente è riconosciuta come emergenza democratica, da tutti e non da oggi. Dopo che la Corte costituzionale, con l’improvvida sentenza che aveva dichiarato inammissibile il referendum che avrebbe ripristinato la legge precedente (soluzione realisticamente prospettata, fin dall’inizio, da Libertà e Giustizia), tutti dissero in coro: riforma elettorale, fatta subito con legge. Si è visto. Anche oggi si ripete la stessa cosa, ma con quali prospettive? Esiste una convergenza di vedute in Parlamento? È difficile crederlo e già emergono le resistenze.
I due maggiori aspetti critici della legge attuale, dal punto di vista della democrazia, sono l’abnorme premio di maggioranza e le liste bloccate. Ma il premio di maggioranza farà gola ai due raggruppamenti maggiori che, sondaggi alla mano, possono sperare di avvalersene. Le liste bloccate (i parlamentari “nominati”) sono nell’interesse delle oligarchie di partito e degli stessi membri attuali del Parlamento, che possono contare sulla ricandidatura facile, tanto più in mancanza d’una legge sulla democrazia nei partiti, anch’essa sempre invocata (subito la legge!) quando scoppia qualche scandalo. Dal punto di vista della funzionalità o governabilità del sistema, occorrere poi eliminare il diverso metodo di attribuzione del premio di maggioranza nelle due Camere, ciò che ha determinato la vittoria di un partito nell’una, e la sua sconfitta nell’altra.
Il ritorno al voto con questa incongruenza sarebbe come correre verso il disastro, verso il suicidio della politica. Ma anche a questo proposito, non si può essere affatto sicuri che calcoli interessati, questa volta non a vincere ma impedire ad altri di vincere, non abbiano alla fine la meglio. Il Capo dello Stato ha minacciato le sue dimissioni, ove a una riforma non si addivenga. Altri immaginano una riforma imposta dal Governo con decreto-legge. Sono ipotesi realistiche? Possiamo davvero immaginare che un Presidente della Repubblica, che porti le responsabilità inerenti alla sua carica, al momento decisivo sarebbe pronto a sottrarvisi, precipitando nel caos? Quanto al Governo, possiamo credere ch’esso possa agire facendo tacere al suo interno le divisioni esistenti tra le forze parlamentari che lo sostengono, le quali sarebbero comunque chiamate a convertire in legge il decreto (senza contare - ma chi presta più attenzione a questi dettagli? - che la decretazione d’urgenza è vietata in materia elettorale).
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E allora? C’è da arrendersi a questa condizione crepuscolare della democrazia? Al contrario. C’è invece da convocare tutte le energie disponibili, dovunque esse si possano trovare, proprio come abbiamo cercato di fare con questa pubblica manifestazione. Per raccogliere in un impegno e in un movimento comune la difesa e la promozione della democrazia costituzionale che, per tanti segni, ci pare pericolare. Dobbiamo crescere fino a costituire una massa critica di cui non sia possibile non tenere conto, da parte di chi cerca il consenso e chiede il nostro voto per entrare nelle istituzioni.
Per questo dobbiamo riuscire a spiegare ai molti che la questione democratica è fondamentale; che non possiamo rassegnarci. Essa riguarda non problemi di fredda ingegneria costituzionale da lasciare agli esperti, ma la possibilità, da tenere ben stretta nelle nostre mani, di lavorare e cercare insieme le risposte ai problemi della nostra vita. Domandare pace, lavoro, uguaglianza e giustizia sociale, diritti individuali e collettivi, cultura, ambiente, salute, legalità, verità e trasparenza del potere, significa porre una domanda di democrazia. Non che la democrazia assicuri, di per sé, tutto questo. Ma, almeno consente che non si perda di vista la libertà e la giustizia nella società e che non ci si consegni inermi alla prepotenza dei più forti.
Nadia Urbinati, docente: la disputa è diventata troppo ideologica
“Niente soldi pubblici ai privati, Bagnasco sbaglia a radicalizzare”
“Si tratta di una scelta politica: se la scuola pubblica è una priorità i finanziamenti si trovano. I diritti costano”
di Valerio Varesi (la Repubblica, 23.05.2013)
BOLOGNA - «I soldi pubblici devono andare alla scuola pubblica che è la scuola di tutti» spiega Nadia Urbinati, docente di Scienze politiche alla Columbia university.
