Il senso del Nuovo Realismo
Altro che Nietzsche, il nucleo sfugge se non si riscopre il pensiero di Gentile
Una prospettiva filosofica largamente diffusa in Italia e ancor più all’estero ha alimentato un vivace dibattito.
Con una grave lacuna
di Emanuele Severino (Corriere della Sera/ La Lettura, 16.09.2012)
A proposito del «nuovo realismo», una prospettiva filosofica oggi largamente diffusa, sono stati recentemente pubblicati vari scritti. Mi limiterò qui a due di essi, con l’intento di mostrare come persista il silenzio su uno dei tratti più importanti della cultura contemporanea.
Ho altre volte richiamato quanto sia decisivo il nucleo essenziale del pensiero filosofico del nostro tempo. Sebbene possa sembrare inverosimile, tale nucleo è infatti ciò che fa diventar reale la dominazione del mondo da parte della tecnica - destinata a questo dominio nonostante altre candidature, ad esempio quella capitalistica, politica, religiosa, e anche se la tecno-scienza (ma non solo essa) non è ancora in grado di prestare autenticamente ascolto alla filosofia. Quel nucleo mette in luce che ogni Limite assoluto all’agire dell’uomo, cioè ogni Essere e ogni Verità immutabile della tradizione metafisica, è impossibile; e dicendo questo non solo autorizza la tecnica a oltrepassare ogni Limite, ma con tale autorizzazione le conferisce la reale capacità di superarlo. Non si salta un fosso se non si sa di esserne capaci; e quel nucleo dice alla tecnica che essa ne è capace.
Tra i pochi abitatori del nucleo essenziale c’è sicuramente Nietzsche. Ma anche Giovanni Gentile, la cui radicalità è ben superiore a quella di altre pur rilevanti figure filosofiche, di cui tuttavia continuamente si parla. Invece su Gentile il silenzio, in Italia, è preponderante (sebbene non totale, anche per merito di alcuni miei allievi). All’estero, poi, sia nella filosofia di lingua inglese, sia in quella «continentale», di Gentile, direi, non si conosce neppure il nome. La cosa è interessante, soprattutto in relazione al tema filosofia-tecnica a cui accennavo.
Infatti, nonostante i luoghi comuni, la filosofia gentiliana è un potente alleato della tecnica, sì che il silenzio su Gentile è un elemento frenante, «reazionario», rispetto alla progressiva emancipazione planetaria della tecno-scienza. Argomento di primaria importanza sarebbe quindi la chiarificazione dei motivi che producono quel silenzio. Qui vorrei però limitarmi - come ho incominciato a dire - al tema, molto più modesto, riguardante alcune conferme di tale silenzio e alcune implicazioni.
Per Gianni Vattimo, sostenitore della filosofia ermeneutica (Heidegger, Gadamer eccetera), e cioè «antirealista», la critica alla «concezione metafisica della verità» sarebbe una «scoperta» di Heidegger (Della realtà, Garzanti, 2012). Si tratta della critica alla definizione di «verità» come «corrispondenza tra intellectus e res», tra «l’intelletto» e «la cosa». In tutto il libro Gentile non è mai citato.
Ma ben prima di Heidegger, e con maggior nitore, Gentile aveva già mostrato (rendendo radicale l’idealismo hegeliano) l’insostenibilità di quella definizione. In sostanza - egli argomentava - per sapere se l’intelletto corrisponda alla cosa, intesa come «esterna» alla rappresentazione che l’intelletto ne ha, è necessario che il pensiero confronti la rappresentazione dell’intelletto con la cosa; la quale, quindi, in quanto in tale confronto viene ad essere conosciuta, non è «esterna» al pensiero, ma gli è «interna».
Ciò significa che il pensiero, per essere vero, non ha bisogno e non deve «corrispondere» ad alcuna cosa «esterna». Solo che Vattimo si fa guidare, prendendolo alla lettera, da un appunto di Nietzsche in cui si annota - probabilmente per studiarne il senso - che «non ci sono fatti, ma solo interpretazioni» e che «anche questa è un’interpretazione», ossia una prospettiva che si forma storicamente e che quindi è revocabile, sostituibile. Poiché Vattimo intende tener ferma questa «sentenza» di Nietzsche, dovrà dire allora che anche la critica alla concezione metafisica della verità è un’interpretazione, ossia qualcosa di revocabile.
Capisco quindi che egli consideri anche la propria filosofia soltanto come un’«interpretazione rischiosa», una «scelta», una «volontà» le cui motivazioni sono soltanto decisioni etico-politiche (pagina 53): «Come Heidegger, noi vogliamo uscire dalla metafisica oggettivistica perché la sentiamo come una minaccia alla libertà e alla progettualità costitutiva dell’esistenza» (pagina 122, corsivo mio).
In sostanza, come tanti altri, esclude ogni verità incontrovertibile perché altrimenti libertà e democrazia verrebbero distrutte; ma in questo modo mostra di considerare come verità incontrovertibile la difesa della libertà e della democrazia (la qual cosa è soltanto una bandiera politica o teologica). Oppure - chiedo a lui e a tanti altri - anche l’affermazione che la libertà è «costitutiva» dell’esistenza è solo un’interpretazione revocabile?
En passant, egli è stranamente fuori strada quando mi attribuisce l’intento di oltrepassare la metafisica «attraverso la restaurazione di fasi precedenti del suo sviluppo» (pagina 164 e seguente), e pertanto rifacendomi a Heidegger. Il quale però sostiene che l’Essere è «evento» (contingenza e storicità assoluta, assoluto divenire) e che anche le cose sono avvolte da questo carattere; mentre i miei scritti sostengono che ogni cosa è un essere eterno. E infatti essi indicano qualcosa di abissalmente lontano anche dalla filosofia gentiliana, che afferma la totale storicità del contenuto del pensiero (sebbene Gentile differisca da Heidegger perché, platonicamente, intende il Pensiero come indiveniente).
Comunque, già l’idealismo classico tedesco, soprattutto quello hegeliano, è ben consapevole dell’impossibilità che la verità sia corrispondenza o adeguazione dell’intelletto a una realtà esterna, e tuttavia l’idealismo è una grande metafisica; sì che la critica a tale corrispondenza toglie di mezzo solo un certo tipo di metafisica. Per mostrare l’impossibilità di ogni Limite assoluto, metafisico, all’agire dell’uomo, e in generale al divenire delle cose, occorre altro, che, ripeto, è sì presente in Nietzsche e in Gentile (e in pochi altri, come Leopardi), ma non in Heidegger. Né qui intendo indicare ciò che occorre e che sopra chiamavo il «nucleo essenziale» della filosofia del nostro tempo.
Se Vattimo, che condivide la critica heideggeriana alla verità come corrispondenza, su questo punto è inconsapevolmente d’accordo con Gentile, invece un filosofo tedesco, Markus Gabriel sostiene ora un «nuovo realismo» (che peraltro condivide con molti altri) al quale forse rinuncerebbe se conoscesse Gentile. Egli non è d’accordo con Heidegger, né quindi con Vattimo, ma è d’accordo con Maurizio Ferraris (non più allievo di Vattimo), che presenta in Italia il libro di Gabriel Il senso dell’esistenza (Carocci, 2012). Vi si sostiene subito un «argomento» che conduce alla tesi seguente: «C’è qualcosa che noi non abbiamo prodotto, e proprio questo esprime anche il concetto di verità» (pagina 21).
L’«argomento» è che, una volta ammesso che «noi» produciamo qualcosa, noi però non produciamo il «fatto» consistente nell’esser produttori di qualcosa - il «fatto» che dunque è indipendente da «noi», Gabriel lascia indeterminato il significato di quel «noi» (sebbene egli interpreti in modo a volte condivisibile l’idealismo tedesco).
Ma l’idealista e quell’idealista rigoroso che è Gentile risponderebbero che, certo, questo o quell’individuo non producono il «fatto» consistente nella produzione umana di qualcosa, e tuttavia questo «fatto» è pensato (anche da Gabriel, sembra) e, in quanto pensato, non può essere, come invece questo libro sostiene, una «realtà indipendente» dal pensiero, ossia da «noi» in quanto pensiero.
«Io propongo di definire l’esistenza come l’apparizione-in-un-mondo», scrive Gabriel (pagina 46). Intendo: l’apparizione di qualcosa in un mondo. Ma nel suo libro non ho trovato alcun chiarimento sul significato del termine chiave «apparizione». Chi legge quanto vado scrivendo ne conosce l’importanza. L’apparizione non è il qualcosa (o «ente») che appare (anche se essa stessa è un ente). Se Gabriel intende che c’è apparizione di un mondo anche senza che appaia questo o quell’individuo empirico, allora, su questo punto, sono d’accordo con lui da più di mezzo secolo. Ma allora si dovrà dire che ciò che esiste è ciò che appare (e un caso di esistenza è l’apparire in cui tutto-ciò-che-non-appare appare, appunto, come «tutto ciò che non appare»). Ma Gabriel intende così l’«apparizione»?
Per lui ciò che esiste, esiste necessariamente «all’interno di un campo di senso», cioè all’interno di un contesto. Se il motivo è (come mi sembra di capire) che qualcosa esiste solo in quanto differisce da ciò che è altro da esso, sì che questo «altro» è il contesto del qualcosa, sono d’accordo (ma esortando Gabriel a rendersi conto che egli, contrariamente ai suoi intenti, sta sollevando il principio di non contraddizione - ossia il differire dal proprio «altro» - al rango di assoluto principio incontrovertibile). Ma dalla necessità che l’esistente abbia un contesto egli crede di dover concludere che qualcosa come «il Tutto», la «totalità degli enti», non può esistere perché il Tutto non può avere un contesto, e non può nemmeno contenere se stesso, giacché è necessario che il Tutto, in quanto contenente differisca dal Tutto in quanto contenuto (pagina 52 e seguenti).
Mi limito a rilevare che, poiché il Tutto è l’«apparizione» del Tutto (anche per Gabriel dovrebbe esserlo), allora questa apparizione contiene se stessa proprio perché il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente.
Da gran tempo i miei scritti si sono soffermati su questo tema come su quello del significato che compete all’affermazione che il «nulla» è il contesto del Tutto. (A proposito del tema del «nulla» è curioso che Vattimo, per il quale - come per Gabriel e l’intera cultura del nostro tempo - tutto è contingente, neghi a un certo punto - pagina 60 - l’annullamento delle cose. Curioso, dico, perché senza il loro annullamento e nullità iniziale non si vede in che possa consistere la loro contingenza e storicità).
L’idealismo assoluto di Gentile è poi un assoluto realismo, perché il contenuto del pensiero non è una rappresentazione fenomenica della realtà esterna, ma è la realtà in se stessa. Un rilievo, questo, che potrebbe invogliare Gabriel e i vari neo-realisti a studiare Gentile. E a studiare lo sfruttamento in senso realistico che di Gentile è stato dato da Gustavo Bontadini (del cui pensiero è uscita recentemente una puntuale ricostruzione, Gustavo Bontadini, di Luca Grion, edita dalla Lateran University Press nella collana dedicata ai «Filosofi italiani del Novecento», che la Chiesa non ritiene quindi opportuno passare sotto silenzio).
Certo, la difficoltà maggiore è capire il carattere «trascendentale» del pensiero, che si è presentato in modo sempre più rigoroso da Kant all’idealismo tedesco e al neohegelismo di Gentile. L’«al di là» di ogni pensiero, l’«assolutamente Altro», l’«Ignoto», gli infiniti tempi in cui l’uomo non c’era e non ci sarà: ebbene, di tutto questo possiamo parlare solo in quanto tutto questo è pensato. Per questo Gentile afferma che il pensiero non può essere trasceso e che è esso a trascendere tutto ciò che si vorrebbe porre al di là di esso e come indipendente da esso. Questo trascendimento è la verità.
L’idealistica trascendentalità del pensiero è stata sostituita oggi dal consenso, cioè dall’accordo sociale su un insieme di convinzioni. Insieme a molti altri Popper vede nel consenso il fondamento della verità. È vero ciò su cui la comunità più ampia possibile è d’accordo. Anche Vattimo sostiene questo concetto della verità: per lui il linguaggio, entro cui tutto si presenta, è il linguaggio della «comunità», giacché «siamo esseri storici e "la massima evidenza disponibile qui e ora" si costruisce solo con un accordo, che può essere messo in questione e rinegoziato» (pagina 109).
Ma, daccapo, questa sua affermazione è una verità incontrovertibile? Oppure che gli uomini esistano, ed esistano storicamente, accordandosi o discordando, è soltanto un accordo rinegoziabile? Rinegoziando, non ci si potrebbe forse trovar d’accordo nel far rivivere la metafisica e altre cose non desiderate dalla filosofia ermeneutica? Ma soprattutto a Heidegger (non solo a lui) andrebbe chiesto come mai, se il suo intento è di prendere le distanze da ogni evidenza oggettiva, la configurazione dello sviluppo storico (la sequela delle «epoche» dell’Essere) finisca col valere, nel suo discorso, come un’evidenza oggettiva e indiscutibile.
Perché la multa è una cosa in sè
Il dibattito sul nuovo realismo: risposta a Severino
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 18.09.2012)
Emanuele Severino, domenica scorsa, su La lettura del Corriere della Sera, rimprovera al nuovo realismo di non tener conto della “svolta trascendentale” del pensiero, avviata da Kant e realizzata da Gentile. Per questa svolta, il pensiero è il primo e immediato oggetto della nostra esperienza, e noi non abbiamo contatto con nessun mondo “là fuori”, se non appunto tramite la mediazione del pensiero e delle sue categorie. In altri termini, e richiamandoci alle cose - il tema del festival di filosofia appena conclusosi a Modena - noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi.
In effetti, i realisti sono ben consapevoli della rilevanza storica di questa svolta, ma non ne sono convinti per motivi teorici. Questi: la svolta trascendentale ci pone in una perenne contraddizione, e fa sì che, nei nostri rapporti con il mondo, siamo afflitti da uno strabismo divergente. Da una parte, nella vita di tutti i giorni, siamo dei realisti ingenui, convinti che le cose siano quello che appaiono. Dall’altra, siamo degli idealisti costretti a pensare che nulla esorbita dal nostro pensiero e che non abbiamo a che fare con cose, ma con dati di senso, fenomeni, apparenze.
La versione moderna dell’idealismo gentiliano, e cioè il postmodernismo, dice invece che tutto è socialmente costruito (di passaggio, Severino ha perfettamente ragione nel notare che i postmodernisti non hanno riconosciuto il loro debito nei confronti di Gentile). La domanda che si pone il realismo, allora, è semplicemente: è davvero così, o non è una superstizione filosofica, una abitudine inveterata e niente più?
Prendiamo gli oggetti naturali. Per Kant (e a maggior ragione per Gentile, che lo estremizza) sono dei fenomeni per eccellenza: sono situati nello spazio e nel tempo, che però non sono cose che si diano in natura. Stanno nella nostra testa, insieme alle categorie con cui diamo ordine al mondo, al punto che se non ci fossero uomini potrebbe non esserci né lo spazio né il tempo. Se ne dovrebbe concludere che prima degli uomini non c’erano oggetti, almeno per come li conosciamo, ma chiaramente non è così. I fossili ci tramandano esseri che sono esistiti prima di qualunque essere umano, prima di Gentile, prima di Berkeley, prima di Cartesio e prima di qualunque “io penso” in generale.
Come la mettiamo? E come spieghiamo il fenomeno, comunissimo, del giocare con il nostro gatto? Visto che lui ha schemi concettuali e apparati percettivi diversi dai nostri, dovrebbe vivere in un altro mondo, altro che giocare con noi (inoltre, se davvero Gentile avesse ragione, ogni gioco, non solo con il gatto ma anche con un amico, sarebbe virtualmente un solitario).
Ma a ben vedere anche gli oggetti sociali, che dipendono dai soggetti (pur non essendo soggettivi) sono cose in sé e non fenomeni. Questo sulle prime può apparire complicato perché se gli oggetti sociali dipendono da schemi concettuali, allora sembra ovvio che siano dei fenomeni. Ma non è così.
Per essere un fenomeno non basta dipendere da schemi concettuali. Per essere un fenomeno bisogna anche contrapporsi a delle cose in sé. Prendiamo una multa. Quale sarebbe il suo in sé? Dire che una multa è una multa apparente significa semplicemente dire che non è una multa. Una multa vera e propria è una cosa in sé, così come è una cosa in sé e non semplicemente un riflesso del nostro pensiero la crisi economica che ci provoca tante preoccupazioni. Soprattutto, sono cose in sé le persone, che nella prospettiva di Gentile si trasformerebbero in fantasmi, in umbratili proiezioni del pensiero.
E adesso veniamo agli eventi, cose come gli uragani o gli incidenti d’auto. Che spesso sono imprevedibili. L’irregolarità, ciò che disattende i nostri dati e attese, è la più chiara dimostrazione del fatto che il mondo è molto più esteso e imprevedibile del nostro pensiero. Come nel caso della sorpresa, che - se non si è pessimisti, e soprattutto se si è fortunati - può anche essere bellissima. Per esempio, non prevedevo che un grande filosofo (che considero non un fenomeno, ma una cosa in sé: una persona con caratteristiche insostituibili e indipendenti dal mio pensiero) come Severino decidesse di intervenire sul realismo con tanta ampiezza e profondità. Lo ringrazio di nuovo, e spero che trovi questa risposta soddisfacente, o almeno tale da aprire un dialogo.
L’ASSASSINIO DI KANT, I CATTIVI MAESTRI E LA CATASTROFE DELL’EUROPA (COME DEGLI U.S.A.). LE "ALLEGRE" CONSEGUENZE DEL "DIMENTICARE KANT!" DI GUSTAVO BONTADINI ... *
Ricordando Bontadini nel giorno della sua nascita
Intervista raccolta da padre Aldo Bergamaschi
Domanda: Prof. Bontadini, se un oscuro ma assiduo frequentatoredel Perípatos avesse avuto l’opportunità di intervistare Aristotele con una macchina da presa, che cosa, secondo Lei, avrebbe dovuto chiedergli? Risposta: Beh, certo poteva chiedergli tante cose, presentargli tutto l’elenco delle cose che non sono accettabili nei suoi scritti, perché ce ne sono; ma se fossi stato io quell’oscuro frequentatore gli avrei chiesto - immagino di trovarlo ormai vecchio e quindi solo come sono tutti i vecchi, abbandonato: eh, ti sembra di essere stato giusto, equo col tuo maestro Platone, non senti qualche rimorsodi coscienza per averlo trattato come l’hai trattato? Intendo teoreticamente.
D: D’accordo, sicché Lei si sarebbe rivolto ad Aristotele teoretico e non certamente all’Aristotele empirico. Bene, io mi trovo nei medesimi panni, cioè io sono quest’oscuro intervistatore, però un assiduo frequentatore del Perípatos, diciamo, milanese. Le domando, anzitutto, quali sono i traguardi che Lei ha programmato e quali sono invece stati esplorati con successo?
R: Beh, i traguardi erano immensi, perché quando si è giovani non si pongono limiti alle proprie possibilità; poi, quelli che invece ho realizzato, sono pochissimi. Anzi, si riducono, si sono andati riducendo sempre di più; si riducono a quello che io e i miei amici chiamiamo volentieri il discorso breve, cioè l’essenzializzazione della metafisica dell’essere. Questo è un traguardo che ritengo ormai di avere sufficientemente conseguito: questa rigorizzazione del discorso metafisico.
D: D’accordo, ma prima di arrivare, appunto, alla discussione su questa rigorizzazione, io Le vorrei chiedere il risultato delle sue ricerche sullo gnoseologismo moderno. Può dirci, in breve, in che cosa consistono queste ricerche? R: Sì, la discussione dello gnoseologismo moderno è stata una delle tappe che ho dovuto percorrere per arrivare a quel risultato che ho detto prima, cioè per difendere e per fondare la metafisica e fare i conti col pensiero moderno, che è essenzialmente antimetafisico.
D: D’accordo.
R: E allora le analisi di struttura degli autori, dei grandi autori moderni, mi hanno, per dirlo naturalmente in modo sintetico, in brevi parole (perché il discorso qui sarebbe lunghissimo), mi hanno messo dinanzi questa situazione: la filosofia moderna è un ciclo di pensiero che fa dimenticare se stessa, perché la sua conclusione toglie il suo punto di partenza. Il suo punto di partenza è quello che io chiamo (e molti altri amici sono d’accordo nel chiamare) il presupposto realistico o il presupposto naturalistico: l’ammissione dogmatica della dualità di essere e di pensiero. La tematica, l’indagine dei filosofi moderni si svolge soprattutto su questo presupposto, traendone le conseguenze. La principale conseguenza è la concezione fenomenistica. Cioè: se l’essere è altro dal pensiero, ciò che noi conosciamo non è l’essere, ma è il fenomeno, ciò che appare. L’ulteriore passo della filosofia moderna può essere rappresentato (parlo sempre brevemente e sinteticamente, in forma molto approssimativa) dall’idealismo, il quale trae questa ulteriore conseguenza: se noi abbiamo a che fare soltanto col fenomeno, non possiamo neanche affermare l’esistenza del noumeno, e quindi il pensiero si chiude in qualche maniera in se stesso.
