VENTIMILA ANNI FA
I numeri? Sono nati nel cuore dell’Africa
Due ossa scoperte in Congo lanciano l’ipotesi sull’origine della matematica
di DOMENICO QUIRICO, CORRISPONDENTE DA PARIGI *
Senza aver mai messo piede in Africa Darwin aveva già capito tutto: era lì che bisognava cercare l’origine dell’umanità. Il nostro albero genealogico da Lucy, con i suoi tre milioni e mezzo di anni, a Roumai, vecchio di sette milioni di stagioni, continua a infrondarsi in quella terra delle meraviglie antropologiche che è l’Africa Orientale. Adesso si affaccia e si discute di un’altra ipotesi affascinante, sconvolgente: e se oltre che l’uomo anche la sua attività più astratta e insieme più pratica ovvero la matematica, fossero state inventate da un genio africano?
Cinquemila anni fa ci avevano assicurato finora, nella terra dei due fiumi, i sumeri cominciarono a contare. Niente affatto!
Ventimila anni fa nel cuore del continente nero pescatori pieni di immaginazione creativa già utilizzavano ossa segnate con sistemi numerici. C’è di che sconbussolare perfino gli estremismi di Martin Bernal e della sua Atena nera.
Raccontiamo questo giallo archeologico africano. Ventimila anni fa dunque, in Africa australe, ancor più di oggi terra coperta di foreste spesse e di laghi grandi come il mare. Gli archeologi vi diranno che era l’età della pietra tarda: la animavano tribù indaffarate di pastori e di allevatori. Qui vicino alle rive del lago Edward si dedicavano alla pesca. Era una vera civiltà, capace di migliorare sistematicamente i propri strumenti di lavoro, come gli arpioni fatti di osso, che disponeva di mole e pietre di quarzo perfettamente tagliate, che aveva corde fatte di fibre vegetali. Tutti oggetti che ha lasciato sulle rive del lago in provvidenziali discariche, insieme alle ossa degli animali e gli scheletri dei pesci. Quanto sarebbero smilzi i nostri libri di storia antica senza questi magazzini di rifiuti! Un giorno un pescatore, forse in attesa che la pesca desse i suoi frutti, prese in mano due piccole ossa, uno di dieci e l’altro di quattordici centimetri. Uno era di un mammifero, forse un leone, forse una grande scimmia, l’altra umano. Ne incise metodicamente la superficie su tutte le facce: i segni ancora oggi hanno una cadenza perfetta simmetrica, sono serie cadenzate separate da uno spazio. Quell’uomo era forse il primo matematico della storia?
Ventimila anni dopo, nel 1950, in quella terra si chiama Ishango una cittadina del Congo ancora belga arriva Jean de Heinzelin, ricercatore de l’Institut Royal des Sciences Naturelles. Ha scelto proprio quella terrazza fossile all’imbocco del lago perché qui sono stati ritrovati arpioni in osso e una mandibola di ominide. Intuizione fortunata la sua: dalle due profonde trincee scavate nel suolo escono conchiglie, arpioni, utensili in quarzo bianco. E il primo dei «bastoni di Ishango», l’osso che quell’ignoto antenato aveva così accuratamente inciso nella preistoria. Il suo lavoro è evidente: a una delle estremità ancora c’è un piccolo frammento di quarzo che serviva certo a tagliare. Nove anni dopo il secondo osso arrichisce e ispessisce il mistero. Che spalanca ipotesi così innovative da turbare gli studiosi da più di mezzo secolo e da indurli a prudentissime reticenze. A Bruxelles fino a venerdì le due ossa saranno le «vedette» di un convegno internazionale.
Eppure i numeri sono lì: tre tratti, otto tratti... come non convertire le colonne in cifre? Il gioco delle combinazioni è inarrestabile, su un lato 10+1, 20+1, i numeri primi nel secondo, la regola del doppio nella terza, insomma un sistema matematico completo a base dieci. Altri hanno speculato sulla presenza prevalente del sei. Ecco la prova definitiva! Ancora oggi molte popolazioni africane usano questa cifra come base di calcolo. Altri sono andati ancora più in là: è un calendario lunare. Oppure un’oggetto divinatorio. O uno strumento per dividere la pesca del giorno. Siamo alla fantascienza archeologica? Un regista misterioso si diverte a cancellare gli indizi: perché la mineralizzazione rende impossibile utilizzare la prova del radiocarbonio.
* la Stampa, 1/3/2007 (8:14)
Conterò poco, è vero:
- diceva l’Uno ar Zero -
ma tu che vali! Gnente: proprio gnente!
Sia ne l’azzione come ner pensiero
Rimani un coso voto e incorcrudente.
Io invece se me metto a capofila
De cinque zeri tale e quale a te, lo sai quanto divento?
Centomila.
E’ questione de nummeri. A un dipresso
è quello che succede ar dittatore
che cresce de potenza e de valore
più so’ li zeri che je vanno appresso
*TRILUSSA, Poesie scelte, Mondatori.
Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
Federico La Sala
La matematica come abilitatore di futuro. La ripresa passa anche da qui
di Ersilia Vaudo (Il Sole-24 Ore, Alley Oop. L’altra metà del Sole, 17 Febbraio 2021)
La pandemia ha accentuato la ferita delle disuguaglianze. I più colpiti sono sempre loro, le famiglie disagiate, i giovani e le donne. La proporzione di laureati sotto i 34 anni che non ha un lavoro è in cresciuta, più di uno su tre. A dicembre dei 101 mila lavoratori in meno, 99 mila sono donne. E, secondo i dati Istat il 26,6% dei figli rischia un ‘downgrade‘ rispetto ai genitori, con una situazione molto più grave al Sud.
Tutte punte di iceberg di una realtà che da troppo tempo ci tira giù: povertà educativa profonda, grandi disparità territoriali, scarsa mobilità intergenerazionale tra livelli di istruzione, basso ritorno dell’investimento in istruzione e un tessuto produttivo con una debole domanda di competenze avanzate, che non sono quindi remunerate adeguatamente. È così che il nostro Paese non riesce a stimolare, ritenere, e capitalizzare sui suoi talenti.
In media le competenze in Italia sono sempre state basse da quando esistono dati standardizzati e comparabili tra Paesi. Ma l’ urgenza ha ora due livelli. Offrire al Paese i mezzi necessari per una decisa lotta alla povertà educativa, che è comunque un forte driver di disuguaglianze. Preparare il Paese alle sfide del futuro del lavoro, investendo nella costruzione del capitale umano necessario per le sfide di domani, anche nell’ottica dell’inclusione. Inclusione soprattutto nel perimetro delle competenze emergenti, tutte essenzialmente nei territori STEM (Scienza, tecnologia, Ingegneria, matematica), competenze digitali incluse.
Sono questi i settori in cui il potenziale di empowerement è più forte e le traiettorie di carriera crescite salariali più pronunciate. Qualche esempio sparso. Più della metà delle professioni del 2030, non esistono ancora e richiederanno competenze STEM. In questi settori i tassi occupazionali sono i più alti e la correlazione tra salario orario elevato e livelli avanzati di competenze matematiche è forte e dimostrata. Questo è il momento di spingere con più determinazione il Paese in questa direzione.
Qualcosa di inedito rispetto all’esposizione alla scienza è infatti avvenuto in questi lunghi mesi di emergenza sanitaria. Le competenze scientifiche sono tornate al centro. E hanno fatto la differenza, dopo un lungo periodo di post-verità e irrisione degli esperti. Anche il linguaggio della comunicazione è stato prevalentemente tecnico. E l’intensa esposizione a terminologie statistiche/ scientifiche è diventata familiarità, un po’ per tutti, con concetti quali percentuali, probabilità e crescita esponenziale. Questo risultato non è una cosa da poco. E sarebbe importante, nonché lungimirante, saper capitalizzare su questa nuova contingenza.
