"VINCERE". Il film di Marco Bellocchio sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino

MUSSOLINI, IDA DALSER, E BENITO ALBINO MUSSOLINI: UNA TRAGEDIA ITALIANA. Sul film di Marco Bellocchio, una nota di Michele Anselmi, un’intervista al regista di Aldo Cazzullo, e una nota di Malcom Pagani - a cura di pfls

Ida fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione».
giovedì 7 maggio 2009.
 



-  Non solo Bellocchio

-  Ida e le altre
-  Il duce e le donne al cinema

di Michele Anselmi (il Riformista, 07.05.2009)

Fa bene Marco Bellocchio, in vista dell’anteprima a Cannes del suo Vincere, a ripetere nelle interviste: «Scrivendo il film non ho pensato affatto a Berlusconi né ho fatto similitudini con Mussolini. A quasi 70 anni e con la carriera che ho alle spalle non ho paura di nulla. Perciò sono sincero quando dico che non ho pensato a Berlusconi, malgrado il premier abbia in comune col duce una grande capacità nell’usare e imporre la propria immagine». Fa bene, Bellocchio, ma non servirà a evitare paragoni birichini o maliziosi, allusioni alle vicende di questi giorni. Purtroppo.

Gira nelle sale e su YouTube il primo trailer del film. Giovanna Mezzogiorno, avvenente e fiera, scandisce: «Mi chiamo Ida Dalser, Sua Eccellenza Benito Mussolini è mio marito». Disconosciuta e vessata, finirà in manicomio, dove muore nel 1937. Cinque anni dopo toccherà al figlio Benito Albino. E intanto, ancora baffuto e dotato di folta capigliatura, vediamo il giovane Mussolini incarnato da Filippo Timi che urla con impeto futurista in una riunione di socialisti: «Questa guerra è rivoluzionaria. Darà, col sangue, alla ruota della storia il movimento». Ida annuisce ammirata. Non sa ciò che l’aspetta. Anche da queste poche scene si capisce perché il regista dei Pugni in tasca abbia voluto girare Vincere.

Bellocchio vede Ida Dalser come «la prima eroina antifascista, anche piuttosto antipatica, una vera rompiscatole che vuole affermare ad ogni costo la verità». Insomma, una donna unica, segnata dal rifiuto di qualsiasi compromesso. In fondo avrebbe potuto accettare di tornare nell’ombra, magari lautamente ricompensata, come avvenne per tante altre amanti del duce. Invece tenne duro, si espose platealmente, non accettò il tradimento dell’uomo amato in quel modo assoluto, al quale tutto aveva donato, patrimonio incluso. Incuriosisce sapere come Bellocchio, nel mostrare donna Rachele, la moglie sposata subito dopo Ida, renderà l’imbarazzo progressivo di Mussolini, la sua determinazione nel disfarsi, pure per ragioni di opportunità politica, di quell’antico amore. Pronto subito dopo a soddisfare le famose necessità di ordine sessuale con la più candida e fresca disinvoltura.

Chi vuole informarsi sul tema può leggere il libretto Mussolini e le donne (Sellerio), scritto con vivace e calda ironia, dove Gian Carlo Fusco ricostruisce il disinvolto percorso erotico-sentimentale del duce, gran sciupafemmine, amatore instancabile per quanto sbrigativo. Di sicuro non fu facile per Rachele, moglie ufficiale (e ufficialmente cornificata), sopportare il confronto con quello stuolo di amanti, almeno sei delle quali ben infisse nella carne e nei pensieri del marito.

Ida Dalser, appunto, madre di Benito Albino. Ma anche Angela Curti Cucciati, «candida agnella», creatura soave e delicata. O Margherita Sarfatti, forse la più importante, borghese, dotata di intelligenza e cultura. O Cornelia Tanzi, la poetessa. O la fulgida Romilda Ruspi. Per non dire di Claretta Petacci, la più nota, conosciuta nel 1933 e compagna anche nella morte a Dongo. È su quest’ultima che il cinema s’è specialmente concentrato, facendola ritrarre da attrici belle e temperamentose: Claudia Cardinale (in Claretta di di Pasquale Squitieri), Lisa Gastoni (in Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani), Barbara De Rossi (in Io e il duce di Alberto Negrin).