D: Scusi se La interrompo, ma se uno studente liceale Le dovesse chiedere una lezione breve sull’errore di Cartesio, Lei come strutturerebbe questa lezione breve?
R: Ecco, quello di Cartesio non è un errore; è anzi la presa di coscienza di una situazione speculativa in cui si trovava la sua epoca. Questa situazione speculativa Cartesio la eredita dalla tarda scolastica, dal tardo medioevo, come ha messo molto bene in luce Gilson, specialmente nel commento, nell’amplissimo commento fatto al Discours de la méthode, per mostrare quanti elementi medievali della tarda scolastica sono ancora presenti nella problematica cartesiana. Non è un errore. Anzi, il suo merito è quello di avere tratto le conseguenze di questo presupposto (e in metafisica, in buona dottrina, ogni presupposto deve essere eliminato e deve essere scartato); Cartesio ha indicato per quale via noi eravamo costretti a camminare sotto la pressione, sotto la spinta di questo presupposto, il quale ha portato poi alle varie tappe della filosofia moderna. In questo senso, Cartesio è stato veramente il padre della filosofia moderna.
D: Quindi Lei lo ritiene padre, ma c’è al fondo un errore? O non c’è? Ad esempio, lo smarrimento dell’essere?
R: C’è lo smarrimento dell’essere, e questo è un errore, ma non è di Cartesio, è del suo tempo; è di tutti. È un’eredità. È anche una condizione partecipe del senso comune che l’essere è qualche cosa di altro dal conoscere, no? È il cosiddetto realismo, al quale la filosofia moderna ha sostituito, dapprima il fenomenismo, e poi, addirittura, l’idealismo. Il significato speculativo dell’idealismo, con cui in qualche maniera si conclude il ciclo moderno, è il semplice toglimento del presupposto naturalistico - formalmente in quanto presupposto.
D: Ecco, abbia la cortesia di spiegarci in cosa consiste questo presupposto realistico.
R: È semplicissimo: è l’assunto che l’essere è altro dal pensiero. Io potrei dare - siamo nel secondo centenario della Critica della ragion pura, che fu pubblicata nel 1781 - ad uno studente di liceo, ma più che ad uno studente di liceo, anche a un contadino che incontrassi per la strada e mi chiedesse qualcosa di quest’opera, potrei dare, ecco, il più breve riassunto che si può fare di quest’opera (che consta di molte centinaia di pagine), ed è questo: dato che l’essere è altro dal pensiero, la scienza dell’essere, cioè la metafisica, non è possibile. Questo è il riassunto più sintetico della Critica della ragion pura. Poi c’è tutta quest’opera meravigliosa (da visitare), una delle opere più geniali che siano mai state scritte nella storia della filosofia. Vi si intrecciano una quantità di motivi che riguardano la possibilità della matematica come scienza, della fisica come scienza, poi l’esame di quelli che Kant riteneva fossero gli argomenti portati a sostegno della metafisica tradizionale. E allora qui, naturalmente, viene fatto subito di deliberare, da parte mia o da parte nostra, che la metafisica che Kant confutava non era assolutamente la metafisica classica: era strutturalmente diversa da quella che noi presentiamo come metafisica classica.
D: D’accordo. Adesso vorrei che, a conclusione di questo discorso sul dualismo gnoseologistico, come Lei lo chiama, ci risolvesse alcune perplessità dei cultori di scienze filmiche. Per esempio i cultori del linguaggio filmico sembrano accettare il dualismo gnoseologistico. Dicono: altra è la realtà, altro la sua immagine: l’evento non si identifica con la sua rappresentazione, quindi l’immagine di questo tavolo non è il tavolo. Ecco, io Le domando, filmicamente parlando, siamo o non siamo sull’essere?
R: Dunque, io sono ignorante in sede di filmologia; però direi che, dal punto di vista metafisico, è ente, cioè non nulla, sia l’immagine sia la realtà che il linguaggio filmico contrappone all’immagine stessa: sono tutte due realtà e vengono sia l’una che l’altra intenzionate dalla conoscenza. Il termine ‘intenzionare’ è importante, perché l’intenzionalità è proprio la figura che conclude tutta la vicenda del pensiero moderno e dà la possibilità di entrare in una nuova epoca.
D: D’accordo. Allora io tento di fare una verifica ulteriore. Noi conosciamo direttamente il tavolo o la immagine del tavolo?
R: Senz’altro il tavolo.
D: Conosciamo il tavolo, anche pur sapendo che il discorso filmico mi presenta una immagine del tavolo?
R: Sì, perché il dualismo filmico è un dualismo che è interno al non-dualismo della conoscenza umana. È un dualismo interno; cioè: dall’interno del globo della conoscenza umana si elevano questi due ordini, l’ordine filmico e l’ordine di quella verità che viene contrapposta a quella filmica.
D: Vediamo se riesco a identificare il senso di questo discorso: la realtà trascende la rappresentazione empirica, ma non trascende il pensiero. Dunque, il pensiero sarebbe comunque sulla realtà?
R: Certo, in ogni caso non si trascende il pensiero: è questa la verità.
D: Abbia la cortesia di spiegare il significato di questa frase.
R: Ecco: l’intrascendibilità del pensiero è la formula un po’ banalizzata dell’idealismo. Vero: fuori del pensiero non si salta, perchè se io dico che c’è una realtà che trascende il pensiero, per ciò stesso l’ho già pensata e quindi ricondotta dentro il pensiero.
D: D’accordo.
R: Ma, anche stando nella semplice orbita dell’Unità dell’Esperienza, o se vogliamo dire dell’esperienza, della percezione...
D: Scusi se La interrompo, Professore: questa ‘Unità dell’Esperienza’ è un’espressione che Lei ha introdotto cinquant’anni fa. Adesso direi che ha l’onere di spiegarla a chi la udisse per la prima volta.
R: Sì. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose che sono presenti e che vengono affermate in base al loro esser presenti.
D: Per esempio?
R: Tutto ciò che io constato, tutto ciò di cui io posso dire ‘consta’. Tutti quei giudizi che possono essere giustificati, fondati con questa formula: ‘perché consta’. Ad esempio: questo tavolo è di colore amaranto. Perché? Perché mi consta che sia di colore amaranto, perché è sperimentalmente dato, empiricamente dato che è tale. In questo momento è giorno, perché constato che in questo momento è giorno. Perché consta. Quindi l’Unità dell’Esperienza è l’unità dei dati, come tale.
D: Quindi, successivamente, noi cosa dovremmo scoprire? Che il dato è là e io sono?...
R: No. Io sono un dato. l’Unità dell’Esperienza include l’io, perché anche l’io nella forma dell’autocoscienza è dato. L’io è un dato. È un dato che l’esperienza è polare, cioè che ha la polarità del soggetto e dell’oggetto; io che ho presente questo tavolo, questo tavolo che è presente a me.
D: Quindi sarebbe la compresenza.
R: Nell’Unità dell’Esperienza è presente che le cose sono presenti a me. Questo è un rilievo fondamentale in ordine alla determinazione della struttura dell’Unità dell’Esperienza. L’Unità dell’Esperienza è la totalità delle cose presenti, ma c’è una caratteristica di queste cose presenti: anzitutto è quella di essere presenti, ma poi - determinatamente - di essere presenti a; in questo caso all’io, a me, a un soggetto.
D: D’accordo, adesso Le faccio una domanda che implica un riferimento storico. A Suo parere san Tommaso era immerso nell’errore gnoseologistico, cioè nel dualismo gnoseologistico, oppure aveva guadagnato questa Unità dell’Esperienza come punto di partenza?
R: Beh, che avesse proprio guadagnato l’Unità dell’Esperienza come punto di partenza, forse no; perché, altrimenti, io non avrei avuto niente da fare, se l’avesse guadagnata lui - va bene? Però, se san Tommaso fosse o non fosse libero dal presupposto gnoseologistico, questo è un argomento di esegesi storica molto interessante. San Tommaso era un aristotelico e un grande commentato-re di Aristotele. Ora, Aristotele era certamente immune dal presupposto dualistico.
D: Era immune?
R: Era immune, perchè era un suo teorema fondamentale che il ‘conoscente in atto’ e il ‘conosciuto in atto’ si identificano, e questa è già l’eliminazione del presupposto dualistico. Aristotele poi aggiunge che il ‘conoscente in potenza’ e il ‘conosciuto in potenza’ si distinguono, ma di questo essere distinti in potenza egli dà una fondazione; e in quanto dà una fondazione, riscatta il presupposto come presupposto: la fondazione è metafisica.
D: Probabilmente ci siamo avvicinati... ma io sto pensando a un ipotetico liceista, ecco... che...
R: Beh, ma forse se Lei mi farà altre domande che riguardino questi problemi fondamentali, potremmo dare una risposta esauriente anche per il liceista... di primo anno!
: Quindi, torniamo brevemente al discorso dell’inganno dei sensi, no? L’errore dei sensi...
R: No, ma il senso non inganna dice san Tommaso. Le ricordo che san Tommaso dice ‘il senso non inganna’, vero?
D: Quando io vedo il legno spezzato nell’acqua, in che cosa consisterebbe l’errore?
R: L’errore consisterebbe nel ritenere che, se io andassi a toccare il legno, lo troverei spezzato, mentre invece non lo trovo spezzato. Questo è un giudizio. La vista non mi inganna, perché è empiricamente dato che il legno si presenta come spezzato. È un giudizio ulteriore quando dico, io che vedo una torre in lontananza che mi sembra circolare, mentre è quadrata, che allora c’è un’illusione. Ma l’illusione in cosa consiste? La torre appare circolare, e, nella misura in cui appare, essa è tale. Poi, se usciamo anche da questo paragone della torre, e pensiamo al sogno, io sogno che accadono certe cose. Nella misura in cui quelle cose sono sognate, sono reali. Quindi non c’è nessun inganno. L’inganno consisterebbe nel giudizio che volesse riferire ad una realtà ulteriore al sogno, quella che si rivela nel sogno.
D: D’accordo, credo che questi esempi siano abbastanza chiari. Adesso dalla gnoseologia passiamo alla metafisica. Anzitutto Le domando: è davvero impossibile la metafisica dopo Kant oppure Lei ritiene che sia invece possibile?
R: Beh, dopo cinquant’anni di meditazione, ritengo che sia possibile, perché... ab esse ad posse valet illatio; perché la metafisica si costruisce! Quando io ero studente c’era lo slogan del dopo Kant: certe cose dopo Kant non si possono più sostenere, e quindi dopo Kant non si poteva più sostenere che fosse possibile la metafisica. Ma una attenta considerazione di quella metafisica che Kant criticava ci rende subito edotti che la struttura di tale metafisica ha poco a che vedere con la struttura di quella che noi chiamiamo la metafisica classica e che è quella che noi intendiamo difendere e sostenere. La metafisica classica è fuori dalla portata della critica kantiana; e, naturalmente, il discorso per mostrare questo dovrebbe essere abbastanza complesso, ma è un discorso che ormai in qualche maniera abbiamo messo al sicuro. Ritengo di averlo messo al sicuro.
* SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
L’ATTIVISMO ACCECANTE DEL "FAR WEST" E IL "SAPERE AUDE" DELLA "CRITICA DELLA RAGION PURA": JOHN DEWEY SPARA A ZERO SU KANT, SCAMBIATO PER UN VECCHIO FILOSOFO "TOLEMAICO". Alcune sue pagine da "La ricerca della certezza" del 1929, con alcune note
ORIENTARSI, OGGI - E SEMPRE. LA LEZIONE IMMORTALE DI KANT, DALLA STIVA DELLA "NAVE" DI GALILEI.
Federico La Sala
La ragion pratica del web di cui oggi abbiamo bisogno
Perché la cultura filosofica può aiutarci a capire le potenzialità di Internet e i limiti della nostra libertà
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 08.09.2016)
In uno dei suoi ultimi libri, la conversazione con Jean-Claude Carrière “Non sperate di liberarvi dei libri”, Umberto Eco faceva notare che ci sono volute un po’ di generazioni di galline per imparare a non finire sotto le automobili. Ecco il senso minimale di ciò che intendo con “ragion pratica per il web”. Le galline finivano sotto le automobili perché le scambiavano per carrozze.
È quello che accade a noi con il web. In molti lo consideriamo una super-televisione, facendoci trarre in inganno dal fatto che nei due casi c’è uno schermo; ma non si considera che c’è anche una tastiera, e una memoria, e che la differenza è tutta lì: non si tratta di uno strumento passivo di comunicazione, ma di uno strumento attivo di registrazione, di un archivio, di un sistema di costruzione della realtà sociale e di mobilitazione della intenzionalità individuale e collettiva.
Senza registrazione ci sono alberi e sedie ma non matrimoni o titoli nobiliari, crisi economiche o premi Nobel. È così da sempre, ed è per questo che documenti, monumenti e riti sono così importanti. È la documentalità, ancora più importante della “governamentalità” di cui parlava Foucault, perché ne è la condizione: niente potere senza registrazione. La novità è che il web porta alla luce del sole ciò che in altri tempi era un arcanum imperii. Chiamo questa situazione “documedialità” (documentalità + medialità), la condizione emersa con la diffusione capillare del web, e di cui non abbiamo ancora preso le misure: è tra noi, ma non si sa che cos’è, e si pensa magari che sia il sogno di uno scienziato pazzo.
Non lo dico tanto per parlare: nella calma di agosto si è letto un articolo in cui si sosteneva che il grande dittatore, Putin, disporrebbe di un apparato diabolico, il Nooskop, capace di scrutare nelle anime dei suoi sudditi: «una specie di computer collegato a sensori di diverso tipo che registrano tutto quello che è successo nel tempo e nello spazio, fino alle transazioni delle carte di credito e agli scambi di ogni genere tra persone». Che perversità, che malizia: ma perché una specie di computer? E perché chiamare “Nooskop” quello che c’è già, e si chiama web?
Il Nooskop, o web che dir si voglia, è l’assoluto, letteralmente: con ciò che è absolutus, che non ha legami. Il web è una rete che lega tutto e che non è legata a nulla - tranne, e non è un dettaglio, alla rete elettrica. Ma non c’è assoluto che non abbia a sua volta dei vincoli tecnici, si pensi alle dispute trinitarie o ai problemi della dialettica hegeliana.
Dunque, e sia pure con il suoi legami pericolosi con la rete elettrica, il web è l’assoluto: il sapere assoluto, sul mondo e su noi stessi. La mobilitazione è il risultato primario di questo assoluto. Siamo continuamente stimolati ad agire, a fare cose (nel caso minimo, a rispondere). Il web è il solo apparato che può spingere qualcuno a lavorare dovunque e a qualunque ora, e magari a farlo gratuitamente, per esempio alimentando i social network o dando, attraverso la propria attività in rete, informazioni su di sé utili a terzi.
Perché è impossibile non rispondere all’appello? Come funziona il comando? Per responsabilizzazione: hai ricevuto il mio messaggio, so che lo hai ricevuto (specie se hai whatsapp), tutto è registrato, bisogna che tu risponda altrimenti è come se tu distogliessi lo sguardo dal volto dell’altro. Per ritorsione: se non mi rispondi, la prossima volta che mi cerchi non rispondo, e alla lunga sarà la morte civile. Per minaccia: se non mi rispondi, ci sono decine (centinaia, migliaia) di altri che risponderanno al tuo posto. La base di questi atteggiamenti è la registrazione. All’epoca del fisso, le chiamate non lasciavano traccia, adesso ognuna lascia traccia, e in gran parte sono scritte - non ci sono scuse, siamo colpevoli.
Si tratta di alienazione, come si dice e si ripete? No. La tecnica non è alienazione, ma rivelazione di quello che noi siamo, animali bisognosi di tecnica, e prontissimi a scambiare una libertà immaginaria con una sicurezza e un conforto reali. Niente è più falso della sentenza di Heidegger secondo cui solo l’uomo ha un mondo, mentre l’animale sarebbe povero di mondo. Solo gli umani, per esempio, sanno, e fin troppo bene, che cosa sia la povertà materiale e soprattutto solo gli umani sperimentano, in loro e nel loro prossimo, la povertà di spirito, e se “avere un mondo” ha un senso qualsiasi, questo si rivela nella povertà piuttosto che nella ricchezza.
Il bastone è la più rudimentale delle tecnologie, ma lo smartphone è il più sofisticato dei bastoni. Se le cose stanno così, bisogna capovolgere la prospettiva: solo l’uomo è povero di mondo e proprio per questo ha bisogno di tecnica, e anzitutto di quelle tecniche capitali che sono la cultura e le libertà, cioè appunto la ragion pratica.
Che siano tecniche lo si capisce dal fatto che richiedono esercizio, abilità, istituzioni e fatica: cultura e libertà non scendono dal cielo. Che siano capitali dipende dalla circostanza per cui cultura e libertà sono le uniche capaci di uno sviluppo riflessivo. Nessuno ha previsto gli sviluppi della ruota, del fuoco, della scrittura o del web, ma ognuna di queste tecniche ha aiutato la cultura a rispondere alla domanda: che cosa è l’uomo? E questa consapevolezza ha insegnato a quell’altra tecnica che è la libertà a rispondere, con l’azione politica e con la decisione morale, agli imperativi di altre tecniche, che sono tassativi solo per chi (in genere, per mancanza di cultura) pretende che lo siano.
Di qui l’esigenza, anzitutto per il web, di una basilikè téchne (la tecnica politica che cerca il meglio per la società) per esprimersi con Platone, e di una educazione della volontà, come diceva Kant. Cioè appunto di una ragion pratica. Sembra ovvio ma non è così: basti considerare che la tecnica sembra riassumersi ancor oggi, nei programmi di insegnamento, nella trinità Inglese-Internet-Impresa, e che la riflessione più critica si limita (lo rivela benissimo lo sgomento per il Nooskop) a richieste di tutela della privacy. Ma la tecnica non è solo (per fortuna) una nuova lingua sacra in cui manifestare azioni di cui non si capisce il senso, né la libertà può consistere nella libertà puramente negativa del non lasciare tracce, del diritto all’oblio.
Sarebbe impotenza e in molti casi ingiustizia. No: la ragion pratica del web deve consistere in una libertà positiva, e la speranza va riposta nel progresso di quella tecnica peculiare che è la cultura umanistica. La cultura è ragion pratica. Non è erudizione, è il tentativo di capire il presente e di trasformarlo, anzitutto guardando all’umano senza farsi troppe illusioni.
È proprio di qui che si deve partire, per rilanciare la cultura che, ripeto, non è il contrario della tecnica, ma è la tecnica in senso eminente, ed è anche l’unica tecnica che può, in linea di principio, essere guidata da una ragion pratica - dove “pratico” va inteso in senso kantiano: ciò che è possibile attraverso la libertà, una libertà che è a sua volta una tecnica, la più difficile.
Bulgaria 1943 l’olocausto sventato
23.01.1992 - Sofia
Una storia sconosciuta. Così nel Paese alleato di Hitler la mobilitazione popolare salvò gli ebrei.
[di Enrico Deaglio] *
Difficile scegliere, in questi giorni di cinquantesimo anniversario della Conferenza nazista di Wannsee, il sintomo più cupo del razzismo nell’Europa di oggi. Se la lingua tagliata di Berlino, le coltellate di Roma, le teste rasate di Vienna o il Mein Kampf, best-seller in Polonia. Spero allora che sia sollievo per i lettori apprendere la storia di un olocausto che non avvenne, semplicemente perché un popolo lo impedì.
Una storia sconosciuta, avvenuta in un Paese lontano, la Bulgaria. Tra le poche tracce che ne restano, due brevi comunicati radio.
Il primo è di Radio Berlino, che il 20 maggio 1943 annunciava, con burocratica sicurezza, l’imminente deportazione dei ventimila ebrei di Sofia, una delle tante tappe previste nella “Endoesung der Judenfrage”, la “soluzione finale del problema ebraico” decisa l’anno prima nella villa a Wannsee.
