"Teologia": De(nari)us caritas (= caro-prezzo) est !!!

STORIA ECONOMICA. LA "MENTE" DELL’ "UOMO FINANZIARIO", UNA "BILANCIA" ANTROPOLOGICAMENTE ROTTA!!! LA MONETA, LA MERCE, IL LAVORO. Un’ intervista a MASSIMO AMATO E LUCA FANTACCI.

venerdì 24 novembre 2006.
 
[...] Un tratto fondativo che, strutturalmente, si ritrova anche nelle civiltà diverse dalla nostra, è proprio quello per cui il rapporto di debito è considerato costitutivo della responsabilità umana. Un uomo che vive a credito è un uomo che, dal punto di vista del suo rapporto con gli altri, non ha doveri. Questo è, attualmente, l’elemento terrificante del denaro finanziarizzato, ossia del denaro svincolato da ogni possibile rapporto con una chiusura dei conti. Al di là del fatto che si possa “sfangarla” ancora a lungo e il sistema finanziario continui, come ha fatto finora, a barcollare senza crollare.[...]

LA MONETA, LA MERCE, IL LAVORO

Quando da misura del lavoro, e quindi delle merci, la moneta è diventata essa stessa merce. L’introduzione dell’usura, cioè della garanzia sul prestito a interesse, ha sganciato il prestito dal lavoro, dalla cointeressenza al successo di un’impresa, quindi dall’assunzione del rischio, dalla responsabilità. L’economia che serve a far fronte all’indominabile, la fame, il freddo...

Intervista a MASSIMO AMATO E LUCA FANTACCI *

Massimo Amato e Luca Fantacci insegnano Storia Economica all’Università Bocconi di Milano. Si occupano da anni di storia delle istituzioni e del pensiero monetario occidentale. Lavorano alla costruzione, teorica e pratica, di forme monetarie fondate sulla non accumulabilità del denaro.

Voi vi occupate delle trasformazioni che si sono avute nelle concezioni e nelle modalità d’uso della moneta. Erano così diverse da quelle attuali?

Luca Fantacci. Il fulcro della nostra indagine riguarda il modo in cui sono state costruite le istituzioni finanziarie dell’Occidente europeo. E’ nel corso di queste ricerche che abbiamo verificato che, soprattutto negli ultimi due-trecento anni, esse hanno progressivamente subito una perdita le cui conseguenze sociali e culturali sono assai profonde. Ciò che si è perso sono alcune distinzioni essenziali rispetto al ruolo della moneta.

Fra il XIII e il XVI secolo in Europa si sono create delle istituzioni monetarie diversificate a seconda dell’ambito di circolazione, o della funzione, cui la moneta doveva rispondere. In particolare, ogni area economico-politica di una certa estensione o consistenza aveva due monete, una interna -dai nomi più diversi e coniata coi metalli più vari- che serviva per pagare il lavoro e che, quindi, serviva ai lavoratori per comprare di che vivere, ed una esterna, che invece serviva negli scambi commerciali tra una comunità e l’altra, per pagare i movimenti internazionali di merci.

Questa moneta intercomunitaria non costituiva un’alternativa alla moneta locale. Era anzi articolata con quella attraverso leggi che stabilivano formalmente il tasso di cambio tra le due, istituendo in tal modo una sorta di confine monetario. Tale confine era però attraversabile, perché la legge, nella misura in cui regolava il corso di queste monete, regolava anche i rapporti di ogni comunità con le altre e perciò riconosceva anche a ciascuna comunità la sua identità e la sua autonomia economica.

A questo doppio regime della moneta si aggiungeva poi una seconda grossa differenza rispetto alla moneta odierna, cioè il divieto del prestito a interesse. Questo divieto non implicava assolutamente una negazione del credito, ma anzi consentiva che ci fossero delle istituzioni finanziarie specificamente preposte a fornire anticipazioni per l’avvio di nuove attività produttive entro i limiti di precise responsabilità, sia per i creditori sia per i debitori.