Perché in un Paese dove le disuguaglianze aumentano e l’ascensore sociale, per chi viene da famiglie più svantaggiate, è fermo, la sfida delle pari opportunità non può aspettare. E passa anche dalla matematica. Un linguaggio, un modo di pensare, un fattore di stima in sé stessi, e, in un mondo in trasformazione, un «abilitatore di futuro». La possibilità di essere a proprio agio in quegli spazi dove si immagina e si costruisce il domani. Rimanere indietro, vuol dire rimanere fuori. La sfida è comunque ardua.
Diceva Rilke, il futuro è in noi prima ancora che accada. L’ indagine Pisa 2018, pubblicata lo scorso dicembre - che valuta ogni 3 anni e in 79 Paesi, le competenze dei 15enni rispetto alla lettura, la matematica e le scienze - metteva in qualche modo a fuoco il «potenziale di futuro prima ancora che accada» di cui dispongono i ragazzi di quell’età e quindi l’abilità dei Paesi ad assicurare loro le conoscenze e gli strumenti intellettuali necessari ad affrontare la vita che li aspetta da lì a poco.
I risultati in Italia: siamo tra i Paesi in cui, tra il 2015 e il 2018, il rendimento in scienze è diminuito in modo più drastico. E abbiamo uno dei divari di genere più profondi per quanto riguarda le abilità matematiche. I ragazzi italiani ottengono risultati nettamente migliori delle ragazze in matematica. Dopo di noi si piazzano solo il Costa Rica e la Colombia. Le differenze in matematica mettono a fuoco anche altre dimensioni di disuguaglianze. Territoriali - le regioni del Nord hanno ottenuto risultati vicini ai migliori Paesi europei mentre regioni del Sud hanno ottenuti punteggio sotto la media nazionale - e socio-economiche. È impressionante osservare come lo status socio-economico aiuti a prevedere le prestazioni in matematica e scienza in tutti i Paesi partecipanti a PISA. Una sorta di determinismo sociale implacabile.
Quali sfide ci aspettano
L’emergenza sanitaria ha accentuato questa fragilità approfondendo ulteriormente tutte le distanze. Dopo un anno di didattica a distanza sono ancora soprattutto i bambini delle famiglie ad alto disagio sociale a pagarne il prezzo. La metà della progressione attesa sembra essere evaporata, coinvolgendo soprattutto i più piccoli, che hanno potuto beneficiare meno degli altri dell’ insegnamento a distanza o di studio autonomo. Certamente per la mancanza di supporti tecnologici che sono stati indispensabili per garantire la continuazione dell’ apprendimento durante la chiusura fisica delle scuole e che potrebbero continuare ad avere un peso importante nel prossimo anno accademico.
L’ Italia è uno dei Paesi occidentali dove la carenza infrastrutturale è più marcata e quindi dove le disparità potrebbero risultare più profonde. Ma anche perché le competenze medie soprattutto numeriche degli adulti italiani, che sono i genitori che hanno accompagnato i ragazzi durante la chiusura delle scuole, sono tra le più basse tra i Paesi dell’ area OCSE. Le competenze medie numeriche di un laureato italiano tra i 40 e i 60 anni sono paragonabili quelle di chi in Giappone ha terminato la scuola secondaria. E la percentuale di adulti che dichiara di non dover svolgere nessuna attività legata ai numeri (usare una calcolatrice, leggere un grafico, calcolare decimali) è la più alta dei paesi OCSE, dove il non usare i numeri è correlato con il “non saperlo fare”.
In Italia, il valore strategico di queste competenze non è ancora sufficientemente riconosciuto. E ci fa restare indietro. Guardiamo all’estero. Nel 2017, la Francia ha fatto delle competenze in matematica una priorità nazionale. La motivazione: uno scarso rendimento in matematica può portare ad una situazione socialmente ed economicamente difficile che, se non corretta, può pesare fortemente sul futuro sviluppo del Paese. Ma non solo.
La Francia riconosce che l’ esclusione dalla matematica, ha anche un impatto sulla fiducia in se stessi, induce un senso di inadeguatezza che rende i cittadini più inclini a delegare ragionamenti complessi, a preferire le semplificazioni e a diffidare degli esperti. Con l’inclusione nella matematica si costruisce anche una cittadinanza consapevole. La capacità di navigare attrezzati nel rumore di fondo di indistinguibili fatti e percezioni e essere consapevoli nell’ esercizio dei propri diritti. E la democrazia è un equilibrio delicato, oggi oltretutto messo alla prova dalla pandemia. Basti pensare che, secondo un rapporto CENSIS del 2020, il 38,5% degli italiani è pronto a rinunciare ai propri diritti civili per un maggiore benessere economico, introducendo limiti al diritto di sciopero, alla libertà di opinione, di organizzarsi, di iscriversi a sindacati e associazioni.
Scegliamo anche noi la strada intrapresa dalla Francia, puntando sull’insegnamento della matematica con metodi didattici innovativi. I progressi considerevoli realizzati dalle neuroscienze, soprattutto nella comprensione dei meccanismi di apprendimento dei bambini, stanno dando vita ad una nuova disciplina, la “neuro-educazione”.
In questa ottica, il ministro dell’educazione nazionale francese Jean-Michel Blanquer ha istituito un consiglio scientifico presieduto da Stanislas Dehaene, sostenitore dell’idea che «una teoria dell’educazione necessita la comprensione della mente che deve essere educata», che sta cambiando profondamente la prospettiva sulla didattica della matematica. Secondo Dehaene, figura prominente nel campo delle scienze cognitive, abbiamo tutti un «senso dei numeri» e la possibilità di raggiungere risultati eccellenti o pessimi dipenderà dall’ amore, o dalla diffidenza, per questa materia indotta prestissimo nei bambini dall’ambiente in cui sono immersi.
I bambini e le bambine che si convincono di “non essere portati” sono espressione di un fallimento pedagogico e di stereotipi familiari e sociali. E questo non possiamo più permettercelo. Se pensano di non essere portati è nostro dovere, come Paese, “portarceli”.
Una più grande inclusione nella matematica equivale a una democrazia più solida, un’economia più forte, meno disuguaglianze, e tante opportunità, reali e più giuste, di prepararsi al futuro prima che accada. Potrebbe essere questa la formula per la ripresa.
Parte I
Imparare, tra cervello e macchine
di Ugo Morelli (Doppiozero, 13 marzo 2020)
“Non vi è giuoco più interessante di quello offertoci dalla nostra immaginazione”, scrive Vladislav Vancura a pagina 12 del suo capolavoro del 1934, La fine dei vecchi tempi, Adelphi, Milano 2019. Forse non vi è migliore descrizione dell’apprendimento umano che associarlo a due aspetti della nostra esperienza: l’immaginazione e la negazione. Oggi l’immaginazione ha assunto un’ulteriore centralità nei processi di apprendimento, in quanto una parte decisiva dei fenomeni e della loro conoscenza sono accessibili solo immaginandoli, come ad esempio accade con l’infinitamente piccolo, i quanti, o l’infinitamente grande, le galassie e gli universi. Allo stesso tempo la discontinuità che caratterizza l’apprendimento, nel caso degli esseri umani è notevolmente connessa alla distinzione specie specifica di dire di no, di mettere in discussione e trasgredire la consuetudine.