Il secondo è della Bbc. Il 24 maggio, il suo servizio internazionale informava di una manifestazione di protesta a Sofia. Migliaia di persone in piazza avevano impedito la partenza dei convogli nazisti. La deportazione non aveva avuto luogo. Una ribellione, in un Paese occupato, nell’angolo più sperduto della guerra, seguiva di un mese l’insurrezione del ghetto di Varsavia. Poi, però, non si seppe più nulla.
La Bulgaria era da due anni alleata del Reich; il suo re, Boris III, discendente di una nobile famiglia prussiana, aveva ottenuto da Hitler l’appoggio militare per una espansione territoriale, a spese di Romania, Jugoslavia e Grecia. Un caso abbastanza tipico di do ut des balcanico.
Gli avvenimenti seguirono con rapida cadenza. Il 21 gennaio 1941, il Parlamento bulgaro votò (pur fra fortissime opposizioni) una legge antisemita imposta dalla Germania. Il 3 marzo, l’“esercito fratello” entrò nel Paese. Il 2 aprile, con l’appoggio militare tedesco, i bulgari presero possesso di ampie zone della Serbia meridionale, della Macedonia e della Tracia. Ma i tedeschi si dimostrarono subito molto scontenti del loro nuovo alleato: i bulgari si rifiutavano ostinatamente di mandare i propri soldati a combattere contro l’Unione Sovietica; e per quanto riguardava il programma antisemita, le loro leggi apparivano ai funzionari nazisti del tutto ridicole.
Il servizio informazioni di Himmler comunicava a Berlino che le limitazioni di orario e di residenza imposte agli ebrei non venivano rispettate, che la stella gialla obbligatoria sui vestiti era “piccolissima” e che la ditta incaricata di fornirla aveva addirittura sospeso la fabbricazione. Un altro rapporto informava Berlino che a Sofia gli ebrei che passavano per strada con la stella gialla erano salutati “con manifestazioni di simpatia”, che il metropolita Stefan simpatizzava con loro, che a fianco degli ebrei si erano schierati molti parlamentari e associazioni di professionisti.
Gli ebrei erano presenti in Bulgaria, come in tutta la Penisola Balcanica, fin dal 1200. Poi arrivarono, a partire dal 1492, i “sefarditi” cacciati dalla Spagna, che, nei secoli, conservarono, con pochissime modifiche, la loro lingua spagnola. Elias Canetti ha definito la sua una “infanzia meravigliosa” in una città bulgara del Basso Danubio, Rustschuk, dove “in un solo giorno si potevano sentire sette o otto lingue” e si scambiavano commerci e libri tra bulgari, turchi, greci, albanesi, armeni, ebrei spagnoli. E con zingari che venivano ogni tanto ad accamparsi. E così doveva essere in tante altre cittadine. In Bulgaria gli ebrei spagnoli non conobbero mai i ghetti, fecero parte invece di un naturale “melting pot”. Non si diffusero le tendenze hassidiche, così forti in Polonia e in Russia.
A Sofia, all’inizio del secolo, una borghesia ebraica viveva nel centro della città a fianco della grande sinagoga, peraltro adiacente al tempio della Chiesa ortodossa e alla moschea musulmana. In un altro quartiere, Yuchbunar, abitavano gli ebrei artigiani, piccoli commercianti, o operai. C’erano poi i militanti del sindacato socialdemocratico, i giornali, in cirillico o in ebraico con gli apprezzamenti per Carlo Marx e per la grande rivoluzione del 1917 a Pietroburgo, quei socialisti russi che avevano sostenuto i bulgari nella guerra contro l’oppressione dell’Impero Ottomano.
Ci furono anche in Bulgaria, come nel resto d’Europa, movimenti fascisti, ma ebbero scarso seguito, confinati nell’ambiente universitario: in Bulgaria, lo stereotipo dell’“ebreo alieno” non ebbe mai successo. Nella loro maggioranza, politicamente conservatori, gli ebrei bulgari ebbero piuttosto una grande simpatia per le teorie sioniste di Theodor Herzl, da molti indicato come il Messia.
Secondo i programmi di Wannsee, gli ebrei da avviare ai mattatoi della Polonia erano 48 mila, uno su cento della popolazione bulgara. L’attuazione del piano venne affidata da Adolf Eichmann al suo vice Theodor Dannecker (già organizzatore delle deportazioni dalla Francia) e all’ambasciatore tedesco a Sofia, Adolf Beckerle.
Si decise di cominciare con i 20 mila ebrei residenti nelle zone di Serbia e Grecia appena occupate dalla Bulgaria. Il 22 febbraio del 1943 vennero rastrellati 11.450 ebrei. Le poche testimonianze parlano di uomini e donne con berretti di agnello e scialli variopinti ammassati sui carri merce, spaventati ed incapaci di comprendere quello che stava accadendo. Venivano da vallate remote dove avevano sempre vissuto in pace con i loro vicini, o da città che erano poco più che villaggi. Dal campo di sterminio di Treblinka, cui vennero avviati, ne tornarono solamente 11.
Per l’inizio di marzo venne fissata la partenza di 6 mila ebrei residenti nella stessa regione, ma in territorio della Bulgaria storica, da concentrare nella cittadina di Kustendil. Ma qui successe il primo imprevisto. Gli ebrei di Kustendil informarono i loro deputati di quello che era nell’aria e questi corsero a Sofia.
La delegazione venne ricevuta dal vicepresidente del Parlamento, Peshev, che la portò al ministro degli Interni, Grabowsky. In poche ore vennero raccolte 42 firme di deputati dei partiti della maggioranza filotedesca, che con veemenza condannavano l’operazione. Il governo comunicò ai nazisti che l’operazione doveva ritenersi “sospesa per 90 giorni”.
A maggio i nazisti tornarono alla carica. Questa volta furono indicati come obbiettivo i 20 mila ebrei di Sofia. Un editto ordinò loro di presentarsi alla stazione il 24 maggio, giorno di Cirillo e Metodio, inventori dell’alfabeto cirillico, festa nazionale.
Quel giorno, a Sofia, successe un evento unico in tutta Europa. A gruppi, gli ebrei cominciarono a manifestare. Alcuni si recarono alla grande sinagoga, altri a quella del quartiere popolare di Yuchbunar, dove il rabbino promosse una manifestazione. Venne deciso di marciare verso il palazzo reale. Partirono in poche centinaia, ma dalle case di Sofia molti cominciarono a scendere in strada. I manifestanti divennero migliaia, i gruppi comunisti clandestini tra i più attivi. La stazione venne presidiata, mentre il corteo affrontava la polizia e gli attoniti ufficiali delle SS. Ci furono 400 arresti, ma i treni rimasero vuoti. Il governo autorizzò solamente lo sfollamento degli ebrei dalla capitale verso le campagne.
In una serie di comunicati stizziti, Beckerle e Dannecker comunicarono a Himmler che “i bulgari mancano della illuminazione ideologica dei tedeschi. Vivendo da troppo tempo con armeni, greci e zingari, il popolo bulgaro non vede nell’ebreo difetti che giustifichino misure speciali contro di lui”.
Nei mesi successivi continuarono a riferire a Berlino che anche nelle campagne gli ebrei erano “ben accolti” e che “non c’era nulla da fare”. Nell’agosto del 1944, con l’avvicinarsi dell’Armata Rossa, le leggi antisemite vennero revocate: alla fine della guerra non un solo ebreo bulgaro era stato deportato.
Gli storici definiscono il “caso bulgaro” una “anomalia”. Hannah Arendt ricordò un antecedente di fierezza di quel popolo nella vicenda di Georgi Dimitrov, il comunista bulgaro accusato nel 1933 a Berlino dell’incendio del Reichstag. Portato a processo, venne interrogato da Goering, ma da accusato si trasformò in accusatore. Fu assolto. Ammirato da tutto il mondo, tanto che si disse: “In Germania oggi è rimasto un solo uomo, ed è un bulgaro”.
Ma forse gli avvenimenti di Kustendil e di Sofia furono solo un fantastico caso di normalità, di quelle che creano imbarazzo: un Parlamento decoroso, una opinione pubblica civile e coraggiosa, una Chiesa solidale con gli oppressi.
Il reporter Roberto Pistarino - giramondo con telecamera - ha ritrovato nei mesi scorsi i ricordi di questa storia a Sofia, intervistando protagonisti e testimoni. Oggi in Bulgaria vivono in tutto 2500 ebrei; gli altri emigrarono tutti in Israele: si realizzava il loro vecchio sogno sionista, mentre il comunismo applicato non prometteva niente di buono. Theodor Zivkov, il segretario del pc fino al 1989, cercò negli Anni 50 di ottenere una candidatura al Nobel per la pace, ma non riuscì mai a provare di avere avuto un ruolo preminente nel salvataggio degli ebrei di Sofia.
Per il resto non esiste molto. Due libri elogiativi dell’opera del partito comunista, un piccolo circolo ebraico - “Shalom” - e un film documentario girato nel 1987 dalla regista Ivanka Grabceva sugli avvenimenti del 1943. Venne finanziato dalla televisione di Stato, ma non andò mai in onda, perché il partito comunista non vi appare come l’unico protagonista. La regista ha però il permesso di regalarne tre cassette a visitatori stranieri che ne facciano motivata richiesta. Nella grande sinagoga di Sofia è conservato il più importante archivio delle memorie sefardite, ma è quasi impossibile poterlo consultare.
Autore: Enrico Deaglio
Fonte: La Stampa
* http://www.bulgaria-italia.com/bg/news/news/02453.asp
La lettera di protesta di Dimitar Peshev (17.03.1943) *
Egr. Sig. Primo Ministro
Il senso di grande responsabilità storica che condividiamo in questo momento con il governo, la nostra costante fedeltà alla sua politica e al regime, così come il nostro desiderio di contribuire in ogni modo al suo successo, ci danno il coraggio di rivolgerci a Lei, sperando che lo consideri un passo fatto con sincerità e in buona fede...
Alcune recenti misure adottate dalle autorità dimostrano la loro intenzione di prendere nuovi provvedimenti contro le persone di origine ebraica. Da parte dei settori responsabili non vengono fornite spiegazioni né sulla natura di questi provvedimenti, né sui criteri con cui sono stati presi, sulla loro motivazione e sul loro scopo. In una conversazione con alcuni deputati, il Ministro degli Interni ha confermato che non ci sono ragioni per adottare delle misure eccezionali contro gli ebrei dei vecchi confini. In pratica, queste misure sono state annullate.
Considerato tutto questo e in base a nuove voci, abbiamo deciso di rivolgerci a Lei, sicuri che tali misure possono essere prese solo a seguito di una decisione del Consiglio dei Ministri. La nostra unica richiesta è che vengano prese in considerazione solo quelle misure riguardanti le reali necessità dello Stato e della nazione nel momento attuale e che non vengano dimenticati gli interessi relativi al prestigio e alla posizione morale della nostra nazione.
Non vogliamo contestare alcuna misura imposta dalle ragioni di sicurezza dettate dai tempi in cui viviamo, perché sappiamo che chiunque tenti di ostacolare gli sforzi dello Stato e del popolo, direttamente o indirettamente, dovrà essere neutralizzato. Ci riferiamo a una linea politica adottata dal governo con la nostra approvazione e collaborazione, una politica alla quale siamo stati fieri di partecipare con tutto il nostro prestigio e le nostre ricchezze. L’eliminazione di ogni ostacolo al successo della sua politica è un diritto dello Stato e nessuno lo può negare, ma esiste un limite alle necessità reali e non bisogna cadere negli eccessi che si possono definire "crudeltà inutili". E questo può essere considerato il caso in cui vengano prese delle misure contro donne, vecchi e bambini, che a livello individuale non abbiano commesso alcun crimine.
Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone - cittadini bulgari - non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandole in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali.
Le piccole nazioni non possono permettersi di trascurare questi argomenti, che, qualsiasi cosa accada in futuro, costituiranno sempre un’arma potente, forse la più potente di tutte. Per noi questo è molto importante perché, come Lei forse ricorderà, in un recente passato abbiamo sofferto pesanti perdite morali e politiche, a causa delle deviazioni dalle leggi umane e morali da parte di alcuni bulgari e spesso per colpa di persone irresponsabili. Quale governo bulgaro potrebbe assumersi una simile responsabilità riguardo al nostro futuro?
L’esiguo numero di ebrei in Bulgaria e il potere dello stato, che ha a disposizione tante leggi e tanti mezzi, rendono innocuo ogni elemento pericoloso o dannoso, a qualsiasi strato sociale appartenga, al punto tale che, secondo noi, è del tutto inutile adottare nuove misure eccezionali e crudeli, che potrebbero condurre a un massacro. Una cosa del genere si ritorcerebbe soprattutto contro il governo, ma colpirebbe anche la Bulgaria. È facile prevedere le conseguenze che una simile situazione potrebbe avere ed è per questo che ciò non deve succedere.
In base a queste considerazioni non ci sentiamo di assumere alcuna responsabilità su questo punto. Un minimo livello di legalità è necessario per governare, come l’aria è necessaria alla vita. L’onore della Bulgaria e del popolo bulgaro non è solo una questione di sentimento, è soprattutto un elemento della sua politica. È un capitale politico del massimo valore ed è per questo che nessuno ha il diritto di usarlo indiscriminatamente se il popolo intero non è d’accordo.
Le inviamo i nostri più rispettosi ossequi.
Sofia, 17 marzo 1943
Seguono le firme dei 43 deputati della XXV Assemblea Nazionale. Tratto dal Fondo n. 1335, u.a. 85, Sofia Archivio Storico Nazionale.
Dimitar Peshev fu informato un suo vecchio compagno di scuola ebreo proveniente da Kjustendil che il governo, in accordo coi tedeschi, stava preparando per il giorno dopo la deportazione segreta della minoranza ebraica. I treni erano già stati predisposti nelle stazioni. La notte successiva gli ebrei dovevano essere rastrellati e caricati sui vagoni, che sarebbero partiti la mattina dopo per la Polonia.
"Era il 7 marzo del 1943. Tutto era stato deciso in gran segreto per non mettere in allarme la popolazione. Peshev, in effetti, aveva sentito circolare strane voci, ma come tutti, allora, non se n’era preoccupato. Ora, di fronte a un amico che gli chiedeva di aiutarlo, ebbe come un sussulto, un risveglio della coscienza. Si scosse dal suo torpore e agì d’istinto, con l’idea, in un primo momento, non tanto di salvare un popolo, quanto di aiutare i suoi amici di Kjustendil. Si precipitò in parlamento, radunò qualche altro deputato, piombò di sorpresa nell’ufficio del ministro degli interni Gabrovski e dopo uno scontro drammatico lo costrinse a revocare l’ordine della deportazione. Poi telefonò personalmente a tutte le prefetture per verificare che il contrordine fosse stato rispettato."
Poiché in questo modo la deportazione era stata solo sospesa, Peshev decise di lanciare un’offensiva in parlamento. Si era reso conto che in gioco non c’era soltanto la vita di qualche amico, ma la salvezza dei cinquantamila ebrei bulgari. Non c’era un minuto da perdere: stese una lettera di protesta molto dura e raccolse le firme di una quarantina di deputati per chiedere al governo e al re di non commettere un crimine così grande, che avrebbe macchiato per sempre l’onore della Bulgaria.
tratto dal libro di Gabriele Nissim - "L’uomo che fermò Hitler"
Cambiare il mondo è un gesto individuale
Il realismo è la denuncia delle trasformazioni sociali che si vorrebbero realizzare in poltrona o in panciolle
Non esiste una natura umana perfetta e poi, chissà come alienata da entità vaghe, il Capitale, la Tecnica, la Storia
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 10.05.2016)
Il caso di Dimitar Josifov Pešev, il “giusto” che con una lettera al premier bulgaro salvò decine di migliaia di ebrei Un esempio di come il bene o il male si perseguano con azioni reali e non soltanto con il pensiero Dimitar Josifov Pešev, uomo senza qualità e senza eroismi, politico di seconda fila in una piccola nazione (era vicepresidente del Parlamento bulgaro), aveva accettato senza obiezioni le leggi antisemite introdotte nel suo Paese, non aveva firmato proteste o manifesti. Ma quando, il 7 marzo 1943, apprese che stava per essere avviata la deportazione di 48 000 ebrei, che lui non aveva mai creduto possibile, scrisse al primo ministro denunciando il fatto, riuscì a ottenere la firma di altri 43 parlamentari, e suscitò uno scandalo che costringerà lo zar di Bulgaria a resistere alle richieste dei nazisti.
Scriveva Pešev: «Non possiamo credere che ci siano dei piani per deportare questa popolazione dalla Bulgaria, come suggeriscono alcune voci a danno del governo. Tali misure sono inammissibili, non solo perché queste persone - cittadini bulgari - non possono essere espulse dalla Bulgaria, ma anche perché ciò avrebbe serie conseguenze per il Paese. Sarebbe un’indegna macchia d’infamia sull’onore della Bulgaria, che costituirebbe un grave peso morale, ma anche politico, privandola in futuro di ogni valido argomento nei rapporti internazionali».
Nessun ebreo sarà deportato dalla Bulgaria. La disubbidienza non basta, e la resistenza si deve trasformare in esemplarità: non esiste una natura umana perfetta e poi, chissà come, alienata da entità numinose e vaghe (il Capitale, la Tecnica, la Storia). Ciò che esiste sono singoli esemplari di umanità per il bene e per il male - Caracalla che estende la cittadinanza romana agli uomini liberi dell’Impero, Eichmann che organizza il traffico ferroviario verso i Lager, Kohl che decide che la Germania si faccia carico dei costi dell’unificazione. E tanti esempi che non sono consegnati alla storia, e che fanno parte del modo in cui ognuno agisce e pensa, spesso generando difficoltà agli psicoanalisti.
Tra i primi e i secondi ci sono storie intermedie, quelle degli uomini comuni come Pešev, un eroe alla Spielberg, come Schindler o il Donovan del Ponte delle spie. Il suo caso è l’esemplificazione del principio secondo cui lo statuto morale di una persona è determinato dal suo rapporto con norme che non sono morali ma pragmatiche e storiche, ed è in relazione a queste che bisogna impegnarsi moralmente. Ecco perché quelli come Pešev sono stati chiamati “Giusti”: non eroi ma persone normali che hanno scelto; è questo credo a introdurre la giustizia come responsabilità di fronte al mostrarsi del reale. Cercare invece la perfezione morale nella purezza delle proprie intenzioni, che hanno la disastrosa tendenza a trasformarsi in ideali, è confermare il detto secondo cui la strada dell’inferno è lastricata di buone intenzioni. E se ci fosse stato un Pešev in Italia, in Francia, in Polonia, in Olanda? E se Pešev fosse stato persuaso che la vera azione e la vera pietà sono quelle del pensiero? Se invece che una lettera al primo ministro avesse scritto un romanzo o annotato un pensiero in un moleskine, o su un quaderno nero à la Heidegger?
“Realismo” non significa semplicemente sostenere che esistono tavoli e sedie: questo lo sanno anche gli antirealisti, sebbene poi si ostinino a sostenere che non sono tavoli né sedie in sé ma tavoli e sedie per noi. Meno che mai vuol dire che accertare la realtà significhi accettarla, rinunciando alla trasformazione. È vero il contrario. La trasformazione, o la rivoluzione, è possibile e doverosa, ma richiede azioni reali, e non semplici pensieri. Il realismo è denuncia delle rivoluzioni fatte solo nel pensiero, delle rivoluzioni in poltrona e in panciolle. Pešev non era un ribelle di professione. Con la sua azione teoricamente semplice ma praticamente coraggiosa, ha provato il discontinuo: che la libertà esiste, e ha mostrato la possibilità dell’impossibile, la fattibilità reale di qualcosa che non ha ancora avuto luogo. Qualcosa che è “fuori dagli schemi”.
È importante che l’azione esemplare sia individuale. Non c’è bisogno di sviluppare un culto degli eroi alla Carlyle, imboccando la strada che porta al superuomo e alle fanfaronate di Zarathustra. Basta che l’azione sia espressione di un individuo prima che di un’idea e di un imperativo categorico - presentandosi come una infrazione delle regole, come una sorpresa affine al motto di spirito piuttosto che come l’attuazione di un programma: al limite (e può bastare e avanzare) come l’«avrei preferenza di no» di Bartleby lo scrivano.