Chi prendeva i soldi doveva rendere conto dei risultati dell’impresa attraverso la restituzione della somma avuta in prestito, spesso con l’aggiunta di una partecipazione del creditore ai profitti che questa attività imprenditoriale consentiva di realizzare. Chi, invece, i soldi li prestava aveva la responsabilità di mettere il debitore nella condizione di onorare il suo debito, in modo tale che i debiti non si accumulassero e non si protraessero indefinitamente. Questa doppia responsabilità si concretizzava in una chiusura periodica dei conti, secondo un ritmo allo stesso tempo economico e naturale.

Questo è un altro aspetto che, nei sistemi precapitalistici, viene sempre esplicitamente regolamentato ed ha a che fare con il ritmo delle stagioni. Era in virtù di questo ritmo che, ad esempio, le fiere rinascimentali dei cambi, le istituzioni finanziarie internazionali di quell’epoca, avevano una cadenza trimestrale, che corrispondeva alle produzioni stagionali dell’agricoltura. In occasione di tali fiere, a conclusione dello scambio delle merci, si tiravano le somme degli scambi monetari avvenuti fra una fiera e l’altra. L’idea che reggeva tutto, in sostanza, era quella che ci dovesse essere un momento in cui “tirare una riga”, chiudere la partita, per poter liberamente ripartire...

Massimo Amato. Da tutto questo emerge che in quell’epoca non era possibile pensare la moneta al di fuori di quel campo di relazioni che chiamiamo “politica”. La moneta, anzi, si rivela come uno strumento -non l’unico, ma certo uno strumento centrale- attraverso cui una comunità politica riceve la sua forma. Quello delimitato dall’uso della moneta era, infatti, uno degli ambiti in cui venivano resi possibili, o impossibili, tutta una serie di comportamenti significativi non solo economicamente, ma anche politicamente.

C’è poi un altro aspetto, con un peso simbolico ancora più forte: la relazione debito-credito. In generale, va detto che è proprio nel rapporto tra debito e credito che, di fatto, la moneta diviene uno strumento, non solo economico, ma politico in senso pieno. Quando è in gioco il rapporto debito-credito, essa si costituisce come uno strumento che opera ai confini dell’economico, perché è chiamata a regolare un rapporto che costantemente deborda dall’economico.

Infatti, il rapporto debito-credito (così come anche quella forma originaria di rapporto di debito che è la partecipazione alla comunità attraverso il lavoro), tutto è, salvo che un rapporto “economico” nel senso attuale del termine, nel senso che è difficile rappresentarsi il rapporto debito-credito semplicemente come uno scambio di merci, giacché esso coinvolge molti altri aspetti della vita sociale ed individuale.

In entrambi i casi, sia che si rimanga nell’ambito precipuamente economico, sia che si passi a quello più specificamente politico, e proprio perché la moneta deve svolgere queste funzioni di mediazione, la questione fondamentale è che la moneta non è mai riducibile a una merce: cosa, questa, che all’epoca era ben chiara a tutti coloro che di moneta sapevano qualcosa.

Ma come funzionava la normazione che regolava i rapporti fra la moneta interna e quella esterna alle varie comunità? E qual è stato, nei cambiamenti, il ruolo dei grandi banchieri?

L. F. Per capire bene come funzionava il corso delle diverse monete, occorre prima fare un’ulteriore distinzione, cruciale proprio per la costituzione di questo regime monetario. Tale distinzione era quella esistente tra l’unità di conto e il mezzo di scambio.

Oggi, per capirci, le varie monete nazionali fungono contemporaneamente da mezzo di scambio, da riserva di valore e da unità di misura, mentre un tempo, e fin quasi al 1800, queste tre funzioni non solo erano concettualmente separate, ma si riteneva che non necessariamente dovessero stare tutte assieme esaurendo in tal modo la funzione monetaria.

Guardando in prospettiva storica, infatti, emerge molto chiaramente che c’era una distinzione piuttosto netta tra unità di conto e mezzo di scambio e che l’esercizio della sovranità monetaria aveva a che fare con la compaginazione di queste due funzioni. Carlo Magno, nel corso della generale riorganizzazione politica dell’Europa, stabilì anche l’unità di conto della moneta: la lira. La lira era lo strumento con il quale si tenevano i conti e si esprimevano i prezzi, delle merci così come delle monete coniate.