Se, come sostiene Stanislas Dehaene, in Imparare. Il talento del cervello, la sfida delle macchine, Raffaello Cortina Editore, Milano 2019; edizione originale 2019, è solo la manipolazione delle probabilità, cioè dell’incertezza di ciò che impariamo, a consentirci di ottenere il massimo da ogni informazione, ciò è possibile non solo perché il nostro cervello tiene costantemente traccia dell’incertezza associata ad ogni informazione, ma l’aggiorna ad ogni occasione di apprendimento, svolgendo una funzione ipotetica e, quindi, almeno in parte anticipatrice. È a quel livello che entra in gioco l’immaginazione, al momento della formulazione di ipotesi di possibilità, spingendo, appunto, il reale sulla soglia del possibile. “Ed è questo ciò che rende l’apprendimento molto interessante: l’adattarsi più in fretta possibile a condizioni imprevedibili”, sostiene Dehaene [p. 18].
Grazie al linguaggio e alla matematica lo spazio delle nostre ipotesi si moltiplica in modo potenzialmente infinito, anche se poggia su fondamenta persistenti ereditate dalla nostra evoluzione. A distinguere noi umani dagli altri animali è la nostra plasticità esuberante, derivante dall’azione educativa sistematica e organizzata che ha perlomeno decuplicato il nostro potenziale cerebrale. I processi di cooperazione interpretativa del mondo che si sono sviluppati nei gruppi umani da un certo momento in poi della nostra evoluzione, hanno generato circuiti di produzione di senso condiviso e progressiva accumulazione di saperi operativi, con circolari e ricorsive ricadute epigenetiche sullo sviluppo cerebrale e sui modelli di comportamento.
Dehaene mette in evidenza come la complessità della nostra società contemporanea debba all’educazione le molteplici migliorie apportate alla nostra corteccia: lettura, scrittura, calcolo, algebra, musica, senso del tempo e dello spazio, affinamento della memoria. “Per esempio, sapevate che la capacità della memoria a breve termine di un analfabeta, il numero di sillabe o di cifre che è in grado di ripetere, è circa due volte di meno di quello di una persona scolarizzata?” [p. 20].
Il confronto con la sfida delle macchine che noi umani stessi abbiamo inventato, è una costante del procedere della ricerca di Dehaene. Al tempo dei cosiddetti machine learning e deep learning, si tratta di un confronto inevitabile. Un esempio chiarificatore di Deahaene può aiutare a definire le differenze in un simile confronto.
Proviamo a seguire questa domanda che riguarda un bambino: “Come fa a capire cosa signfica ‘io’, se ogni volta che lo ha sentito, il suo interlocutore parlava di ...lui?!” [p.. 65]. La dimensione intersoggettiva di introiezione e proiezione con gli altri e il mondo consente apprendimenti non semplicistici. “Le reti neurali che si limitano a correlare gli input con gli output, le immagini con le parole, hanno bisogno di migliaia di tentativi per capire che la parola ‘farfalla’ si riferisce a questo oggetto colorato, lì in un angolo dell’immagine... e questo principio di correlazione non consentirà mai di capire parole senza un riferimento fisso, come ‘noi’, ‘sempre’, o ‘odore’” [p. 65].
Una bambina o un bambino possiedono una capacità ipotetica che consente loro di estrarre i significati da un insieme di ipotesi possibili. Ancor prima di imparare le parole, infatti, ogni bambino possiede una sorta di linguaggio della mente con cui può formulare ipotesi anche molto astratte e metterle alla prova. Questo è possibile perché il suo cervello non è un foglio bianco, non è una tabula rasa, e possiede le condizioni per selezionare le molteplicità del mondo, restringendo lo spazio di apprendimento e riconoscendo le parti selezionate.
L’intersoggettività e le relazioni sociali del bambino danno vita a quella che può essere definita “attenzione condivisa” (p. 66), che diventa un principio fondamentale dell’apprendimento. Ogni episodio di apprendimento rafforza quello precedente, e a sua volta facilita l’apprendimento successivo. La selezione peraltro si accompagna a un principio di esclusività che associa una parola a una cosa e un concetto a un fenomeno e solo a quelli.
Un esperimento aiuta a comprendere quello che accade: prendendo due ciotole identiche, una di un blu molto comune e l’altra di un colore insolito, ad esempio il verde oliva, si può dire al bambino: “dammi la scodella crapita”. Il bambino vi darà la ciotola che non è blu (una parola e un colore che già conosce) e, solo qualche settimana dopo, ricorderà che “crapita” si riferisce a questo strano colore. Del resto, antecedenti evolutivi di questa distinzione umana si ritrovano anche in altre specie animali. Stiamo parlando della capacità di usare meta-regole, che sembrano essere alla base della capacità di apprendere.
È ancora una volta, come si può facilmente intuire, il dibattito tra innato e acquisito, il punto di partenza di ogni ragionamento sull’apprendimento. Oggi abbiamo notevoli risultati di ricerca per riconoscere che forse, tra innato e acquisito, abbiamo sottostimato entrambi. “L’apprendimento è infinitamente più efficace se si ha a disposizione, da un lato, un vasto spazio delle ipotesi, ovvero un insieme di modelli mentali dotati di una miriade di regolazioni tra cui scegliere; e, dall’altro, una serie di algoritmi sofisticati per regolare i loro parametri in base ai dati ricevuti dal mondo esterno” (p. 81).
Vi è una caratteristica che attraversa tutto il testo di Dehaene e che corrisponde all’importante cambio di paradigma in corso in questi anni sui temi relativi al cervello, alla mente e all’apprendimento. Quella caratteristica riguarda la progressiva affermazione del paradigma corporeo e della centralità del movimento per comprendere i nostri comportamenti e la nostra conoscenza. La rilevanza del corpo e del sistema sensorimotorio hanno dato vita al progressivo riconoscimento del cosiddetto “paradigma motorio”, che assume che la mente sia sostanzialmente radicata nella corporeità e nella capacità di movimento di un organismo.
Si tratta di un paradigma con particolari valenze innovative, frutto di risultati sperimentali e in grado di proporre un approccio naturale e non normativo allo studio della mente e dell’apprendimento. Laddove i tradizionali assunti della “teoria della mente” proponevano una concezione tradizionale delle funzioni cognitive, basate classicamente su un presunto susseguirsi di sensazione, percezione e rappresentazioni mentali, tende ad affermarsi sperimentalmente la prospettiva dell’embodied cognition, della cognizione incarnata. In base a questo orientamento teorico non c’è separazione sostanziale tra percezione e azione, tra afferenza sensoriale ed efferenza motoria; il cervello non è un semplice recettore di informazioni e un produttore di risposte in un organismo staccato dall’ambiente, ma funziona in base al riconoscimento, all’interno di una prospettiva teorica biologica integrata, dunque ecologica e complessa, dell’intimo nesso tra percezione e azione.
Tutto tende, quindi, per comprendere cosa significa essere umani, a considerare la rilevanza di ciò che ci precede, di quanto nella filogenesi e nell’intersoggettività viene prima dell’individuazione e la rende possibile. Si sta così producendo una nuova immagine dell’essere umano, che ne individui le radici genetiche ben al di sotto e ben prima della coscienza e della volontà.
Come sostiene Carmela Morabito, in Il motore della mente. Il movimento nella storia delle scienze cognitive [Laterza, Roma-Bari 2020], vi è una tensione costante della ricerca verso un al di sotto, e un prima, che fa da elemento propulsore che spinge l’analisi nel corso del tempo nella direzione di un obiettivo convergente: individuare le basi neurobiologiche della mente. Sappiamo oggi che veniamo al mondo dotati di un vasto insieme di combinazioni di pensieri potenziali. “Questo linguaggio del pensiero, che è munito di primitivi astratti e regole grammaticali, precede l’apprendimento” (S. Dehaene, p. 82).