È necessario emanciparsi? È giusto ribellarsi? Dipende. Guidare la moto senza casco è un atteggiamento ribellistico, e chi ha posteggiato l’auto in terza fila è anche lui a suo modo un ribelle, senza gli attributi di nobiltà feudale che Jünger attribuisce a questa parola. Quanto poi all’emancipazione, è anzitutto emancipazione dalla stupidità, ma ovviamente non basta. Dopo aver pensato e ragionato, si prende comunque una decisione, che si rivela indipendente da tutti i calcoli che l’hanno preceduta, perché, d’accordo con Kierkegaard, «l’istante della decisione è una follia»: è per l’appunto la sospensione del continuum dei ragionamenti, l’introduzione di un discontinuo. «Il mondo è fuori dai gangheri ( out of joint) », dice Amleto - e proprio perché è il mondo lì fuori a essere fuor di sesto che ho lo stimolo (che certo può essere sbagliato o catastrofico) a rimetterlo in sesto.
2013, nov 27*
Della terra, il brillante colore
Il libro di Federico La Sala offre un punto di vista raro. Quello di un pensiero maschile che osserva e riflette e su alcuni pilastri del pensero filosofico occidentale in modo non neutro ma a partire dal riconoscimento della propria parzialità - di individuo e di genere.
Il libro si compone di più saggi che affondano nel profondo delle nostre radici culturali come “carotaggi” a campione. La sensazione all’inizio spaesante di saltare da un frammento all’altro in campi diversi del sapere e in momenti diversi della storia è ricomposta nel filo conduttore che pian piano si manifesta. Più che un filo conduttore teorico, la tensione etica, intellettuale, di cuore, di un essere umano in ricerca.
Nella prima parte del testo l’autore si spinge in regioni dove la religione cattolica si intreccia con la tradizione ermetica. Incontriamo Ermete Trismegisto e la grande stagione Rinascimentale poi affogata nel rigore censorio della Controriforma. Incontriamo diverse manifestazioni delle Sibille, qui visibili nella riproduzione di xilografie di Filippo Barberi (1481) - una versione inedita. Percorsi incrociati tra Kabbalah, carmelitani e profeti islamici.
Sembra di navigare su un fiume sotterraneo che congiunge Oriente e Occidente. Così arriviamo alle note su Parmenide, Freud, Kant, Rousseau - tra gli altri. L’autore offre spunti e visioni prendendoli da un bagaglio di conoscenze che spazia dalla storia della religione alla filosofia alla psicoanalisi. Si alternano luce solare e lunare. Tra le tante le citazioni, il ritmo conciso e il gesto schietto, senza pose accademiche, rendono la lettura scorrevole. Nella pennellata di Fulvio Papi nell’introduzione, sulla spinta della lettura di questo “testo in piena”:
La Sala, con una mossa certamente ad effetto e piena di provocazione, dice: “guardiamo il nostro ombelico”, riconosciamoci come figli di una maternità e di una paternità che siano la terra del nostro fiorire e non i luoghi delle nostre scissioni.
Della terra, il brillante colore. Parmenide, una “Cappella Sistina” carmelitana con 12 Sibille (1608), le xilografie di Filippo Barbieri (1481) e la domanda antropologica
di Federico La Sala,
Edizioni Nuove Scritture, Milano, 2013
156 p., 15€
* E.C.
I filosofi Vattimo e Zabala criticano i “nuovi” guru del Realismo.
“Dietro la loro visione, il richiamo all’ordine di una società immutabile”
”In un mondo di emergenze continue in realtà non accade mai niente”
«l’unica emergenza è l’assenza di emergenza», come ha detto Heidegger.
di Gianni Vattimo Santiago Zabala (La Stampa, 14.07.2015)
Leggiamo, sui giornali e sul web, che esiste un nuovo movimento filosofico chiamato «nuovo realismo» o «realismo speculativo». I suoi principali fautori sono giovani filosofi europei come Quentin Meillassoux e Gabriel Markus, tra gli altri. Contro l’idealismo, la fenomenologia e l’ermeneutica sostengono che sia possibile accedere alle qualità primarie del mondo come se esistesse per se stesso, senza dipendere dal linguaggio e dall’interpretazione. Vogliono tornare al Grande Di Fuori (le Grand Dehors) che è costituito di oggetti indipendenti, cioè «una realtà mai esaurita da alcuna relazione con gli esseri umani o con altre entità», come spiega il filosofo americano Graham Harman.
Secondo questi pensatori, siamo stati troppo a lungo imprigionati dalla «svolta linguistica» e dal conflitto delle interpretazioni, per cui l’esistente è soltanto la correlazione con un soggetto che lo concepisce. La filosofia della svolta linguistica ha negato al pensiero qualsiasi accesso razionale alle cose in se stesse, dando risalto a discorsi senza fondamento sulle opere d’arte, le credenze religiose e persino sugli animali.
Contro questi studi i «nuovi realisti» sostengono che si debba tornare all’assoluto pensato come realtà fisica. In altre parole, credono in una realtà indipendente da noi, che soltanto la matematica può spiegare, sebbene, come ha sottolineato Slavoj Zizek qualsiasi «campo di “realtà” (qualsiasi ”mondo”) è già sempre strutturato, visto attraverso un’invisibile cornice». Ma questo ritorno alla realtà sarà in grado di guidare le nostre esistenze individuali o sociali?
Non ci interessa valutare se questi filosofi dicano davvero qualcosa di nuovo, in filosofia cosa sempre sospetta, piuttosto vogliamo capire che cosa si nasconde dietro il loro approccio teoretico. E’ curioso, come fa notare il filosofo britannico Simon Critchley, «che mentre un ceppo della filosofia anglo-americana (si pensi a John McDowell e Robert Brandom) adotta punti di vista di Kant, di Hegel e Heidegger, arrivando persino a flirtare con certe forme di idealismo, gli ultimi sviluppi della filosofia continentale siano un ritorno a un realismo cartesiano che si riteneva morto e sepolto».
Sebbene questi «nuovi» filosofi giustifichino il loro credo teoretico in forme diverse, spesso da un punto di vista matematico, in modo da dimostrare - nonostante Thomas Kuhn - la supposta stabilità della comprensione scientifica del mondo, crediamo che la loro opera faccia parte di un globale richiamo all’ordine. Tutto questo non è molto diverso, come ricorda il filosofo americano Arthur C. Danto da «ciò che dopo la Prima Guerra mondiale fu chiamato in Francia “rappel à l’ordre”, un richiamo all’ordine, in cui gli artisti dell’avanguardia furono invitati a mettere da parte i loro esperimenti e a rappresentare le cose in modi che potessero rassicurare chi aveva visto il proprio mondo devastato dalla guerra». Ma che cosa significa ordine nel XXI secolo, dopo la fine del comunismo, delle ideologie e della stessa storia?
Al contrario di quanto ci si possa in un primo tempo aspettare, quest’ordine non si riferisce a una realtà che debba essere rispettata o imposta, ma a una assenza di eventi ed emergenze che sembra costituire la condizione del nostro mondo globalizzato. Sebbene la nostra vita quotidiana e i giornali siano pieni di «eventi» ed «emergenze», l’impressione dominante dei cittadini dei paesi industrializzati è che non accada più nulla: la realtà è fissata e stabile.
L’assenza di emergenza è la conseguenza di un mondo dove la politica, la finanza e la cultura sono state incapsulate in parametri prestabiliti. Il problema non è soltanto che questi parametri siano stati decisi in precedenza, ma piuttosto che sono stati concepiti per salvarci dalle emergenze, da tutto ciò che emerge come differente. Le differenze escluse includono le alternative politiche, come il movimento Occupy, la riforma globale della finanza come chiede Piketty, o la sopravvivenza delle facoltà umanistiche nelle università. Forse la partecipazione dei cittadini al voto, le richieste dei governi di mettere fine alle politiche di austerità della Bce, la partecipazione degli intellettuali alla sfera pubblica, stanno declinando in tutta l’Europa perché domina una generale rassegnazione, che nemmeno una crisi economica come quella che stiamo vivendo riesce a scalfire. Come dovremmo rispondere a queste condizioni se non interessandoci alla realtà?
Il nuovo realismo «orientato verso gli oggetti» ci chiede di accettare quest’assenza di emergenza e di comportarci di conseguenza. Dopo tutto, quando accettiamo che il mondo com’è in se stesso è il nostro stesso mondo, affidiamo alla matematica e alla fisica il compito di formulare una corretta ontologia della natura.
Chiunque non si sottometta all’attuale assenza di emergenza sbaglia, o peggio sta dalla parte sbagliata della realtà, se non dalla parte sbagliata del confine. Questo non concerne solo la filosofia ma la sociologia, la psicologia e l’economia, così strettamente legate ai loro osservatori, agli interpreti, alle comunità in cui operano. E sono proprio queste comunità che si perdono appena torniamo alla «realtà» per sottometterci ad essa. Invece di stringere le corde dell’ordine sociale che accompagna l’assenza di emergenze della realtà, è necessario indebolire ulteriormente quest’ordine, perché «l’unica emergenza è l’assenza di emergenza», come ha detto Heidegger.
Niente di nuovo, niente di realistico, niente di filosofico
di FRANCA D’AGOSTINI *
1. Nuoveau realistes
Quando (intorno all’anno 1978) apparve il fenomeno mass mediatico ed editoriale dei «nouveaux philosophes», chiesero a Gilles Deleuze «che cosa pensi dei nuovi filosofi?» e il filosofo francese, maestro dei «maestri di Parigi» (perché da lui provenne il meglio del post-strutturalismo) rispose: «niente». In effetti, era difficile dire che cosa ci fosse propriamente “da pensare” nell’operazione di Bernard Henry Lévy, André Glucksmann e compagni.
Non si trattava di filosofia ma di una minestra molto riscaldata di tesi diventate quasi ovvie (per esempio l’affinità tra il totalitarismo comunista e quelli nazista e fascista), rovesciate nella zuppiera della casa editrice per cui Lévy lavorava, e di vari giornali e televisioni, e offerta da personaggi in camicia bianca e capelli scompigliati ad arte.
Qualcosa di molto simile sta succedendo, mi sembra, con il «nuovo realismo», il «movimento filosofico» di cui si insiste a dare notizia da circa due anni, su Repubblica (l’ultimo annuncio è del 25/10) e in vari altri luoghi. Ma in modo ancora più triste e confuso. Anzitutto perché nel caso dei nouveaux philosophes era la prima volta che veniva promosso, come si disse, il «supermarket filosofico», ossia il vero e conclamato ingresso della filosofia nel territorio fangoso dei media e della comunicazione di massa.
Dunque almeno la forma del fenomeno (la zuppiera, per così dire) era nuova. Poi perché Glucksmann, Lévy e compagni si avvalevano (pur non riconoscendolo) di un vero movimento di idee nuove che si era prodotto in Francia tra la metà degli anni Sessanta e la metà dei Settanta, il cosiddetto poststrutturalismo o neostrutturalismo.
Invece il nuovo realismo tenta di trasformare in movimento lo sfondo tutt’altro che movimentista della filosofia contemporanea. Perché da tempo in ciò che chiamiamo “filosofia” non c’è più (e per fortuna, io credo) lo strife of systems, la lotta dei sistemi, ma ci sono invece diverse discipline specializzate che operano parallelamente, e che oggi (a quel che so) stanno cercando un quadro di riferimento comune, una “filosofia prima”, direbbe Aristotele. (Io credo anzi che questa filosofia prima si stia di fatto delineando. Ma un conto è cercare e descrivere una nuova filosofia prima, un altro conto è produrre “movimenti”.)
In generale, non c’è mai male nel far circolare parvenze di idee filosofiche, o anche solo i nomi filosofici tradizionali, come “realtà”, “verità” o anche “filosofia”. Perlomeno, si attira l’attenzione sul fatto che esistono problemi relativi a questi nomi, e vale la pena che tutti ne tengano conto. Però c’è sempre un rischio, che non va sottovalutato, ed è il rischio che il risultato ultimo della procedura sia un annientamento dei contenuti sostanziali che la procedura stessa nominalmente promuove.
Più banalmente: ciò che ne fa le spese, nel «nuovo realismo», secondo me è precisamente il nuovo realismo, vale a dire: la nuova consapevolezza collettiva che sta affiorando nella vita pubblica circa i concetti di verità e realtà - e affiora per ragioni molto semplici, di cui in molti hanno parlato ripetutamente (io stessa): per l’avanzare mondiale della democrazia. E ovviamente ne fanno le spese anche le novità importanti che la filosofia recente ha prodotto proprio riguardo ai “super-concetti” filosofici di realtà e verità. In altre parole: ciò che ne fa le spese è il nuovo paradigma di filosofia prima che si sta faticosamente cercando e di fatto forse trovando.
Esattamente nello stesso modo, la nouvelle philosophie azzerò, e rese definitivamente stupida, quell’ipotesi di nuova filosofia (nuovo marxismo, nuova sinistra) che si stava annunciando in quegli anni.
2. Stultificazione
È il fenomeno che chiamo stultificazione, dal verbo inglese to stultify, che significa contraddire, annientare dal punto di vista intellettuale, ma anche rendere irrilevante, stupido. Ed è un fenomeno abbastanza frequente, in filosofia. In una certa misura è quasi inevitabile, quando avviene il contatto tra filosofia e mass media. Però, ripeto: credo che tale contatto sia una buona cosa, e anzi sia in una qualche misura necessario. Non sempre inoltre ha esiti stultificanti. Ma il disastro è assicurato quando nell’ambiente stesso in cui si effettua l’operazione non si ha la minima idea di che cosa sia la filosofia, come funzioni, e perché abbia senso occuparsene, ma circola la confusa percezione che in ciò che si chiama “filosofia” sia in gioco qualcosa di prestigioso, e importante per tutti.
Avviene allora che niente di nuovo, niente di realistico, e soprattutto niente di filosofico venga presentato come espressione di un nuovo realismo filosofico, e sia in qualche modo quasi autorizzato a presentarsi per tale. È quanto accade di fatto con il new realism descritto e propagato da Ferraris, con ostinato e pervasivo metodo di sfruttamento di tutti gli spazi disponibili, e sistematica cancellazione o elusione delle voci dei contrari o dei perplessi (che non siano troppo illustri o potenti per poter essere liquidati o ignorati, nel qual caso dovranno essere rabboniti).
Se cercate in effetti che cosa realmente dicano i nuovi realisti di nuovo e di realistico la risposta di Deleuze è inevitabile: non trovate niente. I due più “movimentisti” del gruppo sono Markus Gabriel e ovviamente Maurizio Ferraris. Il primo è molto giovane, ed è stato ingaggiato in un’impresa da cui era meglio dispensarlo. Il secondo sta da tempo presentando come filosofia una produzione di stile tipicamente postmoderno, fatta di tesi molto vaghe e oscillanti (scienza no, scienza sì, verità no, ma anche sì, documenti ovunque ma non proprio ovunque, testualismo sì, ma debole, costruzionismo sì, ma solo in parte, ermeneutica no, però anche sì ...), e quando non vaghe e oscillanti, polemicamente rivolte contro un antirealismo metafisico (effettiva scomparsa dei fatti, annientati dalle interpretazioni) che nessuno ha mai realmente sostenuto, e che ripetono l’antica polemica di Sokal e Brickmont e di altri contro il postmodernismo.
Gli altri sono vecchi filosofi che non hanno più molto da dire, come Putnam o Searle, e i cui “realismi” (ma discuterei l’uso di questa espressione a loro riguardo) non hanno nulla ma proprio nulla a che fare con i realismi realmente nuovi di cui oggi possiamo parlare. Oppure persone che visibilmente non hanno alcuna vera competenza sul tema del realismo perché non si occupano di metafisica, ma di altro (filosofia del linguaggio, letteratura, architettura, ecc.).
Un autore ufficialmente “nuovo-realista” che sembra avere una certa competenza sull’argomento è Mario De Caro. Se però leggete ciò che De Caro dice (per esempio nel suo intervento in Bentornata realtà, il libro da lui curato con Ferraris: Einaudi, 2012), scoprite con sorpresa che non si dichiara affatto realista, e sembra nutrire anche qualche dubbio sulla stessa locuzione, di per sé considerata. De Caro dice che in filosofia non si tratta di realismo e antirealismo, ma piuttosto di “gradi” dell’uno dell’altro; e quanto a lui non si colloca in nessun punto della scala. Si limita invece a dar conto del fatto che nella metafisica analitica le posizioni realistiche sono diventate più importanti, ma - circostanza per me incomprensibile - evita apertamente di dar conto dell’unico nuovo realismo oggi circolante, quello cosiddetto «australiano» (che peraltro conosce benissimo).
3. Un caso italiano
È mai possibile che il gran clamore suscitato da Ferraris corrisponda davvero a questa esiguità e vaghezza di contenuti? Sì è possibile. E la ragione è molto semplice: perché ci sono altre due importanti differenze da considerare tra i nouveaux philosophes e i nuovorealisti.
La prima è che la nouvelle philosophie emergeva in un’epoca in cui esistevano di fatto ancora “voci” filosofiche autorevoli, che potevano contrastarla, o comunque costituire un’alternativa. In altri termini c’era uno sfondo autentico di filosofia pubblica, entro il quale i nuovi filosofi si rivelavano abbastanza chiaramente per quel che erano. Ed esistevano ancora, come ho detto, e avevano senso, “movimenti” filosofici. Tanto è vero che la nouvelle philosophie fu presto sopraffatta dall’emergere ben più potente e devastante del postmodernismo (creatura principalmente americana),
Invece il nuovo realismo emerge in un’epoca in cui non c’è niente di tutto questo, e forse non ci può essere, e forse è bene che non ci sia. Dunque è abbastanza naturale che la stultificazione nuovorealista e la simulazione di movimento che essa produce operino con efficacia, avanzando nel vuoto, e non trovando reali e seri antagonisti.
La seconda è che i nuoveaux philosophes erano francesi, e i nuovorealisti sono (principalmente) italiani: il che vuol dire molto. Vuol dire, per esempio, che il nuovorealismo di Ferraris è piombato in una comunità scientifica particolarmente dissestata da povertà di mezzi e corruzione, e dai frutti naturali dell’una e dell’altra: il declino inevitabile della qualità intellettuale e morale.
Oggi molti contrastano questo andamento nazionale, e la generazione degli studiosi più brillanti e onesti non si trova solo all’estero: anche nell’università italiana ne incontriamo. Ma proprio qui incomincia il rischio: che il “movimento” di costoro (che ovviamente non è filosofico, né ideologico, e meno che mai metafisico ma semplicemente politico-morale) risulti stultificato e annullato da qualcosa che gli assomiglia, ma non è affatto la stessa cosa. Perché in molti sappiamo che c’è qualcosa di nuovo in filosofia, e anche nel pensiero comune; ma non sembra essere quello che con gran clamore ci viene detto essere.
Insomma, il nuovorealismo nella versione ferrarisiana finisce per lasciar passare e incoraggiare il vecchio frenando le effettive novità che stanno emergendo: un’operazione che in Italia conosciamo bene, visto che (così si dice) far mostra di cambiare le cose perché le cose non cambino affatto contraddistingue lo stile nazionale, da Tomasi di Lampedusa a Silvio Berlusconi.
Che fare? Non ho le idee chiare. Lamentarsi del degrado del linguaggio pubblico non ha il minimo senso: personalmente, apprezzo la democrazia, e penso che i suoi limiti e le sue crisi di crescita non vadano condannate, ma se mai curate. Non condivido i lamenti neo-francofortesi contro la civiltà dei consumi, la follia e la degrazione della comunicazione nella Rete, e così via. In generale non condivido i lamenti e le denuncie che si presentano senza offrire soluzioni.
Forse la soluzione però ci sarebbe: bisognerebbe riconoscere che operazioni come quella di Ferraris, e dei suoi modelli (il postmodernismo, il pensiero debole, i nuovi filosofi francesi, e il movimentismo filosofico di Nietzsche), sono oggi inutili tergiversazioni, perché c’è grande lavoro da fare, di altro tipo. In altri termini, bisognerebbe porre fine a quello stile di filosofia pubblica tipicamente tardo-sofista, che solleva gran clamore intorno al niente, allo scopo non lodevole di fare delle debolezze della filosofia, dell’università, della vita pubblica democratica, una ragione di forza e di vantaggio personale.
* * *
Realismo? Una questione non controversa
di Franca D’Agostini, Bollati Boringhieri, dal 14 novembre in libreria
Che cosa è il realismo? che cosa intende dire chi si dichiara “realista” e a chi esattamente si contrappone? Siamo o dobbiamo essere davvero, in filosofia, nell’arte, in politica, più “realisti” di un tempo? In un rapido e originale percorso nei dibattiti recenti sul tema, dal postmodernismo a oggi, Franca D’Agostini risponde con risolutezza e chiarezza a queste domande, smontando un certo numero di luoghi comuni sull’argomento, tanto diffusi quanto infondati.