Secondo Marcello Dell’Utri, custode dei diari segreti di Mussolini e amico del premier, «a Palazzo Venezia, con le donne, Benito usava la tecnica musica e magia». Tra il 1935 e il 1939 il duce non avrebbe avuto amanti, ma «soltanto fugaci incontri». Commento di Mario Ajello sul Messaggero: «Berlusconi si sta rivelando molto meno abile di quel suo predecessore».


Verso Cannes. Il regista anticipa le scelte fatte per il suo «Vincere», unico film italiano sulla Croisette. E ne racconta anche i tagli

«Il mio Duce giovane fascinoso e brutale»

Bellocchio: Mussolini visto attraverso la donna che ripudiò

Dittatore. Filippo Timi, 34 anni, interpreta Benito Mussolini in «Vincere» di Marco Bellocchio, l’unico italiano in concorso al prossimo Festival di Cannes Il film traccia un duro ritratto del Duce, mostrato come un uomo «violento, calcolatore. brutale», come ha spiegato il regista

di Aldo Cazzullo (Corriere della Sera, 06.05.2009)

ROMA - «C’è il giovane Mussoli­ni che combatte un duello verbale con un prete. Il futuro Duce chiede agli spettatori un orologio da taschi­no. Lo poggia sul tavolo. Proclama: ’Se Dio entro cinque minuti non mi avrà fulminato, avremo la prova che non esiste!’. In quel momento entra in sala una ragazza di Trento, bella e ricca: Ida Dalser. E si innamora di quegli occhi fiammeggianti...».

Dopo Buongiorno notte, sul caso Moro, Marco Bellocchio torna al ci­nema politico. Due anni fa, il gran­de regista aveva rivelato al Corriere il progetto di un film sul giovane Mussolini e l’amore divenuto perse­cuzione e finito in tragedia per la Dalser e il loro figlio, Benito Albino. Ora il film - Vincere - è pronto. Lo producono Mario Gianani e Rai Cinema. Rappresenterà l’Italia al Festival di Cannes, tra due settimane. E Bellocchio ne anticipa il significa­to politico.

«Il mio Duce è un uomo affascinante: non a caso anche Rachele racconta di es­sersene innamorata subito attraverso i suoi occhi folgoranti. È un uomo amato non solo dalle donne, ma anche dal po­polo: come già per Moro, ho usato mate­riale di repertorio, visto e non visto (ad esempio un discorso in tedesco di Mus­solini a una folla oceanica di nazisti). Do­cumenti che testimoniano l’entusiasmo che la grande maggioranza degli italiani aveva per il capo, un attore dalla recita­zione sempre più pagliaccesca con il passare del tempo, tanto che ogni volta guardandolo mi chiedo con stupore: co­me ha potuto la quasi totalità degli ita­liani credere così ciecamente a un simi­le buffone? Il Duce che ho rappresentato non è un uo­mo buono. Non è il pater fa­milias amorevole tratteg­giato dalla tv, che commet­te il solo errore dell’allean­za con Hitler. È un uomo violento. Calcolatore. Bruta­le. Buono è suo fratello, Ar­naldo, fascistissimo ma molto cattolico, l’unico a prendersi cura del piccolo Benito Albino. Il Duce è in­vece senza pietà. Anche con la donna che aveva amato, e con il suo stesso figlio».