L’attività mentale è concepita in funzione della produzione dell’azione e la mente che ne emerge è incorporata: è basata sulla natura biologica, dinamica, storica dell’organismo che la esprime. Si capovolge la concezione tradizionale, logico-astratta, dello sviluppo della mente e del comportamento, proponendo una concezione organicamente integrata nell’interazione globale dell’organismo col suo ambiente: una prospettiva coevolutiva. “La mente è intrinsecamente un sistema motorio: il pensiero, la memoria, la conoscenza, la percezione, la coscienza, la motivazione, il significato, tutte le funzioni mentali nel loro complesso, affondano le radici in abilità motorie costruttive specie-specifiche” (Morabito, p. 6).
L’incarnazione della mente (embodiment) è basata su una concezione corporea che pone al centro il movimento, per cui nel modello motorio si può forse individuare una via teorica al superamento della contrapposizione dicotomica tra soggetto e oggetto, tra mente e mondo. L’azione e non la rappresentazione è all’origine della cognizione. A partire dal sapere invisibile, quel vasto insieme di combinazioni di pensieri potenziali con cui veniamo al mondo, disponiamo di un linguaggio del pensiero che è dotato di primitivi astratti e regole grammaticali che precedono l’apprendimento. Importanti ed efficaci esperimenti hanno mostrato che, lungi dall’essere una tabula rasa, il bambino possiede un sapere ampio in molti campi. Tant’è vero che quando è sottoposto a delle situazioni che violano le regole di uno dei domini del sapere di cui dispone, il bambino si sorprende, rivelando la sofisticata visione del mondo che egli possiede. Disponiamo fin da piccoli e per tutta la vita di una particolare attitudine sperimentale che continua, evolvendosi. “Se queste situazioni ci piacciono”, scrive Dehaene, “è perché violano le intuizioni che tutti abbiamo sin dalla nascita e che abbiamo perfezionato nel primo anno della nostra vita” (Dehaene, p. 87).
Le abbiamo perfezionate sulla base di una dotazione filogenetica disponibile fin dalla fase prenatale e perinatale. Del resto, fino a poco tempo fa, eravamo erroneamente convinti che un neonato non sapesse nulla di matematica. Oggi siamo in grado di mostrare come un bambino, fin dalla nascita, ha la capacità di riconoscere un numero approssimativo, in maniera intuitiva, senza sapere come contare, cogliendo la cardinalità dell’insieme, indipendentemente dal fatto che l’informazione provenga dall’udito o dalla vista. Ancora una volta verifichiamo che non esiste una tabula rasa e che “i neonati percepiscono i numeri già dopo poche ore dalla nascita - e così anche le scimmie, i piccioni, i corvi, le salamandre, i pulcini e persino i pesci” (Dehaene, p. 89).
Nel pulcino, ad esempio, gli scienziati come Giorgio Vallortigara e colleghi hanno controllato tutti gli input sensoriali fin dalla schiusa dell’uovo: il piccolo pulcino non ha visto neppure un singolo oggetto, eppure è in grado di comprendere l’organizzazione dei numeri (Rugani R., Vallortigara G., Priftis K., Regolin L., Animal cognition. Number space-mapping in the newborn chick resembles humans’ mental number line, Science 347, 6221, 2015, pp. 534-536). I risultati della ricerca falsificano alcune delle principali convinzioni e teorie sullo sviluppo infantile, come l’ipotesi di Jean Piaget, che riteneva che i bambini ignorassero la cosiddetta “permanenza dell’oggetto” (il fatto che un oggetto continui ad esistere anche quando non lo vediamo più) fino al primo anno di vita, o che il concetto di numero i bambini lo astraessero lentamente solo dopo alcuni anni dalla nascita.
Verifichiamo oggi che è vero il contrario: i concetti di oggetto e numero sono dei primitivi del pensiero, fanno cioè parte del nucleo di conoscenze con cui veniamo al mondo, ed è combinandoli e ricombinandoli che possiamo formulare pensieri più complessi. Lo stesso vale per le inferenze probabilistiche complesse che, fin dalla nascita, si avvalgono di una logica intuitiva disponibile. Anche la distinzione tra oggetti e soggetti, tra entità il cui movimento è causato dall’esterno, e animali e persone il cui movimento è motivato dall’interno, è evidentemente disponibile fin dai primi mesi di vita. Così come è precoce e, sembra, addirittura prenatale, la capacità di percezione dei volti.
Non solo un neonato con poche ore di vita si gira più velocemente verso una faccina che verso un’immagine simile i cui elementi siano stati capovolti, ma, usando una luce per proiettare uno stimolo attraverso la parete dell’utero si scopre che tre punti disposti a forma di faccia attraggono il feto più di tre punti disposti a piramide. “Il riconoscimento del volto sembra iniziare in utero” (Reid V. M., Dunn K., Young R. J., Amu J., Donovan T., Reissland N., The human fetus preferentially engages with face-like visual stimuli, Current Biology, 27, 12, 2017; pp. 1825 - 1828).
A proposito di quello che Dehaene chiama il “dono delle lingue”, il sapere invisibile di cui siamo dotati fin dalle nostre origini prenatali raggiunge uno dei vertici principali e distintivi: “Quando spegne la sua prima candelina”, scrive l’autore, il bambino “ha già posto le basi delle principali regole della sua lingua materna, e questo a tutti i livelli, a partire dai suoni elementari (i fonemi), fino alla melodia (la prosodia), passando per il vocabolario (lessico mentale) e le regole grammaticali (la sintassi)” (p. 98). Constatando quello che è accaduto nella ricerca negli ultimi venti anni circa, è difficile astenersi dalla tentazione di parlare di rivoluzione. Il cervello del neonato era una vera e propria terra incognita ed era considerato vuoto, anche se già nel 1940 Gaston Bachelard aveva scritto, in La filosofia del vuoto, che “il bambino nasce con un cervello incompleto e non, come affermava il postulato dell’antica pedagogia, con un cervello vuoto”.
SUL TEMA, NEL SITO, SI CFR.:
MATEMATICA: I "BASTONI DI ISHANGO". --- "Imparare - Il talento del cervello, la sfida delle macchine" (Stanislas Dehaene)
Federico La Sala
SCIENZA, STORIA E SOCIETA’: “DOPO DEWEY. Il processo di apprendimento nelle due culture”.... *
Neuroscienze
Imparare, una bambinata
L’istruzione è il principale acceleratore del nostro cervello ma per potenziare le capacità di apprendimento bisogna cominciare da piccoli
di Gilberto Corbellini (Il Sole-24 Ore, 21.01.2020)
Si dice che le conoscenze neurobiologiche sarebbero state o sarebbero irrilevanti per insegnare a pensare meglio. Allora il governo francese avrebbe sbagliato a mettere un neuroscienziato, Stanislas Dehaene, a capo del Consiglio Scientifico dell’Istruzione Nazionale (CSEN), insediatosi il 10 gennaio 2018 quale organo consultivo alle dirette dipendenze del ministro dell’istruzione?
Formato da esperti a titolo volontario di diverse discipline, il consiglio analizza i cambiamenti nella domanda di istruzione e promuove la ricerca e l’uso della scienza (la scienza, non le chiacchiere!) per migliorare o potenziate le strategie educative. In realtà, pedagogisti e psicologi hanno dei pregiudizi verso le neuroscienze, in Francia come in Italia.