La prima parte del libro è un breve pamphlet destinato a difendere il realismo dalla confusione e dalla banalità a cui lo condannano molti suoi presunti estimatori. La seconda parte ricostruisce i dibattiti più interessanti, presenta alcuni realismi «realmente nuovi» (di cui si parla poco o nulla in Italia), e delinea una prospettiva originale.
Con lo stile di pensiero che associa alla perizia discussiva una profonda conoscenza del pensiero contemporaneo, D’Agostini ci ricorda che l’antirealismo non è mai esistito in filosofia. Per il pensiero i fatti sono sempre stati, hegelianamente, “il vivente pane della ragione”.
Introduzione
Parte prima: Misinterpretazioni
1. Fatti e interpretazioni, o fraintendimenti e falsificazioni? 2. Giochi guastati 3. Nuovo realismo e postmodernismo metodologico 4. Staccate la spina del postmodernismo! 5. Analitici e continentali?
Parte seconda: Realismo
6. Una questione non controversa 7. Strani realismi 8. Realismo scientifico 9. Verità e realismo 10. L’unico realismo possibile 11. La rinascita della metafisica dallo spirito della logica 12. Realismi realmente nuovi
Conclusioni
* * *
Nata a Torino l’11 settembre del 1952, Franca D’Agostini dopo il liceo classico studia filosofia nella sua città, dove si laurea nel 1976 con una tesi su “La filosofia della scena di Antonin Artaud”. Consegue poi il dottorato in filosofia (sempre all’Università di Torino).
Autrice di quindici libri e di saggi e articoli in varie lingue su riviste e volumi collettanei, collaboratrice dei quotidiani la Stampa, la Repubblica, il Manifesto, ha svolto lezioni e conferenze in varie Università europee e americane, e ha insegnato a contratto (Teoretica e Filosofia della Scienza) in varie Università italiane. Dal 2000 insegna Filosofia della Scienza al Politecnico di Torino e dal 2010 Logic and Epistemology of the Social Sciences alla Graduate School of Economic, Politic and Social Sciences dell’Università Statale di Milano (Scienze Politiche).
* MICROMEGA, 13 novembre 2013:
http://ilrasoiodioccam-micromega.blogautore.espresso.repubblica.it/2013/11/13/niente-di-nuovo-niente-di-realistico-niente-di-filosofico/
La questione Emanuele Severino
Prestare soccorso ad Emanuele Severino, al forse più grande pensatore che l’uomo abbia mai sfornato, è come tentare di arrestare la pioggia raccogliendo qualche goccia che scende dal cielo, e tuttavia deve avere luogo e per evitare chi in tal senso predisposto di perdersi nell’immensa distesa su cui il filosofo italiano estende il suo pensiero e quello che si sa poggiante sul suo simile ugualmente costituito.
E che va raccolto come l’espressione che deve, per esserla, avvalersi della medesima premessa e circostanza, e la prima l’ossigeno e la seconda il cibo, e quindi quella necessità che Emanuele Severino deve indicare con cautela e per evitare quella reazione del suo simile che sa ferma difesa della madre come radice della violenza a cui spesso si è riferito e attraverso le sue variegate espressioni sulla Terra.
E in primo luogo le lingue variegate con cui l’uomo si distingue dal suo simile, e quindi come la diversa costituzione benché, dicevamo, debba pertanto avvalersi della medesima premessa e circostanza, come allora la fede che verte su di sé e indicando in uguale maniera l’altra la sua imitazione e appunto con sue parole intonate altrimenti e che celano l’aspetto inaudito della violenza e il riparo dalla morte.
E la grandiosità di Emanuele Severino risiede proprio nel fare intravedere uno solo il modello relazionale al quale l’uomo si è sottoposto e come suo fermo rifiuto della morte anche se tuttora, e cioè come prima del subentro delle sue parole nell’allora sua quotidianità, costretto ad applicarsi come fermo destino e nel senso che rimane costretto a corrispondere la realtà come l’animale nella procura del cibo.
Sicché, per abbreviare il discorso di Emanuele Severino, la madre è Dio al cospetto dell’uomo e come da egli appresa sua ferma sensazione di tutela e quella come dimostrata dallo scienziato Pavlov mediante il cane a cui pertanto aveva annunciato il cibo con il suono di un campanello affinché con suo udirlo lo confermava presente anche quando assente e oggi onnipresente sulla Terra come la scienza in sua vece.
E cioè appresa materna conferma che l’uomo fornisce al di là della sua espressione e quella che la filosofia ha tentato di arrestare ma ampliandola a dismisura dal momento che al suo cospetto come la ferma radice della violenza e la medesima somministrandogli il cibo in assenza del padre che intanto lo procurava e così di suo nutrendo il suo avversario perché privo dell’esperienza per ravvisarla suo pericolo.
E quando Emanuele Severino faceva sapere Lucifero bello, indicava la strada per scoprirlo, e quella che ogni suo destinatario potrà edificare e ponendo il suo sguardo nel vuoto e l’assenza della madre come femmina negli stessi ripari e rimedi di cui si avvale, e la procura del cibo e la costruzione dell’abitazione, e che ogni uomo necessita per difendersi dalla morte che ignora ampliata per sua stessa cecità.
Quando i filosofi pensano in grande
Verso un pensiero sull’intera realtà.
Oggi un convegno a Milano
di Maurizio Ferraris (la Repubblica, 19.02.2013)
Completata la critica del postmoderno si tratta, per la filosofia contemporanea, di passare a una fase costruttiva, di “ricostruire la decostruzione”. Il che però non significa ritornare all’ordine (e quale, poi?), ma elaborare una filosofia che si sforzi di rendere conto dell’intera realtà, dalla fisica al mondo sociale. Non stupisce che, in questo clima di ricostruzione e non di restaurazione, torni ad affacciarsi il progetto di una filosofia speculativa, di un “filosofare in grande” che, da almeno un secolo, sembrava abbandonato. Lo dimostrano i testi di nuovi filosofi che rilanciano l’idea di un realismo speculativo.
Così è nei saggi raccolti nel monumentale The Speculative Turn. Continental Materialism and Realism (a cura di Levi Bryant, Nick Srnicek e Graham Harman, re. press), o in Les nouveaux réalistes, curato da Alexander R. Galloway (Éditions Léo Scheer), in Dopo la finitudine di Quentin Meillassuoux, o nei lavori di Gabriel e di Hogrebe.
Gli autori sono di provenienza molto varia, si va dall’americano Graham Harman (nato nel 1968) all’inglese Ray Brassier (nato nel 1965), a francesi come appunto Quentin Meillassoux (nato anche lui nel 1968), o Catherine Malabou e Bernard Stiegler, che si sono formati con Derrida. Ma si tratta di una svolta che riguarda l’intero mondo filosofico, e che oggi, al San Raffaele di Milano, sarà uno dei temi del convegno Le molte facce del realismo. Storia e geografia di un problema filosofico, nel quadro di un programma di ricerca nazionale che coinvolge oltre cento studiosi (il convegno è visibile in streaming a questo indirizzo: http://www. ustream.tv/ channel/unisr).
Nella prospettiva dei “realisti speculativi”, lo speculativo viene associato al materialismo e al realismo, mentre tradizionalmente era associato allo spiritualismo e all’idealismo. La torsione spiritualista era caratteristica del neoidealismo italiano e anglosassone del secolo scorso, che muoveva cartesianamente dallo spirito.
Ma non c’è nulla del genere in Hegel, per il quale il concetto emerge dall’essere e lo spirito emerge dalla natura. Per Hegel gli elementi logici non sono prodotti dall’Io, ma emergono dalla natura, dalle cose stesse. Certo Hegel è costretto a pensare l’emergenza con gli strumenti di cui dispone, come sviluppo del concetto e dello spirito, e magari facendo riferimento a principi mitologici come l’anima del mondo. Noi, grazie a Darwin, possiamo pensarla come lo sviluppo dell’epistemologia (intelligente) sulla base di una ontologia non intelligente, d’accordo con la proposta di Dennett.
Non è necessario concepire uno spirito o una teleologia che dall’alto in basso determini il passaggio dalla natura allo spirito o, in altri termini, dall’ontologia all’epistemologia. Si può benissimo proporre una prospettiva dal basso in alto: l’organico è il risultato dell’inorganico, la coscienza emerge da elementi che non sono coscienti, e l’epistemologia emerge dall’ontologia. Il senso si produce dal non senso, e le possibilità sorgono dall’urto della realtà, senza che per questo la filosofia debba ridursi a una visione frammentaria e rinunciare a fornire un senso complessivo del reale.
Un secondo elemento della svolta riguarda precisamente la possibilità di una filosofia sistematica. Che cosa organizza il sistema? Che cosa lo muove? Nei sistemi idealistici tradizionali l’organizzazione del sistema veniva dallo spirito o dal concetto. Ma, come abbiamo visto, noi oggi disponiamo di spiegazioni più efficaci e meno impegnative, di matrice neo-darwiniana. A questo punto, abbiamo tutto ciò che è necessario per un sistema pienamente articolato. C’è un primo livello, quello di una ontologia del mondo naturale, in cui si passa dall’inorganico all’organico e finalmente al cosciente. Senza che sia necessario presupporre in questo un qualsiasi “disegno intelligente”.
A questo stadio, abbiamo la costituzione di una ontologia che costituisce la premessa per una epistemologia, ossia per un sapere su ciò che c’è. Questa epistemologia si sviluppa attraverso la coscienza, il linguaggio, la scrittura, il mondo delle leggi, della politica, della scienza e della cultura. Ed è a questo punto che diviene capace di due operazioni. La prima è quella di una ricostruzione del mondo naturale, che è l’oggetto della scienza della natura. La seconda è quella di una costruzione del mondo sociale, che è l’oggetto delle scienze sociali, e nella quale l’epistemologia ha per l’appunto un ruolo non semplicemente ricostruttivo, ma costruttivo, visto che spiega la legge di formazione degli oggetti sociali.
Un ultimo aspetto riguarda la nozione di “realismo positivo”. In definitiva, la doppia articolazione che ho descritto più sopra si presenta come il rovescio speculare dell’operazione di filosofia negativa di matrice cartesiana. Se per la filosofia negativa si trattava di revocare ogni consistenza ontologica al mondo per riportare tutto al pensiero e al sapere, e di lì procedere alla ricostituzione del mondo per via epistemologica, con il realismo positivo - recuperando la lezione dell’idealismo tedesco e coniugandola con l’evoluzionismo - è possibile partire dall’ontologia per fondare un’epistemologia. La quale, quando accede al mondo sociale, può e deve diventare costitutiva, mentre non può esserlo nel mondo naturale, come voleva la filosofia negativa che da Cartesio conduce ai postmoderni. Se tutti questi movimenti di cui si vedono segni da più parti dovessero trovare uno sviluppo credo che potremmo trovare un piccolo motivo di soddisfazione: la filosofia non è morta, e non si limita alla dimensione critica, ma si sforza di pensare in grande.
Non serve filosofare davanti a un semaforo rosso
Non c’è bisogno dei massimi sistemi per le leggi del vivere comune. Né di tirare in ballo l’etica come fanno i (neo?) realisti
Davvero la «realtà» ha bisogno di essere difesa? Contro che cosa e contro chi?
Il problema del fondamento. Ce lo poniamo quando si tratta di fecondazione assistita o diritti sociali
di Gianni Vattimo (La Stampa, 22.11.2012)
Una affermazione di Richard Rorty che non è mai parsa più attuale suona: «Prendetevi cura della libertà, la verità si difenderà da sé». Ecco, nel gran parlare di realismo, vecchio o nuovo, che si fa in questi tempi (vedi da ultimo il volume di curato da Maurizio Ferraris e Mario De Caro, Bentornata realta, con scritti di vari autori, Einaudi, 2012, pp. 234 euro. 17) c’è forse un eccesso di «cura» della verità, o meglio della «realtà» - una differenza di espressione che forse merita più attenzione. Provate per esempio a sostituire «realtà» a «verità» nella frase evangelica «la verità vi farà liberi».
Davvero siamo tanto più liberi quanto più siamo «realisti», o non sarà per caso proprio il contrario, dato che troppo spesso il realista è chi non si fa illusioni, accetta le cose come sono e magari smette di lottare per l’evidente squilibrio delle forze nei confronti del mondo? Si ricorderà che Kant fondava, postulava, addirittura l’esistenza di Dio sulla constatazione che nella realtà del mondo sono in genere i cattivi a vincere e i buoni a perdere; ma se fosse davvero solo così proprio la nostra vita reale e la nostra morale non avrebbero più senso, dunque dobbiamo postulare che ci sia Qualcuno che, alla fine, faccia coincidere virtù e felicità.
I neo-realisti che si agitano tanto oggi non vogliono certo rivendicare un mondo di guerra di tutti contro tutti, anzi si presentano come i veri difensori della morale. Davvero la «realtà» ha bisogno di essere difesa? Contro che cosa e contro chi? A quanto dicono, contro quel pericoloso rivoluzionario di Nietzsche, per il quale «non ci sono fatti solo interpretazioni».
Ma chi ha paura dell’interpretazione? E ancora una volta: provate a sostituirle la parola realtà alla parola verità in tante espressioni di cui non possiamo fare a meno. «A dir la realtà... ».O: «In realtà vi dico». O ancora «Sono disposto a morire martire per la realtà.. ». Se riflettiamo, la differenza sta tutta nel fatto che la verità è sempre detta, mentre la realtà è lì davanti e basta. E qui tornano in scena Kant e l’interpretazione: per essere detta, la verità ha bisogno di un soggetto che la dica. Chi dice la verità, però, è chi descrive «le cose come sono», dunque la realtà come tale.
Davvero? Si sa che una mappa identica in tutto al territorio non serve a niente, coinciderebbe con il territorio stesso. Per essere utile, deve scegliere una scala, un punto di vista, un tipo di cose che mostra (per esempio l’altimetria, o le differenze climatiche). Non si potrà qui parlare di interpretazione? Va bene, si risponde, però le cose che mostra a preferenza di altre «ci sono», mica se le inventa.
D’accordo, però che «ci siano» può considerarsi un «fatto» fuori da ogni interpretazione? Già, ma chi lo potrebbe dire, se non in nome di un’altra interpretazione? Che ci sia una mappa «non interpretativa» a cui far riferimento non sarà un “fatto” convenzionalmente accettato per non andare all’infinito? Per il metro, ci si riferisce a quello conservato a Parigi, per i fusi orari al meridiano di Greenwich, eccetera. È scandaloso e preoccupante?
Davvero dovremmo non fidarci delle misure di lunghezza né della longitudine e latitudine solo perché sono fondate su basi convenzionali? Che queste convenzioni funzionino, sembra significare che sono «fondate nella realtà». E cioè che il meridiano zero esiste davvero là fuori? Noi diciamo che quelle misure sono fondate solo perché funzionano, così come qualunque ermeneutico discepolo del cattivo Nietzsche prenderà normalmente treni aerei o ascensori senza dubitare delle scienze e tecnologie che li costruiscono. La domanda è: perché si insiste tanto a volermi far dire che se prendo aerei e treni devo credere che la scienza dice la verità, cioè rispecchia la «realtà» così com’è?
Torniamo alla questione sul chi e perché abbia paura dell’interpretazione e senta il bisogno di difendere la verità-realtà. Un sospetto non infondato è che Rorty abbia ragione, e cioè che sotto alla (non richiesta) difesa della verità-realtà ci sia un timore della libertà. Signora mia non c’è più religione, direbbe a questo punto Arbasino. Se non possiamo far riferimento a un fondamento certo ed inconcusso tutto sarebbe permesso, come paventava Dostoevskij per il caso che Dio non esistesse. Sembra che senza il fondamento di una ultima verità «oggettiva» (qualunque cosa ciò significhi), che tutti devono o dovrebbero ammettere, non ci possa essere né vera morale né vera lotta alla menzogna della propaganda o della superstizione.
Eppure qualunque cocciuto ermeneutico, come prende treni e aerei, così ha sufficienti mezzi per distinguere le bugie dalla verità, senza aver bisogno di metri assoluti, senza aver bisogno, cioè, di toccare sempre con mano ciò che gli viene detto. Gli basta il metro di Parigi, il meridiano di Greenwich, almeno fino a che qualcuno non pretenda di fargli pagare una tassa immobiliare sulla base di un altro criterio di misura. È quando accade qualcosa del genere, quando siamo toccati (non solo nei soldi) da una misura sbagliata che cerchiamo il riferimento a un criterio più certo e più fondamentale. Anche e soprattutto nel caso delle leggi del vivere comune.
Ebbene, abbiamo davvero bisogno di riferirci al diritto naturale, all’essenza dell’uomo, per non attraversare con il rosso? Certo che no. Ci poniamo il problema del fondamento quando si tratta di fecondazione assistita, diritti sociali, in genere di etica. In questi terreni, pretendere di regolarci sulla base di una verità-realtà non ha senso, o potrebbe avere solo il senso di obbligarci ad accettare «realisticamente» le cose come stanno.
Il sospetto che la smania di (neo?) realismo che si sente in giro oggi sia in fondo solo un richiamo all’ordine, una sorta di appello ai tecnici per uscire dalla confusione del dibattito democratico e delle sue lentezze, non è poi così peregrino.
Qualcuno suggerisce di ritrovare la vecchia distinzione di origine kantiana tra scienze della natura, “la scienza” cioè, e scienze dello spirito (etica, politica, religione ecc.) lasciando alle prime il dominio della verità “vera”, sperimentale, e relegando l’interpretazione alle seconde. Bella idea (viene appunto da Kant) se non fosse che nessuno ha ancora risposto alla domanda: la divisione dei due campi chi la dovrebbe stabilire?
Caro Vattimo, si può filosofare anche sul semaforo
“Non basta a tranquillizzarci che sia una convenzione”
Il punto cruciale: se si rinuncia ad affermare che tutto è interpretazione si può discutere la realtà
La replica di De Caro alla recensione di Bentornata realtà
di Mario De Caro (la Stampa, 23.11.2012)
«Bruto è uomo d’onore» declama ripetutamente il Marcantonio di Shakespeare, nel suo discorso al rumoreggiante popolo romano, attonito per l’uccisione di Cesare e ancora indeciso sul da farsi. Ma in realtà, si sa, con la sua grande prova di eloquenza Marcantonio sta demolendo tutto quanto Bruto ha detto. Le sue lodi sono solo una captatio benevolentiae per i suoi uditori.
Mi dispiace dunque rischiare di apparire un tardo emulatore di Marcantonio se dico che ho sempre ammirato Gianni Vattimo per la chiarezza e la profondità delle sue idee (il suo libro su Heidegger, per esempio, mi è sempre sembrato quanto di meglio mai scritto sul criptico autore di Essere e tempo ). Data dunque la mia alta opinione che ho di lui, ho trovato francamente sorprendente l’intervento di Vattimo sulla Stampa di ieri, in cui menzionava la raccolta di saggi Bentornata realtà, che ho appena curato con Maurizio Ferraris per Einaudi.
In primo luogo mi è parso bizzarro che nel merito dell’antologia Vattimo si limiti a dire che essa contiene «scritti di vari autori». Tra questi «vari autori» figurano alcuni dei maggiori filosofi contemporanei (da Putnam a Eco, da Searle a Marconi), che forse avrebbero meritato una qualche menzione - al pari almeno di Arbasino, del quale Vattimo riporta il giudizio «Signora mia non c’è più religione», evidentemente ineludibile per comprendere la discussione contemporanea sul realismo filosofico.
In realtà, l’impressione è che Vattimo non abbia nemmeno aperto Bentornata realtà - o se l’ha fatto, ha tenuto il segreto ben chiuso in sé. Ed è un peccato, perché in quel volume ci sono discussioni e argomentazioni che potrebbero interessarlo. Nel suo ellittico pezzo Vattimo per esempio ha scritto: «Davvero dovremmo non fidarci delle misure di lunghezza né della longitudine e latitudine solo perché sono fondate su basi convenzionali? ». Da Wittgenstein a Quine, da Habermas a Kripke, sono decenni che nel mondo filosofico si discute dello statuto epistemologico delle convenzioni.
Non avevo mai letto prima però che, siccome la convenzionalità del riferimento al metro di Sèvres è inoffensiva, allora non dovremmo preoccuparci del fatto che tutto è convenzionale. Cosa esattamente ciò significhi non mi è chiaro: è una sorta di argomento induttivo? Oppure vuole suggerire che il convenzionalismo in altri campi, per esempio in morale, è tanto poco pericoloso quanto quello rispetto alle unità di lunghezza? (Come se uno dicesse: «Io, a differenza di te, uso le yards invece dei metri e credo nella liceità dell’uxoricidio, tanto è solo questione di convenzioni»).