In tal modo, l’elemento principale del sistema monetario era un’unità di conto immateriale, distinta sia dai beni e della merci, sia dalle monete circolanti, sia dal loro contenuto metallico. Il rapporto fra moneta immaginaria e moneta reale è dunque l’oggetto di una deliberazione politica, di un atto sovrano.

Cioè, per capire, alla base del sistema delle monete c’è un atto sovrano che dice: questa cosa da oggi vale 10?

M. A. No, l’atto politico sovrano che sta all’origine della moneta come unità di conto, è l’atto che stabilisce il nome del valore delle cose: per esempio, nel caso della riforma di Carlo Magno, la “lira”. La lira, come unità di conto, di per sé non corrisponde a nessuna moneta coniata, ma, appunto, permette di stabilire, e di esprimere, una misura del valore delle cose, cioè, nel linguaggio economico, il prezzo. Del resto, per dire che una cosa vale 10 lire non devo averle in tasca, non devi averle neanche tu. E ugualmente, in una contrattazione, possiamo convergere sul prezzo anche semplicemente nominando il valore e condividendo l’unità di misura.

Il prezzo, in economia, è necessariamente espresso in unità di conto. L’atto istitutivo di questa unità di conto è proprio quello della statuizione del nome, di ciò in nome di cui è possibile dare valore alle cose, ivi comprese le monete con cui poi effettivamente si paga.

In quell’epoca le monete coniate non portano iscritto sul loro corpo il loro valore, ossia il loro potere liberatorio. Basta osservare una raccolta numismatica per accorgersi che le monete, fino al Settecento, non portano impressa l’indicazione del loro valore. Esse hanno piuttosto un nome: ducato, fiorino, testone, e così via. Ma, appunto, quanto vale un ducato? Per sapere, ad esempio, quanti fiorini valeva un ducato occorreva passare attraverso l’elemento mediatore della lira di conto, cioè occorreva tradurre in lire il valore del ducato e del fiorino. Solamente a quel punto avevo il tasso di cambio tra fiorino e ducato.

L. F. Il rapporto fra le monete, quindi, non era un rapporto bilaterale, ma era sempre mediato da questa unità di conto che consentiva, per dire, al Granduca di Toscana di stabilire, con un atto di sovranità politica, la “tariffa”, cioè il rapporto vigente nel Granducato tra unità di scambio, le singole monete locali, e il mezzo di conto, appunto la lira. In questo contesto, il compito dei banchieri, che spesso erano anche mercanti, era quello di fornire i mezzi di pagamento per i commerci internazionali e di stabilire, secondo determinate regole condivise, il tasso di cambio relativo fra le monete dei singoli spazi monetari, cioè, per esempio, quanto poteva valere in fiorini fiamminghi una partita di merce comprata con fiorini toscani.

Va sottolineato che questo tasso di cambio era fissato soprattutto in vista della chiusura dei conti -quello che oggi si chiama clearing. Ogni singolo mercante poteva pagare le merci acquistate con l’emissione di lettere di cambio, le quali, progressivamente, diventano il mezzo di pagamento internazionale per i grandi traffici europei. Questa quasi-moneta internazionale, che rappresentava il debito bilaterale fra fornitore ed acquirente, ha poi cominciato ad assumere una circolazione propria, perché era un debito che poteva essere “girato”, come succede ancora...

M. A. La “girata” permette infatti alle lettere di cambio di circolare come mezzo di pagamento multilaterale, entro un movimento di compensazione di debiti e crediti commerciali che, come abbiamo detto, ogni tre mesi andava al “saldo”. Un saldo che, in determinate circostanze, poteva anche risultare negativo.

Cioè, io finanzio con 1000 ducati i genovesi perché vadano nel Corno d’oro a comprare della seta, ma la cosa va male e io posso averne indietro solo 800...

M. A. E’ anche così, ma quello che va sottolineato è che in questi conteggi non si doveva guardare solo come andavano i singoli affari. Era piuttosto il livello di indebitamento generale che, “alla fine della Fiera”, cioè al momento del saldo trimestrale, determinava il tasso di cambio fra monete al quale si potevano chiudere i conti internazionali. Alla fiera di Lione, che era la più importante del Rinascimento, i mercanti e i banchieri si chiudevano per tre giorni in una stanza, aprivano gli scartafacci, cioè la contabilità multilaterale, e sulla base di conteggi, ossia facendo uso di un’aritmetica tanto universale quanto condivisa, convergevano verso un prezzo di clearing delle singole monete nazionali, che ne fissava il rispettivo valore liberatorio.