Titolare della cattedra di psicologia cognitiva sperimentale dal 2005 e membro dell’Académie des sciences, egli dirige l’unità di neuroimmagini dell’infrastruttura NeuroSpin (CEA de Saclay) dove dal 19 luglio scorso è in funzione il più potente scanner al mondo per l’imaging cerebrale (11,7 tesla per in costo di 50 milioni di euro): per investimenti nella ricerca e nella cultura scientifica siamo anni luce dietro alla Francia, che con livelli di analfabetismo funzionale metà dei nostri sta conducendo una capillare azione di potenziamento dell’istruzione.
Nell’ultimo libro, Dehaene riprende i temi trattati nei corsi tenuti in anni recenti al College de France, ed è grosso modo organizzato in due parti: una dedicata alle conoscenze sperimentali e teoriche sulle basi neurobiologiche dell’apprendimento, e la seconda che spiega i quattro pilastri che consentono di imparare. Si apre con il caso di Felipe, un bambino brasiliano che dall’età di 4 anni è paralizzato e cieco, a causa di un proiettile vagante che gli entrava nel midollo spinale. Dopo 3 anni, parla correntemente portoghese, inglese e spagnolo, scrive racconti usando un dispositivo digitale ed è curioso di tutto. E’ un esempio della straordinaria plasticità del cervello umano, che impara anche quando è parzialmente distrutto.
Contrariamente a quanto pensano gli empiristi, dice Dehaene, il cervello non è una tabula rasa su cui verrebbero vergate le informazioni ambientali. L’evoluzione, di per sé, impara attraverso la selezione naturale e immagazzina conoscenze sull’ambiente nel genoma, ma ha scoperto o inventato «i mezzi per adattarsi il più rapidamente possibile a condizioni imprevedibili». I bambini, per esempi, sanno gestire le probabilità dalla nascita, il che gradualmente consente loro di rifiutare false assunzioni e conservare ciò che funziona.
Dehaene è fautore della teoria del cervello bayesiano, per cui saremmo statistici innati, individuando regolarità ed eccezioni nell’ambiente, per imparare nuove lezioni: il cervello combina in modo quasi ottimale le conoscenze individuali e collettive acquisite durante l’evoluzione umana con dati in arrivo dal mondo esterno. La teoria bayesiana sarebbe la soluzione all’antico dilemma dell’empirismo contro nativismo/razionalismo: l’apprendimento delle lingue, il riconoscimento delle parole, la teoria della mente, etc. possono anche essere descritte e spiegate come inferenze bayesiane.
Leggere e calcolare, attività ignorate dai nostri antenati e dai primati, procedono riciclando funzioni più antiche messe al servizio di nuove abilità attraverso la plasticità cerebrale. Questa plasticità è limitata da vincoli genetici e dovuti allo sviluppo. Nel cervello di un bambino piccolo, l’apprendimento si traduce nella proliferazione di neuroni e connessioni sinaptiche, alcune delle quali scompaiono se non utilizzate. Quando spegne la prima candelina, il cucciolo umano ha già fatto proprie le regole principali della lingua madre: fonemi, prosodia, lessico mentale e sintassi. Ecco perché i bambini nati in un ambiente bilingue o trilingue si impadroniscono facilmente di queste lingue. Il periodo più «sensibile», quello in cui apprendiamo di più, raggiunge il picco nella prima infanzia. Con l’età impariamo sempre meno facilmente, con velocità che dipendono dalle facoltà e dalla dotazione genetica: mentre le abilità fonologiche diminuiscono drasticamente dopo 12 mesi, quelle grammaticali e lessicali sono aperte fino all’adolescenza e, in misura minore, per tutta la vita.
L’invenzione della scuola ha permesso alla specie di moltiplicare le notevoli capacità di apprendimento. L’istruzione è «il principale acceleratore del nostro cervello», afferma Dehaene, che raccomanda di investire massicciamente nella scuola materna e nell’istruzione primaria se si vuole continuare a vivere in una società liberale e all’altezza delle sfide. Nella capacità di apprendimento sono coinvolti quattro meccanismi essenziali: l’attenzione, che seleziona le informazioni su cui si ci si focalizza; l’impegno attivo o motivazione ad imparare, che incoraggia la formulazione di nuove ipotesi; il ritorno sugli errori, che consente di correggere le nostre false rappresentazioni; e il consolidamento, che memorizza le informazioni a lungo termine, specialmente durante il sonno.
Per Dehaene il cervello umano è ancora superiore alla intelligenza artificiale. Gli algoritmi convenzionali di deep learning sarebbero solo un’imitazione del funzionamento di alcuni circuiti cerebrali, che corrispondono all’incirca alle prime fasi dell’elaborazione sensoriale, in cui il cervello opera in modo inconscio. È in una seconda fase, molto più lenta, consapevole e ponderata, che il nostro cervello dispiega il ragionamento, l’inferenza, la flessibilità, etc. Qui l’intelligenza artificiale non può ancora competere. Dehaene è titubante sull’impatto sociale e culturale dell’intelligenza artificiale, come si evince anche dall’ultimo capitolo dello stimolante dialogo, pubblicato circa un anno fa, con l’esperto di AI e vicepresidente di Facebook Yann LeCun, molto più ottimista di lui, nel libro La plus belle histoire de l’intelligence (Robert Laffont, 2018)
Sul tema, nel sito, si cfr.:
MATEMATICA: I "BASTONI DI ISHANGO". In Africa, in Congo, le origini dei numeri? Convegno a Bruxelles
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!!
Federico La Sala
LINGUISTICA GENERALE (SAUSSURE) E MATEMATICA (RUSSELL), E LA "CORRISPONDENZA BIUNIVOCA" SCOMPARSA. Una questione antropo-logica epocale... *
Mathone. Pillole di matematica per comprenderla meglio ogni giorno
La matematica conta: storia dei primi numeri
di Paolo Boldrini *
Leggere, scrivere e contare sono tra le attività più importanti che la nostra mente riesce a svolgere e costituiscono la base dello sviluppo umano. In questo articolo analizzeremo l’operazione di contare e il concetto strettemente legato di numero naturale. Mentre lettura e scrittura sono invenzioni relativamente recenti, diffuse a partire dal 3000 a.C. l’usanza del contare ha radici molto più antiche.
1 Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
2 Piccole e grandi quantità
3 Il corvo conta fino a 5
4 Terzetti e numeri naturali
5 Un’apparente tautologia
6 Cosa significa contare?
Perchè gli uomini hanno iniziato a contare?
Le prime tracce di conteggi risalgono addirittura al paleolitico. I principali reperti che testimoniano questa capacità sono un osso di lupo risalente al 40000 a.C e il cosiddetto osso di Ishago, risalente al 20000 a.C. Entrambi i ritrovamenti presentano delle tacche incise. Mentre per il primo non si può escludere si trattasse di una funzione decorativa; nel caso dell’osso di Ishago, l’asimmetria delle incisioni rende concordi gli studiosi nell’affermare che la finalità non fu estetica ma pratica.
Ma che cosa contavano gli uomini nella preistoria? Non è difficile immaginare quali possano essere le utilità di un tale strumento: per un cacciatore era fondamentale sapere quante lance avesse a disposizione, mentre un raccoglitore era interessato a sapere quanti frutti era stato in grado di trovare in una giornata.
In seguito, con la diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, divenne ancora più importante saper contare: un pastore deve conoscere esattamente la quantità di pecore nel suo gregge, altrimenti rischia di dimenticarne qualcuna! Ah di pecore e numeri naturali ne avevamo parlato anche qui Numeri Naturali: dalle pecore al concetto di numero .