Vattimo scrive poi: «Abbiamo davvero bisogno di riferirci al diritto naturale, all’essenza dell’uomo, per non attraversare con il rosso? Certo che no». Magari mi sono perso qualcosa, ma non capisco bene chi nell’immensa discussione internazionale sul realismo abbia mai sostenuto la tesi che Vattimo critica. Tra i realisti contemporanei, Hilary Putnam è forse quello che ha indagato più in profondità lo statuto epistemologico delle convenzioni. E non solo rispetto ai semafori (che forse non sono il caso teoreticamente più urgente), ma in etica, in economia, in scienza. E a Putnam mai è passato per la mente di sostenere che siccome sostiene posizioni realiste in alcuni ambiti, allora dovrebbe negare il ruolo delle convenzioni in tutti gli ambiti.
C’è poi un punto cruciale che Vattimo trascura: la discussione contemporanea sul realismo non è una questione del tipo tutto-o-niente, come invece sembra essere l’antirealismo radicale che egli professa. Ciò che è interessante è proprio che, se si rinuncia a facili formule tipo «tutto è interpretazione», si può finalmente tornare a discutere con serenità di questioni come la realtà delle valutazioni morali, delle teorie scientifiche, dei giudizi politici. E ciò vuol dire che in alcuni casi si potrà prendere una posizione realista, in altri una posizione antirealista.
Nel suo articolo Vattimo si chiede infine con una qualche angoscia: «perché si insiste tanto a volermi far dire che se prendo aerei e treni devo credere che la scienza dice la verità, cioè rispecchia la “realtà” così com’è? ». Ecco, anche su questo Vattimo potrebbe utilmente leggere l’articolo di Putnam in Bentornata realtà (così non lascia nemmeno la copia intonsa). Scoprirà che, sebbene abbiamo ottime ragioni per ritenere che le nostre teorie subatomiche descrivano la realtà fisica, ciò non vuol dire affatto che le teorie scientifiche descrivano, e meno ancora che spieghino, tutta la realtà. Magari sarà contenta anche la signora di Arbasino.
Polemica: Vattimo risponde a De Caro
Il “nuovo” realismo? Operazione di marketing
di Gianni Vattimo (La Stampa, 25.11.2012)
Il mio articolo sul «(nuovo?) realismo» pubblicato il 22 novembre scorso è apparso erroneamente come una recensione alla raccolta Bentornata realtà curata da Ferraris e De Caro. L’avevo scritto prima di vedere il libro, e al puro scopo di «attualizzarlo», ho aggiunto imprudentemente una parentesi richiamando il titolo del volume, per cui De Caro si è sentito legittimato a discuterlo appunto come una recensione.
Non intendevo né intendo recensire l’antologia di Ferraris-De Caro perché non vedo nulla di nuovo negli scritti in essa riuniti. Alcuni degli autori (penso a Eco per esempio, ma anche a Putnam) dicono esplicitamente che le posizioni espresse nei loro testi sono già note da anni attraverso altre opere. Il «realismo negativo» di Eco mi risulta formulato per la prima volta in pubblico in occasione di una serie di lezioni da me tenute, proprio su suo invito, all’Università di Bologna alla fine degli Anni 90, e poi in un dibattito a cui partecipò Gadamer. Il «nuovo» realismo non è tanto nuovo, e il volume non spiega perché lo dovremmo considerare tale.
Così, «l’immensa discussione internazionale sul realismo» a cui De Caro immodestamente si annette, non è una discussione sul «neo» realismo che «ritorna»; è una discussione che risale ai Greci, tanto che non si vede perché Ferraris e De Caro non abbiano incluso anche qualche testo dello Stagirita o di San Tommaso. Il «nuovo» realismo appare qui solo per quel che è: una riuscita operazione di marketing, a cui viene fatta servire anche la mia pseudo recensione; e che ha certo la sua legittimità e utilità, ma non aggiunge nulla al dibattito filosofico.
Quanto al diritto naturale e ai semafori, De Caro svela molto ingenuamente la sua fede assolutista: se non c’è un fondamento assoluto (divino? scientifico?) e c’è «solo» convenzione (signora mia, caro Arbasino!), allora si potrebbe giustificare l’uxoricidio. Già, ma il rosso del semaforo è appunto convenzione, e non si vede perché De Caro lo rispetti. Attenzione, non salire in auto con lui, nemmeno nel campus della sua Tufts University!
È il crepuscolo delle tradizioni
Capitalismo, religione e politica non guidano più il mondo
di Emanuele Severino (Corriere delal Sera, 15.11.2012)
La tecnica sta ponendosi alla guida del mondo. Può riuscirvi solo se si è in grado di mostrare che ormai questo compito non può più essere assolto dalle grandi forze della tradizione (quali il capitalismo, le religioni, la politica).
Ma chi può mostrarlo? Non certo la tecnica e la scienza. È invece l’essenza tendenzialmente nascosta della filosofia del nostro tempo a mostrarlo (purché si sappia guardare). Mostra cioè che non possono esistere quei Limiti assoluti, indicati dalle forze della tradizione, di fronte ai quali la tecnica debba arrestarsi. Anche (ma non solo) per questo la filosofia ha un carattere decisivo. Di qui l’importanza di saper cogliere ciò che chiamo «essenza della filosofia del nostro tempo» - alla quale appartengono pensatori come Nietzsche e Gentile. Appunto a questo contesto si riferiva anche il mio articolo (su «la Lettura» del 16 settembre scorso) intorno al quale sono intervenuti vari interlocutori. (E d’altra parte, come continuo a ripetere, quell’essenza è la forma più coerente della Follia estrema da cui è avvolta l’esistenza dell’uomo - la Follia del nichilismo).
Ben presto l’uomo si accorge degli ostacoli che limitano la sua volontà. E si convince che il mondo esista indipendentemente dalla coscienza che egli ne ha. Questa, la base di ogni forma di «realismo». Se l’«uomo» è il singolo individuo umano, anche l’«idealismo» è una forma di realismo. D’altra parte, il mito e il pensiero filosofico della tradizione (sia pure in modo profondamente diverso) vedono in quegli ostacoli una forma superiore, più potente, «divina», di Volontà, capace di dominare la materia di cui le cose son fatte o addirittura capace di produrre ogni aspetto del mondo, come pensa anche l’idealismo classico, culminante in Hegel - che però indica i motivi per i quali quella Volontà divina e cosciente non sta al di là dell’uomo, ma gli è unita. Come Cristo, l’uomo autentico è Uomo-Dio. Il mondo è prodotto non dall’uomo singolo, ma dall’Uomo-Dio. Nel pensiero del neo-hegeliano Giovanni Gentile questa tematica è fondata nel modo più rigoroso.
Giacomo Marramao (ne «Il Secolo d’Italia» del 18 settembre scorso) è limpidamente d’accordo con me circa questo rigore - osservando giustamente, tra l’altro, che uno dei motivi del disinteresse per Gentile sta nel suo stile «pesante» e «ottocentesco». Che però, aggiungo, vanta un nitore concettuale estremamente superiore a quello dei neo-hegeliani del mondo anglosassone del XIX-XX secolo. Contrariamente alle loro intenzioni (e nonostante i loro indubbi meriti), essi hanno offuscato e complicato la potenza speculativa di Hegel, determinando una reazione «realistica» non immune da consistenti ingenuità, che sarebbe stata di più alto livello se nel mondo anglosassone la presenza di quella forma di neo-hegelismo non avesse impedito la presenza di Gentile.
Ma soprattutto - per quanto riguarda il predominio del realismo rispetto all’idealismo - la tecno-scienza si presenta quasi sempre come «realismo» (assunto come ipotesi di lavoro o come tesi filosofica acriticamente accettata). Da parte sua, il «realismo» filosofico dà spesso per scontato che la filosofia non possa procedere indipendentemente dalla scienza. In questo modo accade che la centralità della scienza nel mondo contemporaneo determini il predominio del realismo rispetto a ogni altra forma filosofica.
Ringrazio anche Maurizio Ferraris per il suo intervento (su «la Repubblica» del 18 settembre scorso). Nel quale, però, si afferma che, nella prospettiva che va da Kant a Gentile, «noi non abbiamo mai a che fare con cose in sé, ma sempre e soltanto con fenomeni, con cose che appaiono a noi». No: questo lo si può dire di Kant (e propriamente del Kant della Critica della ragion pura), non di Hegel o di Gentile. Per Hegel, come per Aristotele, il contenuto della ragione sono proprio le cose in sé. E a sua volta Gentile ribadisce che solo se si presuppone (arbitrariamente) che esistano cose in sé al di là del pensiero, si può affermare che i contenuti del pensiero siano soltanto fenomeni.
Per confutare l’idealismo, Ferraris richiama l’esistenza delle infinite cose che esistevano prima dell’uomo, gli ostacoli incontrati dall’uomo, l’imprevedibilità degli eventi. L’idealista risponde, a ragione, che di tutte queste situazioni non si potrebbe parlare se non fossero pensate e che quindi esse non stanno al di là del pensiero, indipendenti da esso, che invece include nel proprio contenuto gli stessi individui umani che nascono e muoiono. D’altra parte i miei scritti stanno al di là dell’opposizione realismo-idealismo - e Luca Taddio ha richiamato opportunamente (sul «Corriere» del 27 settembre scorso) i loro temi centrali, che nel mio articolo avevo messo tra parentesi per non complicare troppo il discorso.
Invece Gianni Vattimo (ancora sul «Corriere» del 21 settembre scorso) mi trova troppo affezionato «al vecchio argomento antiscettico» (se uno dice che non c’è verità sostiene che quel che lui dice è vero); argomento che poi non sarebbe altro, a suo avviso, che un «giochetto logico-metafisico». Un giochetto che però (per richiamare solo due tra molti) Platone (nel Teeteto, 171 a) e Aristotele (nella Metafisica, IV, VIII) prendono molto sul serio. Platone scrive addirittura che quell’argomento è «raffinatissimo» (kompsotaton). Ma poi Vattimo dimentica che quel che qui egli chiama «giochetto», nel suo libro (Della realtà edito dalla Garzanti, p. 25) lo chiama invece «giusta accusa di autocontraddizione».
(Comunque nel mio articolo prendevo atto delle sue frequenti dichiarazioni di non voler dire cose vere, ma di voler soltanto esprimere desideri. E son d’accordo. Ma poi, non è proprio per non esser vinto dall’argomento contro lo scettico che Vattimo, per sostenere la propria negazione della verità, dichiara di non voler dire una cosa vera, ma di esprimere soltanto i suoi desideri - sì che quell’argomento ha un’importanza decisiva nel suo discorso?).
Da parte mia ho scritto invece più volte che quell’argomento non è sufficiente contro lo scettico non ingenuo, giacché a chi gli obietta che si contraddice egli può ancora replicare chiedendo perché mai non ci si debba contraddire - e qui il discorso prosegue in un territorio che Vattimo non sospetta neppure. (Sostiene anche che dialogare con qualcuno significa andare «a braccetto» con lui. Ora, vado sì dialogando con Gentile, con l’«essenza del pensiero del nostro tempo», con la storia del nichilismo, con i realisti, ma non vado «a braccetto» con loro. Dialogo anche con Vattimo...).
Per Markus Gabriel (anch’egli sul «Corriere» del 29 ottobre scorso) il contenuto dei miei scritti è «realismo» e quindi, da realista, scrive che «apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona». Infatti, a suo avviso, Parmenide afferma «un essere indipendente dall’ambiente umano».
Sennonché da più di mezzo secolo i miei scritti vanno mostrando che ciò che Parmenide dice dell’«essere» va detto invece degli enti: di ogni ente va detto cioè che è eterno (ossia è impossibile - è contraddittorio - che non sia), e quindi è eterno anche ogni «ambiente» e pertanto anche l’«ambiente umano». Negarlo è, appunto, la Follia estrema del nichilismo, che identifica l’ente e il niente. Nessun ente può essere stato o può diventare un niente. Se «realismo» significa che certi enti potrebbero esistere anche se non esistesse l’uomo, il realismo è allora una forma di nichilismo (cioè una tesi autocontraddittoria) - come l’idealismo. (Né l’uomo potrebbe esistere se non esistesse un qualsiasi altro ente).
Gabriel aggiunge che «la realtà è parzialmente contraddittoria» (e cioè che il principio di non contraddizione non regola tutta la realtà) perché gli uomini continuano a contraddirsi. Ma, anche qui, è più di mezzo secolo che vado distinguendo il contraddirsi, che certamente esiste - ed è un ente che, come ogni ente, esiste incontraddittoriamente - dal contenuto autocontraddittorio del contraddirsi, che invece è l’impossibile, il necessariamente inesistente.
Con una metafora: i pazzi esistono - e sono pazzi e non sani, cioè sono enti contraddittori - ma (secondo coloro che si ritengono sani di mente) ciò di cui i pazzi son convinti non esiste. L’esistenza del contraddirsi non rende dunque parziale il dominio del principio di non contraddizione (che peraltro, in relazione al modo in cui è stato storicamente inteso, è ben lontano dal presentarsi come un sapere assolutamente intoccabile, ma è anzi una delle espressioni più decisive del nichilismo).
NOTE SUL TEMA:
Un saggio analizza uno dei temi principali del pensiero italiano
di Roberto Esposito (la Repubblica, 3.11.2012)
In tempo di globalizzazione cavalcante si potrebbe immaginare che anche la filosofia abbia perso qualsiasi tratto nazionale, per omologarsi a temi e linguaggi generali. In realtà, come avviene nel campo manifattura o della cucina, è proprio la contaminazione globale a rigenerare le tradizioni nazionali. Resta da spiegarsi l’attenzione più volte segnalata nei confronti del pensiero italiano. Una risposta convincente è adesso fornita nel volume di Dario Gentili, edito da il Mulino con il titolo Italian Theory. Dall’operaismo alla biopolitica.
La sua tesi, condotta attraverso un’accurata genealogia del pensiero italiano contemporaneo, è che a metterlo in sintonia con il nostro tempo è la categoria di crisi, intesa nel suo doppio significato etimologico di divisione e di decisione. In una stagione dominata dal fantasma della crisi, non può sorprendere questa ripresa d’interesse per una filosofia che sembra letteralmente generata da situazioni critiche. Non solo, ma che vede nella crisi, più che un fenomeno di carattere economico, l’esito di determinate opzioni politiche. E’ questa interpretazione politica della crisi a fare del pensiero italiano un punto di riferimento privilegiato per cogliere il significato d’insieme della tempesta che oggi minaccia di travolgere, oltre che le finanze, la stessa possibilità di vita delle nostre società.
Estranea ad una matura teoria dello Stato, la filosofia italiana ha sempre pensato la politica come contrasto tra parti contrapposte in lotta per l’egemonia. Ma il passaggio cruciale avviene negli anni Sessanta e Settanta, quando la crisi della dialettica diventa l’oggetto centrale della teoria, cosiddetta “operaista”, che, in forme diverse, da parte di autori come Tronti, Asor Rosa, Cacciari, Negri, rompe con la tradizione storicistica per affermare il primato della parte sul tutto - vale a dire della classe operaia sul capitale.
Riviste di quegli anni quali Quaderni rossi, Classe operaia e Contropiano definiscono i contorni di un soggetto non più costruito sul modello universalistico del “popolo” gramsciano, ma espressione di una divisione che taglia l’intero corpo sociale. Il presupposto di tale prospettiva è che le crisi economiche, tutt’altro che eventi neutrali di natura oggettiva, siano prodotte dal capitale stesso per svilupparsi. E che dunque non siano superabili con strumenti puramente tecnici. L’uscita dalla crisi è sempre, in ultima analisi, di tipo politico. Vale a dire orientata a favore degli uni contro altri, in base ai rapporti di forza che di volta in volta si determinano.
Mentre la filosofia anglosassone elabora modelli normativi, quella tedesca si esercita in pratiche ermeneutiche e quella francese si concentra sul rapporto tra parola e scrittura, il pensiero italiano lavora sul nesso, intensamente politico, tra conflitto e crisi.
E’ questo il nodo teoretico che, pur con una serie di differenze interne, riconosciute e anzi valorizzate da Gentili, lega autori diversi come de Giovanni e Marramao, Bodei e Virno, Muraro e Cavarero. Se si eccettua il “pensiero debole” di Vattimo e Rovatti - ancora inscrivibile nell’orizzonte postmoderno, oggi riletto in chiave critica da Ferraris - l’intero quadrante della filosofia italiana ruota intorno alla questione del “politico”, come luogo di costituzione e di dislocazione della differenza. Quando il pensiero femminista rivendica la necessità, per la donna, di “partire da sé”, elaborando un proprio ordine simbolico, riproduce, su un altro piano, quanto gli operaisti avevano visto nel rapporto antagonistico tra Operai e capitale, come titolava il libro di Tronti.
E’ su questo passaggio che s’innesta la seconda ondata di pensiero che ha fatto da traino, sul piano internazionale, all’elaborazione dei filosofi italiani. Si tratta di quella concezione biopolitica che sposta radicalmente l’ordine del discorso operaista, situando il luogo del conflitto nella stessa categoria di vita.
Come è noto, tale svolta, insieme teoretica e politica, prende le mosse dai corsi tenuti da Michel Foucault negli anni Settanta. Ma, rispetto ad essi, apre un cantiere di pensiero largamente originale. La biopolitica italiana - nelle sue varie declinazioni - da un lato presuppone il concetto di crisi, nel senso che elabora paradigmi binari come quelli di bios e zoe, di impero e moltitudine, di communitas e immunitas; dall’altro lo oltrepassa nella misura in cui la focalizzazione sul paradigma di vita biologica assegna al conflitto una portata più ampia e complessa dello scontro economico o politico.
Intanto, differentemente dalla tradizione operaista - giunta da tempo al capolinea, anche per la disgregazione delle classi -, gli interpreti italiani della biopolitica hanno allargato il loro orizzonte al mondo globalizzato. Ma soprattutto si sono lasciati alle spalle quell’idea di “parte” che vincolava la vecchia sinistra ad una visione dicotomica della realtà.
Ciò non vuol dire che il conflitto sia superato - verrebbe meno, con esso, la stessa possibilità della politica. Ma esso è integrato dentro un quadro più ampio in cui il paradigma di crisi va ripensato insieme a quello di governo della complessità. La parte, insomma, non è più ciò che confligge con l’altra per il dominio del tutto, ma il punto di vista dal quale il tutto assume una diversa configurazione, chiamando ad un impegno comune tutte le componenti della società.
Ma la Verità ci salverà dal populismo?
di Pietro Barcellona (l’Unità, 02.11.2012)
SEBBENE I DIBATTITI FILOSOFICI SEMBRINO SITUARSI SU UN TERRENO LONTANO DALLA VITA QUOTIDIANA, i concetti che ne vengono fuori interferiscono notevolmente con la formazione del senso comune: la rilevanza politica delle teorie filosofiche è sempre più evidente, innanzitutto nella formazione del lessico della contemporaneità.
Ad esempio, l’attacco che Maurizio Ferraris da molti anni conduce contro il soggettivismo delle interpretazioni è diventato persino strumento politico per contrastare il populismo: alcuni opinionisti sostengono che l’oggettività impedisca la proliferazione di linguaggi falsi e demagogici, che dimostrerebbero la propria fallacia appena messi a confronto con la nudità dei fatti.
Per capire il significato del tentativo di affermare l’oggettività del mondo reale delle cose sulla soggettività ondivaga e ambigua degli interpreti, bisognerebbe per prima cosa metterne in rilievo la sostanziale infondatezza epistemologica.
Recentemente, in uno scritto polemico verso le tesi di Severino, Ferraris ha affermato che una «multa» è un fatto assolutamente indipendente da ogni interpretazione soggettiva; ma se si riflette su cosa rappresenti la parola multa nel linguaggio corrente, ci si accorge che non si tratta di un fatto che dispiega da se stesso le proprie conseguenze, ma, al contrario, di un fatto che assume un significato pratico soltanto se inscritto nelle fattispecie giuridicamente rilevanti. Il fatto puro della multa non esiste se non all’interno del discorso giuridico.
Basterebbe considerare con più attenzione gli studi di antropologia culturale per rendersi conto che non esistono fatti puri; anche eventi naturali come un’eruzione vulcanica o un terremoto diventano oggetti di comprensione umana e di comunicazione verbale soltanto attraverso il loro inserimento in universi simbolici che esprimono il livello della coscienza collettiva del gruppo rispetto alla natura e al mondo esterno. Il fulmine, che allo stato attuale del nostro sapere possiamo definire come una scarica elettrica che va dalle nuvole verso la terra, è stato per molti secoli vissuto come un segno dell’ira divina. Dal punto di vista epistemologico questa credenza non contraddice per nulla le attuali conclusioni del sapere scientifico che descrive il fenomeno in termini di scarica elettrica; in entrambi i casi, però, le parole adoperate per rappresentare il fatto sono espressive della configurazione del rapporto fra soggettività interpretante e realtà fenomenica.