Mussolini è Filippo Timi. «L’ho scelto per la notevole somiglianza con il Duce da giovane - spiega Bellocchio -. Non mi andava di esagerare con il trucco, al­l’americana o alla Bagaglino, né di pren­dere un attore che con la fisicità del Du­ce non c’entrasse nulla, come Banderas che pure l’ha impersonato. E poi Timi ha il fascino magnetico di Mussolini ed è un attore generoso, sincero, pieno di ta­lento. Il Duce di Vincere vuole essere sempre il primo, il più geniale, il più coraggioso. Dopo il duello con l’onorevole Treves, socialista, trascura di farsi medi­care perché vuole verificare di persona che gli arbitri redigano fedelmente il ver­bale del combattimento e dei feroci as­salti, per pubblicarlo poi su Il Popolo d’Italia, ordinando al redattore di fare un grande titolo e che il suo nome prece­da quello di Treves. Il primo, il capo, il Duce. In un primo momento avevo pen­sato a un personaggio simile a Lou Ca­stel di I Pugni in tasca, che uccide la fa­miglia. Poi una discussione con mio fra­tello Pier Giorgio mi ha fatto riflettere. Il protagonista dei Pugni in tasca ha la vio­lenza schizofrenica del nazista. Il Duce era diverso. Dannunziano. Futurista. E io l’ho raccontato con un montaggio velo­ce che ricorda la velocità del futurismo. Il giorno prima di partire per la Grande Guerra, Mussolini porta Ida Dalser al ci­nema. Scorrono le immagini del fronte, il pianista suona l’inno di Garibaldi, gli interventisti lo intonano - «si sco­prono le tombe, si levano i mor­ti... » -, Benito si unisce al coro; i socialisti reagiscono, scoppia un tumulto che ha i colori del­la ’Rissa in galleria’ di Boccio­ni. E Ida si lancia in difesa del suo uomo, anche se al settimo mese di gravidanza».

Due anni fa, Bellocchio non aveva scel­to ancora la sua protagonista. Diceva so­lo: «Dovrà essere di una bravura mostruo­sa». Per questo, spiega oggi, ha scelto Giovanna Mezzogiorno. «Mi è parsa per­fetta perché anche lei, come Ida Dalser, ha una fisicità generosa di sé, sempre in movimento, scattante, reattiva. Non so se Giovanna abbia qualcosa di Ida, non glielo auguro, certo si è trasformata in una vera protagonista che di continuo fa piangere e fa arrabbiare. La Dalser stori­ca non è simpatica. È quasi fastidiosa nel non cedere mai, nell’andare sotto le finestre del Popolo d’Italia a gridare e mo­strare il bambino, nel continuare sino al­l’ultimo a voler rivedere il Duce. Ma nel film finisce per diventare un’eroina. Un po’ Antigone e un po’ Medea. Perché è l’unica donna che si oppone davvero, da sola, a un uomo cui la grande maggioran­za delle italiane e degli italiani credeva e ubbidiva».

«Ida è una donna colta, conosce le lin­gue, ha un salone di bellezza. Ma Musso­lini, a lungo bigamo, finisce per preferi­re Rachele: carina, ignorante, ma donna di casa, che sa stare al suo posto: le basta essere la madre dei figli del Duce. Quan­do nasce il figlio di Ida, Mussolini lo riconosce. Ma il giorno stesso sposa Rache­le. È la scelta definitiva, a cui però la Dal­ser, che ha venduto tutti i suoi beni per finanziare il Popolo d’Italia, non si rasse­gna. C’era una scena un po’ da libro Cuo­re che ho tagliato, in cui Ida disperata per l’abbandono va a casa di Mussolini e alla piccola Edda che le apre chiede: ’Pa­pà ti vuole bene?’. Invece ho lasciato la scena, storicamente attestata, in cui le due rivali si affrontano nell’ospedale in cui il Duce è ricoverato. Mussolini è sta­to ferito gravemente, più di 50 schegge in corpo, e ha appena ricevuto la visita del Re, che solo pochi anni prima da so­cialista rivoluzionario aveva irriso («na­no!») e insultato («assassino!»). Ida non lo vedrà più. Mussolini, che appoggia la guerra ed è ormai in ottimi rapporti con il potere, riesce a farla arrestare. Lei vie­ne portata a Firenze. Quindi a Caserta, al confino. L’accusano persino di essere una spia tedesca, per il solo fatto di esse­re nata in territorio austriaco. Finisce nel manicomio di Pergine, vicino a Trento. Infine in quello di San Clemente, su un’isola di fronte a Venezia, dove mori­rà. Ida rivedrà il Duce solo al cinema, da spettatrice».