Questa forma di regolamento del rapporto fra debitori e creditori accadeva per di più senza che tutti questi passaggi comportassero la fissazione di un interesse, in ossequio a un’espressa proibizione canonica. Ovviamente, sia il diritto canonico sia il buon senso non vietavano ai mercanti di guadagnare; solo, imponevano che il guadagno passasse attraverso il principio istituzionale del clearing. In una parola: è lecito guadagnare solo esponendosi al rischio di perdita.

La proibizione dell’usura -cioè, appunto, del prestito ad interesse- fissata dal diritto canonico, rispondeva alla convinzione che non fosse giusto che, nel momento in cui qualcuno concedeva un prestito, si fosse già assicurato un guadagno, indipendentemente da come sarebbero andati gli affari del debitore. Questa volontà di assicurazione è l’usura.

L. F. Occorre precisare che, comunque, c’era una distinzione fondamentale fra il credito commerciale -che è una forma di finanza che nasce a servizio del commercio, con un rapporto stretto fra economia reale e economia monetaria- ed il credito che noi oggi definiremmo “di investimento”, cioè il credito cui accennavi prima a proposito dei genovesi. Il credito di investimento copriva tutti i generi di impresa immaginabile, e in questo caso la legge che regolava il rapporto di debito-credito era ispirata a quella che oggi chiameremmo “partecipazione ai profitti”.

Infatti, siccome c’erano in gioco rischi e guadagni che non potevano essere predeterminati, accadeva che chi finanziava si esponesse anch’egli al rischio -primo fra tutti la non sicurezza della restituzione. Per fare un esempio, poteva succedere che io ti davo 100 e se la partita andava bene, e tu guadagnavi 150, me ne restituivi in proporzione, cioè 125. Se invece andavi in pareggio, tu mi restituivi i 100 ricevuti, mentre, se andava male del tutto e perdevi ogni cosa, avevo perso tutto anch’io.

M. A. Il fatto per me centrale è che allora non si poteva e non si voleva attribuire al denaro una funzione generativa della ricchezza, poiché, assai più realisticamente, tale funzione era riservata al lavoro umano.

Nel XV secolo, uno “spirituale” francescano, Pietro di Giovanni Olivi scrisse un trattato in cui formalizzò l’idea che la generatività del denaro, cioè il fatto che il denaro possa generare ricchezza, non solo non deve, ma ancor prima non può, assolutamente essere data per scontata. In un certo senso, l’unica, ma cruciale, differenza tra la visione di Giovanni Olivi e la struttura dei nostri moderni mercati finanziari è il fatto che, oggi, la generatività del denaro viene invece sempre presupposta.

Tuttavia, proprio questa presupposizione è il problema. Presupporre la generatività del denaro è, infatti, il tratto fondamentale, architettonico, dei mercati finanziari attuali, togliendo il quale questi stessi mercati non hanno più, letteralmente, la possibilità di funzionare nel modo in cui funzionano.

Ma cosa ha portato alla situazione e alle concezioni attuali?

M. A. In una battuta, si potrebbe dire che è stata la nascita della banca moderna. In realtà è per un insieme di fattori. Un primo elemento fu il fatto che, con l’allargarsi delle pratiche di scambio, a coloro che all’interno di una comunità scambiavano per consumare, si affiancarono altri operatori economici, i mercanti, i quali, all’interno del commercio internazionale, compravano per vendere.

Ora, questo tipo di operazione economica esige una moneta che abbia delle caratteristiche precise, per esempio che abbia un controvalore certo in oro, e questo semplicemente perché in questo scambio risiede implicitamente un problema di fiducia: siccome io che vendo e tu che compri possiamo anche non rivederci mai più, devo cautelarmi nei tuoi confronti, non posso rischiare di prendere un “bidone”. Devo essere certo che la moneta che mi dai sia sempre trasformabile in una quantità certa di oro, perché questa quantità d’oro, a sua volta, mi consentirà di comprare altre merci cedendola ad altri sconosciuti che solo di essa si fidano. Invece, all’interno di una comunità ristretta, in cui ci si conosce, e in cui tale conoscenza è garantita da un’autorità politica riconosciuta, non c’è alcun bisogno che la moneta abbia un controvalore fisso.