Tutto ciò che rappresentiamo mentalmente con parole associate ad immagini ha un sostegno nella realtà materiale, biologica e fisica del mondo che ci circonda: indagare il rapporto tra questo sostegno materiale e lo sviluppo di rappresentazioni mentali, che attraverso le parole assegnano un significato alle cose, è un problema che interroga la nostra capacità di riflessione sui processi di pensiero e sul rapporto col mondo.
Al punto in cui siamo, nella vicenda millenaria dell’autorappresentazione degli esseri umani, dovremmo riconoscere che non esiste alcuna via diretta e immediata per avere accesso alle cose se non attraverso la mediazione del pensiero e del linguaggio, che non sono arbitrarie costruzioni determinate dalla capricciosità del parlante ma appartengono ad un contesto di uomini e donne, di soggetti e di oggetti che interagiscono in un rapporto di comunicazione oggettivata attraverso il discorso.
Ciascuno produce un mondo di significazioni e allo stesso tempo abita uno spazio di significati già istituiti che gli consentono di orientarsi praticamente nell’ambiente che lo circonda, motivandolo sia alle cosiddette azioni inconsapevoli e abituali sia alla ricerca di nuove parole e nuove significazioni; tale scarto tra oggettività e soggettività rende possibile configurare la libertà e la responsabilità di ciascuno rispetto al mondo a cui appartiene.
Alla luce di queste considerazioni si capisce il significato politico di tutti i tentativi di affermare il primato dell’oggettività dei fatti e delle cose del mondo sulla soggettività interpretante: solo un’assoluta oggettività dei processi che connettono i movimenti pratici e le operazioni mentali consentirebbe di affermare l’esistenza di una Verità che impedisce ogni arbitrarietà delle scelte e ogni significativo mutamento della visione del mondo.
L’oggettività della Verità, consegnata interamente al processo «naturale» di connessione fra le molecole che compongono il vivente, impedisce di ipotizzare uno spazio di libertà che produca una trasformazione dell’accadere non spiegabile meccanicisticamente. Ma se si abbandona il terreno di questa ideologia dell’oggettività, bisogna riconoscere che la conversazione umana non esprime certezza assoluta ma opinioni confrontabili; il regime della doxa è alla base della costruzione della polis e della forma democratica della convivenza. Al contrario il regime della Verità oggettiva non consente di dare alcun peso alle opinioni che, in quanto tali, sono fragili ed estemporanee.
Il tentativo di Ferraris di riformulare una teoria della Verità incontrovertibile risponde, dunque, all’esigenza politica di ridurre ogni spazio di discrezionalità e sottrae la decisione politica alla contestazione popolare. Viceversa, riconoscere l’inaccessibilità immediata alla Verità non esclude il riconoscimento di una trascendenza che si manifesta attraverso i limiti che incontriamo nella nostra esperienza quotidiana. Ci scontriamo continuamente con la dura realtà del mondo e con la fatica di vivere, per questo siamo spinti a cercare un senso che dia conto della nostra finitezza e mortalità. Il limite della soggettività e dell’ermeneutica impedisce, nel contesto storico in cui si vive, di cadere nell’onnipotenza nichilistica.
Come sosteneva Castoriadis, la democrazia deve essere un regime dell’autolimitazione, in cui l’interesse alla continuazione della specie umana impedisce di disporre del mondo in modo da pregiudicarne la disponibilità per le future generazioni. La democrazia delle opinioni non implica la babele delle lingue, ma il riconoscimento di un patrimonio comune che riguarda la memoria del passato e le speranze del futuro.
Già dal principio dell’autolimitazione della democrazia si possono ricavare regole che impediscono il dispiegarsi della selvatichezza egoistica che abita dentro ciascun essere umano. Per questo, come ha osservato Massimo Recalcati, il riconoscimento dell’inconscio come opacità del sapere di se stessi e del mondo è la garanzia che la democrazia non diventi delirio di onnipotenza.
Il tutto non esiste, ci sono solo i fatti
di Markus Gabriel *
Emanuele Severino è un realista. Ritornando a Parmenide egli accetta, infatti, che ci sia un essere indipendente dall’ambiente umano. Spero non suoni eccessivo affermare che entrambi apparteniamo alla stessa famiglia, il cui capostipite fu Parmenide in persona.
Ciò che accomuna tutti gli appartenenti a tale famiglia, credo, è la convinzione che ci sia almeno un fatto che noi non abbiamo prodotto, aspetto che ho chiamato nel mio libro Il senso dell’esistenza «l’argomento della fatticità». Parmenide lo chiamava semplicemente «l’essere» e argomentava a favore della possibilità di poterlo conoscere. Come minimo un fatto è conoscibile, io interpreto così la celebre sentenza «l’essere e il pensare sono lo stesso».
Nel suo articolo del 16 settembre, Severino formula tre importanti e acute questioni in merito alla mia posizione: 1) Cosa significa «apparizione»? 2) Accetto il principio di non contraddizione in quanto assoluto? 3) La contingenza di cui parlo è, in fin dei conti, una forma di necessità? Rispondiamo.
1) Per «apparizione» intendo l’appartenenza di un oggetto a un campo di senso. Questa relazione non è in generale matematica per il semplice fatto che non tutti gli oggetti sono matematici. La cittadinanza non è una proprietà degli insiemi. Essere italiano significa appartenere al campo di senso della Costituzione italiana, che non è certo identico all’insieme di tutti gli italiani. Proprio per questo non può esistere qualcosa come «il tutto». Perché quest’ultimo non può appartenere ad alcun campo di senso. Nemmeno a se stesso. Se appartenesse a se stesso, tutto ciò che appare, accadrebbe come minimo due volte. Il tutto esisterebbe come raddoppiato: in quanto tutto e in quanto il tutto nel tutto. Io non distinguo fra l’essere e l’ente, come ha fatto Heidegger, bensì tra il campo di senso e gli oggetti che appaiono in esso.
2) Per il campo di senso della costruzione di teorie filosofiche io accetto il principio di non contraddizione. I filosofi devono sempre ambire alla coerenza, fornendo motivazioni per il loro argomentare. La filosofia è una forma d’Illuminismo ed è democratica, essa non contempla meramente la verità, ma propone o confuta principi e teorie per l’opinione pubblica. Il principio di non contraddizione non regna però sul tutto. In primo luogo perché non c’è qualcosa come il tutto e in secondo luogo perché esistono contraddizioni. L’ingenua teoria degli insiemi è contraddittoria, ma non solo, gli esseri umani si contraddicono di continuo, talvolta senza nemmeno rendersene conto. La realtà è dunque parzialmente contraddittoria, per questo ci sforziamo di eliminare le contraddizioni.
3) La necessità esiste solo come proprietà locale in un campo di senso, così come la contingenza. Nel Senso dell’esistenza spero di non aver affermato che tutto è contingente, proprio perché non c’è un campo di senso come il tutto. Io non credo dunque che tutto sia contingente o necessario, ma soltanto che tutto esista (salvo il Tutto). Io concordo con Severino nell’affermare che sia necessario che esista qualcosa e non, piuttosto, il nulla. Ma a differenza di lui, affermo che esistono infiniti campi di senso e infinite forme dell’apparizione. L’apparizione si dice in molti modi. La filosofia non può valutare tutti i campi di senso. Per questo non esiste una filosofia onnicomprensiva. Alcuni campi di senso sono senza dubbio costruttivistici, per esempio alcuni oggetti sociali, come rileva Ferraris.
Che tutto esista non significa inoltre sostenere che ogni affermazione sia vera. Il relativismo in filosofia è una posizione falsa. Perché in essa non si tratta d’altro che della verità e dello scoprire la verità. Chi rinuncia alla verità, rinuncia alla libertà e si abbandona alle tirannie sofistiche. La famiglia di Parmenide rifiuta tale atteggiamento ed è dunque sempre disposta al dialogo, un dialogo in cui la posta in gioco è sempre la verità stessa.
* Professore all’Università di Bonn
* Corriere della Sera, 29.10.2012
Quando i filosofi si confrontano con lo scetticismo
di Gianni Vattimo (Corriere della Sera, 21.09.2012)
Caro direttore,
i «nuovi» realisti, a cui Emanuele Severino («la Lettura», 16 settembre) fa l’immeritata gentilezza di prenderli sul serio, saranno «in sé» o «fuori di sé»? Essi (Maurizio Ferraris, «Repubblica», 17 settembre) lo ricambiano facendo dire al povero Kant che i fenomeni, per essere tali, devono avere dietro delle «cose in sé» (ogni fenomeno la sua cosa; multe, colapasta, sciacquoni, ecc); e siccome questo è impossibile (lo era soprattutto per Kant, che non avrebbe mai parlato di cose in sé al plurale), multe, colapasta e sciacquoni non sono fenomeni, ma essi stessi cose in sé. Ma a parte l’imprudenza di dialogare con simili interlocutori, Severino argomenta anche in modo serio; serio e anzi eterno, perché le sue ragioni sono sempre le stesse (del resto lui non se ne preoccupa: «Ogni cosa è un essere eterno», dunque anche il suo discorso sull’incontrovertibile). Due i punti essenziali dell’articolo.
a) Gentile. Come i suoi maestri neoscolastici dell’Università Cattolica, Severino riconduce tutto a Gentile e al suo idealismo estremo e soggettivistico. Sono loro che gli hanno insegnato a preferire Gentile a Croce: più facilmente riducibile ad absurdum: tutto sarebbe nelle mani dell’uomo empirico, io lui loro; soggettivismo, nichilismo, ecc. Se questo è l’esito del pensiero moderno, è chiaro che bisogna tornare agli antichi e agli eterni: Parmenide, alla faccia di ogni esperienza vissuta di storicità, libertà, cambiamento.
b) L’incontrovertibile. Se io, con Nietzsche (e Gadamer e Heidegger; ma anche Marx critico dell’ideologia), dico che non ci sono fatti ma solo interpretazioni, e anche questo è un’interpretazione, Severino sostiene che anch’io (e i sunnominati) pretendo di fare una affermazione metafisica e incontrovertibile. E perché? Lo dico, qui, ora, leggendo così la mia condizione ed eredità storica. La leggo così e non altrimenti. Ah, ecco, il principio di non contraddizione da cui dovrebbe discendere la verità incontrovertibile dell’eternismo severiniano.
Che poi questo vada a braccetto con il «realismo» dei banalizzatori di Kant con cui egli dialoga può solo far da tema a un racconto patafisico. Oltre alla confutazione del pensiero moderno identificato con Gentile, il discorso di Severino (qui e sempre) si riduce tutto al vecchio argomento antiscettico: se dici che tutto è falso, pretendi che la tua tesi sia vera. Dunque... Ma c’è mai stato uno scettico che si sia «convertito» sulla base di questo giochetto logico-metafisico?
«Il nuovo realismo sradica il populismo»
Parla Maurizio Ferraris, filosofo teoretico, che risponde ai suoi critici
Una riflessione che parte da lontano: dalla scuola di Pareyson e Vattimo
E che alla fine si è rovesciata nella difesa dell’oggettività del reale.
Contro il relativismo e la società dei simulacri
di Bruno Gravagnuolo (l’Unità, 27.09.2012)
DISCUSSIONE LUNARE: ESISTONO OGGETTIVAMENTE LE COSE E IL MONDO? O TUTTO È INTERPRETABILE E MANIPOLABILE? Ma è da millenni che la filosofia ci ritorna, con corollari pratici per nulla innocui. Capita che un filosofo torinese di 56 anni, allievo di Vattimo, si ribelli al maestro, dopo averne condiviso il pensiero (debole). Pensiero libertario che affermava: tutto è interpretazione e non «verità», in virtù della tecnica e della civiltà delle immagini. La ribellione dell’allievo coltivata a lungo tra i libri esplode nel 2011 con la querelle su «il nuovo realismo». Vi si sono accapigliati Vattimo, Severino, Eco, e filosofi di diverse scuole. Il ribelle è Maurizio Ferraris, filosofo a Torino, assertore del «nuovo realismo», che afferma di averlo scoperto quando si è accorto col trionfo di Berlusconi che la civiltà delle immagini e delle interpretazioni era oppressiva e ingannevole. Dunque carne al fuoco politica oltre che teoretica. Sentiamo Ferraris.
Professor Ferraris, non crede che limitarsi a dire che le cose e i fatti esistono «oggettivamente» non ci faccia fare nessun passo avanti, né etico né conoscitivo?
«Prendiamo la cosa da un altro verso: non crede che dire che le cose e i fatti non esistono oggettivamente (se vuole può anche aggiungere le virgolette, anche se io non ne vedo il motivo) ci faccia fare dei passi in avanti sotto il profilo etico e conoscitivo? Crede che dire che il bianco è nero, che il mondo è una rappresentazione, o che non c’è niente di oggettivo, nemmeno la Shoah, costituisca un avanzamento morale e un progresso del sapere? Io non lo credo, e penso che non lo creda neanche lei. Senza dimenticare poi che il fatto che le cose e i fatti esistano oggettivamente è vero, e il suo contrario è falso. Mi sembra un argomento non trascurabile. È qui che ha inizio il lavoro della filosofia, che personalmente ho articolato negli ultimi vent’anni analizzando i livelli di realtà degli oggetti naturali, degli oggetti sociali e degli oggetti ideali; discutendo la distinzione tra ontologia ed epistemologia; confrontandomi con la tradizione filosofica e le dottrine contemporanee. Se il realismo si limitasse a dire che i fatti esistono sarebbe una scemenza. E spiace che taluni critici lo riducano a questo, non so se per malizia o per insipienza».
Nulla è nell’intelletto che prima non fosse nei sensi, diceva un filosofo a Lei ben noto. Che aggiungeva: sì, a parte lo stesso intelletto. Qualche a-priori dovremmo pure ammetterlo, per articolare concettualmente alcunché. Che obietta?
«Se si riferisce al detto “Nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi, a parte l’intelletto», i filosofi sono due. Tommaso d’Aquino, nel Medio Evo, sosteneva per l’appunto che “nulla è nell’intelletto che non fosse prima nei sensi”. Quattro secoli dopo, Leibniz, in polemica con gli empiristi, ha aggiunto “sì, a parte lo stesso intelletto”. Voleva dire che non tutto si impara per esperienza, per esempio posso concepire un poligono di mille lati senza averlo mai incontrato nell’esperienza. Non ho niente da obiettare neanche su questo. Morale: sono d’accordo sia con Tommaso, sia con Leibniz. Mi sembrano affermazioni molto ragionevoli, che però non sono pertinenti al dibattito tra realismo e antirealismo, che non riguarda la contrapposizione tra conoscenze apriori e conoscenze aposteriori, bensì lo stabilire se gli oggetti naturali dipendano in qualche modo dai soggetti (come sostengono gli antirealisti) oppure no (come sostengono i realisti, i quali peraltro ammettono tranquillamente che gli oggetti sociali dipendono dai soggetti)».
Crede che gli idealisti moderni Hegel primo fra tutti ritenessero che la realtà fosse un fantasma spirituale e non avesse nulla di oggettivo? Non era quello di Hegel un idealismo oggettivo dove tutto era logico e massimamente oggettivo e razionale, perfettamente conoscibile e senza trascendenza religiosa? Per inciso: quando Umberto Eco afferma con Aristotele che v’è un «senso» nelle cose, lei come reagisce?
«Hegel, come Kant, come tanti filosofi dei secoli scorsi, confondeva l’epistemologia (quello che sappiamo) con l’ontologia (quello che c’è). Era probabilmente il risultato del grande e meritevole progresso della scienza moderna: riusciamo a fare delle previsioni attendibili, riusciamo a matematizzare la natura, dunque il mondo si risolve nel sapere. Questa posizione ci trasforma tutti in piccoli fisici e in piccoli chimici, è come se noi, nel rapportarci al mondo, fossimo sempre in un laboratorio, e invece non è così. Se io mi scotto, o se sono depresso, lo sono sia che io sappia tutto di fisiologia, sia che lo ignori completamente. Ed è per questo che, con Eco, con Aristotele, con Gibson, con i gestaltisti, con Husserl, con Hartmann, e con il mondo intero quando non indossa i panni del filosofo trascendentale, affermo che le cose hanno un senso anche indipendentemente dalla nostra attività conoscitiva».
Davvero il realismo empirico può salvarci dalle ideologie e dai populismi e pertanto è intimamente democratico? Non teme lo scientismo e la conversione in dato naturale di relazioni economiche e sociali storicamente determinate, come accade nell’economia liberale e liberista?
«Anche qui mi piacerebbe capovolgere la domanda e chiederle: davvero l’idealismo trascendentale è intimamente democratico e può salvarci dalle ideologie e dai populismi? La domanda suona assurda, quasi comica. E allora perché se capisco bene mi attribuisce una tesi non meno assurda e comica come quella secondo cui il realismo empirico (che per inciso non è affatto la mia posizione, visto che, per esempio, sono realista anche rispetto ai numeri, che non sono oggetti d’esperienza) ci salverebbe dal populismo? Io dico semplicemente che il populismo, come si è visto ad abundantiam, attua il principio secondo cui “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, e sono convinto che su questo punto sarà d’accordo anche Lei, insieme a tanti realisti empirici e idealisti trascendentali che hanno assistito alle cronache degli ultimi vent’anni. Quanto allo scientismo, ho appena spiegato che la confusione tra ontologia ed epistemologia, dunque lo scientismo e il naturalismo, sono un errore molto diffuso nella filosofia dopo Kant, a cui reagisce il realismo. Perciò quando invito a non confondere gli oggetti sociali con gli oggetti naturali mi impegno proprio a evitare la naturalizzazione di elementi sociali. Non era proprio quello che proponeva Marx quando criticava gli economisti del Settecento?».
Secondo i suoi critici, debolisti, ontologi, metafisici, o post-marxisti, il pensiero è inseparabile dal processo conoscitivo delle cose. Lo era anche per Kant, per il quale l’oggetto andava costruito con le categorie dell’intelletto. Anche Kant stringi stringi era anti-realista?
«La mia posizione realista si fonda proprio sulla tesi secondo cui, confondendo l’essere con il sapere, il trascendentalismo kantiano ha avuto un esito antirealista. Dunque non c’è tanto da stringere: gli antirealisti degli ultimi due secoli derivano da Kant, per il quale “le intuizioni senza concetto sono cieche”, quanto dire che non si possono avere esperienze di oggetti senza averne dei concetti. Il che è problematico e richiede delle distinzioni che Kant non ha fatto: vale per gli oggetti sociali (un tipo di oggetti che Kant non aveva preso in considerazione) ma non per gli oggetti naturali (quelli a cui Kant si riferiva). Certo, se non avessi il concetto di “intervista” non saprei che cosa stiamo facendo in questo momento, ma ciò non significa che per avere mal di testa devo avere il concetto di “emicrania”. Quanto alla prima parte della sua domanda, sinceramente non capisco: poiché sono fermamente convinto del fatto che “il pensiero è comunque inseparabile dal processo conoscitivo”, sono perfettamente d’accordo, su questo punto, con i debolisti, con gli ontologi (che è poi la categoria a cui appartengo) e con tutti gli altri tipi filosofici che Lei menziona, e che non mi risulta mi abbiano mai obiettato nulla del genere. Se poi qualcuno, per avventura, lo avesse fatto, mi permetto educatamente di dirgli che si è sbagliato, e che non troverebbe nei miei libri una sola riga a sostegno di una tesi così stravagante come quella secondo cui si può conoscere senza pensare».
CHI È
Maurizio Ferraris, laureatosi con Gianni Vattimo, insegna filosofia teoretica a Torino. Da vent’anni ha rifiutato il pensiero debole, proponendo una filosofia realista, in libri come «Estetica razionale» (1997), «Il mondo esterno» (2001), «Goodbye Kant» (2004) e «Documentalità» (2009). Nel 2011 ha avviato sui media un ampio dibattito via via estesosi, sulla sua proposta di un «Nuovo realismo». La rassegna di tutta la discussione fin qui svoltasi è consultabile su . Nel marzo di quest’anno ha pubblicato per Laterza «Il Manifesto del nuovo realismo»
Ma il realismo non è tutto nuovo
di Luca Taddio (Corriere della Sera, 27.09.2012)
Dentro il Nuovo Realismo ci sono voci diverse, posizioni non sovrapponibili. A differenza di Ferraris, col quale condivido il senso generale del Nuovo Realismo, non ho mai provato l’ebbrezza di una svolta realista. Quel «Nuovo» che accompagna il termine realismo è occasionale: è l’aggettivo usato da Ferraris in un suo intervento a un convegno e poi ripreso per esigenze di divulgazione filosofico-giornalistica.