Piccole e grandi quantità
Nonostante il contare abbia risposto originariamente a problemi pratici, si tratta di un’operazione astratta e tutt’altro che naturale. Essa non va confusa con la capacità di distinguere piccole quantità di oggetti; per comprendere la differenza è sufficiente un rapido esperimento.
Quanti oggetti contengono i seguenti gruppi?
Ovviamente è molto semplice distinguere le differenze, senza la necessità di mettersi effettivamente a contare quante figure sono presenti in ogni insieme.
Questo però funziona solo con piccole quantità: prova a valutare il numero degli oggetti nei seguenti insiemi:
In questo caso è stato certamente più difficile capire il numero “a colpo d’occhio” e probabilmente sarà stato necessario contare le forme a piccoli gruppi di due o tre elementi per avere la certezza del numero totale.
Mentre la capacità di contare sembra essere prerogativa umana, la distinzione tra piccoli gruppi di oggetti è diffusa anche in alcuni animali, soprattutto uccelli. A questo proposito è interessante riportare un racconto risalente al Settecento.
Il corvo conta fino a 5
Un contadino voleva uccidere un corvo che aveva nidificato in cima a una torre, dentro ai suoi poderi. Ogni volta che si avvicinava, però, l’uccello volava via, fuori dalla portata del suo fucile, finché il contadino non si allontanava. Solo allora l’animale ritornava nella torre, riprendendo le incursioni sui terreni dell’uomo. Il contadino pensò allora di chiedere aiuto a un suo vicino. I due, armati, entrarono insieme nella torre e poco dopo ne uscì soltanto uno. Il corvo però non si lasciò ingannare, e non ritornò al nido finché non fu uscito anche il secondo contadino. Per riuscire ad ingannarlo entrarono poi tre uomini e successivamente quattro e cinque. Ma il corvo ogni volta aspettava che fossero usciti tutti prima di far ritorno al nido. Soltanto in sei finalmente, i contadini ebbero la meglio, infatti il corvo aspettò che cinque di loro fossero usciti e quindi fiducioso rientrò sulla torre, dove il sesto contadino lo uccise.
Stimolati da questo racconto, diversi studiosi si sono interessati dell’effettiva capacità di conto di alcuni animali, in particolare l’etologo tedesco Otto Koehler dimostrò con una serie di esperimenti che il suo corvo, Jacob era in grado di contare fino a 6, quindi al contadino per stanarlo sarebbe servita una persona in più rispetto a quelle del racconto!
Terzetti e numeri naturali
É giunto il momento di interrogarci sul vero significato del contare [**]. Fino ad ora abbiamo dato per scontato un legame tra il processo di conteggio e i numeri naturali. Essi sono talmente basilari che raramente ci soffermiamo sul loro reale significato.
L’idea, apparentemente banale, che sta alla base dei numeri naturali e di conseguenza del conteggio è che un terzetto di pecore, un terzetto di mele e un terzetto di pietre hanno una cosa in comune: il numero 3!
Tuttavia, come spiega il filosofo e matematico Bertrand Russell, nel suo saggio “Introduzione alla filosofia matematica”, non bisogna commettere questo fraintendimento: “Un terzetto d’uomini è un esempio del numero tre, e il numero tre è un esempio di numero; ma il terzetto non è un esempio di numero“.
Tutti i terzetti hanno in comune il numero 3, ma nessuno dei terzetti costituisce il numero 3. Essi sono ben distinti dai duetti e dai quartetti, e ciò che li distingue è proprio il fatto di essere 3. Quindi un numero è la caratteristica comune a tutti gli insiemi costituiti da quel determinato numero di elementi. Il numero 7 per esempio è tecnicamente definito come l’insieme degli insiemi di 7 elementi.
Un’apparente tautologia
Questa affermazione sembra tautologica: come posso sapere il “numero di elementi di un insieme” se non conosco la definizione di numero e non so nemmeno cosa significhi contare?
Immaginiamo di avere duetti, terzetti e in generale insiemi di n elementi, come posso raccogliere tutti quelli con lo stesso numero di elementi senza effettivamente contarli?
Russell utilizza il criterio della corrispondenza biunivoca. Dati due insiemi, essi hanno la stessa cardinalità (numero di elementi) se e solo se è possibile creare una funzione biunivoca tra i due. Ovvero una funzione che ad ogni elemento del primo insieme associa uno e un solo elemento del secondo.
In questo modo è possibile raggruppare gli insiemi con la stessa cardinalità senza presupporre la capacità di contare. Fatto ciò è sufficiente dare un nome agli insiemi di insiemi (1 a quelli di 1 elemento, 2 a quelli di 2 e così via). In questo modo abbiamo definito i numeri in maniera consistente!
Cosa significa contare?
A questo punto resta solo da capire cosa significhi contare. Anche in questo caso è utile ragionare in termini di corrispondenze biunivoche. Soffermiamoci sul caso dell’osso di Ishago, su di esso ogni tacca sta a rappresentare un’unità. Non si sa cosa sia stato contato in questo modo, supponiamo i frutti raccolti durante la giornata. Ad ogni frutto corrisponde una tacca, quindi esiste una corrispondenza biunivoca tra l’insieme dei frutti e l’insieme delle tacche. Astraendo possiamo asserire che l’operazione di contare non è nient’altro che creare una corrispondenza biunivoca tra l’insieme degli oggetti da contare e un sottoinsieme dei numeri naturali!
Se vuoi approfondire ti consiglio l’articolo GEORG CANTOR: QUANTO È INFINITO L’INFINITO? in cui Lorenzo spiega come contare insiemi di infiniti elementi!
Spero che questo articolo ti sia piaciuto, nel prossimo vedremo come il concetto di numero si è evoluto nelle diverse culture. Ospite speciale: il numero 0!
Se ti interessa l’argomento dei numeri, del contare e la matematica più in generale ti consiglio questo libretto leggero ma interessante: L’uomo che sapeva contare.
* Fonte: Mathone (ripresa parziale - senza immagini).
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Sul tema, nel sito, si cfr.:
RILEGGERE SAUSSURE. UN "TRATTATO TEOLOGICO-POLITICO" RIDOTTO A UN BANALE "CORSO DI LINGUISTICA GENERALE"!!!
DONNE, UOMINI E MATEMATICA. Se le donne non "contano", non sanno nemmeno contare; e gli uomini, se "contano", altrettanto non sanno nemmeno contare!!! La punta di un "iceberg": una "nota" del "disagio della civiltà"
PER IL "RISCHIARAMENTO" ("AUFKLARUNG") NECESSARIO. ANCORA NON SAPPIAMO DISTINGUERE L’UNO DI PLATONE DALL’UNO DI KANT, E L’IMPERATIVO CATEGORICO DI KANT DALL’IMPERATIVO DI HEIDEGGER E DI EICHMANN !!!
Federico La Sala
Già a 5 anni sono in grado di fare addizioni e sottrazioni con grandi numeri
Ricerca Usa-Gb: "E’ una competenza naturale per tutti, che va sviluppata nelle scuole"
La matematica è innata nei bambini
Fanno calcoli prima di imparare le operazioni
di ALESSIA MANFREDI *
ROMA - La matematica? Un gioco da ragazzi, anzi da bambini. Chi da piccolo ha faticato con addizioni e divisioni, calcoli sempre più complessi e ragionamenti che parevano inafferrabili farà fatica a mandarlo giù, ma una nuova ricerca indica che i bimbi sono in grado di risolvere problemi con grandi numeri ben prima che venga loro insegnata l’aritmetica.