Fino alla fine del Seicento, le autorità monetarie attuarono delle politiche -impossibili nel quadro delle attuali istituzioni monetarie- volte, da una parte, a mantenere stabile il controvalore metallico della moneta internazionale, dall’altra a mantenere stabile il potere d’acquisto interno della moneta della comunità politica, locale o nazionale.

La rottura definitiva con l’ordine monetario rinascimentale non avvenne comunque per un motivo di ordine strettamente economico, ma per un elemento politico, cioè per l’emergere degli Stati nazionali, che portò con sé la nascita non solo delle monete nazionali, ma anche della moneta bancaria e della finanza. Lo Stato moderno nasce dotato di un fabbisogno finanziario strutturalmente diverso da qualunque tipo di fabbisogno potessero avere i sovrani antichi.

Fino al Rinascimento, il sovrano ha un evidente potere economico proprio, rappresentato da un tesoro, che consiste non tanto di denaro “liquido” quanto di beni preziosi. Il principe moderno, cioè lo Stato nazionale, nasce invece con le tasche vuote, ma con la capacità di promettere un pagamento perpetuo degli interessi sul proprio debito.

A differenza del singolo sovrano, infatti, lo Stato non muore: è dotato cioè di una perpetuità che gli consente una forma di promessa impossibile a ogni persona individuale. Lo Stato moderno e il debito pubblico nascono insieme, tant’è che noi chiamiamo “Ministero del Tesoro” un ministero che non possiede propriamente alcun tesoro, ma piuttosto un debito, rappresentato dai titoli di Stato. Questo cambiamento nel regime del debito e della promessa ha una rilevanza importantissima.

Antonio Genovesi, filosofo ed economista napoletano, a fine 1700 dirà che quello del principe moderno è un tesoro metafisico, in quanto tale molto più efficiente di qualunque tesoro fisico, perché non conosce il limite della disponibilità materiale. Con esso, invece, tutto si gioca sulla capacità dello Stato di mantenere la parola, o meglio di far sì che si possa ragionevolmente credere che la manterrà. La nascita del debito pubblico porta con sé il crollo del sistema delle fiere rinascimentali. Gli investimenti privati vengono, in tutto o in parte, dirottati verso il finanziamento delle spese, essenzialmente militari, degli emergenti Stati moderni.

E’ l’esercito permanente, intrinseco allo Stato moderno, che richiede all’inizio la formazione di un debito pubblico. Fino a quel momento, per le esigenze di guerra, i re si indebitavano personalmente: i Valois, re di Francia, erano indebitati con i Fugger e con i Medici; la Corona spagnola era indebitata con la finanza genovese, e così via.

Tuttavia, il carattere permanente delle spese belliche moderne tende a svuotare ogni tesoro personale, per quanto grande; ed è proprio per evitare gli effetti devastanti di tale svuotamento che nasce quello che si chiama “consolidamento” del debito, col quale si passa dal debito come fatto di diritto privato al debito come debito pubblico. Il consolidamento nasce con il fatto che il sovrano come persona giuridica si accolla una parte del debito contratto dal sovrano come persona fisica, impegnandosi non a restituire il capitale, che non ha, ma a remunerare i creditori privati del debito pubblico con una rendita perpetua, finanziata con il prelievo fiscale.

Questa è, fra l’altro, una delle vie principali, se non la “via regia”, con cui si è progressivamente sdoganata la questione del tasso di interesse. L’architettura della finanza pubblica si forma fra Sei e Settecento in questo modo, ed è a questo punto che nascono le banche centrali. Ovviamente si sono tentate anche altre strade, ma la risposta standard, rimasta tale fino ai giorni nostri, è quella che poi si concretizzò nella Banca d’Inghilterra, nata nel 1694.