Ho appreso la fenomenologia da Paolo Bozzi che è stato un inguaribile realista in anni in cui andavano di moda altre posizioni; lo stesso Ferraris ha un forte debito teoretico, oltre che teorico, con il filosofo e psicologo sperimentale goriziano. Severino ha ragione quando nota come un’eccellente sartoria filosofica, quale quella italiana, venga ignorata per inseguire modelli meno originali. Egli ricorda spesso Leopardi e Gentile, ma ci sono casi meno eclatanti, come quello di Bozzi, rimasto ai margini della psicologia perché non allineato agli standard dei convegni internazionali o dei paper scientifici delle università americane. Potrei aggiungere che lo stesso Severino, o meglio la sua opera difficilmente eguagliabile per rigore e originalità, dovrebbe stare sugli scaffali delle librerie di tutto il mondo.
Severino si è mosso per lungo tempo controcorrente: quando uscì Essenza del nichilismo, pochi in Italia parlavano di verità, parola bandita per coloro che volevano occuparsi di filosofia «seriamente». Ma la radicalità del suo discorso si spinge ben oltre gli ultimi decenni del dibattito filosofico. Egli indaga il senso dell’eterno che ci porta al cuore del discorso metafisico, ossia verso l’interpretazione del divenire propria della metafisica occidentale, l’impossibilità che la «cosa» possa diventar altro da sé. Da qui il riferirsi di Severino al principio di identità e di non contraddizione.
Ferraris chiude la sua risposta su «Repubblica» (18 settembre) auspicando un confronto. Il primo richiamo l’abbiamo indicato implicitamente col termine «verità», che ci consente di fare un tratto di strada assieme; il secondo tratto comune può essere dato da quella «metà di secolo», evocata da Severino su «la Lettura», che lo porta ad affermare «un mondo anche senza che appaia questo o quell’individuo empirico». Questo tratto di strada forse è destinato ad interrompersi presto, quando comincia il vero confronto sul significato dell’apparire e della verità, ma qui usciamo dai confini che la divulgazione ci impone. Ancora una volta dobbiamo limitarci a indicare le prime linee fondamentali della contesa teoretica, il senso dell’affermazione del «Tutto». Scrive Severino: «il Tutto contenente è lo stesso Tutto contenuto: il contenente è insieme il contenuto e il contenuto è insieme il contenente». Qui Severino ci sta indicando il «sentiero del Giorno» che trova inizio ne La struttura originaria (1958, Adelphi 1981), ossia nell’opposizione fondamentale tra essere e nulla.
Contrariamente a quanto dichiarato su questo giornale da Vattimo (21 settembre), ritengo il confronto auspicato da Ferraris sull’«apparire fenomenico» una questione serissima, che investe il significato del trascendentale. Certo, nasce nel segno della distanza, ma può prendere corpo a partire dal senso dell’apparire della cosa e di un mondo: di questo mondo indubitabile sia per noi che per Severino, se pur per ragioni diverse.
ANTITETICA DELLA RAGION PURA
di Immanuel Kant *
Se Tetica è ogni insieme di dottrine dommatiche, io intendo per Antitetica, non affermazioni dommatiche del contrario, ma il conflitto di conoscenze secondo l’apparenza dommatiche (thesin cum antithesi), senza che si annetta all’una piuttosto che all’altra uno speciale diritto all’assenso.
L’Antitetica, dunque, non si occupa punto di affermazioni unilaterali, ma prende a considerare le conoscenze universali della ragione solo pel conflitto di esse tra loro e per le cause di tal conflitto. L’Antitetica trascendentale è una ricerca intorno all’antinomia della ragion pura, le sue cause e il suo risultato.
Quando noi rivolgiamo la nostra ragione non semplicemente, per l’uso dei princìpi dell’intelletto, agli oggetti dell’esperienza, ma ci avventuriamo ad estenderla al di là dei limiti di questa, allora vengon fuori proposizioni sofistiche, che dalla esperienza non possono né sperare conferma, né temere confutazione; ciascuna delle quali non soltanto è in se stessa senza contraddizione, ma trova perfino nella natura della ragione le condizioni della sua necessità; solo che, disgraziatamente, il contrario ha dalla parte sua ragioni altrettanto valide e necessarie di affermazione.
Le questioni che si presentano naturalmente in una tale dialettica della ragion pura, son dunque: 1) In quali proposizioni propria mente la ragion pura è soggetta inevitabilmente a una antinomia. 2) Su quali cause si fonda questa antinomia. 3) Se nondimeno, e in qual modo, alla ragione, in questo conflitto, resti aperta una via alla certezza.
Un teorema dialettico della ragion pura deve, dunque, avere in sé questo, che lo distingua da tutte le proposizioni sofistiche: che non concerna una questione arbitraria, che non si solleva se non per un certo scopo voluto, ma sia una questione siffatta, che ogni ragione umana nel suo cammino vi si deve necessariamente imbattere; e in secondo luogo, che così essa come la contraria porti seco non soltanto un’apparenza artificiosa, che, se uno l’esamini, dilegua tosto, ma un’apparenza naturale e inevitabile, che, quando anche uno non ne sia più ingannato, illude pur sempre, sebbene non riesca più a gabbare; e però può bensì esser resa innocua, ma non può giammai venire estirpata.
Una tale dottrina dialettica non si riferirà all’unità intellettuale di concetti d’esperienza, ma all’unità razionale di semplici idee, le cui condizioni - poiché primieramente, come sintesi secondo regole, essa deve accordarsi con l’intelletto, e pure, insieme, come unità assoluta di essa, con la ragione, - se essa è adeguata all’unità della ragione, saranno troppo grandi per l’intelletto, e se proporzionata all’intelletto, troppo piccole per la ragione; dal che deve sorgere un conflitto, che non si può evitare, donde che si prendano le mosse.
Queste affermazioni sofistiche aprono dunque una lizza dialettica, dove ogni parte cui sia permesso di dar l’assalto ha il disopra, e soggiace di sicuro quella che è costretta a tenersi sulla difensiva. Quindi anche i cavalieri gagliardi, s’impegnino essi per la buona o per la cattiva causa, sono sicuri di riportare la corona della vittoria, se badano solo ad avere il privilegio di dar l’ultimo assalto senza essere più obbligati a sostenere un nuovo attacco dell’avversario.
Si può facilmente immaginare, che questo arringo pel passato è stato abbastanza spesso corso, che molte vittorie sono state guadagnate da ambo le parti; ma per l’ultima, che decide la cosa, si è sempre badato che il difensore della buona causa tenesse solo il terreno, e così fosse impedito all’avversario di impugnare più oltre le armi. Come giudici di campo imparziali, dobbiamo mettere affatto da parte, se sia la buona o la cattiva causa quella che i combattenti sostengono, e lasciar che essi se la sbrighino prima tra loro. Forse, dopo essersi l’un l’altro più stancati che danneggiati, essi scorgeranno da se stessi la vanità della loro lotta e si separeranno da buoni amici.
Questo metodo di assistere a un conflitto di affermazioni, o piuttosto di provocarlo da sé, non per decidere alla fine in favore dell’una o dell’altra parte, ma per ricercare se l’oggetto di esso non sia forse una semplice illusione, che ciascuno vanamente s’affanna ad acchiappare, e in cui ei non può nulla guadagnare, quand’anche non gli si resistesse punto: questo metodo, dico, si può chiamare metodo scettico.
Esso è da distinguere del tutto dallo scetticismo, principio di una inscienza secondo arte e scienza1, che spianta le fondamenta d’ogni cognizione, per non lasciarle, possibilmente, in nessuna parte alcuna certezza e sicurezza. Giacché il metodo scettico mira alla certezza, in quanto cerca di scoprire in un tale combattimento, onestamente inteso da ambo le parti e condotto con intelligenza, il punto dell’equivoco, per fare come i saggi legislatori, che dall’imbarazzo dei giudici nell’amministrazione della giustizia ricavano per sé un ammaestramento intorno a ciò che di manchevole e non abbastanza determinato è nelle loro leggi. L’antinomia, che si rivela nell’applicazione delle leggi, è per la nostra limitata sapienza la maggior prova d’esame della nomotetica, per rendere così attenta la ragione, che nella speculazione astratta non s’accorge facilmente dei suoi passi falsi, ai momenti della determinazione dei suoi princìpi.
Ma codesto metodo scettico è essenzialmente proprio solo della filosofia trascendentale; e in ogni modo, può farsene a meno in ogni altro campo di ricerche, solo in questo no.
Nella matematica il suo uso sarebbe assurdo: poiché in essa non può restar nascosta e sfuggire all’occhio nessuna falsa affermazione, in quanto le dimostrazioni vi debbono sempre procedere al filo dell’intuizione pura, e mediante una sintesi sempre evidente.
Nella filosofia sperimentale può bene un dubbio sospensivo esser utile; se non che, nessun malinteso, almeno, è possibile, il quale non si possa facilmente tòr via, e ad ogni modo nell’esperienza devono in definitiva trovarsi gli ultimi mezzi della decisione del dissidio, presto o tardi che essi abbiano a rintracciarsi. La morale può dare tutti i suoi princìpi anche in concreto e insieme le conseguenze pratiche, almeno in esperienze possibili, e così evitare il malinteso dell’astrazione.
Per contro, le affermazioni trascendentali, che si arrogano vedute che si estendono al di là del campo d’ogni possibile esperienza, né si trovano nel caso che la loro sintesi astratta possa esser data in qualche intuizione a priori, né son tali che il malinteso possa esser scoperto mercé una qualche esperienza. La ragione trascendentale non ci permette dunque altra pietra di paragone che il tentativo d’un accordo delle sue affermazioni tra loro stesse, e quindi, prima, di una gara di combattimento tra loro, libera e senza ostacoli; e a questa gara al presente noi vogliamo dar corso.
*Immanuel Kant, Critica della Ragion Pura, Editori Laterza, Bari 1966, vol. II, pp. 350-353.
La filosofia popolare e il populismo filosofico
Perché si può parlare di certi temi ai festival ma bisogna evitare le semplificazioni
di Pier Aldo Rovatti (la Repubblica, 19.09.2012)
Una volta, tanti anni fa, andai in televisione a parlare di filosofia. Il programma, allestito da Rai Educational, si chiamava “Il grillo”. Ero circondato da studenti delle scuole superiori, c’era un tema, e poi dovevo fare tutto da solo, compresa un’autopresentazione. “A cosa serve la filosofia?”, questa era la domanda; avevo un’ora (televisivamente, un tempo enorme) per rispondere assieme ai ragazzi. Me la cavai dicendo che a rigore la filosofia non serviva a nulla, tranne che a interrogarsi in modo critico attorno al senso della parola “servire”.
Non si combatte il populismo filosofico chiudendosi in casa (o nel proprio studiolo, o nella propria aula, che è una specie di casa), insomma rivendicando un atteggiamento elitario. Semmai lo si affronta davvero solo “scendendo in piazza” e rischiando di abbandonare il comodo piedistallo dello studioso solitario o attorniato solo da una sparuta cerchia di pari. Ma, allora, cosa significa fare filosofia e cosa vuol dire combattere il populismo filosofico?
Ci sono parecchi equivoci da stanare e da chiarire. Una filosofia che abdichi al proprio compito critico, anche radicalmente critico, forse anche masochisticamente autocritico, non serve a nulla: legittima di volta in volta l’opinione corrente, le fornisce un po’ di belletto teoretico.
Perciò il cosiddetto “filosofo” è da sempre un personaggio alquanto scomodo, talora irritante, e da sempre, se è un “vero” filosofo, rischia la sua faccia e deve avere il coraggio di sfidare il potere delle idee prevalenti e già codificate. Non basta dire che il filosofo è uno che ama le idee in un mondo involgarito: la filosofia serve a qualcosa solo se accende dei segnali rossi attorno a certe idee lanciando un allarme.
Per esempio, dovrebbe riuscire a distinguere tra populismo filosofico e filosofia popolare, saper individuare bene la natura, il senso e le conseguenze di questo equivoco abbastanza clamoroso sul quale si è costruito il recente dibattito sulle feste filosofiche e sulla filosofia prêt-à-porter (inaugurata a luglio su Repubblica, da Roberto Esposito e proseguita con altri interventi in questi mesi).
Fin dall’antichità la filosofia ha avuto una vocazione popolare: ciò significa che essa si occupa e si preoccupa dell’esperienza quotidiana, si rivolge ai “cittadini” proponendo loro uno stile di vita. La filosofia ha da sempre una vocazione pubblica ed etica, anche quando sembra essere solo un esercizio del soggetto su se stesso. Questa vocazione attraversa tutta la sua storia, solo che oggi i cittadini non sono più un gruppo limitato di persone ma un insieme che riguarda tendenzialmente l’intera società senza distinzioni. Il bisogno di filosofia è avvertito oggi da tutti e perciò hanno presa le feste filosofiche che chiunque può frequentare, e si sviluppano di continuo iniziative di massa che hanno come scopo la divulgazione.
La filosofia popolare deve cessare di essere critica? No, certamente, ma essa si annoda, oggi, con la cosiddetta “cultura televisiva” e accade così che la mediatizzazione appiattisca questa criticità o addirittura la elimini. Può esistere una filosofia popolare senza una tale “semplificazione” che snatura la filosofia stessa? Sì, può esistere, ma qui si deve innestare una vera e propria battaglia culturale contro il “populismo” filosofico, cioè contro la tendenza a ridurre il pensiero filosofico a modelli semplici e unificati. La battaglia tra chi asseconda questa riduzione e chi la combatte, magari anche nelle piazze, dunque anche nelle feste filosofiche (a FilosofiaGrado, qualche giorno fa, ho parlato proprio di questo).
Combattere la semplificazione populistica che è visibilmente in atto significa spingere il pedale della criticità, e battersi per il pensiero critico vuol dire, a mio parere, evidenziare gli aspetti paradossali del discorso filosofico, il suo connaturato pluralismo, il suo piacere della sfumatura, il suo rifiuto delle fissazioni, la sua vocazione storica e genealogica. Non a caso questa battaglia ha ora come campo un’idea di verità non bloccata né presupposta.
Uno dei miei autori preferiti, A.N. Whitehead, aveva lanciato una campagna contro le “cattive astrazioni”. Il populismo filosofico è una cattiva astrazione. Riduce la filosofia a un’ideologia prêt-à-porter. Lavorare contro il populismo filosofico e le sue cattive semplificazioni significa allora accettare la sfida mediatica e tentare di salvare l’identità del filosofo, oggi decisamente messa a rischio. Questa identità è attraversata da parte a parte da una tensione ironica. Se dalla cassetta degli attrezzi del filosofo si toglie l’ironia, con la quale è possibile spiazzare i problemi e farli vedere in una luce inabituale, il cosiddetto filosofo rischia di diventare un funzionario del pensiero abbastanza grigio.
Università, chi dà i voti ai prof?
di Angelo d’Orsi (il Fatto, 19.09.2012)
Uno spettro si aggira per l’università italiana: si chiama “Terza Mediana”. Che un giorno emetterà i suoi vagiti (o strepiti inconsulti), qualcuno ci scommette, altri pensano il contrario. Siamo nelle viscere profonde della “riforma” Gelmini-Profumo. Ma il mondo accademico, non contento delle bastonate ricevute da una campagna che lo ha dipinto come dedito alla corruzione, al fannullonismo (ve lo ricordate il Brunetta fantuttone?) se non addirittura alla crapula, si divide, con gli uni pronti ad afferrare l’osso che il collega Profumo getta (a taluni) e a condannare ai margini del campo tutti gli altri. In generale, si sa, è il comparto scientifico (le scienze pretese “esatte”), a fare la parte del leone; agli umanisti restano le briciole. La “riforma” ha partorito il mostro, l’ANVUR, l’Agenzia della Valutazione, una entità che sembra perfetta per incarnare gli “arcana imperii” evocati da Tacito.
Chi decide, chi sceglie, in nome di quale autorità morale e intellettuale? Non si sa. Un’aura di segretezza avvolge il meccanismo della “valutazione”, che, proprio grazie alla campagna mediatica di cui sopra - sostenuta anche da docenti come Giavazzi, Alesina, Perotti, sulla base di dati diciamo “discutibili” - è stata accolta dalla gran parte della pubblica opinione come il toccasana per dare una “regolata” a questa masnada di professori ribaldi.
ORA FINALMENTE saranno valutati in modo oggettivo, e farà carriera chi lo merita. Ecco, il grande totem del Merito, associato alla suprema divinità del Mercato. Mentre dunque l’Università riapre dopo la pausa estiva, tra mille difficoltà, si trova ad affrontare questi nuovi mostri. E accanto alle “mediane”, si parla di “semafori”, quando, per rendere ridicolo il tutto, non ci si butta a capofitto nell’inglese, convinti di rendere più “moderno” il passaggio. Verso dove? Verso il nulla rivestito di smalto, per richiamare un bell’aforisma di Gottfried Benn.
Dunque, un’oligarchia che agisce in nome della totalità del corpo docente, ma non per suo conto, sta decidendo come valutare i “prodotti della ricerca”, ossia come consentire la progressione di carriera dei docenti, come far accedere i giovani che premono, se, come capita sempre più sovente, non hanno mollato, emigrando, oppure hanno cambiato prospettiva di vita e di lavoro. Tutto questo seguendo il mito dell’internazionalizzazione, che è un semplice piegarsi al modello statunitense, quasi che le università le avessero inventate aldilà dell’Atlantico. Mai nella storia italiana era accaduto che un governo facesse una intromissione così rozza e brutale, seppur ammantata di smalto (appunto), nei criteri di valutazione universitaria. Come si fa a non rimpiangere Giovanni Gentile?
Dopo che le discipline “dure” si sono buttate a capofitto nei famigerati “criteri bibliometrici” (ossia più sei citato più vali, il che equivale a un incentivo agli accordi tra colleghi: tu citi me e io cito te, e diventiamo importanti!), le materie umanistiche hanno vagamente resistito, ora rischiano di piegarsi a una logica che nulla ha a che fare con la scienza e con la cultura.
IL DECRETO sull’abilitazione nazionale prevede tre “mediane”: monografie; articoli su rivista scientifica e contributi in volume; articoli su rivista scientifica “di fascia A”: per l’ammissibilità alla abilitazione al candidato basta il possesso di una sola di queste mediane. Essere in fascia A, dunque, significa che puoi non aver pubblicato mai un libro, o null’altro che un articolo che, in quanto collocato nella “prima divisione”, a prescindere dal suo valore, e al limite senza neppure essere valutato, ti accredita come studioso meritevole.
Insomma, qualcuno decide, in base a criteri imperscrutabili, quali siano le riviste elette all’empireo segnato dalla lettera A, ossia la mediana n. 3 sancisce una disuguaglianza tra i concorrenti, talmente clamorosa che Valerio Onida, presidente emerito della Suprema Corte, ha steso un ricorso, a nome dei costituzionalisti italiani (una categoria che di legge qualcosa capisce), contro un’aberrazione giuridica, oltre che scientifica. Purtroppo alcune società accademiche, in base a calcoli di potere e di conventicola, hanno steso un patetico appello al “mantenimento della terza mediana”.
Tra esse, ahinoi, c’è la SIS-SCO, la società dei contemporaneisti, che da anni si segnala per il suo discutibile “modernismo”; del resto l’appello è stato steso dal suo ex presidente. Un socio, Lucio D’Angelo (Università di Teramo) ha osato gridare: “il re è nudo”, facendo notare che se passasse la terza mediana “si arriverebbe all’aberrante risultato che un articolo di 15 pagine pubblicato in una rivista della fascia A verrebbe equiparato automaticamente, senza essere letto, a dieci saggi di 30 o 40 pagine ciascuno apparsi in altre riviste o in volumi collettanei oppure a due monografie, anche se di 400 pagine ognuna”.
COME SPIEGARE una pretesa del genere, se non come una furbata dei boss delle discipline di far passare un loro protetto di scarso valore?
I criteri di valutazione ci devono essere, ma non possono essere inventati da esperti di nomina politica, e con valore retroattivo; devono essere equi e sensati, condivisi dalla comunità scientifica, e non solo da alcune lobby, magari corrive alle centrali del potere. E se quella della terza mediana (ma in generale della “riforma”) è una bandiera di progresso, io mi dichiaro francamente conservatore.