Il principio è chiaro, ma non pensa che la contin genza possa autorizzare l’integrazione con gli istituti privati?
«Si tratta di una scelta politica: se la scuola pubblica è una priorità i finanziamenti si trovano. La Francia, pur in crisi, ha continuato a investire sulla scuola pubblica anche con Sarkozy. Il diritto all’istruzione è costoso, tutti i diritti lo sono e se li mettiamo in discussione cedendo all’emergenza economica, allora dovremmo negare anche molti altri diritti. Quella di finanziare la scuola privata è una scelta politica che si maschera dietro una necessità economica».
Ma il Comune di Bologna cosa dovrebbe fare se non riesce a garantire i posti per tutti nella scuola d’infanzia?
«Per esempio rinegoziare con lo Stato la presenza delle materne statali che è largamente insufficiente al contrario dell’offerta comunale. Lo si inviti a sopperire non a scaricare le responsabilità sugli enti locali».
Che ruolo attribuisce alle scuole private?
«Le private sono tali fino a quando non sono finanziate dallo Stato. Dal momento in cui ricevono dei soldi dal pubblico, quest’ultimo impone delle regole che contraddicono il principio del privato libero».
Crede che ci sia troppo scontro ideologico e poco nel merito?
«Sì, la disputa è stata troppo ideologica. L’intervento del cardinal Bagnasco ha radicalizzato il contendere in una disputa tra chi sta con la Chiesa e chi coi castigatori delle scuole cattoliche»
Il giusto secondo me è scritto nella Costituzione, in ciò che diceva Calamandrei e in ciò che ha detto Preti.
La scuola privata può esistere ma si deve sostenere da sola "senza oneri per lo Stato".
Trovo giustissimo il referendum che dovrebbe essere nazionale ed avere valore invece che non averne. Spero che ci si svegli e che si decida finalmente di abolire il finanziamento alle scuole private.
Ci sono molte scuole semivuote, ci sono comuni che hanno concesso piani o locali di alcune scuole ad istituti privati. Sarebbe sufficiente riappropriarsi di quegli spazi e destinare i fondi per la scuola privata alla scuola pubblica, per restituire alle famiglie i posti per i propri figli.
Antonio C.
Bagnasco avverte: «Raduno di popolo contro la latitanza dello Stato»
di Luca Kocci (il manifesto, 21 maggio 2013)
Se molte famiglie non possono iscrivere i propri figli in una scuola cattolica, la colpa è della «latitanza dello Stato»: non le finanzia come dovrebbe, le rette sono troppo alte, e le famiglie, soprattutto in tempi di crisi, devono rinunciare e accontentarsi di una scuola statale.
Nella prolusione con cui ieri ha aperto i lavori dell’Assemblea generale dei vescovi, in corso a Roma fino a venerdì, il presidente della Cei, cardinal Bagnasco, è tornato con forza sul tema della scuola cattolica - lo aveva fatto già due settimane fa, rivendicando ulteriori stanziamenti e attaccando il referendum bolognese di domenica prossima contro i finanziamenti comunali alle scuole dell’infanzia paritarie - e ha chiesto ancora una volta che lo Stato aumenti le risorse economiche a favore degli istituti confessionali.
«Chiediamo che si riconosca concretamente il diritto dei genitori ad educare i figli secondo le proprie convinzioni», ovvero a mandarli in una scuola cattolica. «Sempre di più, invece - lamenta Bagnasco -, sono costretti a rinunciare sotto la pressione della crisi e la persistente latitanza dello Stato».
Stavolta però la Chiesa italiana e le federazioni delle scuole cattoliche non si limiteranno alle dichiarazioni ma, ha lasciato intendere il presidente dei vescovi, scenderanno in piazza: nei prossimi mesi ci sarà «un raduno di popolo», cioè una grande manifestazione per chiedere maggiori finanziamenti per la scuola confessionale oppure, in alternativa, l’introduzione del «buono scuola», come ha fatto per anni la Regione Lombardia governata dal ciellino Formigoni.