L’operazione fu più o meno questa: poiché Guglielmo d’Orange aveva bisogno di denaro per la guerra che poi lo avrebbe reso re d’Inghilterra, dei mercanti che operavano sulla piazza di Londra decisero di costituire una società, a cui conferirono denaro nella forma di monete e lingotti d’oro. Gran parte dell’oro depositato in Banca venne immediatamente prestato a Guglielmo, mentre la Banca, come ricevuta del deposito dell’oro, consegnò ai depositanti delle note pagabili a vista al portatore, delle “note di banco”, cioè delle banconote. Ora, cosa vuol dire “pagabili a vista al portatore”? Vuol dire che la banca ha emesso dei certificati del suo debito -le banconote sono, infatti, debiti della banca- a loro volta convertibili nell’oro posto a riserva. Nasce il biglietto di banca convertibile, nel presupposto istituzionale che la cartamoneta sia la promessa di pagamento di una quantità determinata e fissa d’oro. E solo a questo punto nasce davvero la necessità di legare l’unità di conto al suo controvalore aureo.

In effetti, per accettare in pagamento una banconota da mille sterline si deve essere certi, in qualsiasi momento, che essa corrisponda a una quantità fissa e stabile di oro; altrimenti la banconota non è accettata e non circola, perché, a differenza di una moneta d’oro, non porta con sé il pegno del suo valore. Qui è essenziale stabilire un rapporto fisso di convertibilità tra l’unità di conto ed il suo valore in oro. La fondazione della sovranità dello Stato moderno passa quindi per una modificazione forte, per una manovra “dogmatica” di enorme ampiezza, dell’insieme dei rapporti fiduciari legati alla moneta.

E’ a questo punto che si capisce in che senso la stabilità del valore di una moneta, inteso come il suo controvalore aureo sia stata, almeno fino al 1971, anche il simbolo della stabilità di uno Stato: un tipo di stabilità che, dal punto di vista rinascimentale, letteralmente non aveva senso.

Quindi la “rivoluzione della modernità” si manifesta anche nel cambiamento del legame tra moneta e comunità politica?

M. A. Sì, perché è proprio con la modernità che si ha la necessità di disistituire, cioè di destituire di ogni senso istituzionale, economico e politico, la distinzione tra una moneta interna, comunitaria e politica, e una moneta esterna. Se vogliamo dirla in termini formali, l’operazione che si fa con la moneta moderna è di adottare come moneta nazionale la moneta internazionale. Proprio perché ha un controvalore certo in metallo, la sterlina inglese a partire dalla fine del Seicento è a tutti gli effetti ed esclusivamente una moneta mercantile, il cui valore stabile è a garanzia dei commerci dell’Inghilterra, e non una moneta comunitaria.

L. F. Subito dopo l’Inghilterra, questo cambiamento si verifica in Francia, e via via in tutta Europa. All’articolazione funzionale in moneta interna e moneta esterna, propria del sistema precedente, si sostituisce il rapporto di convertibilità fra la moneta aurea e la moneta cartacea, in cui consiste il sistema del gold standard.

La sovranità monetaria ha così sempre più a che fare con l’emissione di carta e la regolazione della sua quantità. Apparentemente, la comparsa della moneta cartacea e la fissazione della parità metallica vanno in direzioni opposte. Ma in realtà l’una è funzionale all’altra. Infatti, solo a fronte di un valore determinato delle riserve auree -per esempio, cento tonnellate d’oro che equivalgono a cento milioni di sterline- diviene possibile emettere carta moneta anche per più di cento milioni di sterline.

D’altro canto, solo emettendo carta moneta è possibile mantenere la parità aurea senza effetti di depressione sull’economia reale. Tutto questo sta insieme, sulla base dell’ipotesi del tutto ragionevole che, proprio perché è garantita la convertibilità, nessuno converta. Ma in tal modo, paradossalmente, la garanzia della convertibilità si trasforma nella probabilità della non conversione.

Questo sistema comporta un cambiamento radicale del significato della sovranità monetaria: la quale, nella sua forma tradizionale, è stata abdicata proprio attraverso la fissazione della parità aurea, ma al contempo è recuperata in modo surrettizio nella forma del monopolio di emissione, al quale è associata una nuova forma di responsabilità.