«Mussolini non aveva ironia. Ironico e provocatorio è il titolo del film, Vince­re. Io non ho vissuto il fascismo, ma mi sono in parte formato su una cultura che, dopo essere stata complice del fa­scismo, l’ha deriso. Lo spirito di sconfit­ta come espiazione per aver creduto a quell’uomo. Di questo spirito di sconfit­ta la mia generazione si è in parte nutri­ta. Per poi conoscere l’altra grande di­sfatta storica, quella del comunismo (e anche Mao teorizzava la necessità di «osare vincere»). Per questo la nostra identità, di figli degli sconfitti o di una cultura della sconfitta, è stata a lungo de­pressa, grigia, vinta. All’ombra o nel bu­io di quella sconfitta si è formata la no­stra sensibilità. Poi ognuno ha preso la sua strada: chi si è perduto, chi si è totalmente integrato, chi, come me, si è ri­bellato e si è liberato da una condanna che sembrava definitiva a un’infelicità passiva, che mi fa essere oggi ottimista senza sentirmi un imbecille, rappresen­tando da ottimista un’autentica trage­dia. Parole come ’vincere’ erano indici­bili. Fino all’arrivo di Berlusconi, che ha fondato democraticamente il suo successo sulla sua immagine vincen­te chiamando alla vittoria e all’otti­mismo il popolo italiano: il suo pri­mo partito non si chiamava Forza Italia? Usando la sua tv, così come Mussolini usò per imporre la pro­pria immagine vincente i mezzi che aveva a disposizione, il cinema, la radio, la fotografia, la grafica, persino la scultu­ra e la pittura».

Racconta Bellocchio che il finale è cambiato rispetto al progetto. «Pensa­vo di chiudere il film con una scena am­bientata dopo la Liberazione: il cogna­to di Ida Riccardo Paicher, l’uomo che non aveva saputo difenderla, esce da un cinema richiamato dalle sirene del­la polizia, assiste agli scontri di un cor­teo politico con le bandiere rosse e tut­to, e soccorre una ragazza ferita. Poi mi sono detto che il film non meritava un finale consolatorio. È una tragedia, e così deve finire».


-  Il film sarà presentato a Cannes. Racconta un duce inedito. Di una donna perseguitata e del figlio Benito Albino

-  Bellocchio e la moglie di Mussolini finita pazza

-  Il regista: «Il film parte da un documentario su parenti sacrificati»
-  Le lettere. La moglie scriveva e i federali la perseguitavano
-  Il figlio. Gli cambiarono l’affido il nome, lo fecero espatriare in Cina

-  di Malcom Pagani (l’Unità, 06.05.2009)

A Palazzo Venezia, con le donne, Mussolini usava la tecnica musica e magia. Tra il ‘35 e il ‘39 non aveva amanti, ma solo fugaci incontri. Tromba e sparisci». L’eleganza sublime e l’elogio trasversale. Democratico. Stallieri e dittatori. L’altro ieri, tramontata l’aura del 25 aprile pacificato, grazie a Marcello Dell’Utri scoprivamo i partigiani «di destra» e il Mussolini «troppo buono». Qualche giorno ancora e il festival di Cannes racconterà al mondo un altro duce. Bigamo e spietato. «Prima di allora, non sapevo nulla di questa storia. Poi nel 2005 lessi un articolo e vidi un documentario su Mussolini e sui parenti ignoti e sacrificati, la moglie Ida Dasler e il figlio legittimo del duce, Benito Albino».