La capacità di afferrare i principi matematici, come quelli che regolano le operazioni di calcolo, sarebbe insomma innata e non un dono riservato a pochi fortunati, invidiati dagli altri. La dottoressa Camilla Gilmore ed i colleghi dell’università di Nottingham, in Gran Bretagna, e Harvard, negli Stati Uniti, che hanno pubblicato il loro lavoro su Nature, sostengono che non è necessario per i più piccoli padroneggiare la logica di un sistema numerico simbolico per riuscire a fare addizioni e sottrazioni approssimate.
I ricercatori sono arrivati a questa conclusione mettendo di fronte a bambini di cinque anni con background diversi una serie di problemi sotto forma di scenari ipotetici in cui figuravano addizioni e sottrazioni di numeri, da 5 a 98. I bambini non avevano ricevuto una formazione specifica di aritmetica, ma sono riusciti ugualmente e con buoni risultati nelle operazioni di calcolo, rispondendo a domande come: "Se Sara ha 64 caramelle e ne regala 13 e Giovanni ne ha 34, chi di loro ne ha di più?". Non solo: hanno fatto anche molto meglio di quanto gli scienziati si aspettassero, spesso non arrivando ad un risultato esatto, ma ad una buona approssimazione.
Come hanno fatto? "Sappiamo che i bambini hanno un sistema di rappresentazione dei numeri non simbolico, che permette loro di fare sottrazioni ed addizioni approssimate di quantità non simboliche, come, ad esempio un gruppo di puntini o una sequenza di toni", spiega a Repubblica.it la dottoressa Camilla Gilmore, che ha guidato lo studio. "E’ questa stessa capacità che usano anche per fare addizioni e sottrazioni di quantità simboliche".
I test sono stati fatti in ambienti diversi, nella quiete di un laboratorio e nell’atmosfera più caotica di una classe: in quest’ultimo caso i risultati sono stati leggermente inferiori, forse per il fattore distrazione.
"Da tempo si sa che adulti e bambini, ma anche neonati e animali, hanno un senso per i numeri. Ma quello che ci ha sorpreso è vedere che i bambini usano in modo spontaneo questa facoltà quando si presentano loro problemi di aritmetica simbolica. Questi bambini non l’hanno ancora studiata, eppure il loro senso innato per i numeri dà loro un modo di pensare aritmetico", spiega ancora la dottoressa Elizabeth Spelke, co-autrice dello studio.
La matematica, quindi, è una competenza naturale nei più piccoli, che riescono ad applicarla anche senza una specifica istruzione scolastica. Un bel cambio di prospettiva, per chi, finora, ha sempre distinto fra chi ha il dono dei numeri e chi, invece, delle lettere. Non ci sono più scuse, insomma: e gli autori della ricerca suggeriscono proprio questo, di insistere su aritmetica e calcoli su tutti i bambini fin dalla più tenera età per coltivare questa facoltà nascosta. Provare per credere: "Gli insegnanti erano preoccupati che i nostri problemi finissero solo per frustrare i bambini - dice Gilmore - ma anche loro sono rimasti molto colpiti, sia dal loro entusiasmo che dai loro successi".
* la Repubblica, 30 maggio 2007
L’Oriente prima della Grecia
I nostri padri? Egizi e semiti
Il primato ellenico viene «costruito» solo a metà Settecento
di Pierluigi Panza (Corriere della Sera, 12.10.2011)
Nel 1987 lo studioso Martin Bernal pubblicò un libro controverso intitolato Black Athena: Atena nera. Le radici afroasiatiche della civiltà classica. Sviluppava due temi: il primo riguarda lo studio dei prelievi culturali dei greci dalle civiltà egiziana e fenicia; il secondo, al quale qui accenniamo (e potrà essere approfondito sui volumi della collana), la costruzione culturale di una Grecia «ariana» come luogo d’origine della civiltà occidentale avvenuta in Europa nella seconda metà del Settecento. A parte l’«afrocentrismo» di Bernal - già criticato da Mary Lefkowitz - resta indubbio che, sino ad allora, i padri delle civiltà e della «prisca sapienza» erano ritenuti gli egiziani e i semiti. Entrambi potevano vantare le più antiche tradizioni culturali e religiose, monumenti identitari diventati archetipi (le piramidi e il tempio di Salomone) e le lingue più vicine agli dei o a Dio: i geroglifici e la lingua ebraica.
Semplificando, dal tardo Umanesimo sino a metà Settecento - quando iniziano le spedizioni degli eruditi a Levante - le grandi tradizioni culturali che si sviluppano nell’Europa colta sono fondate o legate a queste due civiltà. L’esempio più noto è quello fornito da Marsilio Ficino alla corte medicea che interrompe la traduzione di Platone per passare a quelle del Pimander e dell’Asclepius, i testi ermetici (sono compilazioni greche, ma allora ritenute dell’egiziano Ermete Trismegisto) portati in Europa dai sapienti in fuga da Bisanzio conquistata dall’islam. Tra il 1471 e il 1641 si contano 25 edizioni della traduzione ficiniana del 1463.
La pubblicazione della Hieroglyphica di Orapollo nel 1505, e l’analogo testo del Valeriano in 58 libri del 1556, rappresentano i vertici degli indefessi studi dedicati dagli eruditi alla decifrazione della lingua sacra, i geroglifici. Del resto nessuno dubita che gli egizi siano anche gli inventori delle future Belle arti: «Li Egiptii - scrive Leon Battista Alberti nel De re edificatoria - affermano bene anni seimila essere la pittura stata in uso prima che fusse traslata in Grecia».
Ovviamente anche le più magnificenti costruzioni dell’antichità sono in Egitto o nel bacino semitico. Basti pensare alla straordinaria fioritura di libri sulle cosiddette sette meraviglie del mondo tra il Cinque e il Seicento: la maggior parte degli autori che tentano di fissarne il canone le stabilisce a Levante. Sono piramidi, giardini pensili di Babilonia, Tempio di Salomone, Colosso di Rodi... Quando le si individua in Morea, queste fanno spesso riferimento a un’età anteriore a quella della Grecia classica. Le piramidi, poi, danno vita allo sviluppo di una vera e propria disciplina, la piramidografia, tesa a studiare le «esatte dimensioni» di queste architetture misteriose e sacre. Burattini e Graves ritennero di essere riusciti a misurare la grande piramide.
Ma non sono solo le piramidi a interessare gli eruditi, anche il tempio di Salomone. Due gesuiti, Prado e Villalpando, tra il 1596 e il 1604 ne tentano una ricostruzione geometrica sulla base del Libro di Ezechiele. E il tempio di Salomone, come l’Arca dell’Alleanza e quella di Noè diventano gli archetipi di una nuova tradizione artistica, quella salomonica, di cui la costruzione dell’Escorial è il vertice. Tradizione che trova il suo corrispettivo nella Storia naturale nella cosiddetta teoria mosaica dello sviluppo della terra (alla quale l’epistemologo Paolo Rossi ha dedicato insigni studi).
Non c’è Wunderkammer nel Sei-Settecento che non ambisca ad esporre rarità di naturalia o artificialia provenienti dall’Oriente o dall’Africa, dai coccodrilli del Nilo ai coralli, dai corni di rinoceronte ai mattoni della torre o delle mura di Babele. Li esibisce il più grande erudito dei Seicento, il gesuita Athanasius Kircher nel suo museo al collegio romano, tra decine di obelischi in legno, modellini di quelli che, negli stessi secoli, venivano innalzati a Roma. Uno anche in piazza San Pietro dall’architetto Domenico Fontana: un’impresa talmente eroica da scriverne un libro nel 1590.