Da Bagnasco è arrivata anche la benedizione - sebbene meno solenne del previsto - al governo delle larghe intese Letta-Alfano, con la precisazione che ai vescovi «sta a cuore non una formula specifica, ma i principi». Occorre superare «il clima di ostinata contrapposizione» e mettersi al lavoro. «Pensare alla gente: questa è l’unica cosa seria», aggiunge. «Pensarci con grandissimo senso di responsabilità, senza populismi inconcludenti e dannosi», senza «perdere l’opportunità, né disperdere il duro cammino fatto dagli italiani. L’ora è talmente urgente che qualunque intoppo o impuntatura, da qualunque parte provenga, resteranno scritti nella storia». Il lavoro - per i giovani che non lo hanno e per gli adulti che lo hanno perso - è la prima delle emergenze a cui la politica deve far fronte.
E poi il consueto elenco dei «principi non negoziabili»: la tutela della vita dal concepimento alla morte - Bagnasco ribadisce il sostegno della Cei all’iniziativa dei movimenti per la vita perché l’Europa riconosca lo «Statuto dell’embrione» - e la famiglia tradizionale formata da un uomo e una donna. «Demolirla è un crimine», puntualizza il cardinale, «non può essere umiliata e indebolita da rappresentazioni similari che in modo felpato costituiscono un vulnus progressivo alla sua specifica identità e che non sono necessarie per tutelare diritti individuali in larga misura già garantiti dall’ordinamento».
Scuola, il referendum che spacca Bologna
Guccini-Prodi fronti opposti, domenica al voto
Il 26 maggio cittadini chiamati a pronunciarsi sul finanziamento comunale alle materne private paritarie. Un tema attorno al quale si è consumato uno strappo nella maggioranza. Costituzionalisti da un lato ed economisti e uomini di chiesa dall’altro, il cantautore per l’opzione A, il fondatore dell’Ulivo per la B. Sospetti sulla trasparenza nei seggi e appelli per il silenzio elettorale. Il ministro Carrozza: "Il mio compito è quello di appoggiare gli accordi per coprire tutti i posti per i bambini"
di MICOL LAVINIA LUNDARI *
Un voto "che non è solo bolognese, ma apre scenari nazionali". Un confronto sempre più acceso, che vede salire, ora dopo ora, l’asticella della tensione, fra attacchi verbali, a suon di dichiarazioni alla stampa e in rete. Due fronti opposti, politici e sociali, che si scontrano per strappare fino all’ultimo consenso. Il referendum consultivo cui saranno chiamati domenica i cittadini non riguarda soltanto il milione e più di euro che il Comune di Bologna versa ogni anno alle scuole materne paritarie - i promotori, il comitato Articolo 33, vogliono abolire il finanziamento; gli oppositori mantenere il sistema integrato pubblico-privato.
Lo si capisce dal clima sempre più infuocato a urne ancora chiuse. Con Sinistra ecologia e libertà che accusa il sindaco Virginio Merola di volerla escludere dalla maggioranza e fare accordi con il centrodestra, con i referendari che cercano volontari-osservatori nei seggi, con lo schieramento di artisti, scrittori, volti noti della scena nazionale - guidati da Stefano Rodotà - in campo "per la scuola pubblica", esponenti della Chiesa (il cardinal Angelo Bagnasco), del Governo (il ministro Maurizio Lupi) e la grande maggioranza del Consiglio comunale, da Pd a Pdl e Lega, oltre a studiosi come Stefano Zamagni, che difendono con le unghie e i denti il sistema esistente "che funziona e che è il migliore possibile".
Chi vuole che quel milione resti nelle casse del Comune a disposizione delle scuole comunali e statali voterà domenica "A", chi apprezza l’attuale sistema integrato sceglierà invece l’opzione "B". A fianco dei referendari si è schierato Francesco Guccini, in difesa di una "scuola dell’infanzia, pubblica laica e plurale". Mentre Romano Prodi, per il B, ha ricordato che "l’accordo che ha funzionato bene per tantissimi anni e che, tutto sommato, ha permesso, con un modesto impiego di mezzi, di ampliare almeno un po’ il numero dei bambini ammessi alla scuola dell’infanzia".