Da 40 anni Marco Bellocchio esplora i lessici familiari. Codifica linguaggi, pugni tenuti in tasca, condanne, salti nel vuoto, mostri da occultare alla vista o sbattere in prima pagina. Un cinema che ripudia l’oblìo e spinge l’ex salesiano ribelle a occuparsi di terrorismo e psicanalisi, regimi e sacche di consenso. «Vincere», il suo film sul Duce più celato, sarà in concorso a Cannes. In luogo del ‘68 di Placido, la fotografia della donna che pagò caro l’irriducibile desiderio di non arrendersi. Fu bollata, resa incapace di nuocere all’immagine del dittatore, rinchiusa in manicomio.

Pazza. E quindi afona nel gridare, indecifrabile nello scrivere, querula nel chiedere aiuto. Pericolosa. Una serpe cresciuta in seno che rivendica l’amore del capo e diventa un problema. Da internare e dimenticare, usando ogni mezzo.

Stampa, Polizia, medici, prefetti. Il pubblico che si piega al privato e nasconde un segreto inconfessabile. Un gioco di scatole cinesi. Aperta la prima, non ci si può fermare. Il documentarista che insieme al giornalista Norelli ha guidato Bellocchio alla scoperta del lato oscuro di Mussolini si chiama Fabrizio Laurenti. Ha vissuto per 13 anni a New York, ondeggiato tra generi diversissimi e una sera per caso, è caduto sulla materia che avrebbe plasmato in 30 mesi di maniacale lavoro. «Mi dissero che Mussolini aveva avuto un figlio morto in manicomio. Mi sembrò incredibile. “Fidati, a Trento lo sanno tutti”. Decisi di indagare e mi immersi in un pozzo di fonti. Compagni di banco che avevano conosciuto Albino e le sue leggendarie imitazioni del padre, donne che vivevano di fronte al sanatorio dove era reclusa Ida, autentiche lettere autografe firmate Benito. Un materiale troppo importante sul funzionamento della burocrazia fascista per rischiarne l’estinzione».

Ida venne imprigionata a Pergine, «curata» con iniezioni di malaria nel sadico tentativo di «snebbiarle» la coscienza, screditata, messa infine in una fossa comune, nel 1937.

A Benito Albino cambiarono l’affido, il nome, lo fecero espatriare in Cina e poi, vista l’insistenza nel cantare un’aria sgradita, fatto accomodare in una struttura identica a quella della madre. Morì nel 1942.

«La corsa a guadagnare gli elogi del principe era senza freni. Compiacere è un meccanismo “naturale” che funzionava e funziona perfettamente». Laurenti coglie analogie con l’oggi. «Sono cambiate solo le facce. Come diceva Flaiano, correre in soccorso del vincitore è un istinto primario. Quando il potere diventa incontestabile e il consenso raggiunge vette così alte, c’è piaggeria. Ci sarà sempre un momento per essere ricompensati e magari vedersi catapultare in parlamento. Con Albino e Ida fecero cessare il rumore di fondo, il fastidio per una diceria che non doveva circolare».

Lei prendeva carta e penna: il nostro Benitino, “piccolo grande amore” lui riceveva freddi dispacci, frammenti di una violenza soffusa. «Per trovare le lettere incriminate, Tamburini, un federale di Trento, le smontò la casa. Portò via molte cose ma non quei fogli, nascosti dentro un gallo impagliato. Ci sono ancora. Tamburini, a Salò divenne capo della Polizia».

Ida non si adeguò mai. Fu sua moglie, sempre. «Accusò il fratello Arnaldo». Lo stesso che sulla Gazzetta Ufficiale mutò l’identità di Albino. «Gli fece assumere un altro cognome. Cambiò la vita di una persona e quella di una nazione». Al di là di speculazioni, bizzarre similitudini, abbagli, equivoci di inizio estate.


Rispondere all'articolo

Forum