Mentre nel caso antico si trattava di regolare la moneta in vista dell’ottenimento di una giusta distribuzione, sia all’interno della comunità sia nei suoi rapporti con l’esterno, ora l’unica responsabilità delle autorità monetarie è di preservare la stabilità della moneta, ovvero il suo potere d’acquisto all’interno e il suo tasso di cambio verso l’esterno. Questa idea moderna di stabilità monetaria è radicalmente diversa dall’antica. In antico regime, se ad un soldo corrispondeva comunque sempre una pagnotta, tuttavia, poiché non era detto che ogni anno la comunità producesse la stessa quantità di grano, era una magistratura pubblica, l’Annona, a decidere ogni volta la dimensione del “pane quotidiano”. L’intero, dal punto di vista della giustizia distributiva, è sempre uno.

Stabilendo un rapporto fisso tra soldo e pane (nonché tra soldo e lavoro), è come se si dicesse che né il pane né il lavoro sono merci; in sostanza, è come se si dicesse che il pane è insostituibile per nutrire il lavoro e il lavoro è insostituibile per avere il pane. Quando, invece, nelle teorie economiche, si dice che il tratto caratteristico della merce è la scarsità, e quindi che se non c’è scarsità non c’è merce e viceversa, si dice solo una mezza verità (che appunto non è nessuna verità): per essere tale, una merce, deve essere non solo scarsa ma anche sostituibile.

Se invece non c’è possibilità di sostituzione, cioè se il bene è primario -e tali sono, tradizionalmente, l’alimentazione, il vestiario e l’abitazione- il prezzo non può, in realtà, funzionare come strumento distributivo. Questo è il problema contro il quale si stanno scontrando gli attuali meccanismi di mercato, per esempio nel caso dell’acqua, che sta diventando scarsa e non è certo sostituibile. Per l’acqua non si possono certo accettare i meccanismi di mercato, perché il meccanismo di mercato dice: “C’è un litro d’acqua, avete sete tutti e due, ma io la vendo tutta a chi offre di più, non mi importa se l’altro muore di sete”.

Che è un po’ quello che sta succedendo...

M. A. Il paradosso è che, attualmente, in alcuni paesi ci sono delle forme di scarsità economica di risorse primarie, come l’acqua, ma non solo, che non hanno assolutamente a che fare con le disponibilità effettive. Ma, più in generale: una moneta che non distingue più tra aspetti mercantili e aspetti distributivi non solo crea l’illusione che tutto possa essere merce, ma, nello stesso tempo, disistituisce lo statuto della merce. Se tutto può essere potenzialmente merce, ciò vuol dire che la merce non è come tale definita nel suo statuto, quindi che non c’è niente che sia propriamente merce. E, se non c’è merce, non c’è più neanche propriamente mercato.

Il mercato attuale, cioè, negherebbe le merci, quindi se stesso?

M. A. Il mercato, se ha da essere veramente il luogo in cui le merci si scambiano ed in cui si acquisiscono i beni necessari alla vita, ha bisogno di regole istitutive, prima che operative. Il mercato è una costruzione normativa, ma proprio per questo le sue regole istitutive non si possono ottenere attraverso un processo di contrattazione mercantile. Le regole del mercato non possono derivare da un mercato delle regole.

Infatti, se tutto diventa contrattabile, se anche l’elemento di regolazione dei debiti e dei crediti diviene, a sua volta, oggetto di contrattazione, accade che i debiti e i crediti siano sempre sul punto di non poter essere regolati. E’ la situazione in cui ci troviamo attualmente. L’attuale parvenza di equilibrio nei mercati finanziari è dovuta al fatto che né al creditore né al debitore conviene chiudere i conti, perché questi, di fatto, non possono essere chiusi senza una perdita che nessuno è più disposto ad assumersi. Anzi, ormai dovremmo dire che i conti economici sono costruiti per non dovere mai essere chiusi, perpetuando così il differimento della perdita. Debiti e crediti si accumulano e crescono a tasso composto, senza mai incontrarsi in un effettivo saldo.