L’attuale ministro dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, intervenendo oggi da Firenze sottolinea come ’’l’interesse mio e del Ministero è appoggiare gli accordi che vedono il ruolo delle paritarie per coprire tutti i posti per i bambini’’. ’’Dobbiamo pensare ai bambini che devono andare a scuola - spiega - e garantire la copertura per tutti. Lo spirito della legge era ben definito, le scuole paritarie hanno degli obblighi da rispettare nei contratti con gli insegnanti, nei programmi, nel come si pongono e hanno un valore importante perché offrono un servizio che permette a un Comune di soddisfare le esigenze delle famiglie’’.
Una delle ultime voci che si è pronunciata sul referendum del 26 maggio è quella dell’ex ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer. Il padre della riforma che ha istituito le scuole paritarie è convinto che "certa politica rischi di allontanarsi dalla vita vera della scuola, abdicando a una coraggiosa azione progressista di rinnovamento del complessivo assetto dell’istruzione, condannando cosi’ l’Italia a restare in coda alle classifiche in Europa nell’attività educativa". Ricordando anche che la condizione della scuola dell’infanzia bolognese è unica in Italia: "Grazie al sistema integrato fra scuole comunali, statali e paritarie, le scuole dell’infanzia della ’dotta’ città coprono il 98,4% della domanda". Cifre snocciolate anche dal Comune nei giorni scorsi, e la cui lettura è stata contestata da Articolo 33.
La maggior parte dei partiti e del Consiglio comunale, si diceva, è a favore dello status quo. Nella maggioranza che tiene in piedi la giunta Merola, tuttavia, esistono crepe importanti: Sel sostiene la battaglia del fronte A (assieme al Movimento cinque stelle), e accusa il primo cittadino di voler stringere alleanze col centrodestra. Virginio Merola, dal canto suo, da qualche ora ha scelto il silenzio ma nei giorni scorsi ha ribadito più e più volte che si tratta di un "referendum consultivo", e dunque non abrogativo, e che anche di fronte alla vittoria dell’Articolo 33 non intende modificare l’assetto attuale del sistema scolastico dell’infanzia perché "funziona" ed è stato un tassello fondamentale della sua elezione a Palazzo d’Accursio. E’ solo di qualche giorno fa lo scontro diretto fra il sindaco e il leader di Sel Nichi Vendola, che si era espresso a favore della scuola totalmente pubblica, con accuse di inopportunità, invasione di campo e incoerenza, e richieste di scuse respinte al mittente.
Il fronte del B accusa i promotori di far spendere in un solo giorno di consultazione quasi la metà (483mila euro) di quel milione tanto contestato. Il fronte che promuove l’opzione A, invece, temendo che il voto possa non essere trasparente ha chiesto e ottenuto navette speciali per quella parte di residenti che dovrebbero recarsi in seggi molto lontani e sta organizzando un servizio a chiamata per chi ha necessità di essere accompagnato in auto, mentre a vigilare sulle urne vi saranno volontari-osservatori. L’ultima conquista sono seggi mobili negli ospedali e case di cura.
Nei giorni scorsi vi sono state anche manifestazioni di insegnanti e appelli su Twitter. L’ultimo fronte dello scontro è la richiesta del silenzio elettorale. "Non è previsto per questo tipo di consultazione", ha risposto l’amministrazione quando l’Articolo 33 ha scoperto che piazza Maggiore era stata prenotata sabato dal Pd. E i referendari rilanciano: "Che accadrà allora a urne aperte?", saranno possibili dunque comizi nei seggi, si domandano.
Ora, a quattro giorni dalla chiamata alle urne (per la quale hanno firmato 13mila bolognesi), gli occhi della città sono puntati su quello che accadrà sabato in piazza Maggiore, dove il comitato per il B chiuderà la sua campagna elettorale, e dove è annunciata una contromanifestazione dell’Usb. Una tensione crescente prima ancora di conoscere l’esito della consultazione.
Il quesito del referendum. Questa la domanda sulla scheda: "Quale fra le seguenti proposte di utilizzo delle risorse finanziarie comunali che vengono erogate secondo il vigente sistema delle convenzioni con le scuole d’infanzia paritarie a gestione privata ritieni più idonea per assicurare il diritto all’istruzione delle bambine e dei bambini che domandano di accedere alla scuola dell’infanzia?
a) utilizzarle per le scuole comunali e statali
b) utilizzarle per le scuole paritarie private".
* la Repubblica, 22 maggio 2013 (ripresa parziale).