Tutto questo cambiò dalla metà del Settecento sulla base di molteplici spinte, da quelle accademiche (nei paesi tedeschi) a quelle politiche a quelle nate sulla spinta delle prime misurazioni dei monumenti greci di Stuart e Revett nel 1764, anno in cui Winckelmann pubblicò la bibbia della rinascita greca nell’arte, la Geschichte, ovvero la Storia dell’arte nell’antichità. La Francia colta, da monsignor Mariette sino agli accademici Beaux arts, contribuirà alla costruzione del mito greco mandando in soffitta i grandi repertori sulle antichità di Caylus e Montfauçon, troppo aderenti all’antico modello.
La sconfitta di Napoleone in Egitto - nonostante il colossale sforzo documentativo della Description de l’Egypte - contribuirà ulteriormente allo spostamento d’interesse. La «liberazione» della Grecia dal giogo turco favorirà la costruzione di una idea diversa del Levante, che diventerà, per gli orientalisti europei, il luogo dell’esotico, del pittoresco e del mistero. Mentre la Grecia liberata dagli ellenisti europei, come Byron, la culla della nostra civiltà.
Un corpo di spedizione francese, in accordo con le altre due potenze (Inghilterra e Russia), invierà nell’agosto del 1828 una spedizione di studiosi, guidata da Bory de Saint-Vincent, per documentare tutte le caratteristiche della Grecia (Expédition scientifique de Morée, Parigi, 1831-1835, tre volumi). Abel Blout, che ne cura la parte relativa ai monumenti, si esalta nel «portare la civiltà» in Grecia, scrive, «patria» di quell’Europa rinnovata dalla rivoluzione del 1789. Il suo era un ideale di libertà da «esportare», nato con i libri di Volnay ed elaborato dall’ambasciatore Forbin. E vivo ancora oggi! Basta sostituire la parola libertà con democrazia.
Ecce Homo
Riscritta la storia umana, veniamo da un’unica specie
Lo studio pubblicato su “Science” da David Lordkipanidze: un teschio ritrovato in Georgia è la prova che cambia la teoria dell’evoluzione
di Marco Cattaneo (la Repubblica, 20.10.2013)
Prima un albero, poi un cespuglio e adesso un ramoscello striminzito. Potrebbe essere questa l’ultima versione della metafora che descrive il cammino dell’evoluzione umana. Come riferisce un articolo su Science, infatti, David Lordkipanidze e i suoi colleghi che studiano i preziosi fossili umani di Dmanisi, in Georgia, risalenti a un milione e 800.000 anni fa, hanno avanzato una proposta che stravolgerebbe tutto lo schema della nostra evoluzione, almeno negli ultimi tre milioni di anni.
Secondo l’idea del cespuglio avanzata da Stephen Jay Gould, il modello più accreditato dell’evoluzione umana vuole che molte specie siano convissute, lungo i 5-7 milioni di anni in cui ci siamo separati dalla linea evolutiva degli scimpanzé. In particolare, a partire da circa tre milioni di anni fa sarebbero stati presenti, più o meno contemporaneamente, tre nostri parenti, Homo habilis, H. rudolfensis e H. ergaster, vissuti tutti in Africa. A cui poco dopo, per i tempi dell’evoluzione, si sarebbe aggiunto Homo erectus. Erano state le notevoli differenze morfologiche dei fossili più antichi, scoperti in luoghi distanti e attribuiti a epoche diverse, a spingere gli antropologi ad attribuirle a specie differenti.
Lì in mezzo, tra i tre antenati più vecchi e H. erectus, si era collocato Homo georgicus, l’uomo di Dmanisi, dove Lordkipanidze e colleghi raccolgono reperti da più di vent’anni, cercando di ricostruire la storia di quella sorprendente popolazione umana, la più antica fuori dall’Africa, che abitava tra le montagne del Caucaso. La fortunata caccia al tesoro dei georgiani ha permesso di mettere insieme una collezione di cimeli senza uguali. Ci sono i crani di almeno cinque individui, diversi per sesso e per età ma decisamente contemporanei: un maschio anziano e privo di dentatura, due maschi maturi, una giovane donna e un adolescente di sesso ignoto.
Ed è l’ultimo cranio studiato,Skull 5, ad aver messo la pulce nell’orecchio agli studiosi georgiani e ai loro colleghi di Harvard, dell’Università di Tel Aviv e dell’Istituto di antropologia di Zurigo che firmano l’articolo diScience.A differenza degli altri quattro, Skull 5 - il più completo cranio così antico del genere Homo mai scoperto - presenta caratteristiche primitive. Ha una scatola cranica piccola, il volto allungato, la mascella superiore quasi scimmiesca, grandi denti. Tutti elementi che rimandano alle antiche specie africane. Gli altri crani, invece, mostravano caratteristiche che richiamavano quelle del più moderno Homo erectus, asiatico.
Così, il gruppo di Lordkipanidze ha usato la TAC e modelli 3D al computer per confrontare i suoi fossili. E ne ha concluso che, per quanto quelle ossa appaiano molto diverse, le loro differenze non sono superiori a quante se ne troverebbero confrontando cinque esseri umani moderni, o cinque scimpanzé. Tanto basta aconfermare che i cinque individui di Dmanisi appartengano alla stessa specie, come faceva pensare anche il fatto che siano stati scoperti nello stesso luogo e nello stesso strato, e dunque che fossero contemporanei.
Questo risultato riapriva la domanda: dato che presentano caratteristiche antiche e moderne al tempo stesso, a quale specie vanno attribuiti gli umani di Dmanisi? Per risolvere l’enigma gli studiosi hanno eseguito la stessa analisi statistica sui dati relativi a Homo erectus, H. rudolfensis e H. ergaster, per arrivare a una conclusione inquietante: levariazioni di quei fossili - non molto differenti da quelle dei “cinque di Dmanisi ” - non indicano che appartenessero a specie diverse. Anzi, la loro variabilità è compatibile con l’appartenenza a una stessa specie. Se questa ipotesi fosse accolta con favore, quest’unica specie prenderebbe ilnome di Homo erectus, il primo a essere scoperto, nell’isola di Giava, nel lontano 1891. Mentre quello che oggi è chiamato H. ergaster ne sarebbe al massimo una sottospecie, H. erectus ergaster. E ancora più complicato sarebbe il destino dei fossili georgiani, la cui popolazione diventerebbe H.erectus ergaster georgicus.
Per il momento l’articolo di Science ha fatto scoppiare una bomba nel piccolo universo degli antropologi, come riconosce Philip Rightmire, uno degli autori dello studio. Da Ian Tattersall, dell’American Museum of Natural History di New York, a Ron Clarke, dell’Università del Witwatersrand a Johannesburg, sono piovute le critiche.
«I fossili di Dmanisi - spiega Giorgio Manzi, della «Sapienza» Università di Roma, il cui nuovo libro Il grande racconto dell’evoluzione umana sarà in libreria a giorni - portano con sé eredità del passato e caratteri di forme che si sarebbero evolute nel futuro. Quel sito è una specie di “ombelico del mondo” del Pleistocene. E la loro eccezionale variabilità rappresenta una specie di instabilità morfologica». Ma non significa che rivoluzioni la storia della nostra evoluzione.
Purtroppo il dibattito non potrà beneficiare dell’unico strumento che risolverebbe la questione una volta per tutte, l’analisi del Dna. «Per il momento - dice Gianfranco Biondi, dell’Università dell’Aquila - non siamo in grado di estrarre il Dna dalle ossa come è stato fatto per Homo sapiens e i Neanderthal. Non abbiamo la tecnologia per andare oltre 150.000 anni fa». In altre parole, dobbiamo aspettare. A meno che altre scoperte non tornino a infiammare il dibattito tra gli antropologi.