Il motivo è chiaro: finché un paese ha un credito di cinquecento miliardi di dollari, ha cinquecentomiliardididollari;seinvecelipresentasseall’incassoavrebbe solo della carta straccia, perché quei dollari, cui non corrispondono né oro né merci, si svaluterebbero fino ad annullarsi. Non a caso, un forte elemento negoziale nei rapporti diplomatici fra Stati Uniti e Cina, che è uno dei maggiori creditori degli Usa, è proprio l’interesse comune a non mettere in crisi questo tacito accordo. Le condizioni istituzionali dell’equilibrio economico, insomma, sono state letteralmente disistituite.

La caratteristica della situazione attuale è il tentativo perenne, e costoso, di negoziare un disequilibrio sostenibile. La perdita della distinzione qualitativa, netta, non sostituibile, tra la moneta di conto e il mezzo di scambio fa inoltre sì che la cosiddetta terza funzione della moneta, la riserva di valore, assuma delle forme mostruose. In altri termini, l’illusione che la moneta stessa sia ricchezza, che per gli antichi resta un’illusione, prende oggi la forma di un dogma.

Su questo dogma si è incentrato il lavoro teorico dei monetaristi moderni, nel tentativo, a dire il vero impossibile, di mostrare che il denaro può essere allo stesso tempo un mezzo di scambio (il quale non ha bisogno di avere un valore in sé per poter svolgere la sua funzione circolando), ma anche un titolo di ricchezza, cioè appunto un valore in sé. Il problema è che questa attribuzione di valore non è data se non da una decisione dogmatica, che funziona finché, come si dice, “ci si crede”, ovvero finché regge una specifica costruzione dogmatica del credito e della fiducia.

Ma non è detto né che sia sempre possibile crederci, né che tutti vogliano o possano farlo. Questa indecisione istituzionale sulla natura della moneta ha portato ad una crescita ipertrofica dei mercati finanziari, dove, fra l’altro, la quantità di moneta utilizzata per gli scambi con le merci è incomparabilmente minore della quantità di moneta utilizzata per comprare moneta.

Ma questo gioco astratto, oltre alle possibili conseguenze economico-finanziarie ha anche altre conseguenze?

M. A. L’ipotesi che non si debbano mai chiudere i conti ha come conseguenza l’idea che si possa indefinitamente vivere a credito. Ma questa è a mio parere una ferita antropologica mostruosa, perché, se l’assunzione è spinta fino alle sue estreme conseguenze, finisce per significare che è possibile, in linea di principio per tutti, vivere senza lavorare. In tal modo, però, viene meno la funzione “edificante” del debito: che cos’è, infatti, il lavoro, se non la forma originaria di riconoscimento di un debito, in particolare di un debito non estinguibile?

Le evoluzioni recenti dell’economia, paradossalmente, hanno fatto dimenticare che l’attività economica nasce da un fatto non sradicabile: per vivere non solo ho bisogno di mangiare, di vestirmi, di avere un riparo, ma questo bisogno non può essere risolto una volta per tutte. Esso torna, continua a tornare.

L’economia ha la sua ragion d’essere nel tentativo di fare fronte all’indominabile, perché io non posso mai smettere di aver fame, freddo, eccetera. La fame ed il freddo sono dominabili solo “localmente”, cioè per quel tanto che mi do da fare per trovare qualcosa da mangiare e per coprirmi.

Visto in questo modo, il bisogno è l’attestazione di un debito costitutivo, o, se vogliamo, universale. Un tratto fondativo che, strutturalmente, si ritrova anche nelle civiltà diverse dalla nostra, è proprio quello per cui il rapporto di debito è considerato costitutivo della responsabilità umana. Un uomo che vive a credito è un uomo che, dal punto di vista del suo rapporto con gli altri, non ha doveri. Questo è, attualmente, l’elemento terrificante del denaro finanziarizzato, ossia del denaro svincolato da ogni possibile rapporto con una chiusura dei conti. Al di là del fatto che si possa “sfangarla” ancora a lungo e il sistema finanziario continui, come ha fatto finora, a barcollare senza crollare.

* UNA CITTÀ, n. 139 / maggio 2006


Sul tema, nel sito, si cfr.

"Deus" è "caritas" ("caro-prezzo")?! L’idolatria del denaro nell’Occidente cristiano. Una straordinaria lezione di Arturo Paoli, sull’amore ( "charitas") evangelico


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